Inattualità di Pasolini
MATERIALI
Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini [Piera Rizzolatti]
Pier Paolo Pasolini Dialogo tra un maniscalco e la sera [1942]
Pier Paolo Pasolini Dialogo tra una vecchia e l’alba [1945]
Preludi drammaturgici [Angela Felice]
Davide Zoletto Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento
Raoul Kirchmayr Pasolini, gli stili della passione Michel Foucault I mattini grigi della tolleranza
[1977]
Pier Aldo Rovatti Che cos’è uno scritto corsaro?
Damiano Cantone Pasolini e i segni
Massimiliano Roveretto L’ingombrante fantasma.
Le ragioni di Pasolini
Massimiliano Nicoli L’innocenza del potere. Una riflessione su “Petrolio”
Giacomo Marramao A partire da “Salò”: corpo, potere e tempo nell’opera di Pasolini Dario Giugliano Una storia infame: Pasolini e
l’orizzonte temporale occidentale Alessandro Mariani La vocazione pedagogica
di Pasolini
INTERVENTI
François Jullien L’esteriorità cinese, ovvero come fare lavorare gli scarti culturali per una intelligenza comune
Marco Galati Garritto L’in-scrivibilità della scomparsa (di Georges Perec)
Chiara Pastorini Corpo ed etica nel secondo Wittgenstein: una proposta teorica MATERIALI
Martin Heidegger Rimbaud vivant [1972]
Luigi Azzariti-Fumaroli Nota a “Rimbaud vivant”
di Martin Heidegger
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gennaio marzo 2010
3
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20 28 55 60 69 81 99 116 124 133
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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti
redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, [email protected]), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,
tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto
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collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek
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Finito di stampare nel marzo 2010
Inattualità di Pasolini
Q uesta ampia sezione di “aut aut”, dedi- cata a Pier Paolo Pasolini, nasce in buo- na parte dal lavoro di gruppo in occa- sione di un corso di Estetica tenuto nel 2009 alla Facoltà di Let- tere e Filosofia di Trieste. Oltre a Pier Aldo Rovatti, vi hanno partecipato Damiano Cantone, Massimiliano Roveretto, Raoul Kirchmayr, Davide Zoletto e Massimiliano Nicoli. In quell’oc- casione è stato anche discusso l’articolo del 1977 di Michel Fou- cault, che qui traduciamo. In un secondo momento si sono ag- giunti i contributi di Giacomo Marramao, Dario Giugliano e Alessandro Mariani, nonché le preziose pagine inedite del Paso- lini friulano (che aprono il fascicolo) regalateci da Angela Feli- ce, direttrice del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa.
Ci è sembrato che la parola “inattualità” fosse la migliore chia-
ve di entrata per un’incursione nel mondo di Pasolini da parte di
alcuni, che non sono addetti ai lavori ma pensano che Pasolini ab-
bia un posto importante nella coscienza critica di oggi. Pasolini
(assassinato nell’ormai lontano 1975 quando aveva solo cinquan-
tatre anni) già in vita è stato un inattuale perché si era messo radi-
calmente di traverso nei confronti della cultura del tempo, com-
presa quella di sinistra. Perciò abbiamo rischiato di perderlo nei
decenni che sono seguiti, e proprio per questo stesso motivo, cioè
la sua inattualità che tuttora permane, è essenziale per noi rigua-
dagnarlo, in un momento in cui – come oggi – le coscienze sem-
brano addormentarsi nella trionfante omologazione che lui aveva
lucidamente anticipato nei suoi ultimi scritti.
Materiali
Presentiamo qui alcuni appunti inediti di Pasolini risalenti
al periodo friulano. Angela Felice e Piera Rizzolatti, del
Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia,
hanno reso possibile la pubblicazione mettendoci a
disposizione i foglietti originali, che riproduciamo. Piera
Rizzolatti ci ha inoltre fornito la trascrizione critica e la
cornice filologica. Angela Felice una traduzione dal friulano
all’italiano.
aut aut, 345, 2010, 5-8
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Nota filologica su due inediti di Pier Paolo Pasolini
L’ insistenza sulla formula drammatica del dialogo è presente nella scrittura di Pa- solini lungo tutto il corso dei primi anni quaranta e intreccia friulano e italiano come testimoniano anche le parti dialogate di La Domenia Uliva accolte già in Poesie a Ca- sarsa, del luglio 1942. Campo di prova dei dialoghi italiani in versi o in prosa sarà soprattutto “Il Setaccio”, su cui Pasolini pubblica nel dicembre 1942 e nel febbraio 1943. Appartengono a questo periodo di ricerca formale i nove dialoghi per la rac- colta poetica Le cose, mai pubblicata, e la scrittura delle otto par- ti dialogate, con temi elegiaci cari alla produzione di Pasolini di quegli anni. Queste, composte quasi parallelamente in friulano e in italiano, troveranno posto dopo un’ulteriore rielaborazione nel disegno dell’Usignolo della Chiesa Cattolica.
In una domenica di fine gennaio 1944, Pasolini scrive all’a- mico Luciano Serra una lettera affettuosa in cui ricorda le dolci consuetudini dell’amicizia e delle confidenze interrotte dalla guerra. Pasolini racconta all’amico lontano del trascorrere della vita casarsese, del suo più maturo rapporto con il lavoro lettera- rio, più calmo, più costante, più costruttivo, concretizzatosi nel corso del 1943 nella conclusione di “tre libretti” in friulano. Tra la seconda edizione delle Poesie a Casarsa e un libretto di medi- tazioni religiose (L’Usignolo della Chiesa Cattolica), Pasolini si sofferma a descrivere quasi nei dettagli anche il contenuto di un
“libretto di dialoghi”. Il “libretto” doveva constare di cinque
dialoghi, e Pasolini non manca di indicarne puntualmente i tito- li all’amico: “Dialogo tra le Nuvole e il Friuli; dialogo tra un ca- sarsese e un pellegrino o la conchiglia; dialogo tra una giovinet- ta e un usignolo; tra un fanciullo e un cappellano o la tempesta;
dialogo tra una vecchia e l’alba”.
Uno di questi dialoghi, il Discors tra na fantasuta e un rosi- gnoul, verrà poi inserito nello “Stroligùt di cà da l’aga”, che inau- gura nell’aprile 1944 la serie delle riviste casarsesi, che pubbli- cheranno anche altri dialoghi non compresi nell’elenco (per esem- pio il Discors tra la pleif e un fantàt, comparirà nello “Stroligùt”
dell’agosto 1944), mentre il Discors tra na veça e l’alba apparirà nello “Stroligùt” dell’agosto 1945, pubblicato dopo la fondazio- ne dell’Academiuta e la proclamazione del programma, che rias- sume e conferma le scelte stilistiche e letterarie di Pasolini e de- finisce un confine anche per la resa grafica dell’amato casarsese.
Il Centro Studi Pasolini di Casarsa, tra le carte preziose della donazione Ciceri, conserva una cartella che reca il titolo Dialo- ghi friulani, titolo scritto di pugno da Pasolini. Il materiale con- tenuto è rappresentato dai seguenti manoscritti: “Dialogo tra un cappellano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una vec- chia e l’alba”, “Dialogo sulla virtù”, “Poesie” e “Prose misti- che”, “Dialogo tra un casarsese e un pellegrino o la conchiglia”,
“Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra un ma- niscalco e la sera” e dai dattiloscritti dei testi friulani con la tra- duzione italiana a piè di pagina del “Dialogo sulla virtù”, “Dia- logo tra un maniscalco e la sera”, “Dialogo tra un cappellano un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usi- gnolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”.
Nel fascicolo un foglio (c.1 secondo recto) riporta due indici di mano di Pasolini che si richiamano entrambi al progetto di una raccolta coesa di Dialoghi: il primo dei due indici segnala i titoli dei dialoghi già composti (“Dialogo tra un cappellano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usi- gnolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”, “Dialogo sul- la virtù”), e quelli “da farsi”, come il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”. Il secondo indice propone un altro elenco in cui com-
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pare il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”, il “Dialogo tra un ca- sarsese e un pellegrino o la conchiglia”, “Dialogo tra un cappel- lano e un fanciullo o la tempesta”, “Dialogo tra una giovanetta e un usignolo”, “Dialogo tra una vecchia e la prima luce”: accor- pamenti diversi di dialoghi, non tutti documentati dalle carte conservate a Casarsa presso il Centro Studi Pasolini. Il “Dialogo tra le nuvole e il Friuli”, per esempio, compare tra i materiali dello Scartafaccio gennaio-maggio 1944 insieme ad altri dialoghi, depositati invece presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsan- ti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze. Le due raccolte di Dialoghi sono state argomento della tesi di laurea dal titolo Pier Paolo Pasolini. “Cuore e stile”, discussa da Maura Giusi Locan- tore presso l’Università di Cosenza nell’anno accademico 2002- 2003 e tutt’oggi inedita.
La cartella è composta da dodici carte che mostrano l’utiliz- zo di diversi supporti cartacei: fogli formato protocollo a qua- dretti, fogli a quadretti di tipo commerciale, fogli bianchi strap- pati da quaderni, sui quali si legge la calligrafia minuta della ma- no veloce di Pasolini oppure si distendono i dattiloscritti, con correzioni a mano e traduzione del testo friulano a piè di pagi- na. I manoscritti ci propongono il tormentato farsi dei dialoghi nei versi oggetto di scrittura e riscrittura, che troveranno poi ve- ste più strutturata nella redazione dattiloscritta. Le diverse fasi di avvicinamento al testo definitivo, la conquista della parola poetica che dal vivo della voce va a fissarsi nella rappresentazio- ne scritta, le scelte grafiche sempre più coerenti, in direzione di una fusione di suono e scrittura ben emergono nella lettura dei documenti, alcuni dei quali destinati a restare “autonomi” ri- spetto alla versione finale più articolata e matura, poi oggetto di pubblicazione.
Tra questi inediti si sono scelti due dialoghi particolarmente significativi dell’incessante operazione di ripensamento e di rie- laborazione operata da Pasolini a partire dal tema proposto (la cui trascrizione completa, causa le difficoltà di lettura, non era stata tentata da Maura Giusi Locantore). Le carte scelte per la pubblicazione in questa sede propongono la redazione mano-
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scritta del Dialogo tra una vecchia e l’alba e del Dialogo tra il ma- niscalco e la sera. Il primo, cioè il Dialogo tra una vecchia e l’al- ba, si legge sul verso della c.2 (un foglio protocollo a quadretti, diviso in due colonne) e rappresenta una minuta, con più va- rianti, preparatoria alla redazione del dialogo che, con lo stesso titolo, si ripresenta anche alla c.11 del fascicolo in forma datti- loscritta con traduzione italiana a piè di pagina, con successivi interventi a mano. Quest’ultima redazione, appare sostanzial- mente coerente con il testo pubblicato nello “Stroligùt”, 1, 1945.
Il Dialogo tra il maniscalco e la sera è redatto in forma mano- scritta alla c.7 sul recto e sul verso: si tratta di una pagina stac- cata da un quaderno, compatibile con lo stesso supporto carta- ceo che riappare in alcuni fogli del fascicolo di Poesie a Casarsa (datato 1941) e in cui pure si evincono tracce di strutture dialo- gate. La c.8 che è immediatamente successiva (conta di mezzo foglio, formato protocollo a quadretti) propone un dialogo dal- lo stesso titolo, dattiloscritto, con versione significativamente differente e traduzione italiana a piè di pagina.
È stato edito in L’Usignolo della Chiesa Cattolica il solo testo italiano in una redazione rielaborata rispetto a quella presente nel manoscritto. Il testo friulano è ancora del tutto inedito e lo pubblichiamo qui con commozione. [Piera Rizzolatti]
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aut aut, 345, 2010, 18-19Preludi drammaturgici
G rava sulla drammaturgia pasoliniana il sospetto della letterarietà e quindi il vi- zio d’origine dello sforzo volontaristico.
Ciò spiega perché, rispetto ai tanti canali in cui si è diramato l’impegno pasoliniano, il teatro sia parso alla critica un genere meno efficace e per certi versi minore. Pesano inoltre sul corpus drammaturgico pasoliniano le dichiarazioni provocatorie affi- date al Manifesto per un Nuovo Teatro, con cui nel 1967 Paso- lini esplicitava in nome di un teatro di “parola” la sua opposi- zione radicale al teatro della Chiacchiera e del Gesto e dell’Ur- lo, cioè da un lato alla scena borghese e ufficiale e dall’altro a quella sperimentale e alternativa. È in base a quegli assunti che la sua scrittura teatrale è stata spesso letta e interpretata, così da risultare schiacciata (e sminuita) a esemplificazione e dimostra- zione di presupposti ideologici e di teoria concettuale.
A un’analisi più attenta, invece, il teatro di Pasolini rivela più sorprendenti fertilità drammaturgiche, che trovano nel motivo del
“doppio” e dello “sdoppiamento” una sorta di motore centrale,
capace di per sé di possibilità strettamente sceniche di allestimento
e di permanenti riletture. In quel motivo precipita l’imbuto di os-
sessioni autobiografiche, che la sensibilità pasoliniana riesce però
a decantare in dialettica oggettiva tra parti contrapposte, quindi
in teatralità. Il teatro pare assestarsi perciò al centro, non al mar-
gine, dell’interesse creativo pasoliniano, come codice comunicati-
vo (e pedagogico) da inseguire a fatica nella sua specificità lingui-
stica e come una sfida permanente, con gli attori e con l’inevita- bile polvere della pratica materiale della scena.
Questa centralità trova in qualche modo un paradigma simbo- lico nel fatto che il primo testo con cui il giovane Pasolini appare in pubblico è, nel 1938, il dramma La sua gloria, proposto e pre- miato al concorso studentesco Ludi Juveniles di quell’anno. E an- cora, a riprova di una vocazione teatrale avvertita precocemente come messa in scena della parola, valgono gli esercizi precoci dei tre quadri dialogati in versi su cui l’officina pasoliniana si cimen- ta sul “Setaccio”, la rivista della GIL (Gioventù italiana del litto- rio) di Bologna. In quei casi, nella dialettica tra la scrittura e la sua potenziale oralità, la pagina si fa carico anche di un progetto di va- sto respiro interartistico, a interstizio tra più generi espressivi, e perciò, accanto ai versi, accoglie anche disegni, capaci di prolun- gare l’atmosfera poetico-teatrale dei testi in suggestione figurati- va. Schizzi e accenni di volti e figure compaiono anche nei mano- scritti dei Dialoghi in friulano, con cui Pasolini prosegue a Casar- sa la sua incessante sperimentazione di una sorta di sospesa dram- maturgia originaria, progettata nel nucleo fondante dello scambio verbale a due e, ora, in una lingua sentita incontaminata e inizial- mente “inventata”.
Rispetto al più tardo Discors tra na veça e l’alba (1945), appare qui particolarmente interessante il Dialogo tra un maniscalco e la sera (1942), esercizio di un teatro dell’io che si spazializza sullo scenario di luoghi diversi e, nell’elegiaco colloquio con la Sera dal sapore leopardiano, proietta fuori di sé e oggettivizza in figure al- legoriche la dinamica sofferta della propria vita interiore. Quell’e- sperienza si situa al confine ancora incerto tra lirica e scrittura tea- trale, tra circolo chiuso della parola soggettiva e volontà di espan- sione comunicativa. È tuttavia lecito individuare in questi prelu- di protodrammaturgici gli incunaboli di un’idea di teatro (del dop- pio e della parola che ne ospita la dialettica) destinata a diventare poi scelta apertamente teatrale negli anni sessanta, come labora- torio di scrittura e pratica di palcoscenico. [Angela Felice]
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Pasolini, l’Africa e due scene di insegnamento
DAVIDE ZOLETTO
Nell’aula c’è un profondo silenzio, qualcosa che assomiglia a un dolore, a una sconfitta. Il professore guarda offeso – nella sua infantile ostinazione – la scolaresca. Che lo guarda, dal nero dei suoi visi, come da un altro mondo.
– Siamo ormai alla fine dell’anno scolastico, quasi, e voi non mi avete dato nulla... Io mi sono esposto, offerto, affannato come un idiota, e voi silenzio. Non dico di non aver sbaglia- to; di non essere stato improvvido, inesperto. Ma è proprio sui miei sbagli che voi dovevate parlare... Io ve li ho esposti, confessati fino a perdere la dignità... [...] E voi non avete fat- to nulla... Non avete saputo approfittare della vostra libertà.
1Prima scena di insegnamento. È tratta da Il padre selvaggio, una delle sceneggiature che Pasolini non ha mai trasformato in film.
L’ambientazione è africana. Siamo nel 1962. L’anno prima, di ri- torno da un viaggio in India, Moravia aveva portato Pasolini in Africa per la prima volta. E l’Africa, lo scrive lo stesso Pasolini, lo aveva “irrazionalmente e ontologicamente incantato”.
2Già prima di andarci, Pasolini aveva parlato dell’Africa come della
“sua unica alternativa”
3di fronte alla rapida modernizzazione
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aut aut, 345, 2010, 20-271. P.P. Pasolini, Il padre selvaggio (1962), in Per il cinema, Mondadori, Milano 2003, vol.
I
, p. 287.
2. N. Naldini, Vita di Pasolini, Einaudi, Torino 1989, p. 266.
3. Si veda la poesia Frammento alla morte (aprile 1960), contenuta nella raccolta La reli-
dell’Italia e alla altrettanto veloce resa a quelle che egli giudica- va le insensate e “magnifiche sorti progressive del neo-capitali- smo” e del consumismo.
Questo riferimento all’Africa, che all’inizio poteva sembrare soprattutto un artificio retorico, si trasforma nel giro di pochi anni in uno scenario centrale per la ricerca artistica e politica del Pasolini di quegli anni. Il “Terzo Mondo”, e l’Africa in partico- lare, diventano per Pasolini – con Fanon, con Sartre – l’altrove in cui trovare quell’avanguardia che sola avrebbe potuto porta- re all’avvento di quella che Pasolini chiamava “una apocalissi positiva, preventiva”.
4Nel 1962 Pasolini torna altre due volte in Africa. Quei viaggi, insieme alla lettura dei “poeti negri”,
5gli danno dapprima l’idea di un film “africano” (pensa di intitolar- lo Resistenza africana
6), e si concretizzano poi nella sceneggiatu- ra di Il padre selvaggio.
La storia, come sintetizza lo stesso Pasolini, è quella di un poeta “negro e africano”: “Un ragazzo che frequenta il liceo nel- la capitale di uno stato negro liberato da un anno o due, e si in- contra con un professore laico, progressista, che cerca di dare ai suoi ragazzi un insegnamento anticonvenzionale, anticoloniali- sta”.
7Ma i ragazzi, abituati all’insegnamento meccanico, con- servatore, rigido della scuola e degli insegnanti coloniali, fatica- no a seguire l’insegnante. Addirittura resistono, e in particolare resiste Davidson, il più bravo fra gli allievi, il futuro poeta. A po- co a poco, nel corso dell’anno scolastico, insegnante e allievi sem- brano riuscire a instaurare una relazione, un dialogo. L’inse- gnante rinnova il curricolo (introduce la poesia contemporanea),
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gione del mio tempo, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003, vol.
I, pp. 1049- 1050.
4. Id., Intervista rilasciata a Ferdinando Camon (1969), in Saggi sulla politica e sulla so- cietà, Mondadori, Milano 1999, p. 1643. In questa intervista Pasolini rilegge e smonta l’i- dealizzazione dell’Africa che l’aveva guidato all’inizio degli anni sessanta. Si veda, per esem- pio, la poesia Profezia (1962), dedicata non a caso a Sartre.
5. Vedi “La Resistenza negra”, introduzione scritta da Pasolini per il volume a cura di M.
Andrade, Letteratura negra. La poesia (Editori Riuniti, Roma 1961), ora in P.P. Pasolini, Sag- gi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, vol.
II, pp. 2344-2355.
6. N. Naldini, Vita di Pasolini, cit., p. 249.
7. Ivi, p. 265.
i libri, le attività, coinvolge i ragazzi in un’associazione scolasti- ca, che diventa per loro una sorta di palestra di “autogoverno” e
“autocritica”.
Ma poi arriva la pausa estiva, e in concomitanza a essa una crisi politica nel neonato stato africano, con scontri sanguinosi fra fazioni opposte, mercenari e caschi blu. Davidson, il “poe- ta”, tornato al suo villaggio per le vacanze, è coinvolto in queste violenze: “Subisce nel villaggio, dove suo padre è capo tribù (per questo il titolo del film sarà Il padre selvaggio) un’esperienza prei- storica, arcaica, di vita selvaggia, addirittura di cannibalismo for- se [...], e ne torna traumatizzato e malato di nevrosi”.
8Saranno la scuola, l’insegnante e soprattutto la poesia a guarirlo lenta- mente dal suo male. Non del tutto, però, perché le poesie, per poterlo liberare, dovranno avere sì un “contenuto profonda- mente democratico e razionale”, ma mantenendo pur sempre la
“misteriosa ispirazione che guarisce dal male”.
L’Africa che Pasolini sognava come sua unica alternativa, l’A- frica in cui vedeva l’avanguardia e la resistenza contro il model- lo di sviluppo occidentale, diventa nel Padre selvaggio l’Africa di Davidson e dei suoi compagni, in bilico – nella sceneggiatura pasoliniana – fra i retaggi dell’assoggettamento coloniale, il mon- do “selvaggio” del padre-capovillaggio e l’impegno pedagogico e politico (spesso l’ingenuità) dell’insegnante. Come a dire che l’Africa rappresentata da Davidson e dai suoi compagni è un Africa che Pasolini costruisce al plurale, segnata da tensioni che sembrano destinate a rimanere irrisolte.
Nell’aula della scuola di Il padre selvaggio, questa costruzio- ne di un’Africa contraddittoria trova un riscontro nell’immagi- ne che di volta in volta l’insegnante ha della sua scolaresca. Da- vidson ripete meccanicamente alcune parti di una lezione che l’insegnante aveva presentato il giorno prima con entusiasmo al- la classe: “L’insegnante lo ascolta sbalordito”, poi la delusione si trasforma in indignazione contro gli “insegnanti precedenti, co- lonialisti” che hanno riempito la testa di Davidson dei “più stu-
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8. Ivi, p. 266.
Pasolini, gli stili della passione
RAOUL KIRCHMAYR
...l’abîme sur lequel je marche, sur une corde raide,
c’est l’abîme entre l’épicité religieuse et le réalisme naturalistique.
1A voler circoscrivere un poco la semantica della parola “passione”, che ritma la ri- cerca intellettuale e artistica di Pasolini, non si tratta solo di definire che cos’è, o cosa sarebbe, la passio- ne per Pasolini, ma di riconoscere come la sua opera sia intera- mente una “messa in scrittura” (o in scritture, al plurale) della passione. In questo senso, quelle di Pasolini appaiono come scrit- ture appassionate, intrise di passione, di pathos. Ne va di molte- plici messe in forma del pathos come raffigurazioni di “quel tan- to di misterioso e di irrazionale che ogni vita ha in abbondanza, e che è la ‘poeticità naturale’ della vita”,2quell’“elemento irra- zionale”
3 che la poesia salvaguarda ed esprime, e nel quale Pa- solini ritrova un’esperienza – anche nel senso della sperimenta- zione – eretica del sacro.
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aut aut, 345, 2010, 28-54Il testo è la rielaborazione dell’intervento del 15 aprile 2009 al corso di Estetica “Pasolini e le poetiche della scrittura” tenuto da Pier Aldo Rovatti presso la Facoltà di Lettere e Fi- losofia dell’Università di Trieste, e dell’intervento “Umanità di Pasolini”, presso il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, del 5 novembre 2009. Desidero ringra- ziare Alessandra Mascia per la rilettura di una prima versione del testo e per i suoi prezio- si consigli sulla resa stilistica di alcuni passaggi. Devo diversi spunti di analisi alle lezioni dedicate al cinema di Pasolini da parte di Georges Didi-Huberman nel suo seminario Les peuples exposés tenuto all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi nell’anno 2008-2009.
1. P.P. Pasolini, nel documentario realizzato da J.-A. Fieschi e A. Bazin, Pasolini l’en- ragé (Francia 1966) nella serie “Cinéastes de notre temps” (Registi del nostro tempo).
2. P.P. Pasolini, Empirismo eretico (1972), Garzanti, Milano 2002, p. 53.
3. Ibidem.
1. Passione e ideologia
Seguiamo Pasolini e proviamo ad avvicinare un senso della pa- rola passione mettendola in accordo con la parola ideologia. Sen- za esitare dico passione prima di tutto. Perché il senso dell’e- spressione “passione e ideologia” si chiarisce quando pensiamo la passione prima di tutto, cioè come una condizione umana che è essere nel mondo e nella storia. Riconoscere il nostro essere nel mondo e nella storia non è soltanto un compito filosofico, è pure il dare una chance alla passione senza farne un sapere o uno stereotipo letterario e stilistico. Passione è lo sguardo stupito di fronte allo spettacolo del mondo, un non cedere all’abitudine dello sguardo, piuttosto un romperla, e un riconoscersi presi nel- la trama del mondo e della storia. È così un abitare e Pasolini è stato uno straordinario abitante del suo mondo e del suo tempo.
Si può cercare di aderire al mondo e alla sua concretezza storica al punto di farsi quasi cronista della storia, come ha fatto Paso- lini con i suoi interventi sulla superficie della storia che diventa- no voce critica del presente, per esempio nell’ultima fase “cor- sara”, o anche mediante quel lavoro di minuziosa indagine cine- matografica che si esprime nel “lirismo documentario”. Passio- ne come esistenza, dunque, come un impegno nel mondo che non possiamo non essere e che tuttavia si tratta di assumere. Per- ciò la passione è la condizione della decisione che, per dirla con Pasolini, è al tempo stesso poetica e ideologica. La poesia è im- pegno poiché alternativa alla prosasticità del mondo borghese.
A sua volta, la poesia dice il nostro essere nel mondo: essa è pas- sione prima di tutto.
Il mondo borghese è anti-poetico per eccellenza: nel nostro tempo storico non possiamo più prendere posizione dall’ester- no rispetto a esso. Pasolini ne era perfettamente consapevole.
La sua età – dal dopoguerra al boom economico, all’avvento del- la società dei consumi di massa, della “società affluente” – è il passato prossimo della nostra storia da cui scaturisce il nostro presente. Appena passato, questo passato prossimo detta le con- dizioni del nostro avvenire. È pure quel periodo storico in cui cominciano a venir erose le forme del dissenso organizzato e il
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pensiero liberale elabora nuove strategie di rilancio. Occorre ri- cordare che la scelta intima di Pasolini contro il pensiero libera- le e quella che – con una categoria fin troppo ampia – veniva chiamata borghesia è consustanziale all’opera di scavo della lin- gua: occorre recuperarne il potenziale contestatore rispetto a quello che chiamerei il linguaggio-mondo borghese, qualcosa di più e di diverso da una “rappresentazione del mondo”, piutto- sto un modo di foggiare linguisticamente il mondo. Così il dire di sì di Pasolini alla poesia è un dire di no al linguaggio-mondo borghese e alla maniera in cui si stava configurando allora il rap- porto tra la cultura, la lingua e l’identità nazionale. Affermare la poesia coincide con una strategia ad ampio respiro che mira a un altro avvenire che non può prendere forma se non come even- to di linguaggio. Un luogo importante per comprendere questa scelta è la “Nota” conclusiva di Passione e ideologia, il volume di saggi critici del 1956 che segna una tappa importante nella pro- duzione saggistica di Pasolini.
4Per spiegare il senso del titolo, Pasolini si concentra sulla con- giunzione che lega i due termini. Non si tratta di una giustappo- sizione, è piuttosto un vettore problematico quello che li mette in relazione: c’è una dinamica, un passare dall’uno all’altro in un processo che dà tempo. In un certo senso si può parlare di una sintesi dei due termini, una sintesi che Pasolini qualifica con il ter- mine “disgiunzione”. Ogni sintesi è temporale, il suo processo lega un prima con un dopo. Ma credo pure che si debba ritro- vare in essa il senso di un dare tempo (che è il tempo dell’eman- cipazione e della speranza, il tempo di un avvenire che trova le sue forze nell’arcaico). La sola passione è vana, come un canto destinato a spegnersi. La sola ideologia è illusoria, perché per- petua i mali della foggiatura borghese del mondo, riproducen- doli a sua volta e perfino negandosi come liberazione. I due ter- mini vanno assieme, dunque, ma secondo un certo décalage che è il tempo stesso dell’acquisire forza del canto poetico, del suo
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4. Id., Passione e ideologia (1956), Garzanti, Milano 2009.
I mattini grigi della tolleranza
MICHEL FOUCAULT
Questo breve testo di Foucault dedicato a Comizi d’amore e ap- parso in “Le Monde” del 23 marzo 1977 è solo apparentemente una tardiva recensione cinematografica del film-documentario gi- rato da Pasolini nel 1963. È piuttosto una riflessione sul tipo di approccio che Pasolini aveva scelto per indagare criticamente il mutamento dei costumi sessuali in Italia, cui segue un rilancio fi- losofico su quello che Foucault chiama “regime della tolleranza”.
Pasolini, infatti, avrebbe registrato non tanto i contrasti prodotti dall’avanzare della modernità in un’Italia ancora legata al suo pas- sato contadino e popolare, tra l’affrancamento dei costumi e le per- manenze della morale cattolica, quanto il prendere forma di una diversa esperienza della sessualità che mette in gioco contempora- neamente maggiori libertà individuali e maggiore controllo. Sotto questo profilo, il film di Pasolini rappresenta agli occhi di Fou- cault un documento etnografico che appartiene a un periodo di transizione. Rispetto alle nostalgiche immagini bianco-e-nero che dipingono i presunti avanzamenti di un’Italia anni sessanta ap- prodata da poco al consumismo, Foucault indica con rapidità e in- quietudine le zone grigie di una tardiva modernità e individua sec- camente sia il movimento del quadrillage sociale esercitato da un potere sempre più anonimo e orizzontale, sia gli indizi delle forme nascenti di resistenza e di opposizione (non deve sfuggire il richia-
aut aut, 345, 2010, 55-59
55
M. Foucault, Les matins grises de la tolérance, “Le Monde”, 23 marzo 1977, p. 24, ora in
Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol.
II, pp. 269-271.
mo all’attualità presente nell’ultima riga del testo, là dove si evo- ca la contestazione bolognese del 1977). Ma il tema più scottante, articolato negli ultimi densi paragrafi dello scritto, è certamente il nesso eros-gioventù-democrazia, che avrebbe conosciuto impor- tanti sviluppi nella successiva riflessione foucaultiana. In effetti, ciò che interessa Foucault – e che ritrova in Pasolini, pur mante- nendo curiosamente il riserbo sulla questione gay – è “la grande saga dei giovani”, rispetto alla quale i potenti strumenti delle scien- ze dell’uomo hanno progressivamente guadagnato precisione nel classificare e nel categorizzare, le tecniche politiche del controllo si sono sempre più raffinate nello scandagliare-controllare-reprimere, le strategie di marketing si sono fatte più aggressive nel plasmare immaginari e desideri: verso questa gioventù, divenuta punto di applicazione del potere, il potere stesso denuncia per contrasto la sua diffidenza. Il discorso di Foucault appare oggi a sua volta figlio di una stagione di lotte che si è conclusa lasciando dietro di sé una lunga onda di riflusso che non accenna a scemare, ma pare riceve- re maggiore forza dalle contraddizioni del mondo globale. Da un lato, il nesso sessualità-potere si è riconfigurato nelle forme – for- temente mediatizzate – della teatralizzazione dell’osceno e della spettacolarizzazione del privato se non addirittura dell’intimo, al punto che i mattini grigi della tolleranza paiono aver precorso un’e- poca notturna di godimento eccessivo e mortifero rappresentato alla piena luce del giorno (e c’è da chiedersi se non sia questo un possibile sviluppo degli scenari apocalittici immaginati da Pasoli- ni in Salò, forse più di una biografia della nazione). Dall’altro la- to, se il rapporto sessualità-potere assume nuove configurazioni, ciò non è neutro per i destini delle democrazie, poiché le forme della nuova razionalità economica e politica non possono che mi- rare alla ricostruzione eteronoma dell’affettività, facendo sempre più presa sulla “vita”. Il biopotere ha certo bisogno della fram- mentazione e della disunione (dei soggetti, dei corpi, dei desideri), ma è esso stesso che ricostruisce funzionalmente i nessi e le rela- zioni. Di questa scomposizione e ricomposizione le giovani gene- razioni (e in esse ciascuno per sé, consegnato alla propria solitudi- ne) stanno facendo, sul proprio corpo, un’esperienza drammatica
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e sradicante. Forse fino al punto che l’affermazione pasoliniana secondo la quale il coito è politico, appare oggi tanto più vera sot- to il profilo diagnostico quanto effettualmente priva di rilevanza sotto quello dei costumi e della morale sessuale. [R.K.]
Come nascono i bambini? Li porta la cicogna, da un fiore, li manda il buon dio, o arrivano con lo zio calabrese. Guardate il volto di questi ragazzini, invece: non danno affatto l’impressio- ne di credere a ciò che dicono. Con sorrisi, silenzi, un tono lon- tano, sguardi che fuggono a destra e sinistra, le risposte a tali do- mande da adulti possiedono una perfida docilità; affermano il diritto di tenere per sé ciò che si preferisce sussurrare. Dire “la cicogna” è un modo per prendersi gioco dei grandi, per render- gli la loro stessa moneta falsa; è il segno ironico e impaziente del fatto che il problema non avanzerà di un solo passo, che gli adul- ti sono indiscreti, che non entreranno a far parte del cerchio, e che il bambino continuerà a raccontarsi da solo il “resto”.
Così comincia il film di Pasolini.
Enquête sur la sexualité (Inchiesta sulla sessualità) è una tra- duzione assai strana per Comizi d’amore: comizi, riunioni o for- se dibattiti d’amore. È il gioco millenario del “banchetto”, ma a cielo aperto sulle spiagge e sui ponti, all’angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, con ragazzi che gironzolano, con donne che si annoiano al mare, con prostitute che attendo- no il cliente su un viale, o con operai che escono dalla fabbrica.
Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quel- le inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull’a- more. Dopo tutto, la strada è la forma più spontanea di convi- vialità mediterranea.
Al gruppo che passeggia o prende il sole, Pasolini tende il suo microfono come di sfuggita: all’improvviso fa una domanda sull’“amore”, su quel terreno incerto in cui si incrociano il ses- so, la coppia, il piacere, la famiglia, il fidanzamento con i suoi costumi, la prostituzione con le sue tariffe. Qualcuno si decide,
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Che cos’è uno scritto corsaro?
PIER ALDO ROVATTI
C on “scritti corsari” si intende, per indica- zione stessa di Pier Paolo Pasolini, un gruppo di interventi giornalistici pubbli- cati dal gennaio 1973 al febbraio 1975 soprattutto sul “Corriere della Sera”, e che affrontano temi di attualità politica, sociale e culturale. Come è noto, questi articoli hanno lasciato una traccia profonda nella coscienza dei contemporanei e ancora oggi se- gnano la paradossale “inattualità” di Pasolini, se non altro per- ché contengono la sua famosa denuncia della trasformazione del- la società capitalistica in un dispositivo di Potere omologante.
Ricordo che gli effetti di tale trasformazione sarebbero addirit- tura quelli di una “mutazione antropologica” di tutti gli indivi- dui, ormai appiattiti dal consumismo generalizzato.
Nelle osservazioni che farò qui di seguito vorrei aggiungere qualcosa, al molto già detto, a proposito di entrambe le parole,
“scritti” e “corsari”. Si tratta di articoli di giornale, un genere che attraversa da cima a fondo l’attività di Pasolini, fin dagli an- ni di Casarsa, certo con variazioni anche consistenti. È pur vero che diventano, in ultimo, un genere nel genere, e acquistano una specificità particolare per il loro contenuto, ma non solo per quello (ecco il punto che mi interessa sottolineare). Se Pasolini, inoltre, li chiama “scritti”, in modo apparentemente vago e ge- nerale, siamo a nostra volta autorizzati ad allargare lo sguardo e a dire che, al di là delle forme di scrittura, questi brevi testi, ri- volti a un pubblico molto largo (il pubblico del maggiore quoti-
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aut aut, 345, 2010, 60-68diano italiano), e dunque massimamente “politici” nel loro obiet- tivo, condividono con tutti gli altri testi pasoliniani un elemento comune, una cifra che è propria alla sua “arte”.
Per avvicinarci a tale cifra dobbiamo allora chiamare in cau- sa l’aggettivo “corsari” e cercare di interrogarne il senso. “Cor- sari” significa certo impertinenti e trasgressivi, che debordano dalle pertinenze del genere letterario e dalle regole ispirate alle convenzioni culturali. Oppure: che indossano l’abito severo del- l’invettiva e della lucida predicazione, lanciando bordate contro i mali incurabili di un’Italia ormai precipitata nella miseria mo- rale e intellettuale. È un fatto che da allora non si sono più lette sui nostri giornali parole così acuminate, nonostante questa mi- seria italiana (che oggi chiamiamo “anomalia”) sia considerevol- mente cresciuta, e nonostante l’impegno di molti valenti (e an- che valentissimi) corsivisti che per fortuna non mancano. (A lo- ro manca Pasolini? Direi proprio di sì, e si può facilmente do- cumentarlo.)
Occorre, però, aggiungere che il carattere “corsaro” non si esaurisce con l’impertinenza e l’invettiva. C’è evidentemente del- l’altro, e, comunque mettiamo le cose, tale resto (così pasolinia- no) gira attorno a un diverso fuoco, al quale conviene comun- que il nome, pur incerto, di “poesia”. Qui, però, è necessario scavare un poco per tentare di uscire dal circuito dell’ovvietà, per fare emergere almeno il rapporto tra carattere “corsaro” e
“corpo” di Pasolini stesso, scena di un’esistenza individuale drammaticamente vissuta. Ci torneremo tra un momento: per ora, basti la considerazione netta che se togliamo la “poesia” dai suoi corsivi “corsari”, di essi resterebbe solo una sequenza di te- mi polemici sostenuti da una “retorica” molto combattiva, temi che possono essere trattati (e anche certo criticati, come si è fat- to) nella loro cosiddetta “oggettività”, cioè come indicatori so- ciologici della realtà italiana di allora.
Come ovviare a questa quasi automatica scissione tra forma e contenuto? Farò solo un paio di autorevoli esempi. Prendiamo la prefazione di Alfonso Berardinelli all’edizione Garzanti degli Scritti corsari: la si definisce “una saggistica politica di emergen-
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za”, “un’ideologia ‘vocale’ a braccio”, “un intellettualismo spo- glio” dove “tutto è in piena luce”, “disperatamente e rigorosa- mente”. Vengono di conseguenza evidenziati gli elementi stili- stici della “requisitoria”, della “forza dell’iterazione”, della
“grande oratoria di accusa e autodifesa di un poeta”. Notazioni di indubbia perspicuità, certo vere e utili come chiave di lettura per entrare in una prosa così inabituale proprio nel suo essere spalancata dinnanzi a noi. Vere, ma non esaurienti poiché la ma- teria trattata da Pasolini è così calda da rifiutarsi a una legitti- mazione formale per quanto giusta e acuta.
Prendo, allora, come secondo riferimento quanto ha detto e scritto recentemente Georges Didi-Huberman, uno dei pensa- tori francesi oggi più ascoltati, il quale ha dedicato a Pasolini buona parte del suo ultimo corso parigino e pubblica adesso il libro Survivance des lucioles.
1Come è esplicito, il riferimento è al famoso articolo sulle lucciole, forse il più noto tra gli scritti corsari di Pasolini, uscito il 1° febbraio 1975 sul “Corriere della Sera”. Più specificamente, Didi-Huberman ha sintetizzato il suo punto di vista in una conferenza tenuta a Mantova nel settembre 2009,
2nella quale è un “filosofo” che parla leggendo il testo di Pasolini proprio come se le sue parole si componessero in un di- scorso filosofico. Le “lucciole” non sono scomparse davvero – dice – e se qualcosa è sparito è la nostra capacità di vederle. Sia- mo noi che siamo diventati ciechi, o lo stiamo via via diventan- do, al punto che la “luce minore”, che malgrado tutto sussiste pur annichilita dalla luce accecante e potentissima dei riflettori, non arriva più ai nostri occhi. Sono così i nostri occhi a essersi offuscati, a non essere più capaci di distinguere i “segni dell’in- nocenza” nella notte dove essi ancora vivono, danzano e amano.
Didi-Huberman prende dunque lo scritto corsaro per eccellen- za di Pasolini come un segmento di pensiero: non gli interessa
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1. Cfr. G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009. In proposito cfr. anche le considerazioni di Raoul Kirchmayr in questo stesso fascicolo di “aut aut”.
2. Cfr. G. Didi-Huberman, Le lucciole di Pasolini non sono scomparse, “la Repubbli-
ca”, 16 settembre 2009 (testo parziale).
Pasolini e i segni
DAMIANO CANTONE
Se fossimo immortali saremmo immorali, perché il nostro esempio non avrebbe mai fine, quindi sarebbe indecifrabile, eternamente sospeso e ambiguo.
Pier Paolo Pasolini
I l titolo di questo articolo rinvia a un libro importante di Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, nel quale il filosofo francese offre un’interpretazione di Alla ricerca del tempo perduto ormai dive- nuta classica. Secondo Deleuze, Proust interpreta la realtà come fosse un sistema di segni complesso, articolato in quattro cate- gorie: segni sociali, affettivi, sensibili, artistici. Essi sono struttu- rati in modo gerarchico, nel senso che è necessario compiere un percorso di apprendimento per tappe successive, affinché la realtà, nella sua verità, si riveli al fondo del quarto tipo di segni, quello artistico. Il protagonista della Ricerca deve infatti “per- dere il suo tempo” in un necessario apprendistato per familia- rizzarsi con essi, deve percorrere una lunga serie di détours, fron- teggiare numerose delusioni, per approdare infine alla rivelazio- ne del suo “tempo ritrovato”. I percorsi temporali messi in mo- to dall’incontro con i segni non sono mai omogenei o rettilinei, si intrecciano fra loro e si diramano, facendo sì che spesso quel- lo che sembra un guadagno su una linea si riveli essere un re- gresso su un’altra. Proust dunque, agli occhi di Deleuze, è una sorta di “egittologo”,1che continua incessantemente la sua ope- ra di scavo del significato dei segni, per portare alla luce porzio- ni sempre più ampie di verità.
Ho scelto questo riferimento perché mi permette di entrare
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1. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), Einaudi, Torino 2001, p. 6.
nel discorso pasoliniano attraverso un ingresso non certo secon- dario ma relativamente poco praticato. Il problema del segno in Pasolini ha infatti una serie di rimandi immediati così importan- ti, legati soprattutto alle teorie semiologiche raccolte in Empiri- smo eretico, che spesso mi sembra rimangano nascosti dei per- corsi possibili, all’interno della sua complessa e composita ope- ra. Riproporre, come ipotesi di un lavoro che non può esaurirsi in questo articolo, un approccio di questo tipo a Pasolini pre- senta una serie di vantaggi. Innanzitutto possiamo prendere sul serio l’ipotesi pasoliniana di considerare il cinema come “lingua scritta della realtà”, ovvero, ribaltando i termini della questione, pensare la realtà come un tutto che si esprime attraverso imma- gini cinematografiche. Come corollario, comprendiamo meglio l’interesse di Deleuze per l’operazione semiotica di Pasolini, del- la quale in L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, le due monografie concepite come una “tassonomia delle immagini e dei segni”
2del cinema, riprende anche alcuni termini.
3Inoltre, su questa base possiamo interpretare diversamente anche il rapporto fra Pasolini e la televisione, partendo da quel- le che sono le premesse teoriche del suo lavoro piuttosto che dal- le motivazioni sociali e politiche che lo spingono a scagliarsi con violenza contro un mezzo di comunicazione con il quale pure, a più riprese, come recentemente ha sottolineato la critica pasoli- niana,
4non ha disdegnato di lavorare. Pasolini non compie, co- me pure spesso gli viene rimproverato, una critica della società di massa e dei mass media dal sapore nostalgico e conservatore.
Se così fosse, non capiremmo perché non estenda la sua critica a tutti i mass media, compreso il cinema. Di certo non può aver sottovalutato come sia stato proprio il cinema a essere utilizzato
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2. Id., L’immagine-movimento (1983), Ubulibri, Milano 1984, p. 11.
3. Andrebbe proposto, sul tema dei segni nel cinema, un confronto fra la filosofia del cinema di Deleuze e quella di Pasolini, operazione cui lo stesso filosofo francese accenna proponendo un avvicinamento fra Pasolini e Pierce in L’immagine-tempo.
4. Si vedano per esempio gli interventi di Italo Moscati e Roberto Voglino negli atti del
convegno Pasolini e la televisione, del 20-21 novembre 2009, svoltosi a Casarsa della Deli-
zia (di prossima pubblicazione).
come strumento principale di propaganda da tutti i regimi di- spotici del Novecento, dal nazismo al fascismo, al comunismo russo. E ovviamente, anche ai suoi tempi, il cinema di Hollywood imponeva icone, costumi, stili di comportamento sessuali ecc.
molto forti ed efficaci. La mia ipotesi è che televisione e cinema, per Pasolini, intrattengano una relazione profondamente diver- sa con i segni della realtà.
D’altra parte, per tornare allo spunto iniziale, mi sembra che in Pasolini il problema del segno sia ancora più radicale e più consapevole che in Proust. Più radicale perché per Pasolini tut- ta la realtà può essere letta come un sistema di segni, da quelli complessi antropologici (i segni della famosa “mutazione antro- pologica”) a quelli più semplici costituiti dai singoli oggetti, con- siderati da Pasolini elementi minimi di una lingua universale vi- siva; nel sistema di segni che Deleuze individua in Proust, inve- ce, ogni segno per essere tale necessita di un minimo di media- zione sociale (i segni mondani e quelli amorosi) o soggettiva (i segni della memoria) o di entrambe (i segni dell’arte). Proprio per la radicalità del suo assunto fondamentale, l’approccio se- miotico pasoliniano non ha mai incontrato il favore degli addet- ti ai lavori, che hanno trovato un tale tentativo “di singolare in- genuità”.
5Più consapevole perché è lo stesso Pasolini, in Empi- rismo eretico, a tentare una grandiosa semiotica del cinema co- me “lingua scritta della realtà”, come se il cinema, prima ancora di esistere come mezzo tecnico di espressione, esistesse come
“codice dei codici”
6linguistici, una specie di ur-codice
7univer- sale che da sempre usiamo senza saperlo e che solo con l’inven- zione del cinema abbiamo potuto considerare come oggetto di riflessione critica. Il tratto che invece accomuna l’approccio ai segni di Proust e di Pasolini risiede nel loro sottolineare con for-
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5. L’espressione, ripresa dallo stesso Pasolini in Il codice dei codici, è di Eco. È impor- tante sottolineare la contrapposizione con la semiotica di scuola francese – in particolare con Metz – che caratterizza tutto Empirismo eretico.
6. Si veda per esempio il saggio omonimo contenuto in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1995, pp. 277-285.
7. G. Deleuze, Immagine-tempo (1985), Ubulibri, Milano 1989, p. 41.
L’ingombrante fantasma. Le ragioni di Pasolini
MASSIMILIANO ROVERETTO
È stato quando mi sono fatto inculare da degli arabi che ho compreso l’importanza della rivoluzione algerina.
Jean Genet
I soi restàt cun dut, e doma sensa il pí gran ingiàn chel ch’al pareva la razòn dal vivi me e dal mond.
Pier Paolo Pasolini
C ome ben sanno i bambini, il fantasma è innanzitutto lo spettro, il morto che, fa- cendo ritorno dall’aldilà cui sarebbe do- vuto restare confinato, porta nel mondo dei vivi – nel bene o nel male – un certo scompiglio. Ed è precisamente in questo senso che Enzo Golino, nel passare in rassegna i numerosi contributi apparsi in occasione del ventennale della morte di Pasolini, ave- va a suo tempo denunciato la difficoltà di ascoltarne e giudicar- ne l’opera “senza l’assillo dell’ingombrante fantasma” costituito dalla presenza, che vi si trova inscritta a chiare lettere, del suo autore.1
Ma il fantasma è anche, nel linguaggio psicanalitico, il pro- dotto dell’attività immaginativa in generale, o, più precisamen- te, uno “scenario immaginario in cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un deside- rio inconscio”.
2Che l’opera di Pasolini sia abitata da un fanta- sma anche in questo secondo senso, non è certo un’osservazione inedita. La posizione di Franco Fortini, il quale gli imputava di
aut aut, 345, 2010, 81-98
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1. Cfr. E. Golino, Tra lucciole e palazzo. Il mito di Pasolini dentro la realtà, Sellerio, Pa- lermo 1995, p. 18.
2. J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi (1967), a cura di L. Me-
cacci e C. Puca, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 180.
“confondere il culo con le Quarant’ore”,
3non era isolata né de- stinata a restare senza seguito.
4Quasi che dietro l’immagine, comprensiva peraltro dell’elemento dello scandalo, che Pasolini seppe costruire di se stesso come intellettuale, si celasse una realtà, quella dell’uomo, pronta a fagocitarla, inficiandone in tal modo non soltanto la valenza più propriamente estetica ma an- che – come pure è stato notato – quella noetica.
5Del resto, se a Moravia, che gli obiettava come le sue posizioni sull’aborto non fossero prive di rapporti con la sua omosessualità, Pasolini ri- batteva come questa fosse la sua “privata tragedia”, sulla quale era “un po’ ingeneroso fondare delle illazioni ideologiche”, era d’altra parte lui stesso a ricordare all’amico come la libertà ses- suale propagandata dal progressismo avesse a che vedere con un
“cataclisma antropologico” da lui vissuto, a differenza dello scrittore romano, “esistenzialmente”: “Nei miei giorni, nelle for- me della mia esistenza, nel mio corpo”.
6Di modo che, a fronte di un presente che sembrerebbe avere da ultimo pienamente realizzato le più pessimistiche e cupe vi- sioni del poeta corsaro, si sarebbe tentati di semplicemente ro- vesciare il giudizio, per sostenere che, lungi dall’offuscare la per- cezione che Pasolini ebbe della realtà del suo tempo, i suoi per- sonali fantasmi l’avrebbero resa più acuta, conferendogli il do- no di una certa preveggenza. A meno che l’opposizione di realtà
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3. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005, pp. 229-230, dove si tro- va riportato il seguente passaggio di una lettera da Fortini inviata a Pasolini il 1° maggio del 1959: “Si fa un inutile package delle nostre opinioni estetico-critiche, della qualità dei nostri versi, della vita privata di Pasolini, di Bompiani, di ‘Officina’, del papa, confonden- do, mai è stato tanto il caso di dirlo, il culo con le Quarant’ore, come dicono a Firenze. È mia opinione che il primo a voler tenere distinte queste diverse cose dovresti essere tu. Tu sei braccato, perseguitato e oltraggiato, e capisco le tue reazioni; ma accettare i termini de- gli avversari vuol dire farsene complici”.
4. Ancora nel 1995, per esempio, nel suo contributo alla sezione monografica dedica- ta a Pasolini dalla rivista “MicroMega” in occasione della ricorrenza di cui sopra (cfr. E.
Sanguineti, Radicalismo e patologia, “MicroMega”, 4, 1995, pp. 213-220), Edoardo San- guineti affermava che l’ultima produzione di Pasolini non farebbe che testimoniare di una disperazione affatto privata.
5. Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Borin- ghieri, Torino 1998 (in particolare le pp. 32-33).
6. P.P. Pasolini, “Sacer”, in Scritti corsari (1975), Garzanti, Milano 2008, p. 107.
e fantasma non sia tale da occultarne un’altra, in cui sarebbe piuttosto questione di un’oscillazione tra l’una e l’altra delle di- mensioni costitutive del fantasma stesso: quella propriamente immaginaria, in cui ciò che potremmo chiamare con Jacques La- can l’oggetto causa del desiderio funge al contempo da suppor- to per l’identificazione del soggetto; e quella rappresentata dal punto cieco, dal buco attorno al quale l’altra si struttura, deli- mitando in tal modo il bordo di un reale né soggettivo né ogget- tivo, la cui istanza verrebbe a prodursi in corrispondenza della caduta del fantasma stesso e delle identificazioni su di esso fon- date. Ciò di cui – mi sembra – il percorso intellettuale e umano di Pasolini ci fornisce un importante campione attraverso l’e- mergere, nei suoi ultimi anni di vita, di un nuovo atteggiamento, contrassegnato dall’abiura di quelle figure dell’alterità nel cui nome, mediante la giustificazione garantitagli dall’ideologia, egli aveva fino ad allora cercato di riscattare la propria diversità. Una diversità che è tuttavia anche la nostra, in quanto soggetti ugual- mente barrati.
La mutazione antropologica e la lingua dei sogni Dapprima incontrato nelle borgate romane, l’altro sarebbe più tardi venuto a essere, per Pasolini, l’oggetto di un compianto.
Tornando, a distanza di qualche anno, sugli “appunti in versi per una poesia in prosa” ispiratigli, nel 1968, dalla battaglia di Villa Giulia, in cui studenti e forze dell’ordine si erano a lungo affrontati, Pasolini aveva per esempio affermato che la genera- zione dei contestatori sarebbe stata l’ultima a vedere “degli ope- rai e dei contadini”, laddove quella successiva non avrebbe co- nosciuto altra forma di vita che quella della borghesia neocapi- talistica, nel frattempo divenuta universale. Per “chi è nato in questa entropia”, aveva precisato, “non è in alcun modo possi- bile, metafisicamente, esserne fuori”.
7Come meravigliarsi, allo- ra, che quei “giovani infelici” condividessero con i loro padri la
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7. Cfr. Id., Il
PCIai giovani!! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una
“Apologia”), in Empirismo eretico (1972), Garzanti, Milano 1991, p. 158.
L’innocenza del potere.
Una riflessione su “Petrolio”
MASSIMILIANO NICOLI
Da “Scritti corsari” a “Petrolio”
Nell’ultima parte di Scritti corsari, nella sezione “Documenti e al- legati”, Pasolini include la trascrizione, realizzata dalla redazione di “Rinascita”, di un suo intervento alla Festa dell’Unità di Mila- no, nell’estate del 1974. Il testo, “ripetitivo e ostinato” secondo Pasolini stesso, è pubblicato con il titolo Il genocidio.
1In quella occasione, Pasolini prende la parola dopo Giorgio Napolitano, ed esordisce ammettendo subito la tonalità “molto più pessimi- stica, più acremente e dolorosamente critica” delle sue tesi ri- spetto a quelle di chi lo ha preceduto. Inoltre premette che, do- vendo trattare una materia non letteraria, ed essendo egli, per
“disgrazia o fortuna”, un letterato, il suo discorso potrà incappa- re in imprecisioni e incertezze terminologiche, tanto più in quan- to frutto di un’esperienza – dice – quasi esistenziale più che poli- tica o di professionismo della parola. Dunque, la premessa del suo intervento consiste, oltre che in una dichiarazione di doloro- so pessimismo critico, nell’ammissione della propria difficoltà nel trattare un tema che, in quella sede, richiederebbe un codice espressivo non letterario, ma – possiamo supporre – sociologico- politico. Il tema in questione, infatti, è quello del genocidio, cioè la soppressione di larghe zone della società italiana attraverso un processo di distruzione e di sostituzione di valori, l’assimilazione degli strati sociali proletari e sottoproletari “al modo e alla qua-
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