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Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni - Judicium

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Academic year: 2022

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GIOVANNI VERDE

Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni

1 – L’atto di appello e il suo oggetto.

Dopo l’ultimo intervento (con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 conv. con mod.

dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), l’art. 342 c.p.c. risulta così riformulato: << 1° comma : L’appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte dall’articolo 163. L’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compita dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione di primo grado. – 2° comma: immutato>>

Il legislatore ha tratto spunto dal modello tedesco ed in particolare dal § 520 ZPO. Di conseguenza si potrebbe osservare che non c’è ragione per non sperimentare in Italia una disciplina già praticata e con buoni risultati altrove.

Le cose non stanno proprio così.

Il novellato art. 342 è la traduzione, nel primo comma, dei nn. 1 e 2 del 520, satz (comma) 1°, ZPO. Il § 520 prosegue, però, con i punti nn. 3 e 4, secondo cui l’atto di appello deve contenere anche: a) l’indicazione delle concrete ragioni che fondano il dubbio sulla correttezza e completezza dell’accertamento di fatti della sentenza impugnata per il che si rende necessario un nuovo accertamento; b) l’indicazione dei nuovi strumenti di attacco -e difesa e dei fatti sulla cui base sono ammessi i nuovi mezzi di attacco –e difesa di cui al § 531, comma 2.

Di conseguenza bisogna chiedersi quali siano le ragioni della parziale trasposizione dal testo tedesco a quello italiano. Ho l’impressione che l’intenzione del legislatore italiano sia quella di trasformare l’appello da rimedio contro l’ingiustizia della sentenza in impugnazione intesa a rimediare agli errori del primo giudice.

Infatti, un primo indizio in tal senso sta proprio nel mancato richiamo ai nn. 3 e 4 del § 520, comma 1°, ZPO che va letto in correlazione con il § 529, secondo il quale se è vero che il giudice di appello deve porre a base della decisione i fatti così come accertati dal giudice di primo grado, è anche vero (e non va sottovalutato) che può procedere ad un rinnovato accertamento se emergono elementi concreti che fanno dubitare dell’esattezza del primo accertamento. Ma ciò non sarebbe sufficiente.

Sta di fatto che il nostro art. 342 va letto, per espresso richiamo, in combinazione con l’art. 163. Mettendo le due norme a raffronto, appare chiaro che i requisiti previsti dai nn. 3 e 4 dell’art. 163 sono sostituiti, quanto all’appello, da quelli di cui ai nuovi commi. Sono i requisiti che integrano l’editio actionis anche in appello, la cui violazione, nel giudizio di primo grado, determina nullità, che non può essere sanata retroattivamente ed, in appello, ora conduce all’inammissibilità del cd. gravame.

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La lettura che il legislatore propone, quando richiama in toto l’art. 163, è, insomma, nel senso che il n. 1 dell’art. 342 riguardi il “petitum” nel giudizio d’appello e il n. 2 la “causa petendi”. Se questa lettura, suggerita dal legislatore, fosse condivisa, dovremmo pervenire alla conclusione che, qualora nell’ambito dell’oggetto espressamente fissato (tutta la sentenza o una sua parte individuata), il controllo del giudice di appello deve svolgersi sulle “circostanze da cui deriva la violazione di legge e (sulla) loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”, la eventuale richiesta di “ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”

(di cui al 1° comma) debba essere finalizzata ad evidenziare per l’appunto la violazione di legge. Un’eventuale dilatazione del controllo del giudice d’appello – non già sulla violazione di legge ma sulla ingiustizia della sentenza – sembra che non sia stata nelle intenzioni del legislatore. In questo modo potrebbe spiegarsi la ragione per la quale ha omesso di ritrasferire nel nostro codice l’intero contenuto del § 520 ZPO.

Se così fosse, si sarebbe surrettiziamente eliminato dal nostro sistema un gravame a critica libera per trasformarlo in un’impugnazione a critica vincolata, poiché comunque in appello dovrebbe essere denunziata una violazione di legge. E le conseguenze sarebbero davvero preoccupanti, perché: a) nella ricostruzione del fatto, di cui si chiede la modificazione, dovrebbero essere espunte le valutazioni del primo giudice sulle prove raccolte (quando, ad es., nel contrasto fra deposizioni testimoniali, ha dato la preferenza all’uno piuttosto che all’altro testimone); b) non sarebbe possibile dolersi perché il primo giudice ha dato valore ad un fatto indiziante o a una massima d’esperienza, che la parte soccombente assume priva di valore indiziario o non corretta o non confacente al caso; c) non sarebbe possibile chiedere il controllo sull’uso di presupposti non definiti nell’ipotesi normativa (buona o mala fede, importanza dell’inadempimento, ecc.); d) e neppure sarebbe possibile chiedere un controllo sul corretto uso di poteri discrezionali (es., in tema di liquidazione del danno o di commisurazione di una penale).

In conclusione, sono queste ipotesi in cui, se si applicasse la legge alla lettera, sarebbe da escludere una modifica della ricostruzione del fatto preordinata al controllo di una denunziata violazione di legge con conseguente inammissibilità dell’appello.

E’ probabile che gli stessi giudici – di fronte a un legislatore che sragiona – faranno sforzi per dare della disposizione una lettura ragionevole. Ma questa lettura, se sarà ragionevole, renderà inutile la previsione normativa. Infatti, l’unica conseguenza riguarderebbe le conseguenze della mancanza nell’atto di appello dei requisiti formali necessari. Oggi si confermerebbe, se questa fosse l’interpretazione corretta dell’art. 342, una soluzione già adombrata ieri: l’atto di appello privo di sufficienti indicazioni del petitum e della causa petendi ieri era assolutamente nullo, così che la sanatoria irretroattiva non lo salvava dalla inammissibilità (quale è oggi prevista espressamente), là dove la mancanza degli altri requisiti poteva ieri e può oggi provocare il meccanismo sanante di cui all’art. 164.

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Ma tutto ha un prezzo. Si pensi ai rischi che si corrono fino a quando l’auspicabile aggiustamento interpretativo non avrà a consolidarsi.

2.- Il filtro in appello: la dichiarazione preliminare di inammissibilità.

Anche lo spunto per l’introduzione del filtro in appello è stato tratto dal modello tedesco. Nel 2001 fu modificato il § 522 ZPO. Si previde che il giudice potesse rilevare d’ufficio l’inammissibilità in sé o il mancato rispetto delle forme e dei termini con un’ordinanza (Beschluss) impugnabile tramite reclamo (Rechtsbeschwerde). Il giudice, inoltre, avrebbe potuto immediatamente rigettare l’appello con ordinanza presa all’unanimità se avesse ritenuto: 1) che l’appello non avesse probabilità di successo; 2) che la questione fosse priva di rilievo fondamentale; 3) che non ci fosse ragione per sottoporre a rinnovata valutazione della corte di appello una questione di diritto o un’interpretazione giurisprudenziale (2°comma). Ricorrendo tali ipotesi, il giudice di appello o il Presidente avrebbe dovuto farne relazione per informare subito le parti, illustrando le ragioni dell’eventuale rigetto e dando all’appellante un termine per contro dedurre. (2° co., ult. parte). L’ordinanza di manifesta infondatezza non era impugnabile (3° co.)

Il legislatore italiano sembra fermo all’originaria formulazione del § 522 e non tiene conto del fatto che questa disposizione ha sollevato discussioni e polemiche, tanto che nel 2011 la disposizione è stata ulteriormente corretta con la previsione della impugnabilità dell’ordinanza di rigetto per (la sola) mancanza di prospettiva di accoglimento con lo stesso mezzo di impugnazione previsto per le sentenze.

Quali sono le analogie o le differenze tra il § 522, nella versione del 2001, e l’art. 348 bis inserito nel c.p.c.? La maggiore differenza sta nel fatto che la ZPO parlava di provvedimento di rigetto non impugnabile, là dove il nostro codice ritiene che si tratti di ordinanza di inammissibilità. La ragione della differenza sta – se bene intendo – in ciò che nel nostro sistema non sarebbe stato possibile inserire un provvedimento (preliminare) di rigetto dell’impugnazione che non sia impugnabile, ostandovi il disposto dell’art. 111, co. 7° Cost.

Di conseguenza, insistendo sulla scelta della non impugnabilità del provvedimento, il nostro legislatore ha inteso – con qualche astuzia – aggirare l’ostacolo, mascherando come provvedimento di contenuto endoprocessuale (inammissibilità) un provvedimento che è sostanzialmente di merito. Se bene ho individuato la ratio legis, è da ritenere, infatti, che il legislatore abbia pensato ad un provvedimento non impugnabile, in quanto, emessa l’ordinanza di inammissibilità, l’art. 348 ter prevede, come ammissibile, il solo ricorso per cassazione avverso la sentenza del primo giudice. Poiché le astuzie non hanno, alla lunga possibilità di successo, subito ci si è chiesto che cosa succede se l’ordinanza di inammissibilità per ragioni di merito sia emanata fuori dalle ipotesi previste dalla legge (es., in controversie dove è necessaria la presenza del p.m. o in controversie decise in forma abbreviata ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c.) oppure in assenza dei requisiti previsti

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dalla legge (contestandosi la mancanza di prospettiva che l’appello sia accolto) o con vizi di rito (per non essere state sentite le parti). Orbene, salva l’ipotesi dell’erronea valutazione in ordine alla sussistenza dei requisiti (che dovrebbe essere assorbita dal ricorso per cassazione contro la sentenza del primo giudice), sembra strano che negli altri casi non ci sia rimedio.

3 – La natura e il regime dell’ordinanza di inammissibilità.

.Come avviene quando si vogliono raddrizzare le gambe storte dei cani, si può sostenere (ed è stato sostenuto) che l’ordinanza di inammissibilità è un provvedimento decisorio da ricondurre tra quelli per i quali è possibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 7° Cost. Per fare simile operazione “ortopedica”, con cui la S.C. spesso si industria per “sterilizzare gli effetti dirompenti” del furore normativo dell’attuale legislatore processuale, è necessario dire: a) che l’ordinanza di inammissibilità incide sul diritto all’impugnazione (e quindi è decisoria); b) che è possibile convogliare dinanzi alla S.C. il ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità e quello avverso la sentenza di primo grado, in quanto il primo ricorso pone una questione pregiudiziale rispetto al secondo.

Si tratta di deduzioni controvertibili. Il legislatore, nella sostanza, ritiene di confermare l’appello come rimedio avverso le sentenze di primo grado, ma, non essendo l’appello coperto dalla garanzia costituzionale, di poterne limitare in concreto l’esercizio sottoponendolo ad una valutazione preventiva (soggetta al regime dei provvedimenti) di inammissibilità. L’interprete, quindi, non può cambiare il regime, rilevando che la valutazione è di merito e non di ammissibilità; può soltanto segnalare che tale scelta è inopportuna e chiedersi se sia costituzionalmente legittima.

Di più. Quando la S.C. ha affermato che è possibile portare contemporaneamente al suo esame due decisioni emesse in gradi diversi, di cui l’una sia pregiudiziale all’altra, aveva presenti i casi in cui la pronuncia pregiudicante riguardava alcuni elementi della fattispecie dedotta in giudizio, di talché la decisione sulla pronuncia pregiudicata si legava necessariamente a quella sull’altra pronuncia. Qui la situazione è diversa perché la pronuncia di inammissibilità ha esattamente la stessa res iudicanda, di talché il pregiudizio sta tra due valutazioni che riguardano entrambe la fondatezza della pretesa il cui diniego del primo giudice è stato confermato dal secondo per manifesta evidenza dell’infondatezza dell’appello (insomma, non si tratta di giudizio pregiudicante diverso da quello pregiudicato, ma proprio del medesimo giudizio espresso da due giudici diversi e di cui il secondo è sovraordinato).

Se mettessimo da parte questi rilievi e arrivassimo a convincerci della bontà dell’operazione ortopedica, avremmo risolto anche un’altra questione, in quanto, essendo la pronuncia di inammissibilità di cui all’art. 348 bis una pronuncia (mascherata) per ragioni di merito, in tanto la stessa sarebbe possibile in quanto si siano superate le preliminari valutazioni di inammissibilità.

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4 – Segue: la mia opinione.

Si leggeva e si legge nel 2° comma del § 522 che l’ordinanza di inammissibilità va motivata, salvo che i motivi siano già contenuti nella relazione di preavviso del rigetto immediato (di cui al comma 2°, ult. parte).

Sembra che ciò indicasse una preferenza del legislatore tedesco per l’ordinanza (immediata) di rigetto per ragioni di merito, che, prima della riforma, trovava, a mio avviso, ragione nel fatto che in tal modo si chiudeva definitivamente il processo.

Dopo la riforma, la salvezza è rimasta e non è facile darne giustificazione. Si può ritenere che, in questo caso, la preferenza va data all’ordinanza di inammissibilità che non va motivata, ovvero che se l’appello è infondato, comunque è da dare preferenza a quest’ultima pronuncia. Lascio ai giuristi tedeschi la corretta interpretazione.

Il nostro legislatore, mosso dall’esclusiva preoccupazione di ridurre il contenzioso in appello, è stato attratto da questa impostazione. Non è un caso che nell’art. 348 bis si legga che l’ordinanza di inammissibilità può essere pronunciata

“fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello”, e che al successivo art. 348 ter si precisi che tale ordinanza è pronunciata “all’udienza di cui all’art. 350…, prima di procedere alla trattazione”.

Il legislatore tedesco, però, non aveva i limiti che a noi pone l’art. 111, co. 7°

Cost., anche se, pur non avendoli, è, come si è visto, ritornato sui suoi passi.

Il nostro legislatore, al contrario, aveva le mani legate, in quanto: a) ferma la possibilità dell’appello, una decisione di manifesta infondatezza, anche se fondata su di una valutazione di tipo preliminare, è inevitabilmente una decisione di rigetto, impugnabile ex se dinanzi alla Corte di cassazione con obbligo di rinvio al secondo giudice per l’esame del merito dell’appello qualora il ricorso sia fondato (di qui l’esigenza di camuffarla come decisione di inammissibilità); b) prevedere un subprocedimento ad hoc, con possibilità di decisione immediata ed in forma semplificata, avrebbe forse comportato la necessità di intervenire su troppe disposizioni e di pregiudicare ulteriormente la congruenza del sistema. Ciò va detto senza considerare la nostra propensione a modellare – secondo il rito che porta alla decisione con sentenza – qualsiasi provvedimento processuale impediente (esemplare è la vicenda giurisprudenziale relativa alla ordinanza di incompetenza). Di conseguenza, l’unica valutazione preliminare, che ostacola l’ordinanza di inammissibilità per ragioni di merito, finisce con l’essere quella creata da un’aggiunta dell’ultima ora. Infatti, secondo l’ultima versione dell’art. 348 ter, il giudice può provvedere soltanto dopo avere sentito le parti. Di conseguenza, dovrà verificare se il contraddittorio è correttamente stabilito e se è integro. In mancanza, dovrà assegnare il termine di cui all’art. 350, co. 2 c.p.c. per rimediare al difetto e soltanto dopo potrà dichiarare l’inammissibilità.

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5.- Le conseguenze applicative.

Se tali sono le intenzioni del legislatore, non vorrei cedere alla tentazione di operazioni ermeneutiche correttive. Temo, infatti, i guasti della giurisprudenza creativa soprattutto in materia processuale, anche perché abituano i nostri giudici a ragionare secondo un modello, che non è quello del giudice inserito a vita, in base a una nomina per concorso, in un’organizzazione tutto sommato di tipo burocratico.

Sono, infatti, tra quei giuristi di retroguardia che ritengono che la Costituzione abbia affidato ai giudici il compito – spesso assai arduo – di custodire la legge e non quello di farsi promotore di valori emergenti. Di conseguenza, se fossi convinto che la riforma fa pagare agli utenti del servizio giustizia un alto prezzo, senza produrre maggiori benefici, avrei l’obbligo di indicare altre strade per sanare la ferita che la riforma ha arrecato ad un soddisfacente sistema di difesa.

In effetti, sono convinto che i prezzi sono di gran lunga maggiori dei benefici.

Ragioniamo sulla base dell’esperienza concreta. Che cosa impedirebbe all’attuale giudice di appello già alla prima udienza di invitare la parte a precisare le conclusioni, essendo la controversia di pronta decisione? Non c’è alcuna disposizione che l’esclude. Eppure ciò non avviene. Persino quando la parte ha chiesto di disporre mezzi istruttori ammissibili (ad es., la rinnovazione di una consulenza tecnica, che si assume errata, o il conferimento dell’incarico al consulente, che si assume essere stato malamente negato dal primo giudice; oppure un’ispezione dei luoghi, che il primo giudice non ha voluto effettuare per l’innata pigrizia dei giudicanti), avviene che la causa sia rinviata di anni (due, tre, quattro e più) perché soltanto in quel futuro lontano la richiesta sarà esaminata. E ciò anche se, per ovviare a tale deprecabile inconveniente, l’art. 1, co. 1, lett. 6 l. 12 novembre 2011, n. 187 ha modificato l’art.

350 c.p.c. dando al presidente del collegio il potere di delegare uno dei componenti del collegio per l’assunzione della prova.

A ciò si aggiunga che non mi risulta che i giudici d’appello si avvalgano sovente della facoltà di fare ricorso al modello di decisione di cui all’art. 281 sexies.

E al riguardo neppure possono più accampare a scusante la mancanza di espressa previsione normativa, giacché l’art. 351, novellato dall’art. 27 co.1, lett. e) della l. n.

183/2011, espressamente richiama la disposizione.

Quanto ricordato avviene per una semplice ragione. I giudici di appello non hanno tempo di leggere i fascicoli. Spesso neppure ne hanno la possibilità, perché quelli di ufficio risultano non pervenuti. Allora, è illusorio che – inserendo qualche riga nel codice – si costringa il giudice a leggere e prevalutare gli atti di parte ed i fascicoli già alla prima udienza, effettuando una valutazione che non sia superficiale o dozzinale, perché è pur sempre una valutazione di merito.

Qui si annida un pericolo davvero micidiale. Può avvenire – e non vorrei che la mia immaginazione colga la realtà delle cose – che, dovendosi dare conto della bontà delle riforme (pomposamente inserite in un pacchetto di disposizioni pensate per salvare l’Italia ed al quale ciascun Ministro ha dovuto dare il suo contributo), ci siano

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pressioni presso i capi degli uffici giudiziari perché la riforma dia comunque risultati.

Se ciò avvenisse, temo molto che si passi alla creazione di sezioni stralcio per una previa delibazione dell’inammissibilità degli appelli per ragioni di merito e, comunque, che si insista perché i capi degli uffici sollecitino i magistrati ad applicare puntigliosamente le riforme (chiedendo il conto se le statistiche giudiziarie non fossero soddisfacenti). Del filtro preliminare in cassazione ho la personale convinzione che si tratti di una vera e propria “iattura” e spesso, quando mi capita di leggere le relazioni preliminari redatte ai sensi dell’art. 380 bis (quasi sempre pedissequamente condivise dal collegio), sono negativamente colpito della loro superficialità, quale riesce da una lettura incompleta e disattenta degli atti (sempre che il relatore abbia, di per sé, una sufficiente professionalità: il che non sempre accade). A maggior ragione temo che sistemi simili possano essere introdotti dinanzi alla Corte di appello, con il rischio di incentivare pratiche maltusiane di decimazione.

Si è anche osservato che, in questo modo, e per gettare l’acqua sporca dei ricorsi “cattivi”, si possono pregiudicare i ricorsi buoni, la cui definizione subirebbe ulteriori ritardi. Se così fosse ci sarebbe almeno da sperare che i giudici di appello, di fronte a richieste di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza, non continuino ad adagiarsi su formule stereotipe (come spesso oggi avviene).

E’, però, una speranza che formulo con qualche timore. Come ho detto, è probabile che la riforma abbia scarsa applicazione pratica, perché i giudici di appello non hanno la possibilità di leggere e approfondire i fascicoli in via preliminare. La richiesta di sospensione potrebbe essere, però, l’occasione per fare questa lettura e potrebbe essere la spinta a pronunciare l’inammissibilità per manifesta infondatezza.

Se ciò avvenisse dopo una lettura approfondita degli atti, quale si impone quando si deve dichiarare inammissibile l’impugnazione (e non semplicemente provvedere sulla sospensione), la riforma potrebbe anche trovare spazio per un’utile applicazione. Qualcosa del genere avviene, del resto, nel processo amministrativo, anche se questo giudice decide in forma abbreviata e con sentenza (come, si è detto, avrebbe potuto già fare il giudice civile e prima della riforma). Se, invece, l’applicazione fosse collegata ad una lettura superficiale e poco approfondita dei fascicoli, l’avvocato avrebbe molto da temere e, prima di presentare istanza di sospensione, dovrebbe pensarci due volte. Va da sé che, superato lo scoglio dell’inammissibilità, il giudice di appello dovrebbe modificare i suoi criteri di valutazione sulle istanze di sospensione e prendere in considerazione più il fumus che il danno.

6.- Il ricorso per cassazione dopo l’ordinanza di inammissibilità.

Ho paura di essere ripetitivo, ma talora è necessario insistere.

Sempre perseguendo l’obiettivo di una radicale decimazione degli appelli, il legislatore ha chiuso il cerchio, disponendo che, qualora sia proposto ricorso per cassazione (a motivi limitati) contro la sentenza di primo grado e dopo che l’appello

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sia stato dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter, se la Corte di cassazione dovesse accoglierlo, dovrebbe rinviare la causa al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello. In tale ipotesi, si applicano le disposizioni sul giudizio di rinvio. La disposizione fa salvo il diverso caso in cui il ricorso debba essere accolto per i motivi di cui all’art. 382 c.p.c. (ossia per motivi di giurisdizione o di competenza).

Se la Corte dovesse esaminare la correttezza dell’ordinanza di inammissibilità prima ancora di esaminare la correttezza della sentenza di primo grado, la disposizione avrebbe dovuto avere un diverso contenuto. Si sarebbe dovuto disporre il rinvio secco al giudice di appello nel caso in cui tale ordinanza fosse stata emessa illegittimamente, previo il suo annullamento, e si sarebbe dovuto esaminare il merito della controversia soltanto se il controllo sulla legittimità dell’ordinanza fosse stato positivo. In questa ipotesi, però, i poteri della Corte non avrebbero dovuto essere diversi da quelli che la stessa esercita in caso di normale ricorso; ossia quelli previsti dagli artt. 383 e 384 c.p.c. Poiché tutto ciò non si legge nell’ultimo comma del novellato art. 383 c.p.c., un giurista rispettoso del senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore”

(art. 12 preleggi) trova conferma della conclusione che ciò sia stato escluso dal legislatore. Ma se la conclusione dovesse apparire irragionevole, si aprirebbe la strada alle interpretazioni correttive o creative per le quali ho già manifestato la mia contrarietà.

7.- I possibili rimedi alla attuale situazione.

Tiriamo qualche conclusione.

La riforma non solo è inutile, ma rischia di sortire effetti diversi e contrari rispetto a quelli che si intende perseguire.

Occorre pensare ai rimedi. Il rimedio più semplice sarebbe quello di un intervento del legislatore che, dando atto della esistenza nel precedente sistema della possibilità di decisioni di merito immediate e di applicazione del modello decisorio di cui all’art. 281 sexies c.p.c., abrogasse le nuove norme con sollecitudine e prima che provochino danni.

Ciò non è tra le cose di cui possiamo sperare. Il Parlamento di questi tempi è troppo impegnato in altri affari e di sicuro il Governo non sarebbe disposto a ritornare sui suoi passi.

Resta, allora, da pensare a un ricorso alla Corte costituzionale. I motivi per ricorrervi sono molti. In primo luogo è da contestare che riforme processuali di tipo sistematico possano essere assunte con decreto emesso in via d’urgenza; ciò tanto più se, per la sua conversione in legge, il Governo abbia a chiedere la fiducia. L’urgenza in materia processuale può trovare giustificazione soltanto in eventi imprevisti ed imprevedibili, che impongano discipline transitorie di deroga a quelle ordinaria (si pensi agli interventi anche in materie processuali resi necessari dalle esigenze del post-terremoto).

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Di conseguenza, si potrebbe rinviare alla Consulta denunciando, in primo luogo, l’assoluta mancanza dei presupposti per la decretazione in via d’urgenza (e ciò anche per quanto riguarda le disposizioni sul giudizio di cassazione, di cui si dirà in seguito). Mi si obietterà che questo non è un rimedio, perché le disposizioni potrebbero essere reiterate con legge approvata nelle vie ordinarie. Riterrei che non sia il nostro caso. Se non fosse stata posta la fiducia sull’intero pacchetto, queste disposizioni sarebbero state riformulate sulla base di proposte ben più ragionevoli che si erano avanzate con vari emendamenti poi assorbiti dalla chiesta fiducia.

In secondo luogo, la formulazione dell’art. 348 bis è troppo generica, così da conferire al giudice un potere decisorio discrezionale dai contorni indefiniti. Nessuno, infatti, potrà contestare che tale è “la non ragionevole probabilità” che l’appello sia accolto, che è l’unica ragione a fondamento dell’ordinanza di inammissibilità. In questo modo il legislatore dà al giudice il potere di dettare le regole del processo, così aggirando la riserva di legge a cui l’art. 111 Cost. assoggetta la materia processuale.

In terzo luogo, il ricorso al modello della “ordinanza di inammissibilità” è, come si spera di aver dimostrato, strumentale rispetto all’obiettivo di evitare che il provvedimento, sostanzialmente decisorio, sia comunque impugnabile per cassazione ex art. 111, co. 7° Cost. E se ciò fosse consentito, ritenendosi che la garanzia dell’appello non è stata recepita dalla nostra Carta fondamentale, la Consulta avrebbe pur sempre da controllare se, comunque, l’appello faccia oramai parte delle garanzie naturalmente insite nel nostro sistema di giustizia (così come dalla stessa affermato in molte occasioni) e se la scelta operata dal legislatore, che discrimina appello da appello, sia sorretta da sufficiente ragionevolezza, anche in considerazione che ciò manca nella disciplina degli appelli dinanzi a giudici di diverso ordine.

Il ricorso diretto alla Consulta non è, tuttavia, tra i poteri delle parti. Spetta al giudice di rimettere la questione alla Corte. Peraltro, poiché il giudice a quo deve valutarne non solo la serietà, ma anche la rilevanza, è da escludere che il giudice di appello possa ritenerla rilevante. Nell’attesa che lo faccia la Corte di cassazione, non resta che auspicare che le applicazioni della norma siano del tutto eccezionali.

8 – La nuova disciplina delle prove in appello.

Sembra un secolo, ma ancora venti anni fa il nostro Paese viveva una stagione in cui regnava un garantismo sicuramente eccessivo. I tribunali decidevano in formazione collegiale. L’appello, salva la impossibilità di introdurre domande nuove, era costruito come un novum iudicium, potendo le parti formulare nuove eccezioni e introdurre e proporre nuove prove. Il ricorso per cassazione per vizi della motivazione era ampiamente ammesso e la stessa Corte di cassazione aveva inteso in senso assai ampio il concetto di sentenza, come provvedimento a contenuto decisorio, avverso il quale il rimedio proponibile era di norma l’appello e non il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

Tutto ciò è, a poco a poco, venuto meno. Si era lasciato uno spiraglio, nell’opera di decimazione delle garanzie e quanto all’appello, essendo fino a ieri

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possibile che il giudice di appello ammettesse le prove “indispensabili”, oltre a quelle che la parte non avesse potuto proporre o produrre in primo grado. La formula era tutt’altro che felice ed era stata occasione perché fiumi d’inchiostro fossero spesi per individuare criteri applicativi attendibili. Non mi interessa stabilire quale fosse l’esatto significato delle parole utilizzate dal legislatore. Una cosa mi sembrava indiscutibile: il giudice di appello avrebbe potuto ammettere nuove prove, specialmente quelle documentali, tutte le volte in cui si fosse convinto della necessità di tali mezzi istruttori per evitare ingiustizie palesi.

D’ora in avanti anche questa valvola di sicurezza del sistema è venuta meno.

Infatti, il legislatore del 2012 ha soppresso la possibilità che il giudice negli ordinari processi di appello ammetta le prove indispensabili. Questa possibilità è rimasta ferma soltanto nel processo del lavoro. Anche negli appelli successivi ad un primo grado che si svolga secondo il rito sommario ex artt. 702 bis e ss. le nuove prove sono ammesse soltanto se indispensabili (o se la parte dimostri di non averle potuto produrre o proporre per causa a lei non imputabile; il che risponde ad un principio di economia processuale, per il quale non si propone ricorso per revocazione se è possibile l’appello).

E’ una scelta che sempre più trasforma l’appello da rimedio contro l’ingiustizia della decisione appellata in mero controllo sul giudice di primo grado e per rimediare ai suoi errori. In parole più chiare, sembra che l’appello sia stato mantenuto non perché il legislatore si preoccupi che le sentenza sia ingiusta, ma soltanto per evitare che il primo giudice possa sentirsi e comportarsi da legibus solutus.

Servirà a qualcosa? Dopo l’energica cura dimagrante cui in questi ultimi anni è stato sottoposto il garantismo processuale, ci saremmo aspettati rilevanti risultati quanto alla durata dei procedimenti e alla diminuzione dell’arretrato. Non sembra che ciò sia avvenuto. L’impressione, anzi, è quella di una sempre maggiore sciatteria nel trattare le liti e nel risolverle. Di sicuro serpeggia negli utenti una diffusa sfiducia per un servizio sempre più costoso e sempre più privo di qualità.

Ma il legislatore, quanto a sciatteria e qualità del prodotto, non ha niente da invidiare ad altri. Si consideri che questo mitico persomaggio (rubo l’espressione a Virgilio Andrioli) ha molto puntato, per risolvere i problemi della giustizia civile, sul rito abbreviato, che ha reso oggi obbligatorio per non poche controversie. Là dove gli utenti hanno possibilità di scelta, non sembra che al procedimento sommario abbia arriso successo. Ne avrà ancora meno dopo la riforma del 2012. Infatti, prima era garantito un appello nel quale si potevano esercitare tutte le facoltà processuali e, in questo modo, il primo grado a rito sommario finiva con l’atteggiarsi come un procedimento teso alla risoluzione della lite fondata su di un provvedimento che fungeva da proposta che le parti avrebbero potuto accettare e non (in sostanza una variante complicata delle procedure abbreviate in materia locatizia). Oggi non è più così, perché non è più garantita un’istruttoria piena in appello. Le parti consapevoli di ciò si guarderanno bene, più che nel passato, dal fare ricorso al procedimento sommario. In molti casi saranno costretti a ricorrervi per imposizione della legge. E

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per questi casi è da chiedersi si sia assicurata tutela piena alla parte, che, nel primo grado (o comunque nella prima fase), deve sottostare alle decisioni del tutto discrezionali del giudice in ordine all’istruttoria (“procede –si legge nell’art. 702 ter, 5° comma- nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione”) e, in appello, è soggetta ad un potere egualmente insindacabile del giudice, che deve valutare l’indispensabilità delle nuove prove prodotte o richieste.

Se questa riduzione delle possibilità difensive è liberamente accettata dalle parti, possiamo anche concludere che la soluzione legislativa non è in contrasto con il diritto di difesa, rientrando comunque la scelta nel potere dispositivo delle stesse. Se, al contrario la scelta è imposta dal legislatore, non ci vuole molto per intravedere che il meccanismo processuale non è in linea con i principi della Costituzione.

9 – Le modifiche al ricorso per cassazione.

Qualche parola sul ricorso per cassazione. Chiunque abbia esperienza di ciò che sta avvenendo si rende conto che così come è il sistema non può reggere.

L’equivoco di fondo sta nell’idea che si possa dissociare la funzione cd.

nomofilattica della S.C. da quella del rendere giustizia. E’ un’operazione impossibile, così come è impossibile (ce lo diceva già Calogero) separare in una controversia il fatto dal diritto, quest’ultimo fungendo da elemento di qualificazione del primo, che è sussunto nell’ipotesi definita dal legislatore. L’unica maniera per astrarre l’uno dall’altro è quella di “decidere senza giudicare”; il che si può fare artificiosamente affidando al giudice il compito di risolvere esclusivamente la quaestio iuris, come avviene nel caso del ricorso nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.).

Nella pretesa di operare tale separazione si finisce col non esercitare correttamente la funzione nomofilattica e col non rendere, il più delle volte, giustizia, essendo la Corte oppressa da un numero infinito di ricorsi, che richiedono l’attività, di per sé non omogenea quando le teste pensanti sono molte, di molti giudici e soprattutto un lavoro rutinario defatigante. Il solo fatto che il controllo cd.

nomofilattico sia (e debba essere), da noi, affidato ad alcune centinaia di giudici costituisce una contraddizione in termini.

Che cosa succede altrove? In genere negli altri ordinamenti non c’è una garanzia indefettibile del ricorso ad una Corte superiore. Di conseguenza, è possibile immaginare sistemi atti a selezionare i casi controversi, la cui soluzione ha rilievo anche per molti altri casi simili. Ma, superata questa selezione, la decisione dei giudici costituisce la soluzione di giustizia del caso singolo.

Da noi ciò non è possibile, perché nel nostro sentire collettivo i giudici di merito, e in particolare le Corti di appello non meritano particolare fiducia, e perché si è propensi a vedere nella Corte di cassazione una sorta di rimedio estremo. E’

probabile che i Costituenti, che del sentire collettivo erano partecipi, abbiano dato risposta a questo sentimento, immaginando il ricorso per cassazione innanzitutto come rimedio (l’ultimo) di giustizia, attraverso il quale la Corte finisce con esercitare

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anche la funzione di garante dell’ordinamento. Di sicuro erano ben lontani dall’idea che la Corte di cassazione fosse istituita soltanto per risolvere quaestiones iuris

Di conseguenza, qualsiasi sistema che prevedesse una sorta di prevalutazione dell’ammissibilità dei ricorsi in ragione della rilevanza ultraindivididuale della questione controversa sarebbe da noi guardato con sospetto, siccome quello che lasci al potere discrezionale di qualcuno (sia esso il giudice a quo o un organo precostituito presso il giudice ad quem) di dare il lasciapassare ad un irrinunciabile rimedio di giustizia.

Così stando le cose, non ho remore ad affermare che tutte le riforme del rito dinanzi alla Corte di cassazione nascono sbagliate. Sarebbe, infatti, necessaria una riforma di sistema, che dovrebbe passare per tappe obbligate: a) garantire sempre un appello pieno dinanzi a giudici qualificati per professionalità ed esperienza, abbandonando l’idea che un magistrato, una volta vinto il concorso, sia fungibile con qualsiasi altro magistrato; b) configurare il ricorso per cassazione come rimedio utilizzabile soltanto quando la questione presenti elementi di novità che rendano utile l’indicazione interpretativa del giudice superiore o elementi che pongano in discussione giurisprudenze consolidate o che servano a comporre contrasti giurisprudenziali; e ciò sempre che il caso controverso implichi una soluzione generalizzabile.

Una soluzione del genere, che presuppone una qualche gerarchia nella magistratura, allo stato non appare praticabile. La soluzione più semplice, anche se non del tutto coerente sul piano della logica, sarebbe quella, inutilmente da me proposta anni addietro, di modificare l’art. 111 Cost., stabilendo che, per le controversie cd. bagatellari, non è possibile il ricorso per cassazione, ma il solo appello, salva l’ipotesi in cui tali controversie implichino una rilevante questione di principio (che dovrebbe essere valutata dalla sezione “filtro”).

Per questa riforma, che sicuramente è tra quelle meno invasive, si perse l’occasione quando si riscrisse l’art. 111 Cost., anche per l’opposizione dell’Avvocatura (che, diciamocelo con franchezza, volendo tutto e il contrario di tutto, finisce con l’avere sempre meno). Non mi sembra che i tempi attuali consentano soverchie speranze.

Dobbiamo, allora, subire questa ennesima riforma, che alla selezione preventiva per manifesta infondatezza o per inammissibilità di tipo formale (per tutte si pensi al cd. principio dell’autosufficienza), che sta dando vita ad una intollerabile giustizia “octroyée”, aggiunge la sostanziale soppressione del ricorso per difetto di motivazione, resuscitando la formula usata nel n. 5 dell’art. 360 dal codice del ’40.

Quella formula cadde non solo per l’opposizione dell’Avvocatura, che in quei tempi ancora contava qualcosa, ma anche perché all’atto pratico si rivelò foriera di complicazioni. Infatti, posto che in concreto assai difficilmente si verifica che la sentenza non tenga conto di un fatto decisivo di cui si è discusso tra le parti, gli operatori di quel tempo si chiesero quale fosse il tipo di controllo riservato al giudice della Corte di cassazione e tutto si giocava non già sull’omesso esame del fatto, ma

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sulla sufficienza e sulla correttezza di tale esame con un rincorrersi di decisioni che, come fu osservato dalla dottrina, non assicurava uniformità di trattamento. La modificazione successiva nacque, perciò, non per l’esigenza di introdurre o di reintrodurre il controllo sulla motivazione, ma per precisare i limiti di questo controllo.

Che cosa succederà ora? E’ da temere, essendo la modificazione nata da una richiesta dei giudici della cassazione, che, quanto meno nei primi tempi, la Corte di cassazione si attesti su di una posizione assai rigorosa, così che oggi è sconsigliabile, più di quanto non lo sia già, un ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5.

10 – L’introduzione della cd. “doppia conforme”.

Abbiamo, qui, parlato di un mero pericolo che potrebbe anche essere evitato da un’applicazione ragionevole della norma. Vi è, però, un caso in cui è la stessa legge ad escludere il controllo della Corte sulla motivazione.

Il ricorso ai sensi del n. 5 dell’art. 360 non è ammesso (dal novellato art. 348 ter) non solo quando il giudice di appello ha dichiarato, con ordinanza, inammissibile l’impugnazione per le “stesse questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”, ma anche quando la sentenza di appello “conferma la decisione di primo grado”.

Si introduce il principio della cd. “doppia conforme”, che esclude ogni controllo da parte della Corte di cassazione sulla (corretta) ricostruzione del fatto.

Se, come ho osservato, il legislatore del 2012 ha costruito il giudizio di appello come mezzo di controllo dell’operato del giudice, per evitare decisioni arbitrarie, piuttosto che come rimedio per evitare ingiustizie, avviene che, in questo modo, il giudizio di cassazione neppure è più idoneo a consentire un controllo da parte di un giudice superiore sull’operato del giudice di appello. Di conseguenza, se quest’ultimo per sciatteria, per inconsapevole errore o per altra (eventualmente anche non commendevole) ragione si è adagiato sulla ricostruzione storica della vicenda operata dal primo giudice e neppure ne ha controllato la sufficienza e correttezza del discorso ricostruttivo o, peggio ancora, se ha confermato la prima decisione con una motivazione “quale che sia”, non solo non sarà possibile per l’utente di richiedere alla Corte di cassazione di porre riparo all’ingiustizia, ma la stessa Corte di cassazione non avrà il potere di controllare l’operato del giudice sottoordinato.

Che io ricordi, vi erano, e forse vi sono ancora, posizioni della magistratura associata o di una parte di essa che nelle impugnazioni vedevano più lo strumento per evitare decisioni arbitrarie che il rimedio contro le decisioni ingiuste, ritenendo insopportabile l’idea che il giudice di appello possa essere considerato “migliore” del giudice di primo grado. Con l’ultima riforma, che prende vita in un tempo in cui si è aperta la stagione di caccia alle garanzie, si abbandona anche questa ultima, minimale, funzione del giudizio di impugnazione di baluardo contro l’immotivato arbitrio giudiziale, con un vulnus all’effettivo esercizio del diritto di difesa del cittadino che è davvero eccessivo.

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E’ singolare che queste innovazioni siano accolte oggi, dopo che l’art. 111 Cost. ha posto la motivazione come elemento indefettibile del provvedimento del giudice. Di conseguenza viene da chiedersi se i giudici, che ad ogni piè sospinto parlano di interpretazioni costituzionalmente orientate, ritengano conforme a Costituzione norme che escludono che la Corte di cassazione possa controllare se il provvedimento impugnato sia sorretto da una motivazione, che sia tale, e che non si risolva in un cumulo di segni grafici insignificanti o contraddittori.

Ma, di questi tempi, si tratta di domande che non possono aspirare ad ottenere risposta e neppure considerazione.

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