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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2

METODO DEI MOMENTI E SOLUZIONE

DELL’EIFE

2.1 GENERALITA’

Grazie all’evoluzione dei moderni sistemi computazionali con prestazioni tali da permettere l’esecuzione di grossi volumi di calcolo con tempi d’elaborazione in continua diminuzione, le tecniche numeriche sono ormai uno strumento consolidato per ottenere soluzioni molto vicine a quelle raggiungibili con metodi esatti.

I metodi numerici presentano l’ulteriore vantaggio di poter considerare problemi complessi che non sarebbero altrimenti risolvibili per via analitica.

Il metodo dei momenti (Method of Moments – MoM) fornisce le tecniche matematiche di base per ridurre equazioni funzionali in equazioni matriciali, permettendo di ottenere la soluzione tramite una inversione della matrice risolvente.

Con tale algoritmo, in particolare, è possibile ricondurre un’equazione integro-differenziale ad un sistema lineare le cui radici sono una soluzione

(2)

L[f(u)] = g(u), f(u), g(u) S, (2.1)

dove g(u) è una funzione nota (eccitazione), L è un operatore lineare noto (integrale-differenziale), f(u) è l’incognita del problema ed S è lo spazio di definizione.

La soluzione fornita con il MoM non è esatta per la presenza di due approssimazioni che verranno di volta in volta descritte.

La prima approssimazione consiste nel considerare la funzione f(u) sviluppabile nel dominio di L come una combinazione lineare, secondo opportuni coefficienti da determinarsi, di un certo numero di funzioni note

f1, f2, f3, … , fN (dette funzioni di base), ossia:

f(u) ≈

= N n 1

n f n(u)] , ( 2

.

2)

dove gli αn sono dei coefficienti (costanti complesse) che

rappresentano le coordinate dell’elemento nel sottospazio S’ (individuato dalle funzioni di base) avente la distanza minima dalla funzione f(u) che stiamo considerando.

Le funzioni fn(u) potrebbero, ad esempio, essere le funzioni

sinusoidali dello sviluppo in serie di Fourier, nel qual caso i coefficienti αn

sarebbero da calcolarsi tramite formule ben note; in alternativa, le funzioni di base fn(u) potrebbero anche essere funzioni triangolari, nel qual caso

(3)

l’approssimazione fornita dall’espansione in serie corrisponderebbe semplicemente ad una interpolazione lineare di f(u) tra i punti di campionamento rappresentati proprio dai coefficienti αn.

Se le funzioni di base della (2.2) fossero infinite esse rappresenterebbero un insieme completo di funzioni e la soluzione che si otterrebbe dal procedimento numerico sarebbe esatta.

In ogni caso vale il principio generale secondo il quale l’approssimazione fornita dall’espansione in serie è tanto migliore quanto maggiore è il numero N delle funzioni di base utilizzate.

Allo stesso tempo, però, il numero N determina anche la complessità dell’algoritmo per il calcolo dei coefficienti αn, per cui si tratta in ogni caso

di raggiungere un compromesso soddisfacente tra approssimazione ottenibile e il costo in termini computazionali necessario per ottenerla.

Sostituendo la (2.2) nella (2.1) e tenendo conto della linearità di L si ha:

=

N

n 1

n L(fn(u))] = g(u) . (2.3)

Ovviamente la (2.3) è vera solo in maniera approssimata per quanto esposto precedentemente.

L’obbiettivo rimane dunque quello di determinare i coefficienti in modo che l’equazione (2.3) risulti soddisfatta nel miglior modo possibile.

Avendo N incognite sarà necessario risolvere un sistema lineare di N equazioni in tutte e sole queste incognite.

(4)

Un possibile modo per ottenere questo sistema è quello di considerare N valori differenti della variabile u ed imporre l’uguaglianza dei due membri in corrispondenza di tali valori; ad esempio potrebbero essere usati valori delle funzioni equispaziati di una quantità h = 1/(N-1), che equivale a considerare i punti u = m · h = m/(N-1).

Calcolando i due membri dell’equazione in tali punti si ottiene:

=

N

n 1

αn fn[m/(N-1)] = g[m/(N-1)] .

(2.4)

Questa equazione equivale evidentemente ad N equazioni in N incognite

αn

; per cui abbiamo ottenuto il sistema lineare da risolvere che, espresso in forma matriciale, diviene:

[fmn]·[

α

n] = [gn] , (2.5)

da cui, per inversione della matrice dei coefficienti, si ottiene infine:

[

α

n] = [fmn]-1·[gn] . (2.6)

Esistono appositi programmi in grado di risolvere sistemi lineari come questo in maniera molto veloce.

Un secondo metodo (più generale) prevede la scelta di un insieme di funzioni w1(u), w2(u), w3(u), …, wM(u) dette funzioni peso o funzioni test,

definite sul codominio di L, ciascuna delle quali va moltiplicata, secondo un opportuno prodotto interno, per l’equazione (2.3) da risolvere.

(5)

Definito come prodotto interno p x( ) q x d x( )

β α

, nel quale sono stati

indicati con α e β gli estremi del dominio di definizione della funzione p(x); utilizzando come funzioni base le funzioni peso e applicando tale prodotto interno all’equazione (2.3) otteniamo:

β α

∫ ∑

= N

n 1

α

n L(fn(u)) · wm(u) du =

g(u) ·

wm(u) du ; (2.7)

portando ancora una volta la sommatoria fuori al segno di integrale:

= N n 1

α

n β α

L(fn(u)) ·

wm(u) du =

g(u) ·

wm(u) du . (2.8)

Questa equazione scritta in forma matriciale fornisce il seguente sistema in N incognite:

(2.9) Se la matrice è non singolare, attraverso la sua inversione si ottiene il vettore α= (α1, α2, α3, ..., αN) e, utilizzando la (2.2), si può risalire alla f.

>

<

>

<

>

<

=

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

>

<

g

w

g

w

g

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

f

L

w

M N N M M M N

,

...

,

,

...

)

(

,

...

)

(

,

)

(

,

...

...

...

...

...

...

)

(

,

)

(

,

)

(

,

...

)

(

,

)

(

,

2 1 2 1 2 1 2 2 1 2 1 2 1 1 1

α

α

α

(6)

Questo ulteriore sviluppo, come il precedente, introduce una seconda ulteriore approssimazione dei risultati ottenibili con il MoM.

Questa ultima particolare metodologia è inoltre detta metodo dei

residui pesati e verrà in seguito spiegata in dettaglio.

2.2 FUNZIONI DI BASE E FUNZIONI PESO

La specifica scelta del complesso delle funzioni di base e delle funzioni peso influenza considerevolmente l’attendibilità dei risultati che si ottengono risolvendo il sistema lineare. In generale le funzioni fn(u)

dovranno essere tra loro linearmente indipendenti e tali da descrivere in modo sufficientemente accurato la funzione f(u). Analogamente, le funzioni wm(u) dovranno essere linearmente indipendenti e la funzione g(u)

dovrà essere facilmente descrivibile attraverso esse.

La scelta delle fn(u) e delle wm(u), dunque, deve essere determinata

considerando l’accuratezza che si desidera per la soluzione cercata, il livello di semplicità che si vuole nel calcolare gli elementi della matrice risolvente, la dimensione che si desidera per la matrice stessa e la necessaria realizzazione di una matrice risolvente ben condizionata.Per tali motivi siamo costretti a raggiungere un compromesso tra la bontà dei risultati e la complessità del calcolo.

Come si è già detto, la base che consideriamo

{ }

fn Nn=1 è non completa

cioè è costituita da un numero finito di elementi, generando quindi un sottospazio S’S. Per questa ragione, la soluzione sarà una soluzione

(7)

approssimata; cioè si otterrà una f’S’ tale che il vettore errore (f – f’)

appartenga a S e sia ortogonale a S’.

La determinazione delle funzioni di base, quindi, è tutt’altro che casuale e deve essere guidata dall’esperienza e dalla previsione del risultato.

E’ stato affermato che le funzioni fn devono appartenere al dominio

dell’operatore L(…); in realtà è possibile comprendere anche funzioni per le quali l’operatore non è definito: infatti, per l’applicabilità del metodo, è sufficiente che esistano (e siano calcolabili) i coefficienti <wm, L(fn)>.

Questa possibilità risulta molto importante quando nell’operatore integro-differenziale compaiono derivate di ordine superiore al secondo e si vogliono adottare, come funzioni di base, delle funzioni semplici come quelle di tipo triangolare, per le quali tali derivate non sono definite.

La determinazione, invece, delle funzioni peso, le quali condizionano la complessità di calcolo dei prodotti scalari presenti nella (2.9), è discussa da varie teorie. Sostanzialmente sono scelte fra i seguenti due tipi:

1)

w

m

=

δ

(

x

x

m

,

y

y

m

)

(metodo Point-Matching)

2)

w

m

=

f

n (metodo Galerkin)

Il metodo del Point-Matching consiste semplicemente nell’imporre la (2.1) in un certo numero di punti della regione d’interesse mentre il metodo

(8)

di Galerkin è un caso particolare del metodo dei residui pesati; tale metodologia deriva il nome dal fatto che l’errore residuo

=

N

n 1

α

n

f

n

(u) - f(u) ,

(2.10)

risulta “pesato” dalla generica funzione wm(u) tramite il prodotto

interno. E’ questo il metodo più usato, quello cioè che garantisce i migliori risultati; in seguito ne diamo una interpretazione geometrica.

Innanzitutto, pensiamo alla funzione g(u) come un vettore in uno spazio vettoriale ad infinite dimensioni e alle funzioni wm(u) come vettori

unitari nello stesso spazio vettoriale; in tal modo, le componenti del vettore g(u) non sono altro che le proiezioni del vettore originario lungo le direzioni individuate dai vettori wm(u); la generica componente di g(u)

diviene quindi:

gm =

β α

g(u)·wm(u) du , (2.11)

inoltre, in genere, la generica wm(u) può essere normalizzata tramite la

condizione

β

α

wm2(u) du = 1 . (2.12)

In tal modo le wm(u) corrispondono ai vettori base unitari; non solo,

ma se le wm(u) sono per ipotesi ortogonali tra loro, il che significa:

1

0

wn(u) wm(u) du = 0 , (2.13)

allora essi corrispondono ad un insieme di vettori base unitari ortogonali.

(9)

Se vogliamo rappresentare g(u) esattamente, dobbiamo trovare tutte le sue componenti e questo richiede perciò un numero infinito di funzioni

wm(u).

Se invece ci accontentiamo di un numero finito di funzioni questo introdurrà quella seconda approssimazione di cui si diceva alla fine del precedente paragrafo e che consiste in pratica nella determinazione della proiezione del vettore g(u) in un sottospazio vettoriale ad M dimensioni.

Il metodo di Galerkin prevede inoltre che le dimensioni dei due sottospazi di sviluppo siano uguali quindi M = N.

Quindi il MoM può essere visto come la ricerca delle proiezioni del vettore g(u) e dei vettori αn L(fn(u)) su un sottospazio vettoriale ad N

dimensioni (con N finito); il problema quindi si riduce a trovare i coefficienti affinché le rispettive proiezioni siano uguali.

Il fatto che si stiano usando un numero N di dimensioni finito implica che stiamo trascurando le proiezioni nelle rimanenti dimensioni dello spazio vettoriale complessivo di partenza.

(10)

2.3 DISCRETIZZAZIONE DELLA SUPERFICE

Il metodo del Point-Matching, come detto, consiste semplicemente nell’imporre la (2.1) in un certo numero di punti della regione d’interesse; quindi, perché le approssimazioni non siano troppo grossolane, sarà necessario un numero sufficientemente elevato di punti in cui imporre tale uguaglianza.

Se le funzioni sono definite solo su porzioni limitate (sottodomini) del dominio della funzione f(u) che bisogna approssimare, allora si semplifica la valutazione dei coefficienti della matrice risolvente e si assicura l’indipendenza delle funzioni di base. Un primo passo da compiere dunque è quello di discretizzare la superficie d’interesse mediante degli elementi piani, detti patch (solitamente di forma triangolare, così da meglio adattarsi al contorno originale di un corpo, anche non piano), senza che sia necessario ricorrere ad un numero eccessivo di superfici elementari; tale modellizzazione è detta di Rao-Wilton-Glisson. Tali patch vengono individuati mediante un insieme di punti (nodi), giacenti sul corpo, ciascuno dei quali a sua volta individuato dalle proprie coordinate geometriche nel sistema di riferimento scelto e che costituiscono la cosiddetta matrice nodale (matrice solo perché avente una struttura matriciale). Dalle coordinate dei nodi si arriva alla determinazione di altre due “matrici” (matrici nel senso esposto precedentemente) denominate

matrici di connettività le quali forniscono, una la coppia di nodi relativi a

(11)

Come unica restrizione al modello s’impone che ciascuno spigolo sia connesso al più con due patch.

Quando si effettua la discretizzazione, al fine di ottenere dei risultati attendibili, si devono scegliere patch con lati non superiori ad un decimo della lunghezza d’onda relativa alla frequenza di lavoro.

Nel caso di patch triangolari, le funzioni di base utilizzate sono le cosiddette roof-top, cioè delle funzioni definite su una coppia d’elementi triangolari attigui, le quali assumono valore unitario sullo spigolo comune mentre assumono valore nullo sugli spigoli opposti:

altrove 0 ) ( 2 ) ( 2 ) ( n n          ∈ ∈ = − − + + + T r r ρ T r r ρ r f n n n n n n n A l A l (2.14) dove:

ln è la lunghezza del generico spigolo (necessariamente non di bordo);

Tn+ e Tn- sono la faccia positiva e la faccia negativa connesse allo spigolo;

An+ e An- sono l’area della faccia positiva e l’area di quella negativa;

ρn+ è il vettore che congiunge il vertice libero della faccia Tn+ con il

generico punto di essa;

ρn- è il vettore che congiunge il generico punto della faccia Tn- con il

(12)

ρn+(r1)

ρn-(r2)

ρn+(r)

ρn-(r)

Il fatto che le funzioni di base siano definite solo su spigoli non di bordo comporta che nel sistema risolvente si avranno tante incognite quanti sono gli spigoli non di bordo.

Quanto detto è chiarito dalle figure 2.1, 2.2 ed 2.3.

r1 Fig. 2.1 Fig. 2.2 Tn+ ln Tn- Tn+ ln Tn -O r2

(13)

ρnc+ ρn rn rnc+ ½ (ρnc++ ρnc-) Fig. 2.3

Nella fig. 2.3, i ρnc± rappresentano rispettivamente il vettore tra

il vertice non comune allo spigolo n-esimo ed il baricentro della faccia positiva (ρnc+), e l’altro il vettore tra il baricentro della faccia

negativa ed il vertice non comune (ρnc-); invece gli rnc± sono i vettori

che congiungono l’origine del sistema di riferimento con i baricentri delle facce positiva e negativa.

Tn-

Tn+

O

(14)

2.4 RISOLUZIONE DELLA EFIE NEL DOMINIO DELLA FREQUENZA TRAMITE IL MoM

In generale, la risoluzione della EFIE (Electric Field Integral Equation) tramite il MoM nel dominio della frequenza consente di determinare il campo elettrico reirradiato da una superficie scatterante. Esso può essere determinato tramite la densità di corrente elettrica e magnetica, rispettivamente J e K, indotte dal campo incidente sull’oggetto in esame; tali densità possono essere sia le correnti vere, sia quelle fittizie derivanti dall’applicazione del teorema di equivalenza.

Una volta note J e K possiamo risalire ai campi reirradiati tramite relazioni integrali.

Indicando con in(r) la normale uscente dalla superficie dell’oggetto

scatterante nel punto r, per le densità di corrente valgono le relazioni:

J(r) = in(r) x Hi(r) , (2.15)

K(r) = Ei(r) x in(r) . (2.16)

Se Ei ed Hi sono il campo elettrico e magnetico incidenti, ed Es ed Hs sono i campi reirradiati (legati alle densità di corrente J e K), valgono le seguenti relazioni:

E(r) = Ei(r) + Es(r) , (2.17) H(r) = Hi(r) + Hs(r) . (2.18)

(15)

Esprimendo il campo elettrico in funzione del potenziale vettore elettrico As, del potenziale scalare Φs e del potenziale vettore magnetico Fs

otteniamo:

Es(r) = -jωAs(r) - ∇Φs(r) - (1/ε

M)∇xFs(r) , (2.19)

tenendo conto delle (2.15), (2.16), (2.17), e supponendo valida la condizione di impedenza sulla superficie del corpo, si ottiene la seguente uguaglianza:

{ηs(r) J(r) – Ei(r)}× in(r)={-jωAs(r)-∇Φs(r)-(1/εM)∇×Fs(r)}× in(r) ,(2.20)

dove:

S è la superficie esterna del corpo;

R=||r-r’|| è la distanza tra il punto d’osservazione r ed il punto sorgente r’∈S;

εM è la costante dielettrica del mezzo esterno;

µM è la costante magnetica del mezzo esterno;

(16)

E avendo definito come: S' R ) ' ( 4π µ ) ( S kR -M S e j d

∫∫

= J r r A , (2.21)

Φ

(

)

4

πε

1

ω

(

'

)

R

S'

S kR -M S

e

d

j

j

∫∫

=

J

r

r

, (2.22) - kR S M S n S ε ( ) (η ( ') ( ')) S' 4π R j e d =

∫∫

× F r J r i r . (2.23)

e tenendo conto dell’equazione di continuità della corrente:

∇⋅ J = -jωρ . (2.24)

La (2.20) lega il campo elettrico incidente (noto) alla sola densità superficiale di corrente (incognita) tramite un operatore integro-differenziale, quindi lineare. La (2.20) è infatti nota, appunto, come EFIE, ossia Electric Field Integral Equation.

Grazie alla linearità dell’operatore, possiamo applicare il metodo dei momenti. Proiettando la nostra incognita J(r) su di un set di N funzioni di base, definite sulla superficie S, otteniamo:

J(r)=

=

N n 1

(17)

e le nostre incognite sono ora i coefficienti

Ι

n relativi alle densità di corrente incognite associate a ciascuno spigolo non di bordo (questo perché le funzioni di base sono definite solo su spigoli non di bordo).

Per snellire la notazione abbiamo utilizzato il segno di uguaglianza, pur trattandosi in realtà di una approssimazione, almeno nel caso generale.

Supponiamo ora di utilizzare il metodo di Galerkin, ossia scegliamo le funzioni peso wm uguali alle funzioni di base, e definiamo il prodotto

interno come:

<h(r), k(r)> = ∫∫s h(r’) · k(r’) dS’ ,

(2.26) Ipotizziamo infine di modellizzare la superficie secondo piastre piane triangolari, e di definire funzioni di base del tipo RWG con espressione data dalla (2.14).

Sotto tali ipotesi, si ottiene l’espressione della EFIE in forma numerica mostrata di seguito: 1 1 1 1 S 1 1 1 M ω I I I I 2 2 I I I η , ε 2 2 2 2 c c N N N N m m m n mn n mn m n mn n mn n n n n c c c c N N N m m m m m n mn n mn n n m m m m n n n j l l l l + − + − + − = = = = + − + − + − + − = = =  ⋅ + Φ − Φ +         + ∇× ⋅ +∇× ⋅ + < >= ⋅ + ⋅    

ρ ρ A A ρ ρ ρ ρ F F f f E E (2.27) con m,n = 1,2…N.

(18)

dove:

S'

R

e

)

'

(

µ

T T kR -M

d

-n n m m j n mn

∫∫

∪ ± ± + ±

=

f

r

A

, (2.28)

R

S'

e

)

'

(

πε

4

1

ω

1

Φ

T T kR -M

d

j

-n n m m j n mn

∫∫

∪ ± ± + ±

=

f

r

, (2.29)

S'

R

e

)

'

(

η

)

'

(

)

'

(

ε

T T kR -S n M

d

-n n m m j n mn

∫∫

∪ ± ± + ±

×

=

f

r

i

r

r

F

, (2.30)

)

(

i ± ±

=

c m m

E

r

E

, (2.31)

ed avendo indicato con R±m la distanza:

m = rm± −r' , (2.32)

essendo r’ il generico punto sorgente e rm± il generico punto di

osservazione.

Gli apici c+ e c- indicano rispettivamente i baricentri dei triangoli T+ e T-.

(19)

E’ stato quindi ottenuto un sistema lineare di N equazioni in N incognite, nella forma:

Z

I

=

V

, (2.33) dove:

I è un vettore di dimensione N i cui elementi sono le incognite {In}.

V è un vettore di dimensione N, legato al campo incidente, i cui elementi hanno espressione:





+

=

+ + − −

2

2

V

c m m c m m m m

l

ρ

E

ρ

E

. (2.34)

Z

è infine una matrice NxN i cui elementi valgono:

(

)

> < +       ⋅ × ∇ + ⋅ × ∇ + +         Φ − Φ −       ⋅ + ⋅ = − − + + − + − − + + m n c m mn c m mn m mn mn c m mn c m mn m mn l j l f f ρ F ρ F ρ A ρ A , η 2 2 ε 2 2 ω Z S M . (2.35)

(20)

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