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La terza via e il giudice programmato: spunti sistemici - Judicium

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www.judicium.it CHIARA GRAZIOSI

La terza via e il giudice programmato: spunti sistemici

Sommario: 1.Introduzione - 2. Il contraddittorio - 3. Le criticità della terza via

1.- Uno dei temi che ha attirato maggiore attenzione della riforma processualcivilistica del 2009 è la consacrazione normativa dell’elaborazione degli interpreti - giurisprudenza e, prima ancora e molto più, dottrina - sulla c.d. terza via. Tale elaborazione viene in genere rapportata (soprattutto) al principio del contraddittorio, inteso però come tutela delle parti non dalle difese avverse bensì (non senza una vena di paradosso rispetto a un'ottica più tradizionale) dalle valutazioni del giudicante.

L'impostazione che sostiene la necessità di tutela dalle "sorprese" del giudice, invero, ha raggiunto l’esplicitazione normativa pur essendosi sviluppata da ultimo - cioè quando è stata accolta dalla giurisprudenza - in un contesto contrastante. Da un lato, infatti, la giurisprudenza di legittimità dell'ultimo decennio ha "revisionato" il sistema attraverso la lente della ragionevole durata del processo, a tale ottica adeguandolo con una interpretazione costituzionalmente orientata che è giunta ai limiti della nomofilachia rischiando lo sconfinamento nel campo della Consulta o addirittura del legislatore. (1) E questo sulla base di una percezione del novellato art.111 Cost. nel senso che il giusto processo coincide con il processo di ragionevole durata. Dall'altro, rimane evidente che il giusto processo è tale perché fondato sul contraddittorio: (2) ma che cos'è oggi

“contraddittorio” diventa l'interrogativo da porsi, se si riflette sulla c.d. terza via. Parallelamente, infatti, all'ampia giurisprudenza acceleratoria - che ha dilatato elementi già esistenti nel sistema, come il raggiungimento dello scopo quale disinnesco del vizio formale, spostando quindi la tutela processuale su un piano sostanziale – è sorta una giurisprudenza assai più scarna (3) e di compatibilità non indiscutibile, che, con motivazioni di scarso spessore in quanto implicitamente conformate per relationem a ben più approfondite riflessioni dottrinali, ha introdotto un principio di formulazione generica (e quindi con ampie potenzialità di espansione) ma comunque certamente di tendenza antipodale rispetto a quello della ragionevole durata del processo, perché implicante il protrarsi dei tempi processuali tramite meccanismi di regressione. Se ciò fosse sempre finalizzato alla tutela del diritto al contraddittorio quale diritto di difesa, nulla quaestio: solo se c'è contraddittorio c'è processo, quindi solo se c'è contraddittorio si pone il problema della ragionevole durata, la quale può definirsi, invero, la durata del contraddittorio nelle forme processuali normative. E se la ragionevole durata è la misura del processo, il contraddittorio è comunque la sostanza dinamica del processo; di qui, logicamente, l'impossibilità di un contrasto tra i due principi - ragionevole durata e contraddittorio – che in endiadi nella stessa norma costituzionale, infatti, conformano il "giusto processo". Ma se il rallentamento regressivo si origina da un quid non coincidente con la tutela del contraddittorio come garantita dalla Costituzione, il conflitto con l'art.111 Cost. compare: e compare non soltanto rispetto alla ragionevole durata, ma anche rispetto al principio costituzionale del contraddittorio, nel senso che questo deve dispiegarsi in tempi e modi tali da generare un processo giusto (giusto non soltanto perché perviene a una decisione giusta, ma anche perché vi perviene tutelando l’effettività dei diritti processuali in termini temporali tali che questi non svaniscano in diritti apparenti). Allora che cos'è oggi il contraddittorio ritorna come domanda basilare. Non appare infatti automaticamente chiarificatore il dato che il legislatore del 2009 abbia introdotto la sua "terza via" - il cui contenuto effettivo dovrà poi essere vagliato -

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www.judicium.it nell'art.101 c.p.c., giacché quello che deve essere appurato è se questa realmente si inquadra nel contraddittorio oppure in qualcosa di diverso, connesso o meno al principio originario.

2.- L'argomento è ovviamente amplissimo, ma è impossibile sottrarsi a una sia pur sintetica riflessione, trattandosi appunto della più comunemente invocata ratio della c.d.terza via. Il contraddittorio è invero un principio al tempo stesso tradizionale e dinamico che si espande, veicolando in tale espansione il ruolo dei soggetti processuali cui dà disciplina: attraverso di esso, a ben guardare, ibridizzano i rispettivi ruoli le parti e il giudicante.

Tradizionalmente, il principio del contraddittorio poteva definirsi, come insegnava la giurisprudenza di legittimità,(4) "un mezzo per la realizzazione dello scopo del processo, ossia per garantire che l'attuazione del diritto avvenga su un piano di parità", mezzo esigente “la formale osservanza delle norme" che regolano instaurazione e svolgimento del processo stesso in quanto dirette ad assicurare alle parti la possibilità di partecipare "e di far valere in ogni momento le proprie rispettive ragioni". Uguaglianza quale fonte di difesa dall'uguale: dunque come via per l'attuazione del diritto. La partecipazione "in contraddittorio" del contendente al suo processo è bifocale: da un lato il rapporto di difesa con la controparte (la classica "parità delle armi") e dall'altro il contributo all'affermazione del diritto, cioè alla realizzazione dello scopo del processo.

Nel contraddittorio sono pertanto individuabili, per dir così, un aspetto soggettivo e uno oggettivo.

Sono comunque aspetti ontologicamente connessi dal momento che la parte agisce per l'attuazione oggettiva del diritto. Poiché tuttavia tale attuazione è perseguita per un interesse "parziale", il potere dispositivo si introduce nella gestione del contraddittorio che, infatti, in ultima analisi, risulterebbe la disciplina della dinamica processuale dei contendenti. La dottrina che ha intessuto il concetto della "terza via", come si vedrà, si è fondata sull'aspetto oggettivo, pervenendo peraltro a una dilatazione dell'interesse soggettivo tramite il potere dispositivo, che ha condotto a pervadere l'attività accertatoria.

Partendo allora dal presupposto che il contraddittorio ha come nerbo l'uguaglianza tra le parti essendo lo strumento per realizzarla (5), e oltrepassando decisamente l'impostazione pre- costituzionale del contraddittorio come "ingombro" se difettano validi argomenti difensivi (6),è apparso ineludibile - per stornare ogni elemento astratto dalla garanzia, ovvero perseguirne la migliore effettività - che il potere di partecipazione al processo sia garantito alle parti non solo con la in jus vocatio ma per tutto il percorso fino all'accertamento finale (7), affermandosi che - ed è significativa la contestuale tensione verso la coincidenza verità materiale/verità giuridica propria della "prima lettura" dei principi costituzionali - per la ricerca di verità e giustizia sarebbe necessario l'effettivo contraddittorio e non la sua mera possibilità.(8) In questo contesto, valorizzata la struttura dialettica del processo quale elemento che lo caratterizza dagli altri tipi di procedimento (9), breve è stato il passo verso l'evidenziazione (tutt'altro che priva di riscontri nella tradizione) dell'apporto oggettivo di tale dialettica di parte, identificando nel contraddittorio un metodo, anzi il miglior metodo per l'accertamento della perseguita verità.(10) Ed è altrettanto breve, a questo punto, il passo che conduce alla teorizzazione della terza via: se il contraddittorio è la via dell'accertamento, tutto ciò che è accertamento o presupposto di esso deve passare attraverso il filtro di una specifica dialettica delle parti. La specificità dell'attività delle parti si rifrange, nel suo lato omissivo, sul piano probatorio tramite il principio della non contestazione specifica; al contrario, nel lato positivo l'incidenza è tendenzialmente omnicomprensiva, spaziando dal fatto al diritto e ai criteri del convincimento del giudice. Il concetto di terza via è talmente ampio da potersi definire

"informe": per questo l'interpretazione dell'art.101 c.p.c. novellato, a sua volta di tenore generico,

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www.judicium.it presenterà più opzioni possibili. Il concetto base, comunque, è l'incidenza dell'attività delle parti sull'attività del giudice: se l’impostazione tradizionale obbliga il giudice ad avvalersi degli esiti del contraddittorio,(11) senza peraltro esserne vincolato per determinare il contenuto della sua decisione - e ciò in forza di un’equilibrata consapevolezza del limite di oggettività caratterizzante un'attività improntata dall'interesse di parte - (12) l’impostazione della terza via giunge ad utilizzare il contraddittorio come uno strumento di programmazione della decisione.

Sul piano normativo, lo spostamento del principio del contraddittorio nell'area del giudice ha fatto leva sulla partecipazione del giudice alla trattazione prevista dall'art.183 c.p.c. "mascherando" una progressiva trasformazione del processo da struttura piramidale a struttura tendenzialmente orizzontale con una ipostasi adattogena del principio suddetto, quale è in effetti il c.d. principio di collaborazione.(13) Il "lavoro" del processo deve essere fatto insieme: come si ha quindi diritto a rispondere (contra dicere in senso lato) a (tutto) quel che porta la controparte, parimenti si ha diritto a rispondere a (tutto) quel che porta il giudice. E dunque - come avrebbe poi confermato la riforma dell’art.111 Cost.(14) nella prima parte del secondo comma (quella, significativamente, che non include ancora la ragionevole durata) - anche “all’interno dell’iter formativo del provvedimento”

deve operare il contraddittorio quale strumento essenziale perché il giudice sia terzo(15). Poiché il provvedimento ha contenuti di fatto e di diritto, una simile impostazione confligge immediatamente con quello che è proprio del giudice, "dare" il diritto. Apparentemente non divergendo dal tradizionale canone jura novit curia, si sposta allora il discorso sul piano delle modalità di esercizio di tale potere-dovere di jus dicere - così peraltro svuotandolo dall'interno, ovvero nel suo contenuto(16) - imponendo al giudicante di consentire, rectius stimolare una preventiva contestazione delle parti su ogni sua opzione di diritto, e analogamente, data la struttura omnicomprensiva del principio posto a base, su ogni sua "interferenza" di fatto. Trattandosi poi di attività giurisdizionale, agevole è stato il riferimento di supporto ad ulteriori principi, quali imparzialità e legalità, anche in apparente alternativa alla predominante corrente contraddittorio- collaborazione. L'asserto in questo caso sarebbe che il giudice che inibisce alle parti la preventiva

"contraddizione" contravviene ai suddetti principi perché la "sorpresa" in sede di decisione andrebbe a vantaggio di una parte e a correzione della sua difesa.(17) L'argomento prova evidentemente troppo: anche se il rilievo viene fatto in sede di trattazione ex art.183 c.p.c. l'effetto favorevole a una parte comunque sussiste; e per di più, così ragionando, anche la sentenza in sè con ogni motivazione rischia di elidere l’imparzialità del giudice. Ed è proprio questo il metodo di ragionamento della dottrina che ha elaborato la "terza via": la “terza via” è un concetto generale, che può espandersi ad ogni elemento della motivazione. Non solo, quindi, quel che si può definire in senso tecnico "rilievo d'ufficio", ma ogni valutazione non in precedenza filtrata dalle difese delle parti. Dunque, come dal diritto si passa al fatto (anche se rimane problematico identificare i casi in cui il giudice può "procurarsi" fatti pertinenti che non siano stati allegati dalle parti, anche perché di solito quel che una parte ha interesse a celare, l'altra ha interesse a evidenziarlo), dal fatto ci si inoltra poi nel settore probatorio. Sono state tessute dalla dottrina minuziose analisi(18) per affiancare alla compressione del tradizionale canone jura novit curia uno spasmodico controllo del suo corrispondente fattuale, il principio del libero convincimento. Dogmaticamente, entrambi i principi sono in corso di erosione e la tendenza è verso una struttura processuale in cui la tutela si coagula a monte della decisione, in termini di utilizzabilità e di modalità di utilizzazione, ovviamente rimuovendo, se si aderisce a questa (più che maggioritaria)(19) impostazione, l'effetto di garanzia ex post della motivazione, e - concetto base resta sempre che le parti non siano in grado di difendersi se il giudice non preannuncia specificamente tutto quanto intende utilizzare per la

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www.judicium.it decisione – fingendo (come si vedrà) di tramutare la difesa tecnica in un convitato di pietra (non a caso è proprio la difesa tecnica ad essere in grado di "decifrare" la garanzia motivazionale, ai fini dell' impugnazione). Se la tutela è ex ante, non rileva logicamente la giustizia in sé della sentenza; il

"formalismo delle garanzie" - come è stato definito da una dottrina più restrittiva di quella in esame (20) – potrebbe divenire allora un rischio reale, perché la sostanza, cioè il contenuto della sentenza, potrebbe giungere a non incidere, dato che se il giudice è solitario nella decisione, non può avvalersi dell’apporto accertatorio del "contraddittorio": e non vi è quindi più motivo razionale per fidarsi del giudice, come ha enunciato abbastanza chiaramente anche la più recente dottrina.(21) Ma, come si vedrà in seguito, attualmente è proprio questa – la giustizia della decisione rispetto alle concrete carte difensive delle parti – la barriera che nel diritto vivente frena lo smottamento sistemico insito nella " terza via ".

3.- Prima allora di affrontare nella quotidianità giudiziaria l'interpretazione del novellato art. 101 c.p.c. (di cui non è indiscutibile la totale recezione della “terza via” elaborata dagli interpreti), è opportuno considerare concisamente le criticità dell'attuale “terza via”.

1. Il contraddittorio è davvero sempre e comunque uno strumento per accertare o per facilitare il giudice nell'accertamento?

Che il contraddittorio, ovvero la dialettica delle parti, sia un metodo di accertamento è fortemente limitato dal fatto che – de jure condito - il giudice ha il potere di decidere diversamente da come le parti prospettano, con il limite della motivazione (e, a monte, i limiti della corrispondenza chiesto- pronunciato nonché, ora, della discussione specifica della veduta del giudice ex art. 101, comma 2, c.p.c.). Senza alcun atteggiamento iconoclasta, non si può peraltro non qualificare mito ottimista la convinzione che la dialettica sempre conduca o agevoli il raggiungimento della verità, poichè avviene tra portatori di interessi contrapposti. Per tale contrapposizione, anzitutto, la discussione è potenzialmente infinita, per cui occorre prima o poi chiuderla con la decisione di un terzo:

l'accertamento lo fa quel terzo, non i litiganti che nel dispiegamento dialettico possono solo contribuire ma non pervenire da soli al risultato, pena la soppressione della dialettica e l'adesione dell'uno o dell'altro alla prospettazione avversa, cioè la cessazione della materia del contendere.

Quindi, che il contraddittorio sia anche un metodo di conoscenza e non solo una garanzia individuale non è contestabile, ma ciò non toglie che è metodo di conoscenza gravemente incompleto, occorrendo l'intervento del terzo. Vi è di più. Le decisioni non possono fondarsi soltanto sulla dialogicità delle parti: la minima esperienza pratica insegna che sovente l'esito del contraddittorio non presenta al giudice una situazione chiarificata, ma, proprio perché si tratta di una garanzia individuale utilizzata in modo strategico, il suo effetto può essere (essendo pure suo scopo, come in sostanza rilevava Calamandrei) confondere e complicare la cognizione. È per questo, a ben guardare, che il giudice, se si vuole un processo reale e non utopico, non potrà mai essere completamente "programmato" dalle parti ed emetterà una decisione che manterrà - sia pure nella minor misura possibile proprio per rispettare il contraddittorio – fisiologicamente anche una natura solitaria. Chi invece vede dal contraddittorio sortire esiti esclusivamente positivi sul piano oggettivo rimuove il fatto che si tratta di una situazione di conflitto e che tramite il contraddittorio si fanno valere interessi di parte, inclusa la parte che ha torto: la quale, per quanto debba essere leale e proba e ora anche solidale per la ragionevole durata dei processi altrui – cfr. artt. 88 e '96 c.p.c.

nonché artt.2 e 111 Cost. -, gode sempre del nemo tenetur se detegere. Il processo quindi non è l’Arcadia, ma una lite civilmente regolata.

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www.judicium.it La realtà è che il contraddittorio è il metodo di accertamento preferibile perché congiunge a un’accettabile dose di razionalità accertatoria il più alto tasso (rispetto agli altri metodi) di tutela delle parti; si è quindi di fronte a un principio più di tutela etica della persona incorsa in lite che gnoseologico-funzionale: aspetto, questo, presente ma non caratterizzante (come si è detto, conduce a un accertamento incompleto e non autonomo dall'intervento di un terzo), dato che la sua presenza è a un tasso fungibile o addirittura inferiore rispetto all'accertamento che potrebbe essere svolto solo da soggetti imparziali (e infatti l'accertamento giurisdizionale non è un accertamento storico- scientifico).

2. La difesa tecnica ha davvero necessità di sostegno preventivo sul contenuto della decisione per tutelare l'assistito? E, da collegare a questa prima domanda, la "sorpresa" deriva sempre da una violazione degli obblighi del giudice?

La risposta positiva alla prima domanda è il fondamento della "terza via". Anche di recente un autorevole interprete ha negato (22) che sia "concretamente esigibile" che ciascuna parte possa instaurare il contraddittorio su tutte le questioni astrattamente rilevanti, aggiungendo: "È pensabile che, in un processo, all'interno del quale i punti in contestazione sono focalizzati su tutt'altri profili, la difesa del professionista "metta le mani avanti", introducendo una questione...di cui nessuno ha parlato fino a quel momento?" Invero, la focalizzazione della contestazione, cioè il thema decidendum, si cristallizza all'esito della trattazione, e quindi durante questa il professionista, proprio perché tale, se difende con diligenza deve affrontare ogni aspetto rilevante per far valere la posizione del suo assistito. D'altronde, proprio perché professionista - e quindi tecnico non da meno del giudice - può e deve rendersi conto (autoresponsabilità) del contenuto della fattispecie: per cui è logico presumere che se tace è per scelta tattica di non focalizzare punti deboli della posizione affidata alla sua difesa (offensivo sarebbe invece presumere che il silenzio equivalga a ignoranza o negligenza).

Riguardo, allora, alle questioni di diritto il difensore tecnico non ha difficoltà di prevedere il ventaglio di opzioni che valuterà il giudice. A ben guardare, poiché la qualificazione giuridica e l'identificazione delle norme applicabili sono potere-dovere del giudice, tutte le argomentazioni difensive di diritto diverse dalle domande e dalle eccezioni in senso stretto sono attività di prevenzione rispetto alla valutazione che dovrà - e che il difensore sa che dovrà - effettuare il giudice.

Se si tratta invece di questione di fatto e le parti non l'hanno focalizzata, nel senso che su di essa non vi sia contestazione specifica della parte che avrebbe interesse a contestarla - previa ovviamente allegazione specifica di controparte - è assorbente l'art.115 c.p.c., incompatibile in questi termini con l'art. 101, comma 2, c.p.c. Si restringe quindi nettamente lo spazio della "sorpresa", ovvero di inesigibilità di difesa tecnica ex ante.

Se la visione della parte come soggetto non difeso in balia del giudice va dunque decisamente ridimensionata, la giustificazione della pressione dottrinale verso una totale discovery degli elementi (di diritto, di fatto, di valutazione probatoria) con cui il giudice costruirà la sua decisione prima della decisione stessa (in sostanza una proposta di motivazione, formalmente ipotetica per serbare l’imparzialità a processo aperto) non è individuabile in una lesione del diritto di difesa, bensì in un mutamento della funzione del giudice. Il processo si contrattualizza, miscelando i ruoli tecnici, e non solo: oltre il fatto come per tradizione (da mihi factum dabo tibi jus), anche il diritto viene "programmato" dalle parti per il giudice; il giudice può solo dare risposte positive o negative alla prospettazione delle parti, perché la sua funzione diventa una valutazione rigorosamente circoscritta; la valvola di sfogo da questa predeterminazione è offerta al giudice in trattazione, oltre

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www.judicium.it la quale la cristallizzazione della regiudicanda diventa perfetta;(23) le preclusioni scattano anche per il giudice e coprono pure la valutazione giuridica; la sua rimessione in termini costa la regressione del processo, secondo la lettura già maggioritaria dell’art.101 comma 2 c.p.c. che vi vede un’automatica parallela rimessione in termini per le parti, il tutto a discapito della ragionevole durata, che a questo punto sarebbe chiara responsabilità del giudicante (ovvero, disincentivo dall’approfondire in motivazione la cognizione; motivazione che tenderà a coincidere con la difesa della parte scelta, decadendo a simulacro favorevole quindi a chi ne ventila la facoltatività).

In ultima analisi, l’apparente minimizzazione della valenza della difesa tecnica tramite il concetto della sorpresa decisoria diventa quindi una sorta di investimento a favore della difesa tecnica stessa, perché – dilatandosi in questa moderna forma “collaborativa” il potere dispositivo - condivida il più possibile il ruolo decisorio del giudice.

Quanto rilevato può dare risposta anche alla seconda e connessa domanda. Già sulla trasfusione normativa della terza via la dottrina (24) ha confermato che il rilievo in sede decisionale non è corretto: l'art.101, comma 2, c.p.c. "non consente certo in via fisiologica al giudicante di posporre l'esame approfondito della controversia (e così il rilievo officioso di questioni) all' ‘ultimo minuto’."

L'art.101 perciò dovrebbe essere sussidiario anche perché "comporta un serio costo in termini di durata, e dovrà dunque avere carattere eccezionale"; è "già patologia" che il giudice si avveda di una questione rilevabile d'ufficio quando la causa è in decisione. Eppure, il tutto può non essere così automatico. Se il contraddittorio ha un effetto accertatorio o se comunque la collaborazione delle parti apporta al giudice un contributo fruttuoso, è logico ritenere che la cognizione sia un work in progress parallelo allo snodarsi del processo, e che quindi, per quanto si sia il giudice preparato all'inizio,(25) la cognizione diventa completa alla fine: come può dunque essere sempre patologia rilevare in sede decisoria quello che deriva a sua volta dal culmine della difesa tecnica nelle difese conclusive?

La condotta della difesa tecnica, si è visto, non persegue soltanto la conoscenza del vero, ma anche una strategia di lasciare in ombra o confondere quello che è sfavorevole. La "sorpresa" della terza via è ordinariamente raggiungere tramite una piena cognizione quello che la strategia così aveva cercato di "esternare" dalla cognizione stessa. Poiché questo avviene in sede decisoria, come è apodittico ritenere che sia perché le parti non ne avevano conoscenza-percezione precedente, parimenti apodittico è qualificarlo automaticamente frutto di negligenza del giudice. Per quanto sopra osservato non si può, infatti, negare che nella fase decisoria la cognizione raggiunge un livello superiore a quello fino ad allora svolto nel processo, sia perché la vista di questo e dei suoi esiti è ormai "panoramica", sia perché a sua volta si è dispiegato il massimo della difesa tecnica nella discussione finale (soprattutto se è scritta), sia perché questo zenit è riconosciuto dal legislatore in genere consentendo in fase decisoria la revisione delle ordinanze emesse durante l'iter processuale e, nel caso della discussione scritta - cioè delle cause complesse, le più consone all’argomento in esame -, prevede un ampio termine per la emissione della sentenza, cioè, prima ancora che per la sua redazione, per la riflessione, sulla regiudicanda. Se così è, il rilievo in sede decisionale non integra automaticamente violazione dell'art.183 c.p.c., bensì esplicazione della cognizione nella misura conforme alla fase decisoria. Ciò tanto più considerando che, se il legislatore ha lasciato il potere di rilievo, significa che tale rilievo non è patologia, ma che possono verificarsi fattispecie in cui non sia concretamente possibile effettuarlo prima della sede decisoria.

Coordinando allora questa legittimazione normativa del rilievo decisionale confermata nel contesto di esplicitazione della terza via creato dalla riforma dell'art. 101 c.p.c., appare prospettabile anche una delimitazione del rilievo per cui tale legittimazione si è "affievolita" esigendo una sorta di

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www.judicium.it protesi processuale indicata appunto dal nuovo secondo comma. Qualora il rilievo decisionale rientri stricto sensu nella esplicazione della cognizione spettante autonomamente e propriamente al giudice (jura novit curia), ovvero se è una questione di diritto,(26) il giudice si avvale di uno specifico potere-dovere, dettato dall'art.113, comma 1, c.p.c. per cui deve seguire le norme nel decidere. Non è dunque sistematicamente coerente ritenere che in tal caso sussista lesione del contraddittorio o violazione di doveri del giudicante se decide conseguentemente alle norme di diritto, senza riaprire il processo. Solo qualora non si tratti di una mera applicazione delle norme, bensì di una dilatazione degli elementi di fatto, assume un senso sistematico l'applicazione della norma speciale (anche alla luce del principio di ragionevole durata) di tutela inserita dalla riforma del 2009 nell'art.101. Questa impostazione è compatibile con la delimitazione della terza via effettuata da S.U. 30 settembre 2009 n. 20935 (quando la riforma non era applicabile ma nota)(27) diretta a evitare che un'espansione corrispondente alla già ricordata ampia potenzialità di un principio in certa misura centrifugo rispetto al sistema giungesse a demolire la deformalizzazione semplificatoria a scopo di ragionevole durata in cui si è spesa la nomofilachia conseguente alla riforma dell'art.111 Cost. È stato subito notato che - a parte la significativa esclusione delle questioni di diritto - in tale arresto "si gioca ancora...non sul fronte qualificatorio... di nullità o meno" della sentenza, ma sulla sanatoria o meno della nullità, dovendo "la parte che la deduce dimostrarne la concreta, causale, lesività" consistente nell'avere impedito allegazioni e istanze istruttorie.(28) Invero, tenendo conto delle generali modalità di lettura che la giurisprudenza di legittimità, nell'ottica della ragionevole durata, dà dei vizi procedurali, si pone ora il problema della terza via sotto un duplice aspetto:

A. La nullità esiste – indiscutibile visto il novellato art.101 c.p.c. - ma sulla base di quali presupposti? Include cioè ogni attività ufficiosa/valutativa del giudicante (il modello del “giudice programmato” proposto da consistente dottrina) o soltanto alcune species di tale ampio genus (l’opzione delle Sezioni Unite) che vi è poi l'ulteriore problema di identificare?

B. Se è nulla proceduralmente una sentenza giusta come decisum (il contraddittorio è uno strumento, quindi è da rapportarsi al risultato, secondo la classica regola del conseguimento dello scopo) si giustifica comunque un'ulteriore attività processuale o questa, non avendo la nullità raggiunto la soglia di lesività, sarebbe un "dispendio"(29)? Qui emerge come il principio della terza via, che di per sé astrae dal contesto la propria lesione, seguendo invece i principi della ragionevole durata e dell’economia processuale (anche nel suo più recente aspetto solidaristico)(30) non può essere autonomo per rilevare, cioè per impedire il raggiungimento dello scopo, occorrendo - è così una fattispecie a formazione complessa - un altro vizio che gli dia lesività, e che costituisce l’interesse processuale a far valere la “terza via”. Questo è logico in un contesto (scaturito proprio dalla ragionevole durata e rappresentato da semplificazione e destrutturazione delle forme) d’incremento del tasso di strumentalità, ovvero di non autonomia del processo rispetto al suo scopo sostanziale.(31)

Come tutte le nullità processuali, dunque, la violazione del contraddittorio sotto il profilo della terza via diventa un vizio apparente, privo di reali conseguenze, se non è stato strumento/presupposto per una lesione sostanziale. Il presupposto vale solo per ciò che lo deve seguire: solo il vizio sostanziale ha valore in sé; quello processuale, in una – ottimale - visione del processo che scampi dal formalismo incentrandosi nello scopo, è solo un vizio prodromico, che rileva se si crea una fattispecie complessa di processuale e sostanziale, non essendo il primo indipendente dal secondo.

La revisione cui la terza via conduce del ruolo del giudice non sfocia dunque ineludibilmente nel farraginoso formalismo della programmazione totale della decisione (che si traduce in totale

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www.judicium.it proiezione del potere dispositivo delle parti), ma – non discostando l’interpretazione dell’art.101 dalla già consapevole linea di S.U.2009 n. 20935 (32) – può rientrare nel sistema grazie alla tematica della lesività effettiva dei vizi procedurali attraverso i quali si è pervenuti alla decisione, cioè all'obiettivo sostanziale del procedimento. La sentenza è il punto di intersezione processuale- sostanziale; ogni vizio della sentenza, per essere tale, dovrà quindi comprendere entrambi gli aspetti, ciò impedendo la regressione a un processo inconcludente e informe come quello anteriore al sistema preclusivo incardinato negli anni ‘90.

NOTE

(1)Il leit-motiv della ragionevole durata in un’ormai decennale giurisprudenza di legittimità ha raggiunto livelli tali da suscitare diffidenze dottrinali, non solo per la forzatura, difficilmente discutibile in certi arresti, del concetto di nomofilachia, ma anche per il rapporto stesso del principio della ragionevole durata, come inteso dalla Suprema Corte, con gli altri canoni processuali di livello costituzionale: v., p.es., da ultimo E.F.Ricci, Nooo!(La tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Cassazione: da garanzia bisognosa di attuazione a killer di garanzie), in corso di pubblicazione su Riv.dir.proc., che - non a caso, visto quanto si rileverà infra – è nota critica a S.U.23 febbraio 2010 n.3209 laddove riconosce (con adeguata e non forzata motivazione) un potere discrezionale al giudice: l’autorizzazione alla chiamata del terzo.

(2)Il contraddittorio è metodo del tutto tradizionale, in sostanza giusnaturalistico, per costruire il processo (cfr. Picardi, "Audiatur et altera pars”. Le matrici storico culturali del contraddittorio, Riv. trim. dir.proc.civ.,2003,16) e infatti, come è più che noto, seppure modellato variamente, è applicato anche nei procedimenti speciali (v.Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, Riv. dir. proc., 1975, 577) giacché (come osserva Monteleone, Note sui rapporti tra giurisdizione e legge nello Stato di diritto, Riv.trim.dir.proc.civ., 1987, 12) può presentarsi in modalità formali diverse rimanendo fermo che se mancasse o fosse una finzione mancherebbero giurisdizione, giudizio e processo. In tal senso cfr.già Capograssi, Il "quid jus" e il "quid juris" in una recente sentenza, Opere, V, Milano 1959,19, che con un incisivo gioco di parole lo definisce "il complesso di condizioni che fanno giudizio un giudizio". Il contraddittorio può infatti definirsi

“l’anima del processo” (così Fabbrini, Potere del giudice (dir.proc.civ.), Enc.dir.,XXIV, Milano 1985,722) o, ancor meglio, "la struttura dialettica del procedimento" (così Fazzalari, Procedimento e processo. Teoria generale, Enc.dir.,XXXV, Milano 1986, 819).

(3)Le sentenze della Cassazione (2001 n.14637,2005 n.21108, 2008 n.15194) che hanno lanciato nel diritto vivente la terza via - abbandonando l'orientamento che negava ogni vizio intendendo il rilievo d'ufficio anteriore alla decisione come facoltà e non obbligo del giudice - sono ormai ben note. Solo per completezza, quindi, si traccia una sintesi delle due fondamentali.

Un affrettato raid contro la lettura giurisprudenziale precedente (p.es. Cass.1998 n.3940) può definirsi, per la sbrigativa motivazione che non qualifica neppure il vizio riscontrato, la prima pronuncia,Cass.2001 n. 14637. Si trattava di un atto amministrativo esercitante un potere sanzionatorio del cui concreto esercizio si discuteva, e il giudice solo in sentenza aveva vagliato la questione della nullità o inesistenza dell'atto, con ciò, per il ricorrente (che era la P.A.), violando l'art.183 c.p.c. "nel non consentire il contraddittorio sulla questione della nullità o di inesistenza dell'atto". La Cassazione affermava che il testo all'epoca vigente del comma terzo dell'art.183 c.p.c.- cioè quello che descrive il ruolo del giudice nella trattazione - "esprime pienamente, come la dottrina ha rilevato già all'indomani della riforma processuale del 1990, il principio del

(9)

www.judicium.it contraddittorio che governa il processo. Contraddittorio che il giudice deve fare osservare e deve osservare egli per primo, tant'è che deve significare alle parti le questioni che ritiene rilevino, cosicché esse non possano trovarsi di fronte ad una decisione a sorpresa, adottata sulla base di una terza via rispetto a quelle alternativamente da esse sostenute". Ciò sarebbe "coerente con il regime delle preclusioni e dello “jus poenitendi”…i quali consentono alle parti di aggiustare il tiro, anche in considerazione delle rispettive difese, cosicché è la dialettica del processo che segna il limite alle possibili novità. E la dialettica è travolta se si consente una decisione sulla base di questioni che ne sono state estranee, ancorché un tale effetto risalga all'esercizio dei poteri del giudice". Un esercizio di poteri, dunque, che vizia il processo, pur non essendo definito un abuso dei poteri stessi. A questa contraddizione ne segue un'altra: subito dopo avere affermato la coerenza della sua lettura col regime delle preclusioni, la sentenza dispiega un'impostazione in stile anteriore agli anni 90 dichiarando che l'art. 183, comma 3, "prescinde, per la sua centralità nell'intero processo, dal meccanismo particolare della prima udienza di trattazione" per cui il giudice che dopo tale udienza intende "far rilevare un fatto o una questione non considerati dalle parti" glieli deve segnalare perché prendano posizione (si noti l'equiparazione di fatto e diritto, quest'ultimo indicato come

"questione"). Ciò sarebbe confermato dall'art.184 bis c.p.c. sulla rimessione in termini per cause non imputabili alla parte.

A queste argomentazioni Cass. 2005 n. 16577 aggiunge (oltre a una espressa definizione dello

"sviluppo dialettico del processo" qualificandolo come "dovuto all'attività delle parti ovvero all'esercizio del potere di segnalazione del giudice, ove questo abbia determinato un ampliamento della materia del giudizio") il primo riferimento all'art.111 Cost. per affermare che per tutto lo sviluppo del processo il giudice deve osservare, "in posizione di terzietà, il dovere di collaborazione con le parti" e che è "intrinseco al corretto svolgimento di un giusto processo il principio del contraddittorio" ex art.111. In un quadro "ancien regime" di processo non decadenziale il cui thema decidendum non è cristallizzabile ma si muove per tutta la sua durata (fino alla decisione, afferma la sentenza, si deve consentire alle parti "lo svolgimento delle opportune difese in relazione al mutato quadro della materia del giudizio", sul presupposto che l'autore del mutamento sia il giudice) si sottolinea poi con tratto "moderno" che il giudice "deve astenersi dal decidere solitariamente".

Questa pronuncia integra tuttavia quella del 2001 (che, dopo aver gettato il sasso nello stagno dei principi processuali, è "scappata via" sulle conseguenze) qualificando il vizio e ponendo le basi di una distinzione fatto-diritto (seguita, come si vedrà, anche da S.U. 2009 n. 20935): se la violazione del dovere di collaborazione modifica "il quadro fattuale" sussiste "nullità della sentenza per aver violato il diritto di difesa delle parti (art.24 Cost.), privandole dell'esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie, sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria".

(4)Così Cass. 1967 n. 1500. Il riferimento alla "formale osservanza" vi era già peraltro arginato, sul piano del conseguimento dello scopo, ritenendo che "non ricorre violazione di detto principio quando l'inosservanza non abbia arrecato pregiudizio alla parte".

(5)cfr.Colesanti,op.cit.,584.

(6)Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, 87; Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1933, II, 154.

(7)cfr.Comoglio,Contraddittorio,Dig.Disc.Priv.,sez.civ.,IV,Torino,1989,3;v. pure Benvenuti, Contraddittorio (dir.amm.), Enc.dir., IX, Milano 1961, 738. In giurisprudenza, p.es., Cass. 2008 n.

14657.

(10)

www.judicium.it (8)Proto Pisani, Art. 101, Commentario Allorio al Codice di procedura civile, Torino 1973, 1086.

Peraltro così non considerando che la libera scelta di non partecipare al processo da parte di chi vi è stato ritualmente chiamato ha logicamente un valore sul piano oggettivo accertatorio (nel senso dell'inesistenza di elementi per contraddire), per cui non vi è astrazione bensì effettività di attuazione anche tramite questa modalità. Sulla tutela effettiva del contraddittorio come principio fondamentale del processo v. anche C.Ferri, Sull’effettività del contraddittorio, Riv.trim.dir.proc.civ., 1988, 790.

(9)Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, 1996, 83.

(10)L'esistenza (accanto al profilo soggettivo della difesa stricto sensu) di un profilo oggettivo del contraddittorio quale contributo delle parti all'accertamento giurisdizionale, in quanto fondata nella tradizione, era da tempo considerata dagli interpreti. Cfr., p.es., Martinetto, Contraddittorio (principio del), Noviss. Dig.It., IV, Torino 1959,460, che qualifica il contraddittorio effettiva possibilità per i litiganti "di partecipare attivamente allo svolgimento del processo, cooperando sia alla ricerca dei fatti ed alla raccolta delle prove, sia alla elaborazione e formazione del convincimento del giudice”. Fra i più recenti, v. E.F.Ricci, La sentenza "della terza via" e il contraddittorio, Riv.dir.proc.,2006,750. che (pur in una impostazione non propensa alla "terza via") collega l'art.183 c.p.c. al contraddittorio quale miglior mezzo per la ricostruzione del fatto e delle sue ricadute giuridiche (per la sua posizione su questi aspetti v. anche infra); Gentili, Contraddittorio e giusta decisione, Riv.trim.dir.proc.civ. 2009,761, per cui il contraddittorio è il

“metodo che rende giusta la decisione”; nonchè, dal punto di vista generale della epistemologia giuridica, Sommaggio. La centralità del contraddittorio nell'esperienza giuridica. Prime riflessioni per una teoria radicale, Diritto e questioni pubbliche, 2007, 95s.. secondo cui il contraddittorio ha

"natura anche logica" nel senso che lo scontro dialettico "fa emergere ciò che le parti non possono negare, pena la contraddizione con i loro assunti di partenza"; pertanto il contraddittorio sarebbe addirittura "l'unico mezzo di accertamento conoscitivo giustificabile in termini razionali" (evidente - e paradossale - confusione fra il contraddittorio e il principio di non contraddizione, che in realtà è il suo opposto: perché se vale quest’ultimo principio non c'è contrasto, quindi non c'è più spazio per il contraddittorio, ovvero, in termini processuali, è cessata la materia del contendere).

Corrispondente all'ottica processualcivilistica è l'orientamento sviluppatosi sul piano processualpenalistico dove si è definita la dialettica "arte di raggiungere e cogliere il vero mediante la discussione delle opinioni" (Cavallari, Contraddittorio (dir.proc.pen.), Enc. dir., IX, Milano 1986, 728. A fortiori, considerata la natura degli interessi ivi coinvolti: non a caso è stato in questo settore che è intervenuta sulla "terza via" la Corte europea dei diritti dell'uomo con la sentenza 11 dicembre 2007 a proposito di mutamento della qualificazione giuridica a danno dell'imputato. Sul valore accertatorio della dialettica processuale cfr. anche nota 21.

(11)Fazzalari, Istituzioni, cit., ancora 83, rilevava che vi è processo "quando in una o più fasi dell'iter di generazione di un atto" incide "la partecipazione non solo - ed ovviamente - del suo autore, ma anche dei destinatari dei suoi effetti, in contraddittorio, in modo che costoro possano svolgere attività di cui l'autore dell'atto deve tenere conto; i cui risultati, cioè, egli può disattendere ma non ignorare".

(12)Esemplare è al riguardo la nota definizione del processo offerta da Calamandrei, Il processo come giuoco, Riv.dir.proc., 1950,23, che lo qualifica un "gioco sottile di ingegnosi ragionamenti"

per cui "ciascun competitore prima di fare un passo deve cercare di prevedere, con attento studio non solo della situazione giuridica ma altresì della psicologia dell'avversario e del giudice, con quali reazioni l'antagonista risponderà alla sua mossa". Una visione che costituisce evidentemente

(11)

www.judicium.it l'opposto della prospettiva valorizzante sopra descritta, perché svuota di significato accertatorio contribuente alla valutazione del giudice l'attività delle parti, che guarda con l'ottica smaliziata di una difesa tecnica strategica. Il ruolo della difesa tecnica nel mito puramente positivo dell'attività delle parti che sorregge la teoria della terza via tornerà in esame in seguito. Singolare è che una certa lettura del processo come gioco emerga da ultimo in un arresto per più aspetti innovativo quale Cass.ord.17 giugno 2010 n.14.627, che definisce il mutamento da parte della Cassazione di

"un'interpretazione consolidata” delle norme processuali "un cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata".

(13)Se il contraddittorio è la regola della dinamica processuale, non può non coinvolgere tutti i soggetti del processo; è la garanzia con cui, a ben guardare, la parte si muove nel cosmo processuale e ed è perciò configurato anche garanzia verso il giudice, di cui infatti limita la potestà giurisdizionale (come - prima ancora che dalle norme costituzionali - già si evince dall’art.101, comma 1, c.p.c.). Poiché tuttavia la posizione del giudice è ontologicamente diversa da quella delle parti, non necessitando di difesa e quindi di garanzia, il giudice espleta la dinamica relazionale con gli altri soggetti con modalità diverse, inquadrabili appunto non tanto nel regolato contrasto quanto nella collaborazione. Sul principio di collaborazione tra il giudice e le parti è basilare il saggio di Grasso, La collaborazione nel processo civile, Riv. dir. proc.,1966,580. Tale dottrina si è sviluppata in un contesto normativo ancora ben lontano dalla riforma preclusiva degli anni 90, e anteriore soprattutto alla valorizzazione dei tempi come misura di effettività dei diritti. Nella forma mentis dell'epoca, come già accennato, l’effettività dei diritti era presidiata invece dalla tendenziale coincidenza tra verità giuridica e verità materiale quale frutto del processo; l'attività del giudice nella trattazione veniva quindi letta come stimolo e supporto per l'introduzione, da parte dei contendenti, di ulteriori aspetti non solo giuridici ma anche fattuali e probatori (col rischio, dunque, di implementazione del processo, in luogo di semplificazione e concentrazione). Ma la sua qualificazione quale "collaborazione" portava comunque una risoluzione del (già da tempo evidenziato: cfr. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli 1956, II, 82) problema della condivisione del giudice con le parti - contraddittorio è dialettica, quindi lato sensu pure condivisione - delle questioni rilevabili d'ufficio. Formalmente il contraddittorio essendo confinato alla garanzia della uguaglianza delle parti, il principio di collaborazione tra giudice e parti veniva così a fondare l'obbligo del giudice di ostendere a queste le questioni rilevabili d'ufficio prima della decisione (Grasso,op.cit., 591ss.; sposò questa tesi, si è già visto, la più motivata delle sentenze della terza via, Cass. 2005 n. 16577).

Pur aderendo al principio di collaborazione, lo contrappone a quello di contraddittorio Chiarloni, Questioni rilevabili d'ufficio, diritto di difesa e "formalismo delle garanzie", Riv.trim.dir.proc.civ., 1987, 569, ora in Formalismi e garanzie. Studi sul processo civile, Torino, 1995, 174, per cui

"l'inosservanza del dovere del giudice di stimolare il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevabili d'ufficio non mette in giuoco...il principio del contraddittorio" bensì "trattandosi del dovere di sollecitare la previa discussione su questioni che appartengono al comune sapere di tutti i soggetti del processo proprio il principio della reciproca collaborazione del giudice con le parti per garantire la leale condotta del processo e la giustizia del suo esito"; posizione confermata nella sua nota critica al leading case di Cass. 2001 n. 14637, La sentenza "della terza via" in cassazione: un altro caso di formalismo delle garanzie?,Giur.it., 2002, 1362, dove sostiene appunto che la sentenza della terza via "non viola il principio del contraddittorio, bensì il principio di collaborazione tra i soggetti del processo".

(12)

www.judicium.it Separa contraddittorio e collaborazione pure E.F.Ricci, op. cit.,752, che, commentando Cass. 2005 n. 16577, osserva che anche se la sentenza "sembra unificare il principio del contraddittorio come garanzia e il principio di collaborazione, come se l'uno e l'altro fossero espressione di una medesima regola di fondo…si tratta di regole differenti, non confondibili l'una con l'altra". Che vi sia un'unica regola di fondo appare invece sostenibile, trattandosi della disciplina della dinamica che connette i soggetti processuali; ma per questo autore le dinamiche processuali più che a un rapporto di tipo collaborativo son riconducibili a un equilibrio di forze contrapposte; e ciò può valere, ovviamente, soltanto per le parti.

Va infine ricordato che è proprio il principio di collaborazione, sotto forma di "buona fede" (lealtà, correttezza, tutela degli interessi della controparte), che deve plasmare la condotta delle parti in un rapporto negoziale. Poiché avanza la concezione di una "giurisdizione condivisa", è logico ritenere che un simile principio governi la condotta dei suoi protagonisti, potendosi sempre più approssimare a un negozio di accertamento il processo, il cui esito, applicando tutte le potenzialità della “terza via”, sarà così "negoziato" da non poter logicamente contenere alcuna fonte di

"sorpresa". Ed è opportuno notare fin d'ora che dal processo come gioco (alla Calamandrei) al processo come condiviso negozio di accertamento si rimane sempre nello stesso genus di un processo rimesso al potere dispositivo delle parti, in una visione liberale-individualistica dello strumento giurisdizionale civile. Non a caso, infatti, il concetto della terza via si scontra con il sistema preclusivo, essendo un mezzo per le parti per scavalcarlo; non a caso, infatti, è sorto dottrinalmente in un contesto di giudizio non strutturato da preclusioni ed è stato normativizzato contemporaneamente alla dilatazione dello strumento della remissione in termini (generalizzato con lo spostamento all'art.153 c.p.c.) che viene offerta alla pratica come potenziale (a seconda di quella che sarà la lettura del diritto vivente) cavallo di Troia contro la struttura delle preclusioni.

Significativa in tal senso, tra le prime letture dell’art.101, comma 2, c.p.c., la tesi di G.

Costantino,Questioni processuali tra poteri del giudice e facoltà delle parti, Riv.dir.proc.,2010,1038, secondo cui tale norma non concerne “questioni rilevate d’ufficio all’udienza” di trattazione ex art.183 c.p.c., bensì solo “le questioni che il giudice rileva, quando ha già riservato la decisione della causa”(v. al riguardo anche nota 17). In generale sul rapporto parti- rilievo d’ufficio cfr. da ultimo Gradi, Il principio del contraddittorio e le questioni rilevabili d’ufficio, in corso di pubblicazione su Riv.dir.proc., 2010.

(14)Montesano, La garanzia costituzionale del contraddittorio, Riv. dir. proc., 2000, 188.

(15)Ovviamente già prima della riforma dell'art.111 Cost. la dottrina favorevole alla dilatazione del diritto di difesa nel senso della tutela delle parti dalla “terza via" sì è avvalsa del presidio costituzionale, già identificabile nell'art.24, comma 2, Cost. Su questa linea si è collocata la lettura di Denti, Questioni rilevabili d'ufficio e contraddittorio, Riv.dir,proc., 1968, 217, che non fonda l'obbligo del giudice di sollevare le questioni d'ufficio prima della decisione sull'art. 183 c.p.c., bensì in un rapporto tra l'art.101 c.p.c. come all’epoca vigente e l'art. 24, comma 2, Cost., deducendo l'invalidità della sentenza che violi l'obbligo per diretta lesione del principio costituzionale, e limitando comunque il vizio alle questioni pregiudiziali, le sole in cui il giudice giudica e non si limita a conoscere "poiché la garanzia del contraddittorio riguarda tipicamente l'attività decisoria degli organi giurisdizionali". Evidentissimo lo sviluppo, anche in questa lettura, del contraddittorio in direzione del giudice, anziché principio relativo alle parti. Sempre fondato sull'art.24,comma 2,Cost., cfr. poi C.Ferri, Contraddittorio e poteri decisori del giudice, Studi Urbinati, anno XLIX, n.33, Città di Castello, 1984, che include nella "tutela", sul piano delle questioni di diritto, interpretazione della domanda ex art.112 c.p.c., qualificazione giuridica (con

(13)

www.judicium.it particolare attenzione all’allegazione di fatti costitutivi che si prestano a concorrenti qualificazioni giuridiche e alla proposizione di domande alternative o subordinate), identificazione della norma applicabile, criterio che il giudice adotta nel giudizio di equità; sul piano delle questioni di fatto, include i fatti notori (dovendosi garantire alle parti la deduzione di prove contrarie), i fatti secondari allegati dalle parti senza farne oggetto di istruttoria o di argomentazioni (questione che sarebbe oggi evidentemente assorbita dal principio della non contestazione specifica) e i fatti secondari che emergano comunque in giudizio. Sugli aspetti probatori si vedrà anche infra.

(16)Si veda ancora la chiara illustrazione di Montesano, op.cit.,190: “La garanzia costituzionale del contraddittorio … non elimina e neppure attenua il principio fondamentale jura novit curia, cioè il potere-dovere officioso del giudice di individuare la norma applicabile” ex art.113 c.p.c. “e quindi il suo non essere vincolato alle impostazioni della causa ‘in diritto’ ad opera delle parti” ma sui modi e tempi dell’esercizio di quel potere-dovere; e il limite temporale e procedurale di tale esercizio emergerebbe in modo innegabile dalla riforma dell'art.111 Cost. "in ragione dell'esercizio della facoltà delle parti - insito nel principio del contraddittorio - di prospettare le nuove impostazioni della causa in fatto, anche proponendo i mezzi di prova che ritengano necessari, in riguardo alla nuova impostazione giuridica…che il giudice considera possibile e che, ovviamente, è in facoltà delle parti di contestare ‘a monte’".

(17)Su questa linea Comoglio, "Terza via" e processo "giusto", Riv.dir.proc., 2006, 755, per il quale il dovere del giudice "di provocare preventivamente il contraddittorio "vale" su ogni questione di fatto o di diritto"; conforme, a proposito del novellato art.101 c.p.c., G.Costantino, op.cit.,1041, che ritiene che la norma non riguardi solo le questioni di fatto o miste come per fattispecie anteriore alla sua vigenza hanno affermato le Sezioni Unite, bensì renda “necessaria la rimessione in termini per l’esercizio di tutti i poteri e le facoltà conseguenti al rilievo ufficioso, anche nelle ipotesi di diversa qualificazione, d’ufficio e in mancanza del preventivo contraddittorio con le parti, del rapporto giuridico controverso”. L'incidenza dell'opzione del giudice sulla posizione difensiva delle parti conduce altresì a censurare come "paternalista" la condotta del giudice: v.,p.es., Sommaggio, op.cit., 107ss., secondo cui non solo "il potere di scavalcare le argomentazioni delle parti...si colloca oltre ogni controllo relazionale sugli argomenti posti dal giudice alla base del proprio decisum" ma anche rende "pleonastiche" le parti processuali: alla base di questa loro svalutazione vi sarebbe una concezione "paternalista" per cui il giudice deve anche difendere la parte da un legale inadeguato. (Potrebbe qualificarsi intervento paternalistico di "terza via", si nota per inciso, la già citata Cass. ord. 2010 n.14.627, laddove opera una remissione in termini senza specifica istanza di parte). In realtà, la svalutazione (come si vedrà, apparente) del ruolo della difesa tecnica è proprio frutto della terza via, e comprime pesantemente il principio dell' autoresponsabilità. Addirittura, la "sorpresa" potrebbe, se il novellato art.101 c.p.c. non sarà oggetto di una equilibrata interpretazione, diventare una fictio juris che costituisce per la difesa tecnica delle parti il dispositivo di sicurezza nella ipotesi in cui una strategia del silenzio (per non attirare l'attenzione su aspetti a sé sfavorevoli) non sia riuscita. Logico, infatti, che le parti, essendo appunto

"parziali", non subiscano alcuna eccezione al nemo tenetur se detegere; parimenti logico che il giudice sia invece obbligato a se detegere, perché si prevenga che la sua decisione si nutra di un silenzio che va a favore di una parte, incidendo così l'imparzialità del giudice e l'uguaglianza delle parti? L'argomento, come già accennato, prova troppo: il giudice non è una parte e perciò non ha nulla di proprio che sia nascosto; sul piano dei fatti si alimenta dalle allegazioni delle parti; sul piano del diritto, quanto conosce è di pubblica conoscenza (quel che Chiarloni, Questioni rilevabili, cit.,578, definisce "comune sapere"). Non è quindi un discorso di "scopertura" delle carte del

(14)

www.judicium.it giudice; potrebbe essere piuttosto un discorso di condotta colposa (per ignoranza o negligenza) o dolosa (per tattica processuale) della difesa tecnica delle parti stesse. E la difesa tecnica sul piano processuale coincide con le parti ai fini della sua qualità sanzionabile come emerge - tanto più ora che è novellato - dall'art.96 c.p.c.; ma proprio questa coincidenza ha consentito paradossalmente di

"rimuovere" la facies sapiente delle parti per pervenire alla fictio juris della sentenza "a sorpresa ".

(18)Si vedano p.es. C.Ferri, op.ult.cit,.passim, - per cui la tutela dalla “sorpresa” del giudice dovrebbe coprire l'ipotesi in cui il giudice possa avvalersi di potere discrezionale nell'accertamento del fatto, come nell'utilizzazione di una prova precostituita a scopi diversi da quelli addotti dalle parti, nonchè nell'utilizzazione da parte del giudice di argomenti di prova, presunzioni semplici e di prove atipiche di cui alle parti non sia stata preannunciata l'utilizzazione – e soprattutto Montesano, op.cit., 194ss. che, partendo dal concetto che i convincimenti del giudice si formano non solo valutando gli strumenti istruttori tipici ma pure con "argomenti di prova" provenienti da atti processuali non strutturati in sola funzione probatoria (come le risposte all' interrogatorio liberò e la condotta delle parti attiva od omissiva come il rifiuto di chiarimenti), sostiene che nella formazione di tali "argomenti" manchi la garanzia costituzionale del contraddittorio, soprattutto quale divieto della terza via nei giudizi di fatto "giacché le parti non sanno, prima dell'interrogatorio libero, quali domande saranno loro rivolte dal giudice, né le normative...le mettono in condizione di sapere, dopo le risposte date o no a tali domande, come prima o dopo i comportamenti processuali," di quali di quelle risposte o rifiuti, di quali aspetti di quei comportamenti od omissioni "il giudice si servirà nella formazione dei suoi convincimenti in fatto". Il novellato art.111 Cost., renderebbe necessaria la riforma di "questi strumenti formativi dei convincimenti giudiziari", e in particolare occorrerebbe

"vincolare il giudice, nelle stesse forme ed entro gli stessi termini che gli sono dati per disporre prove d'ufficio...a comunicare alle parti gli argomenti di prova che egli ritiene rilevanti per la formazione dei propri convincimenti in fatto, assegnando alle stesse parti termine perentorio per la deduzione di mezzi di prova ch’esse ritengano necessari in relazione a quegli argomenti" (a tacer d'altro, così si rischierebbe di tornare alla catena infinita della procedura non preclusiva anteriore agli anni 90); sempre in quest'ottica di ingessamento preventivo dell'attività giurisdizionale l'autore poi equipara agli argomenti di prova le prove atipiche vedendo anche in una interpretazione restrittiva degli artt.2727 e 2729 cod. civ. la ricaduta della riforma dell'art.111Cost.: i "fatti noti" da cui il giudice trae presunzione quindi "siano solo quelli risultanti dall'istruttoria tipica e contraddittoria" e i fatti pacifici e notori; occorrerebbe pure che il giudice, nei modi e nei tempi disposti per gli argomenti di prova, "comunichi alle parti quali fatti "ignoti" egli ritiene deducibili dai...fatti "noti", dando loro modo di discutere su tali deduzioni e termine per dedurre prove" sui fatti presumibili.

Questa libertà (strettamente) vigilata del convincimento del giudice riecheggia anche in una certa giurisprudenza. Cfr. in particolare alcuni significativi passi della motivazione di S.U. 2008 n. 2435:

"il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte, interessata ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di controdedurre e per lo stesso giudice impedita (sic) la valutazione delle risultanze istruttorie e dei documenti ai fini della decisione (cfr. Cass.16 agosto 1990, n. 8304)”; infatti “nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall'iniziativa della parte e dall'obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti comunque esistenti in atti determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda, o – comunque - sollecitate dalla parte

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www.judicium.it interessata (cfr. Cass. 12 febbraio 1994, n. 1419; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1385. Nel senso che perché il giudice possa e debba esaminare documenti versati in atti lo stesso deve accertare, oltre la ritualità della produzione, cioè verificata che la produzione stessa sia avvenuta nel rispetto delle regole del contraddittorio, anche la esistenza di una domanda, o di una eccezione, espressamente basata su quei documenti, Cass.22 novembre 2000, n. 15103...)”. In un'ottica del genere si deve pensare che la produzione di per sè nulla significa, essendo effettuata da parti cieche e indifese, non in grado tecnicamente di comprendere il contenuto del documento che versano in atti. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio delle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare perché sanabile allorché emerga l'assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, Corriere giur. 2010, 356, in nota, pur consapevole dell'astratta rigidità di tale arresto (che a suo avviso infatti "a prima vista - qualcuno dirà - un po' ‘pignolesco’") e pur rilevando che "il principio espresso rischia di divenire una lama a doppio taglio, se non applicato con la giusta e doverosa moderazione" perché "andrebbe ad eccessivo detrimento delle parti imporre loro di esplicitare sempre gli scopi perseguiti mediante la produzione di documenti" il cui significato istruttorio sia già di per sé evidente, conclude poi in senso adesivo: "il giudice – ove si avvedesse della potenziale incisività sull'esito del giudizio di un documento rispetto al cui impiego manchi qualsivoglia indicazione della parte (ed al di fuori dei casi di manifesta evidenza ricordati) - dovrà rilevare detta potenzialità incisiva e significarla alle parti, stimolandone il contraddittorio. Il quale ultimo verrebbe invero violato tanto da un utilizzo "a sorpresa" del documento ad opera del giudicante, quanto dal suo mancato utilizzo "a sorpresa" (che si avrebbe se solo nella decisione il giudice escludesse la possibilità del suo impiego ai fini decisori per mancata specificazione delle finalità perseguite con la sua produzione)". È difficile negare che impostazioni simili aprano un abisso di formalismo - che sarebbe onere del giudice gestire -, privo allo stato di convincenti supporti normativi (l'art.183 c.p.c. riguarda la trattazione, non le valutazioni istruttorie; nè appare che i principi costituzionali alimentino un'ottica così rigida e astratta). È altrettanto difficile, tuttavia, nella quotidianità giudiziaria, trovare un criterio di distinzione tra le produzioni il cui scopo e significato sono self-explaining - come ammette Consolo che esistano - e quelle così misteriose che devono essere spiegate specificamente (a parte l'ipotesi in cui siano, molto più semplicemente, irrilevanti). Il carico del formalismo del contraddittorio rischierebbe comunque di schiacciare la ragionevole durata processuale; senza contare che, se si deve davvero ritenere che tale farraginosa impostazione concreti una garanzia costituzionale, emergerebbero serie criticità nel suo - pertanto necessario - adattamento a riti semplificati, in primis al rito sommario.

(19)Nettamente minoritaria, prima della riforma del 2009, era la dottrina che escludeva che una

"sorpresa" nella decisione le arrecasse un vizio: si trattava delle posizioni, già citate, di E.F.Ricci e Chiarloni, che in sostanza fondavano l'esclusione sulla difesa tecnica, ovvero sull’autoresponsabilità. Da ultimo controbatte tale impotazione Luiso Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio, judicium.it, proprio a proposito della riforma del 2009, per il quale dire che le questioni rilevate d'ufficio "sono pur sempre conoscibili dalle parti è argomento che prova troppo:

in tale direzione, si potrebbero eliminare le comparse conclusionali e le repliche... oppure eliminare, in cassazione, le memorie e la discussione orale". Il paragone appare fuorviante: un conto è non concedere la possibilità di difendersi, un altro è regolare tale possibilità ponendo un termine finale all'esercizio del diritto di difesa. Nel primo caso vi sarebbe indubbiamente una lesione del contraddittorio; nel secondo - quello qui ricorrente avendo avuto le parti la conoscibilità delle questioni e quindi la possibilità di esercitarvi il loro diritto di difesa fino al definitivo "passaggio della palla" al giudice - la lesione non sussiste (a meno che il termine di esercizio sia così incongruo

(16)

www.judicium.it da svuotare la effettività del diritto); d'altronde a una dialettica bisogna sempre porre un punto di conclusione, altrimenti il processo diventa potenzialmente infinito. Aggiunge poi Luiso - e ciò comunque si approfondirà infra - che il principio di autoresponsabilità rispetto alle questioni rilevabili d'ufficio (per cui tutto ciò che potenzialmente appartiene al processo, tra cui tali questioni,

"non avrebbe necessità di essere sottoposto al contraddittorio"), oltre a contrastare con "principi generalmente accettati", sarebbe "anche di difficile, se non di impossibile attuazione concreta". Se è vero che il giudice, dopo la riforma dell’art.101c.p.c., è indubbiamente obbligato a una condivisione (i limiti del cui oggetto devono peraltro chiarirsi), è altrettanto vero che la difesa tecnica è in grado di svolgere la stessa cognizione del giudice. La differenza fra il giudice e il difensore, infatti, non concerne la capacità di comprensione della regiudicanda, bensì l'obiettivo - per il primo imparziale, per il secondo di parte - cui è diretta la rispettiva attività tecnica.

(20)Ancora l'avviso di Chiarloni, Questioni,cit., passim, per cui il formalismo delle garanzie è la loro astrazione da contesto e scopo.

(21)Buoncristiani, Il nuovo art.101, comma 2°, c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, Riv.dir.proc., 2010, 408s., pone infatti questa domanda retorica: "Il principio jura novit curia implica anche un affidamento fideistico delle parti sulle capacità del giudice di affrontare correttamente e solitariamente l'interpretazione di una norma di diritto (Rechtsauslegung) non considerata dalle parti e l'applicazione ai fatti di tale norma (Rechtsanwendung)? ". La risposta – che già trapela dal biasimo dell’aggettivo "fideistico" - è negativa visto che l'autore conclude nel senso che "lo scopo e la ratio del novellato art.101 c.p.c. è quello di tutelare il diritto di difesa delle parti (e, in particolare, della parte svantaggiata) in caso di "sorpresa"; ciò accade ogni qual volta muta il quadro fattuale o giuridico su cui si è discusso". Non distante è la posizione di Luiso, che già commentando adesivamente la Cassazione apripista del 2001 (in Questioni rilevate d'ufficio e contraddittorio: una sentenza "rivoluzionaria"?, Giust.civ., 2002,1611) giudicava errato "ritenere che la decisione solitaria non produca la lesione del contraddittorio" e da ultimo, in Poteri,op.cit., afferma: "sostenere che non vi è necessità di sottoporre a contraddittorio ciò che appartiene potenzialmente al processo significa implicitamente ma necessariamente sostenere che una questione ha le stesse probabilità di essere ben risolta vuoi quando è previamente sottoposta al contraddittorio delle parti vuoi quando, invece, essa è solitariamente affrontata dal giudice, senza che egli disponga dei contrapposti argomenti che le parti gli hanno fornito"; il che contrasterebbe con la ratio degli artt. 24 e 111 Cost. che qualificando "inviolabile" il diritto di difesa e prescrivendo il contraddittorio per ogni processo "evidentemente partono dall'opposta convinzione, secondo la quale ciò che è stato discusso è deciso meglio di ciò che non è stato discusso". Cfr. pure l'apparente oppositore della terza via E.F. Ricci, op.cit.,752, per cui l'art.183 indica che il contraddittorio "è anche lo strumento, mediante il quale perfino attraverso la composizione dialettica tra tesi diverse si persegue il fine di una decisione fondata sulla più plausibile ricostruzione dei fatti e su una corretta diagnosi in jure; ed in tanto il contraddittorio adempie la sua funzione in quanto le parti esercitino effettivamente la loro facoltà di interloquire. Avendo di mira la giustizia della futura decisione, il contraddittorio come garanzia non basta più: occorre che le parti si avvalgano delle loro facoltà; e proprio per questo la legge prevede che il giudice, prima di rassegnarsi ad affrontare e risolvere da solo la questione rilevabile d'ufficio, faccia il possibile per stimolare il dibattito". Come l’aggettivo

"fideistico" per Buoncristiani, così anche in quest'ultima dottrina la descrizione del giudice che

"prima di rassegnarsi" deve fare tutto quel che può per evitare di risolvere da solo evidenzia la concezione del contraddittorio come strumento del giudice per risolvere le cause. In tal modo si giunge a costituire un legame di interdipendenza tra i soggetti del processo sul piano tecnico: i

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