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Risposte internazionali alla diffusione delle Rivolte Arabe del 2011 nello scacchiere strategico dell’area MENA

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

1. UN ANNO DI RIBELLIONI... 5

1.1 Cronistoria della rivoluzione ... 5

1.2 Tratti comuni alla base dell'insorgere delle ribellioni. ... 10

1.3 Componenti ... 15

1.3.1 Una rivoluzione spontanea che viene dal basso ... 15

1.3.2 Il ruolo dell'Islam politico ... 16

1.3.3 Il ruolo dei social network ... 23

2. GLI ATTORI INTERNAZIONALI E LE PARTITE GEOPOLITICHE DELLO SCACCHIERE MENA ... 26

2.1 Le risorse e lo scenario energetico ... 27

2.3 Sciiti e Sunniti ... 32

2.4 L'ombra dell'egemone ... 34

2.5 I pilastri dell'edificio regionale ... 38

2.5.1 Turchia ... 39

2.5.2 Iran ... 41

2.5.3 Israele ... 44

2.5.4 Arabia Saudita ... 46

2.5.5 Qatar ... 47

3. LE PRIMAVERE ARABE E LE RISPOSTE INTERNAZIONALI NEI PAESI IN CUI SONO AVVENUTI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI. ... 50

3.1 La Tunisia ... 50

3.1.1 Premesse storiche ... 50

3.1.2 Basi politiche ed economiche dalle quali scaturisce la rivolta ... 53

3.1.3 Prove tecniche di futuro ... 57

3.2 L’Egitto ... 67

3.2.1 Premesse storiche ... 67

3.2.2 Basi politiche ed economiche dalle quali scaturisce la rivolta ... 69

3.2.3 La transizione democratica e la posizione degli attori internazionali ... 73

3.3 La Libia ... 87

3.3.1 Premesse storiche ... 87

(2)

3.4 Lo Yemen ... 104

3.4.1. Premesse storiche ... 104

3.4.2 Un cambiamento per tornare al passato. ... 105

3.5 La Siria ... 110

3.5.1 Premesse storiche ... 110

3.5.2 La guerra civile ... 111

4. PAESI IN CUI NON SONO AVVENUTI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI. . 130

4.1 Il Bahrein e l’intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo. ... 130

4.2 Algeria ... 133

4.3 Giordania ... 135

4.4 Marocco... 137

4.5 Altrove nella regione ... 140

4.5.1 Iraq ... 140

4.5.2 Iran ... 141

4.5.3 Kuwait ... 141

4.5.4 Territori palestinesi occupati ... 142

4.5.5 Oman ... 142

CONCLUSIONI ... 143

BIBLIOGRAFIA ... 147

(3)

INTRODUZIONE

Il 2011 è stato, per il Nord Africa e il Medio Oriente, un anno caratterizzato da profondi sconvolgimenti.

Con le rivolte tunisine dell‟inizio dell'anno si è inaugurata una stagione di sollevazioni popolari che hanno iniziato a diffondersi fino a contagiare l‟intera regione1.

Dal Maghreb al Mashreq, da Tunisi, al Cairo, Baghdad, Manama, Bengasi, Sanaʼa, Rabat, Algeri, «I cartelli innalzati da centinaia di migliaia di manifestanti, [...] da una parte hanno rivendicato libertà politica, alternanza al potere, la fine della corruzione, lo smantellamento degli apparati di sicurezza, dall'altra dignità sociale e dunque opportunità di lavoro». Non c‟è stato nella regione un regime arabo che non si sia sentito minacciato dalle folle «finalmente emancipate dalla paura»2. Tale ondata di proteste, in alcuni casi, ha condotto al rovesciamento di decennali regimi autoritari con la caduta dei rispettivi dittatori, come in Tunisia, Egitto e Libia, in altri, come in Giordania, Algeria e Marocco si è tentato invece di arginare le agitazioni con una serie di riforme politiche e misure economiche calate dall'alto con l‟obiettivo di placare il malcontento.

I media internazionali hanno definito tale fermento “Primavera Araba”, ma gli analisti hanno presto sottolineato come tale etichetta fosse inadatta per descrivere un fenomeno che in ciascun Paese ha assunto peculiari caratteristiche ed esiti imprevedibili.

Quasi ovunque i manifestanti si sono scontrati con la repressione e la violenza delle forze di sicurezza di regimi dittatoriali. In alcuni casi il popolo in rivolta ha potuto “beneficiare” dell‟intervento o del sostegno degli attori internazionali, altre volte invece ha dovuto rassegnarsi all‟immobilismo della comunità internazionale.

Il presente lavoro si prefigge l‟obiettivo di analizzare come le rivolte arabe del 2011 siano state inserite nel quadro geo-politico internazionale assumendo rilevanza globale e di capire perché in alcuni casi gli attori internazionali si siano mobilitati a difesa dei diritti umani, della libertà e della democrazia, mentre altrove il silenzio dei media ne ha accompagnato l‟attendismo o l‟immobilismo.

Per avere un quadro chiaro degli esiti delle rivolte arabe si dovrà ancora attendere e il fatto che gli avvenimenti presi in esame siano tanto recenti ha reso complicato cogliere tutti i fenomeni e gli interessi in gioco: anche là dove le rivolte arabe potrebbero sembrare finite,

1

Z. Eyadat, La Primavera araba: cosa ha funzionato?, in “Rivista di Studi Politici”, a. XXIII, n. 4, ottobre-dicembre 2011, p. 139.

2

(4)

siamo alle prese con processi ancora in atto. È stato perciò impossibile o almeno rischioso giungere a conclusioni esaustive o a previsioni circa l‟assetto che l‟area MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e i Paesi che la compongono assumeranno al termine delle rivolte arabe e dei processi da esse innescati.

Consapevole dei limiti di questo lavoro, spero comunque che la trattazione da me affrontata sia da aiuto alla comprensione dei profondi sconvolgimenti che hanno travolto un‟area a noi tanto vicina. Spero inoltre che ciò possa aiutare nel mantenere un approccio critico alle informazioni che ci giungono dai media nazionali e alle battaglie ideologiche che spesso vengono proposte, a livello internazionale, a un‟opinione pubblica della quale si richiede il consenso.

(5)

1. UN ANNO DI RIBELLIONI

1.1 Cronistoria della rivoluzione

Il 17 dicembre 2010 a Sīdī Bū Zīd in Tunisia, Mohammed Bouazizi, un ventiseienne laureato, disoccupato e costretto alla vendita ambulante di frutta e verdura seppure privo di licenza, si vide confiscare la propria merce dalla polizia. Dopo aver tentato invano di riavere indietro ciò che gli era stato tolto, si cosparse di benzina e s‟immolò nel fuoco. Questo gesto disperato fu il detonatore da cui scaturì un'esplosione di malcontento popolare dalle forme incontenibili: dalle sponde del Mediterraneo fino al Golfo Persico, uno «tsunami»1 investì, agli esordi del 2011, gran parte del mondo arabo. Questa serie di eventi furono subito battezzati dai media «Primavera Araba», mente qualcun'altro vi vide il presagio di un lungo «inverno mediterraneo»2.

Il gesto disperato di Bouazizi suscitò tanta rabbia fra la popolazione, da tempo afflitta da una crisi economica dilagante, che già il giorno seguente centinaia di giovani si radunarono nella città dove l'episodio era accaduto per protestare davanti alla sede del governo regionale3. La stessa sede presso la quale a suo tempo Bouazizi si era recato nella vana speranza che gli fosse resa giustizia e quindi restituito l'unico mezzo di sostentamento della propria famiglia4. Iniziarono così i primi scontri tra i manifestanti e la polizia che nei giorni seguenti si estesero alle città circostanti: «Menzel, Bouzaïene, Meknassy, Regueb, Mazzouna, Jabbes… Da quel momento, gli eventi si susseguono a catena»5

. Il giorno seguente alla morte di Bouazizi, avvenuta in ospedale il 5 gennaio, «seimila manifestanti lividi di rabbia» parteciparono alla sua inumazione6.

Per alcune settimane si susseguirono proteste di massa finché, il 14 gennaio, il presidente tunisino Zine al-Abidine Ben Ali fu finalmente costretto a lasciare la Tunisia per fuggire in Arabia Saudita, decretando la fine di ventitré anni di uno dei regimi autoritari più repressivi del mondo arabo e la vittoria popolare7. In Tunisia non cessarono però gli scontri

1“Limes, n 1, 2011”, Il grande tsunami. 2

L. Caracciolo, Cambio di stagione, in “Limes n. 3, 2011”, (Contro) Rivoluzioni in corso. Primavera araba o inverno mediterraneo? Dal Nord Africa al Mediterraneo la terra trema, p.7.

3

Witnesses report rioting in Tunisian town, in “Reuters Africa”, 19 dicembre 2010, http://af.reuters.com/article/topNews/idAFJOE6BI06U20101219

4

T. Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini, Milano, Bompiani, 2011, .p. 34

5

O. Piot, L'indignazione matrice della rivoluzione, in “Le Monde Diplomatique", febbraio 2011, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Febbraio-2011/pagina.php?cosa=1102lm10.01.html

6

Ibidem.

7

A. Chrisafis, I., Zine al-Abidine Ben Ali forced to flee Tunisia as protesters claim victory, in "the Guardian", 15 gennaio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/jan/14/tunisian-president-flees-country-protests

(6)

di piazza, soprattutto a causa dell'insofferenza della popolazione per i governi provvisori che continuarono a coinvolgere componenti del vecchio establishment8.

Nel frattempo il vento delle proteste aveva iniziato a soffiare anche altrove, innescando una sorta di effetto domino e una dopo l‟altra si incendiarono molte piazze arabe9

.

In Algeria il 5 gennaio la popolazione era scesa in strada per protestare contro il rincaro dei generi alimentari e la disoccupazione e il 13 gennaio un altro ragazzo aveva emulato il gesto di Bouazizi, divenuto il simbolo della rivolta, scatenando rabbia e ulteriori disordini10.

Fu poi la volta dello Yemen: a Ṣanʿā il 22 gennaio si tenne un'imponente e pacifica manifestazione contro la proposta di una riforma costituzionale che avrebbe permesso al Presidente Ali Abdullah Saleh di prolungare il proprio mandato presidenziale ed eventualmente trasmettere il proprio potere per via ereditaria11. Le proteste proseguirono anche il giorno seguente, in cui ulteriori manifestazioni furono provocate dall‟arresto dell'attivista Tawakkul Karmān, la futura premio nobel per la pace impegnata nei movimenti di protesta12.

Le proteste continuavano a diffondersi e al contempo si moltiplicavano i casi di persone che arrivavano a darsi alle fiamme in segno di disperazione e protesta contro le dure condizioni di vita e contro i rispettivi regimi: in Arabia Saudita, in Marocco, in Sudan e ancora in Tunisia. Gesti drammatici che già avevano preceduto e che avrebbero accompagnato le cronache delle rivolte; per darne un'idea solo in Algeria al 30 gennaio si erano immolate almeno quindici persone13.

La rivolta divampò anche in Egitto: dopo trent'anni di legge d‟emergenza, repressione del dissenso e violazioni dei diritti umani quali arresti arbitrari, torture e processi ingiusti, il 25 gennaio venne indetta "la giornata della collera"14. In diverse città si organizzarono manifestazioni e in migliaia scesero in piazza Taḥrīr al Cairo, che diventò una piazza emblematica della “rivoluzione”, ma anche a Suez e ad Alessandria, per chiedere la fine del regime e migliori condizioni di vita. Nei giorni seguenti gli scontri tra manifestanti e

8

K. Willsher, Tunisian prime minister Mohamed Ghannouchi resigns amid unrest, in "The Guardian", 27 febbraio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/feb/27/tunisian-prime-minister-ghannouchi-resigns.

9

B. Zarmandili, Se il Cairo non è Tunisi e Tripoli non è Teheran, in “Limes”, 17 febbraio 2011 http://temi.repubblica.it/limes/se-il-cairo-non-e-tunisi-e-tripoli-non-e-teheran/20342.

10

I. Black, Tunisia's protests spark suicide in Algeria and fears through Arab world, in "The Guardian"16 gennaio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/jan/16/tunisia-protests-suicide-algeria-arab.

11

A Year of rebellion. The state of human rights in the Middle East and North Africa, rapporto di Amnesty International, 9 gennaio 2012.

12

T. Finn, Yemen arrests anti-government activist, in "The Guardian", 23 gennaio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/jan/23/yemen-arrests-protest-leader

13

Cronologia degli eventi della crisi libica e nell'area MENA,

http://www.camera.it/561?appro=280&Cronologia+degli+eventi+della+crisi+libica+e+nell%27area+MENA #inizio_contenuto

14

(7)

polizia si fecero sempre più violenti: morirono quattro manifestanti15 e il bilancio si aggravò nelle settimane successive; il governo ordinò il blackout di internet e la sospensione del servizio di telefonia mobile16.

Il paese intero fu percorso da dimostrazioni di massa e in milioni continuarono a sollevarsi finché il coraggio e la determinazione della popolazione furono premiate: l'11 febbraio ci fu l'annuncio delle dimissioni forzate del Presidente Ḥosni Mubārak, da trenta'anni al potere17. Il controllo del paese fu delegato e posto nelle mani del Consiglio Supremo delle forze armate18.

Che possa toccare anche a loro? -ci si chiese su “Il Sole 24 ore” alla fine di gennaio- Gli inossidabili presidenti quasi a vita di diversi paesi arabi non dormono sogni tranquilli. Dalle loro poltrone hanno visto il mondo cambiare.[…] Decine di migliaia di dimostranti sono scesi in piazza. Al grido «vogliamo la nostra Tunisia», chiedono riforme democratiche, lavoro per tutti, libertà19. Alcuni domandavano che i loro longevi capi di stato, che avevano resistito a tutto, seguissero l'esempio dell'esilio forzato di Ben Ali20.

Alla fine di gennaio anche in Giordania ebbero luogo manifestazioni pacifiche per la richiesta di riforme politiche e costituzionali, a seguito delle quali il re Abdallah fu costretto a dare il via a un nuovo esecutivo21.

Verso la metà di febbraio migliaia di giovani yemeniti iniziarono a chiedere le dimissioni del presidente Saleh e per giorni, quotidianamente, ebbero luogo scontri tra manifestanti e polizia e fra filogovernativi e oppositori. Divennero sempre più numerose le voci che si levavano contro Saleh e la forza impiegata per sedare i tumulti che, facendosi sempre più brutale, mieteva numerose vittime22.

Ormai ovunque venivano sfidati i divieti delle autorità a manifestare il proprio dissenso e la repressione violenta delle forze di sicurezza.

15Cronologia degli eventi della crisi libica e nell‟area MENA, op. cit. 16

S. Tadros, La vera storia della rivoluzione egiziana, in "Limes", 4 febbraio 2011, http://temi.repubblica.it/limes/la-vera-storia-della-rivoluzione-egiziana/19653

17

A Year of rebellion. The state of human rights in the Middle East and North Africa, op.cit.

18

Come è stato dimostrato dal proseguire delle manifestazioni, proprio la presenza del Consiglio Supremo ha rappresentato uno dei fattori che in Egitto ha impedito la pacificazione sociale.

19

R. Buongiorni, I regimi longevi che barcollano, in "Il Sole 24 Ore", 28 gennaio 2011,

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-28/regimi-longevi-barcollano-063737.shtml?uuid=AazKDZ3C&fromSearch.

20

Ibidem.

21Cronologia degli eventi della crisi libica e nell‟area MENA, op. cit. 22

Ibidem. Per tutto il mese si susseguirono le proteste e il conto delle vittime continuò ad aggravarsi. Il 25 Febbraio ad Aden si raccolsero diecimila persone ma «la manifestazione venne dispersa dalla polizia con gas lacrimogeni e colpi d‟arma da fuoco provocando sette morti e circa quaranta feriti». Ci furono perciò persone che si dissociarono dal presidente Saleh. Otto deputati del Congresso generale popolare si erano già dimessi in segno di protesta contro le modalità di repressione nel paese, e anche i capi di due delle più importanti tribù, gli Hashed e i Baqil, stavano ora privando del proprio appoggio il presidente yemenita.

(8)

Il 14 febbraio lo tsunami raggiunse anche il Bahrain, considerato fino ad allora uno dei più liberali paesi del Golfo, in cui si ebbero mobilitazioni di massa in nome di maggiore libertà, di giustizia sociale, di riforme politiche e costituzionali, cui il governo rispose con livelli inaspettati di violenza23.

Il giorno seguente l‟onda insurrezionale travolse anche la Libia: a Benghasi la notizia dell‟arresto di un‟attivista dei diritti umani aveva infiammato gli spiriti24

e ad al-Bayda due dimostranti erano stati uccisi negli scontri con la polizia25. Iniziarono così gli scontri, tra gli oppositori al governo di Muʿammar al-Gheddafi e le forze di polizia sostenute dai filogovernativi26, che in breve tempo si aggravarono, sfociando in un vero e proprio conflitto armato. Il 21 febbraio Gheddafi bombardò Tripoli, le sedi del Comitato Generale Popolare (organo esecutivo) e del Congresso Generale del Popolo (organo legislativo) vennero incendiate e le società petrolifere evacuarono il personale27.

Il giorno seguente il governo algerino, nel tentativo di arginare le rivolte, revocò lo stato d'emergenza in vigore da undici anni e approvò misure per contrastare la forte disoccupazione giovanile.

Alla fine del mese, in Egitto, nonostante il cambio di regime avvenuto (il nuovo governo aveva prestato giuramento il 16 febbraio), migliaia di persone tornarono in piazza Taḥrīr al Cairo chiedendo le dimissioni del primo ministro Ahmed Shafiq e, ancora una volta, la polizia militare disperse la folla con proiettili e manganelli.

Intanto la crisi libica si era aggravata. Mentre i media internazionali, al-Jazeera in primis, trasmettevano le cronache degli scontri, la comunità internazionale aveva deciso di intervenire apertamente: l'Onu aveva infatti approvato il 26 febbraio sanzioni contro la Libia, fra cui il congelamento di beni economici e finanziari appartenenti a Gheddafi e ad altri esponenti del regime, nonché l‟embargo sulla vendita di armi al paese28

e nel mese di marzo autorizzò gli Stati membri a prendere “tutte le misure necessarie” alla protezione dei civili, stabilì una "No Fly Zone" sui cieli libici e autorizzò a prendere “tutte le misure necessarie” affinché il divieto di sorvolare lo spazio aereo libico fosse rafforzato e garantito 29.

Il mese di marzo fu anch'esso drammaticamente caratterizzato da proteste e scontri e, sotto

23

A Year of rebellion. The state of human rights in the Middle East and North Africa, op.cit, p.32.

24

Libiyan protesters clash with police in Benghazi, in "The Guardian”, 16 febbraio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/feb/16/libyan-protesters-clash-with-police

25

I. Black, Libya's day of rage met by bullets and loyalists, in "The Guardian", 17 febbraio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/feb/17/libya-day-of-rage-unrest

26

Libiyan protesters clash with police in Benghazi, op. cit.

27

Cronologia degli eventidella crisi libica e nell‟area MENA, op. cit

28

Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, 26 febbraio 2011, S/RES/1970 (2011)

29

(9)

«l‟onda lunga della rivoluzione»30

, il teatro delle rivolte arabe si allargò.

All'inizio del mese in Arabia Saudita vennero bandite le proteste pubbliche dopo appena due settimane di dimostrazioni ad opera di gruppi sciiti, cui si era risposto arrestando ventidue manifestanti. Re Abdullah, però, aveva iniziato a sedare le proteste con una pioggia di dollari già da quando, tornato in patria dopo mesi di assenza durante i quali si era sottoposto a cure mediche all'estero, temendo che le proteste fino ad allora esigue potessero prendere piede, promise l'elargizione di trentasette miliardi di dollari a favore dei cittadini sauditi31; vedremo più avanti come il governo trovò in questa strategia un efficace argine al diffondersi del vento rivoluzionario nel suo paese32.

Il 15 marzo si manifestava in Palestina chiedendo la fine della divisione interna dei movimenti politici al-Fatah e Hamas in favore di una Palestina unita33. Per la prima volta, il 25 marzo in Giordania, ad Ammam, la polizia caricò i dimostranti; il bilancio degli scontri fu di un morto e cento feriti34.

Poi fu la volta dei siriani, che presero coraggio e sfidarono il pugno di ferro della famiglia al-Asad che per quarant'anni aveva messo a tacere ogni dissenso. Il 18 marzo, infatti, le proteste iniziarono a diffondersi dopo che era stata dispersa una manifestazione pacifica a Dara'a in cui si chiedeva il rilascio di un gruppo di adolescenti che, per aver scritto su un muro slogan antiregime, erano stati arrestati. Il governo del presidente Bashār al-Asad rispose con la brutale repressione che accompagno in seguito i movimenti insurrezionali siriani.

«Nei mesi seguenti, centinaia di magliaia di siriani si liberarono di decenni di paura per chiedere i propri diritti e un cambiamento politico. […] La resistenza sembrava scaturire spontaneamente da anni di frustrazione e rabbia. Settimana dopo settimana i manifestanti sfidarono la violenza estrema delle forze di sicurezza35.

A ogni nuova protesta si affiancarono nuovi slogan spesso rivolti alla comunità internazionale: «Your silence is killing us»36.

Si deve però ricordare che per quanto riguarda la rivolta siriana, un aspetto è stato

30

B. Zarmandili, Se il Cairo non è Tunisi e Tripoli non è Teheran, op. cit..

31

Saudi Arabia bans public protest, in "The Guardian", 6 marzo 2011 http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/06/saudi-arabia-bans-public-protest.

32

Saudi Arabia's king announces huge jobs and housing package, in "The Guardian", 18 marzo 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/18/saudi-arabia-job-housing-package.

33

H. Sherwood e H.Balousha, Gaza and West Bank protests demand end to Palestinian divisions, in "The Guardian", 15 maggio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/15/gaza-west-bank-unity-protests.

34

Centinaia verso Daraa contro il regime. Arresti a Damasco, 20 morti a Samnin, in "La Repubblica.it", 25 marzo 2011, http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/25/news/siria_25_marzo-14080549/.

35

A Year of rebellion. The state of human rights in the Middle East and North Africa, op.cit., p.26.

36

(10)

decisamente trascurato dai media. Al di là della tesi del «complotto straniero», con cui al-Asad ha tentato di giustificare le rivolte in atto, è innegabile che egli goda nel suo paese del sostegno di larghe fasce della popolazione, soprattutto presso le minoranze religiose che temono il forte radicamento islamista che caratterizza un'ampia fascia dell'opposizione governativa37.

In realtà vi furono anche altri paesi ad essere sfiorati dall'ondata protestataria: Iraq, Iran, Israele, Kuwait, Marocco, Oman...

Quello che ho descritto sommariamente è solo l'inizio delle rivolte arabe che si svilupparono durante tutto il 2011, «anno di ribellioni», e che sono continuate nel 2012. In ciascun paese hanno avuto caratteristiche e sviluppi peculiari, in parte ancora da delineare, trattandosi di processi ancora in atto.

1.2 Tratti comuni alla base dell'insorgere delle ribellioni.

Durante tutto il 2011, come si è visto, milioni di persone di tutte le età ed estrazioni sociali, "dal Maghreb al Mashreq”,38

fino al Medio Oriente, si sono riversate nelle strade per rivendicare maggiori libertà, giustizia sociale, opportunità di lavoro, fine della corruzione e alternanza al potere.

Data la rapida diffusione del vento rivoluzionario che ha iniziato a soffiare a partire dalla Tunisia, è evidente che i diversi paesi coinvolti e le ribellioni che vi sono scoppiate siano caratterizzati da una qualche causa comune. Innanzi tutto il malcontento non è nato improvvisamente nel dicembre 2010, ma è stato frutto di molteplici fattori endogeni ed esogeni che hanno agito da tempo. Riprendendo un espressione di James Petras si può immaginare che le rivolte arabe siano state prodotte da una «struttura a imbuto»39, all'estremità più ampia del quale si collocano fattori di rilevanza globale e comuni caratteristiche politico-economiche che possono essere riassunte in due distinte circostanze: da un lato, la crisi economica globale e la speculazione che hanno gonfiato i prezzi dei beni alimentari e aggravato le condizioni economiche di molti; dall'altro, «il progressivo rafforzamento dell'autoritarismo, della repressione e della chiusura degli spazi di espressione politica»40, seppure con gradi e modalità diversi da paese a paese. Nel

37

G. Guarini, intervento pronunciato in occasione della conferenza Dopo "la primavera". Dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali, svoltasi a Fontenuova (RM) il 26 novembre 2011, http://www.eurasia-rivista.org/dopo-la-%E2%80%9Cprimavera%E2%80%9D-dalle-rivolte-arabe-ai-nuovi-assetti-globali/12482/

38“Limes, n 1, 2011”, Il grande tsunami, p.1 39

J. Petras, Roots of the Arab Revolts and Premature Celebrations, in "The James Petras Website", 3 marzo 2011, p., http://petras.lahaine.org/?p=1842

40

(11)

primo caso ci si riferisce al fatto che negli ultimi anni, in molti di questi paesi, l'aumento dell'inflazione ha causato la riduzione del potere d'acquisto di larghe fasce della popolazione e ciò è avvenuto in concomitanza alla stagnazione dei salari.41 A livello internazione si è assistito all'impennata dei prezzi dei beni alimentari, che sono aumentati del 32% soltanto nel 201042, alla quale hanno contribuito, oltre che la speculazione finanziaria, le catastrofi naturali che nello stesso anno hanno colpito alcuni dei maggiori esportatori di cerali43. Possiamo immaginare l'effetto che ciò può avere avuto in paesi, come l‟Egitto, primo importatore di grano al mondo, ma anche l‟Algeria, la Libia, la Tunisia, la Siria, lo Yemen e molti altri, che dipendono fortemente dall'importazione di generi alimentari e che quindi sono particolarmente sensibili dell'oscillazione dei prezzi a livello globale.44

Per quanto concerne il secondo fattore, si fa riferimento alla presenza di monarchie assolute o «repubbliche bloccate da presidenti a vita e cariche ereditarie»45, che Goldstone chiama «dittature da sultanato»46. Queste compongono la cornice entro cui si possono inserire le ragioni politico-economiche alla base delle rivolte arabe, si tratta di regimi in cui «il leader nazionale ha espanso il proprio potere personale a spese delle istituzioni formali», governati da dittatori che non fanno appello a particolari ideologie e non hanno altro scopo che mantenere la propria personale autorità. Essi hanno mirato ad accumulare ingenti ricchezze con le quali comprare la fedeltà dei propri sostenitori e rendere sconveniente o pericoloso opporvisi47.

«Un potere si è innalzato al di sopra dello stato – afferma S. Aita – e si è dotato dei mezzi per sopravvivere»48.

La maggior parte delle economie arabe coinvolte dalle rivolte, inoltre, sono da tempo

CNEL dall'Istituto Affari Internazionali, 13 dicembre 2011, p. 19,

http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=22670

41

M. C. Pacielli, La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali, op.cit., p. 16.

42

J.A. Goldstone, Undarstending the Revolution of 2011, "The New York Times", 14 aprile 2011, http://www.nytimes.com/2011/04/15/opinion/15iht-edgoldstone15.html

43

B. Grillo, La grande fame , 8 gennaio 2011, http://www.beppegrillo.it/2011/01/la_grande_fame.html. Le condizioni climatiche che hanno preceduto il 2011 hanno danneggiato i raccolti di alcuni dei più grandi esportatori di cerali, si pensi alle alluvioni in Australia, alla siccità in Argentina e soprattutto agli incendi che nel 2010 hanno devastato la Russia. Fra giugno e dicembre 2010 la FAO riportava un aumento dell‟indice dei prezzi dei beni alimentari del 32%. Questi a dicembre raggiungevano i picchi del 2008 e facevano presagire nuove ʺrivolte del paneʺ nei paesi in via di sviluppo. N. Neuman, U.N. Data Notes sharp rise in world food prices, 5 gennaio 2011, http://www.nytimes.com/2011/01/06/business/global/06food.html.

44

M. C. Pacielli, La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali, op.cit, p.16.

45

S. Aita, Abbattere il potere per liberare lo stato, in "Le Monde Diplomatique", aprile 2011, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Aprile-2011/pagina.php?cosa=1104lm14.01.html.

46

J.A. Goldstone, Undarstending the Revolution of 2011, op. cit.

47Ibidem. L‟autore aggiunge: «They may preserve some formal aspects of democracy […] but they rule

above them by installing compliant supporters in key positions. The Middle Eastern exemplars include Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubārak in Egypt, Muammar el-Qaddafi in Libya, Ali Abdullah Saleh in Yemen, and Bashār al-Assad in Syria.»

48

(12)

basate su rendite derivanti da petrolio, gas e turismo49. Questi settori economici si delineano come «enclaves dell'esportazione»50 che impiegano una frazione molto ridotta di forza lavoro e delineano un'economia altamente specificata. Mentre il petrolio viene esportato, «i prodotti manifatturieri finiti così come i servizi finanziari e high tech sono tutti importati e controllati da multinazionali ed esponenti legati alla classe dirigente»51. Il turismo si basa sul capitale straniero ed è fonte di ricchezza per gli imprenditori collusi con il potere, che favoriscono gli investimenti e l'importazione di manodopera edile estera, perseguendo i propri interessi economici spesso nella totale assenza di trasparenza.

Ciò ha consentito alla «classe-clan di stato»52 di accumulare ingenti ricchezze ulteriormente accresciute dall'aumento dei prezzi dell'energia.

Nonostante i governi non mancassero di liquidità, “l'economia di rendita” non ha permesso di sviluppare un‟economia che sfruttasse le risorse umane e naturali esistenti in un‟ottica produttiva diversificata che integrasse le economie locali53. Ne è derivata una concentrazione di capitali, alla quale però non è seguita alcun tipo di ridistribuzione che mirasse a estendere il processo di sviluppo economico e d'innovazione, «gli investimenti nell'agricoltura, nell'industria o nei servizi ad alto valore aggiunto sono stati assolutamente insufficienti. [...] La qualità dello sviluppo dell'economia reale non ha mai interessato i governi locali o i paesi e le istituzioni che li aiutano»54. Anzi, sono nati fondi da miliardi di dollari depositati al sicuro in conti privati nelle banche straniere55 e si sono così affermate classi dirigenti che costituiscono un «clan che confonde la proprietà pubblica con quella privata». I regimi hanno collocato ai gradini più alti della società e a capo dei settori strategici la propria famiglia, che può contare su una rete clientelare composta da capi tribali, entourage politico e tecnocrati56.

Le riforme di liberalizzazione economica che sono state introdotte si sono poi rivelate un efficace strumento di consolidamento del potere avvantaggiando solamente imprenditori legati all'élite dirigente. «Anche gli investitori stranieri non sono sfuggiti a questo fitto

49

Si fa qui riferimento ai Rentier State e ai semi-Rentier State. I primi consistono in paesi che dipendono dalle rendite petrolifere o di gas naturale (ne sono un esempio la Libia o l'Algeria), i secondi sono invece gli Stati che non possedendo risorse energetiche traggono le proprie rendite da altri settori, comunque a bassa produttività, o da risorse strategiche, fra le quali possiamo citare ad esempio il proprio ruolo politico o militare nella regione. Della seconda categoria fanno parte, ad esempio, Tunisia, Egitto, Siria e Giordania. Per una trattazione dell'argomento più aprofondita si veda H. Beblawi, The Rentier State in the Arab World, in G. Luciani (ed.), The Arab State, 1990, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, p.85-98.

50

J. Petras, Roots of the Arab Revolts and Premature Celebrations, op.cit., p. 1.

51

Ibidem.

52

Ibidem.

53

G. Corm, I popoli arabi ritrovano l'unità, in "Le Monde Diplomatique”, aprile 2011, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Aprile-2011/pagina.php?cosa=1104lm11.01.html.

54

G. Corm, I popoli arabi ritrovano l'unità, op. cit..

55

T. Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini, op. cit., p.15.

56

(13)

sistema di corruzione, compromessi e favoritismi con i regimi in carica»57. Sono state così favorite grandi «multinazionali in situazioni di monopolio o di oligopolio» in cambio della spartizione con il vertice del potere della rendita ricavata58. Per queste ragioni è praticamente assente una classe media o un settore imprenditoriale dinamico capace di generare opportunità di lavoro, sono perlopiù considerati appartenenti a tale fascia della società gli impiegati del settore pubblico. L'industria manifatturiera nazionale e i settori agricolo e tecnico sono stati mortificati.

Concentrazione, quindi, del potere economico, sociale e politico in un sistema chiuso e controllato, una piramide al vertice della quale siede un'oligarchia di multimilionari e alla base una massa di giovani sottopagati e sottoccupati. In alcuni paesi tale combinazione fornisce un reddito medio falsamente elevato che non rende giustizia alla reali fratture economiche che percorrono la società59.

La corruzione, le pratiche predatorie, il nepotismo e il perpetuarsi di inefficienze nell'economia, insomma, sono state favorite.60

Da una parte, questo schema ha spinto le famiglie regnanti ad assicurarsi la stabilità della propria posizione attraverso quella che Petras chiama «neo-colonizzazione su invito». Queste infatti hanno spesso legato il proprio potere all'industria multimiliardaria delle armi e cercato la protezione militare delle potenze internazionali, acconsentendo a fornire appoggi strategici, si trattasse di basi militari, aeree o navali, della collusione con l'industria finanziaria speculativa, del finanziamento di gruppi mercenari o di accordi energetici vantaggiosi.

Dall'altra parte si è cercato di gestire, ma anche perpetrare, il divario economico tra le fasce della società attraverso uno stato paternalistico e assistenzialistico di sussidi per le masse urbane povere e per i disoccupati o i sottooccupati61.

Le istituzioni finanziarie internazionali, così come le banche locali, però non hanno aiutato a migliorare la situazione spingendo i governi ad aprire i propri mercati e le imprese pubbliche ad investitori privati e introducendo le sopra citate riforme neoliberali per ridurre il deficit derivante dalle crisi globali.

L'indebolimento dello Stato e dei servizi pubblici è stato così inevitabile. Tali politiche si sono infatti concretizzate nel ridimensionamento della politica dei sussidi, che è andata a coronare una già progressiva crisi del sistema del welfare e una diminuzione degli impieghi pubblici, che rappresentavano per altro una delle poche opportunità cui

57

M. C. Pacielli, La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali, op. cit., p. 19.

58

S. Aita, Abbattere il potere per liberare lo stato, op. cit..

59

J. Petras, Roots of the Arab Revolts and Premature Celebrations, op.cit., p. 2.

60

M. C. Pacielli, La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali, op. cit., p. 20.

61

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aspiravano i giovani istruiti62.

I disoccupati, o sottoccupati, rappresentavano all'inizio del 2011 dal 50% al 65% della popolazione con meno di 25 anni, i giovani istruiti erano relegati a impieghi sotto pagati e privi di una qualsivoglia tutela tipici dell'economia informale63.

I membri dei governi erano cooptati al vertice dello stato; nel migliore dei casi si trattava di tecnocrati provenienti dalle grandi istituzioni internazionali (la Banca Mondiale, in particolare). […] Lo stato era ormai percepito come una burocrazia. Anche l'esercito si indeboliva, a vantaggio di forze pretoriane ben equipaggiate garanti della perennità del potere64.

L'industria finanziaria beneficiava delle liberalizzazioni traendo vantaggio dai debiti pubblici, manipolando le offerte di credito e vincolando i debitori con contratti iniqui, mentre «i regimi autoritari mostravano la loro natura con le loro uniformi, le prigioni politiche e il loro stato di emergenza, con l'arroganza della loro classe avida e nepotista»65. Il quadro socio-economico e politico ha quindi esasperato la frustrazione e il risentimento tra la popolazione, rivelandosi insostenibile e sfociando in mobilitazioni spontanee di massa. Le sue radici sono da ricercarsi, come abbiamo visto, soprattutto nelle politiche economiche per le quali i regimi autoritari hanno posto le basi sin dagli anni '70 e cui «il nuovo risveglio vuole porre fine»66.

Il fattore che smuove le masse e fa tremare i regimi resta comunque la povertà. - dichiarava Alma Safira - La mancanza di democrazia di per sé non è un fattore sufficiente a scatenare la rivolta […] La povertà ha invece costretto la gente a scendere in strada a rischio di farsi sparare, per cercare di ottenere una migliore distribuzione delle risorse. La democrazia piace al mondo arabo non tanto per i suoi valori ma per la sua capacità redistributiva67.

Il potere di emulazione e la sorta di effetto domino scatenato dal parziale successo tunisino ed egiziano si può comprendere solo considerando gli aspetti appena affrontati. I fatti della Tunisia hanno potuto agire da detonatore con effetti di una certa importanza solo là dove si condividevano problematiche storiche di polarizzazione della società fra una classe dirigente, un clan, che attrae tutte le rendite e una società esclusa dal godimento delle risorse dello Stato e dello sviluppo.68

62 Ivi, p. 3. 63 Ibidem. 64

S. Aita, Abbattere il potere per liberare lo stato, op. cit..

65

D. Duclos, Il potere messo a nudo dalle sue crisi, in "Le Monde Diplomatique", luglio 2011, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Luglio-2011/pagina.php?cosa=1107lm03.01.html

66

S. Aita, Abbattere il potere per liberare lo stato,op. cit..

67

A. Safira, Qatar, baluardo dell'ancien régime, in "Limes n 3, 2011", (Contro) Rivoluzioni in corso..., op. cit., p. 147.

68

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1.3 Componenti

È importante sottolineare che le insurrezioni non sono state caratterizzate da leadership ben identificabili, né si sono sviluppate sull'ideologia tradizionale.

Nei mesi precedenti alle rivoluzioni le strade arabe hanno conosciuto una tale disperazione che l'incertezza, instillata dai regimi autoritari, è passata in secondo piano69.

Ecco quindi le grandi manifestazioni di massa, di cui in parte si è parlato, che hanno sfidato i divieti dei regimi e la repressione violenta. Ma da chi sono stati e sono tutt'ora composti i movimenti di protesta? Quanto hanno pesato i movimenti tradizionali di matrice islamica? Dopo tutto si è spesso sentito parlare dei timori riguardanti il peso e il ruolo che i partiti e i movimenti islamici avrebbero potuto avere, prima, durante le rivolte e poi nelle fasi di transizione, là dove le insurrezioni hanno portato a un cambiamento di regime o comunque a rilevanti cambiamenti istituzionali.

1.3.1 Una rivoluzione spontanea che viene dal basso

La «prima carica che esplode dopo la scintilla di Sidi Bouzid» è stata la disoccupazione o sotto occupazione dei giovani diplomati70. In Tunisia, ad esempio, come spiega Mahmoud Ben Romdhane, intervistato da Oliver Piot, a partire dall'era di Habib Bourghiba (1956-1987) si è cercato di diffondere il «credo sacralizzato» dell'ascesa sociale grazie allo studio, al lavoro e al merito, il che creò uno stuolo di diplomati: dagli 8.000 degli anni '80 si era passati ai 75.000 all'anno tra il 2008 e il 2010.

A partire dagli anni '90 in poi, lo Stato aveva incoraggiato i giovani non solo a diplomarsi ma a proseguire gli studi. La tendenza alla scolarizzazione però «non ha fatto che differire lo scoglio del posto di lavoro», e secondo uno studio del 2010 (ancora citato da Piot) il 72% dei disoccupati in Tunisia aveva meno di 30 anni, nonostante i tassi di crescita annua offrissero l'illusione di un paese benestante. Perciò dopo aver cullato la speranza delle nuove generazioni e delle loro famiglie in un futuro migliore, si è lasciato che il loro sogno si infrangesse, lasciando una gran quantità di essi alla disoccupazione, peraltro spesso senza sussidio. Ecco i primi protagonisti: i giovani (che costituiscono un'ampia percentuale della popolazione) diplomati, disoccupati o che non hanno potuto studiare fino al diploma, a loro si sono uniti gli adulti, «genitori e nonni, anche loro colpiti dalla disoccupazione ma,

69

Z. Eyadat, La primavera araba: cosa ha funzionato?, in "Rivista di Studi Politici", a XXIII n. 4, ottobre-dicembre 2011, p.143.

70

O. Piot, L'indignazione matrice della rivoluzione, in "Le Monde Diplomatique", febbraio 2011, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Febbraio-2011/pagina.php?cosa=1102lm10.01.html.

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soprattutto, furiosi per tutti gli anni di sacrifici in nome di un inutile scolarità dei figli». Da questa generazione, che non ha conosciuto che un regime liberticida e che si è fatta forte delle tecnologie dell'informazione per elaborare il proprio spazio di libertà e contestazione, la rivolta si è estesa alle altre categorie e cioè sia alla classe media sia alla borghesia liberale, commerciante e finanziaria che si era sviluppata in Tunisia negli anni '90 per poi venire emarginata «dalle reti mafiose della famiglia di Ben Ali e dal clan dei Trabelsi»71. In generale il fatto che i regimi dei paesi coinvolti abbiano impedito lo sviluppo di organizzazioni sociali e lasciato che una larga parte della popolazione disoccupata o sottoccupata non avesse accesso ad attività produttive moderne ha fatto sì che il centro dell'attività politica e sociale si trovasse «nelle piazze, nei chioschi, nei caffè, agli angoli delle strade e nei mercati» intorno ma fuori dai centri amministrativi del potere assolutista. Le masse urbane, non trovando spazio nel sistema economico, si sono potuti perciò dedicare a mobilitazioni di massa capaci di paralizzare le strade. Tali insurrezioni hanno poi fornito l'opportunità anche ad altre componenti di unirsi alle proteste, ad esempio liberi professionisti e impiegati del settore pubblico che si erano fino ad allora trattenuti dall'organizzare proteste di categoria nel timore di perdere il proprio posto di lavoro.

Si sono così delineate rivolte di massa, nate da organizzazioni informali talvolta improvvisate (forse a eccezione di alcuni giovani e soprattutto degli studenti universitari che hanno potuto sfruttare a pieno gli strumenti offerti da internet) capaci di riempire le piazze, delegittimare l'autorità dello stato oligarchico e paralizzare l'economia72.

I regimi sono stati colti di sorpresa dalle rivolte popolari proprio perché queste in principio sono spontaneamente sorte dal basso e al di fuori da quelle organizzazioni formali o di opposizione lungamente represse e perseguitate.

1.3.2 Il ruolo dell'Islam politico

Le piazze colme di manifestanti hanno reclamato la fine dei regimi autoritari e della corruzione, hanno domandato libertà, democrazia, giustizia, fine dell'oppressione economica e rispetto dei diritti umani. Le masse hanno cioè avanzato rivendicazioni fondate su principi universali e «su battaglie non ideologiche»73. Alcuni osservatori occidentali avevano avuto modo di osservare, diversamente da quanto si era visto in passate occasioni di agitazione, l‟assenza di bandiere statunitensi o israeliane date alle

71

Ibidem.

72

J. Petras, Roots of the Arab Revolts and Premature Celebrations, op. cit., p. 4.

73

Il ruolo dell'islam politico nella Primavera Araba, in “Medarabnews”, 29 giugno 2011, http://www.medarabnews.com/2011/06/29/il-ruolo-dell%E2%80%99islam-politico-nella-primavera-araba/.

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fiamme o di folle inneggianti slogan islamisti. Tuttavia non si deve dimenticare che i paesi oggetto delle sollevazioni popolari sono di fatto paesi a maggioranza musulmana, nonché caratterizzati da contesti culturali «fortemente permeati dall'espressione religiosa nella vita civile e sociale»74, perciò non deve stupire che forze di ispirazione islamica abbiano avuto un ruolo di primo piano.

Le componenti islamiste non hanno avuto un ruolo trainante nello scoppio delle rivolte e non solo non hanno inizialmente guidato le sollevazioni popolari, ma addirittura in alcuni casi vi si opposero75, salvo poi prendervi parte una volta che queste mostrarono la possibilità di sopraffare i regimi, cercando infatti di colmare il vuoto di leadership e facendo leva proprio sulla sensibilità islamica, espressione di una società molto religiosa76. Nella fase post-rivoluzionaria, infatti, si è aperta una vera e propria competizione tra forze islamiche e forze laiche nel guadagnare la fiducia delle masse popolari77.

Facendo riferimento alla Siria, a luglio Thomas Pierret notava che «la debole influenza esercitata sul corso degli eventi dagli attori tradizionalmente dominanti il movimento islamico» era provata dal fatto che la rivolta si era diffusa maggiormente nelle zone rurali e nelle periferie popolari delle città piuttosto che nei luoghi dove questi attori erano maggiormente concentrati. Sottolineava però che «Questo non significa che gli attori citati siano fuori gioco, ma che se la rivolta verrà coronata da successo dovranno dividere la scena con forze nuove, ancora da identificare» e nella pagina seguente continuava:

Se un regime fosse chiamato a succedere a quello in carica difficilmente potrebbe esimersi dal tener conto delle opinioni degli ambienti rurali e popolari, che finora hanno costituito la parte essenziale della contestazione78.

Ad ogni modo, piuttosto che tentare un'analisi completa delle componenti di ispirazione islamica che possono aver preso parte alla «primavera araba», mi soffermerò brevemente su due di esse: i Fratelli musulmani e i Salafiti che hanno acquisito un peso rilevante sopratutto in Egitto. Infatti un «fermento politico dalle forti connotazioni religiose» si è fatto largo soprattutto dopo la caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubārak in Egitto, e ha avuto un ruolo di primo piano anche nella crisi siriana.

In questi paesi mediterranei, i movimenti islamici sono stati sovente perseguitati e repressi.

74

G. Guarini, op.cit..

75

Le rivoluzioni arabe e l'ascesa dell'Islam politico, in "Medarabnews”, 12 luglio 2011,

http://www.medarabnews.com/2011/12/07/le-rivoluzioni-arabe-e-l%e2%80%99ascesa-dell%e%80%99islam-politico/. P. Caridi, Fratelli coltelli: l'Ihwan entra in politica e si spacca, in "Limes n 3, 2011", (Contro) Rivoluzioni in corso..., op. cit., pp. 225.

76

T. Pierret, In Siria Allah non fa rima con fratelli , in “Limes n 1, 2012”, Protocollo Iran, p.152.

77

Il ruolo dell'islam politico nella Primavera Araba, op. cit..

78

T. Pierret, Il peso dell'Islam nella Siria che verrà, in "Limes n 3, 2011", (Contro) Rivoluzioni in corso..., op. cit., pp. 83-84.

(18)

Questo, come vedremo, è accaduto in Egitto, in Siria, in Tunisia, ma anche in Algeria dopo l'affermazione elettorale del Fronte Islamico di Salvezza. Dopo l'11 settembre 2001 poi, questi governi hanno avuto il pretesto per intensificare la repressione in nome dell‟alleanza con l‟Occidente contro il fondamentalismo islamico, spesso indirizzata anche alle correnti di ispirazione più democratica79.

Il movimento dei Fratelli musulmani (Ikhwan al-Muslimūn), nato in Egitto nel 1928, è stato per molti anni bandito dalla partecipazione politica e istituzionale. Già dal 1957 Nasser dichiarò l'illegalità del movimento e così fece anche Hafez al-Asad nel 1980, punendo gli appartenenti con la morte80. Quest'ultimo salì al potere in Siria negli anni '70, sfruttando le divisioni etniche e religiose del paese: oltre che dalla setta alauita, a cui apparteneva, fu sostenuto da drusi e cristiani che temevano l'affermazione della maggioranza sunnita, fu così che «gli oppositori si raccolsero attorno al clero islamico ortodosso. Una frangia estremista, formata in massima parte dalla Fratellanza musulmana», che nel 1979 giunse all'apice della propria offensiva assassinando oltre «quaranta cadetti della scuola di artiglieria di Aleppo»81.

Nel 1982 al-Asad rispose ordinando all'esercito di asserragliare la città di Ḥamā in cui erano concentrati molti fra i sunniti più conservatori ed esponenti del movimento. Dopo tre settimane la città fu rasa al suolo massacrando brutalmente tra le quindici e le quarantamila vittime, in maggioranza civili.

La terribile repressione della rivolta di Ḥamā non soltanto spezzò la spina dorsale dei Fratelli musulmani, ma servì anche come vivido memento ai sopravvissuti e ai membri delle altre organizzazioni che si opponevano al regime, contro ulteriori atti di disobbedienza. Di fatto la guerriglia islamica cessò di rappresentare un pericolo per al-Asad82.

La repressione permise anche al figlio Bashār di succedergli al potere diciotto anni dopo e quindi di governare senza il disturbo di opposizioni ingombranti. La Fratellanza però, a lungo (e tutt'ora) sostenuta dall'Arabia saudita e dalla monarchia hascemita giordana, non ha smesso «di crescere e sciamare nella maggior parte dei paesi arabi»83.

Il 2011 ha rappresentato per i Fratelli musulmani, e con loro per l'Islam politico, la fine

79

Le rivoluzioni arabe e l'ascesa dell'Islam politico, op. cit..

80

Dopo la repressione del movimento creato da al-Ḥasan al-Bannāʾ ad opera di Nasser, gran parte degli esponenti di spicco dei Fratelli musulmani espatriò in Siria, in Giordania e soprattutto trovò rifugio in Arabia Saudita. Dal momento che l'Ikhwan, lungi dall'essere un movimento monolitico, continuò ad operare in Paesi differenti, se ne svilupparono diverse correnti. Per comodità continuerò a parlare dei Fratelli musulmani come di un'unica entià ma non si dovrà dimenticare che il movimento è caratterizzato, oltre che da fratture interne, anche da declinazioni "geografiche".

81

G. Breccia, Siria, il risveglio dei fantasmi di Hamah, in "Limes n 3, 2011", (Contro) Rivoluzioni in corso..., op. cit., p.105.

82

Ibidem.

83

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dell'espulsione dalla partecipazione politica e istituzionale sulla quale poggiava l'alleanza, giustificata dalla lotta contro il fondamentalismo islamico, tra i regimi autocratici "laici"84 e la strategia occidentale85.

L'autonomia con cui molti giovani islamisti sono scesi nelle piazze egiziane insieme ad altri ragazzi ha dimostrato che la Fratellanza musulmana è stata travolta dalle sollevazioni così come altri settori della società. Dai primi giorni della rivoluzione il regime ha dimostrato di voler scendere a patti con l'Ikhwan, fatto che ha rappresentato un ulteriore motivo di divisione fra la dirigenza conservatrice da un lato e l'ala riformatrice e i giovani islamisti dall'altro; questi ultimi talvolta non si sono astenuti dal dare voce al proprio disagio esprimendo pesanti critiche anche sul web, per esempio sul blog Ikhwanweb. I contrasti, sorti dal conflitto ai vertici e dalla frattura generazionale, caratterizzavano infatti da tempo il movimento, lungi dal rappresentare una componente monolitica, e avevano già causato molteplici defezioni. Per un lungo periodo in effetti, l'ala riformatrice aveva creato legami con i settori liberali e laici di Kifāya86 nel tentativo di creare una forte opposizione al regime. Tale componente, di cui l‟esponente di punta era rappresentato da Abu al-Futuh, era stata isolata già dal 2007 e la riconferma di una dirigenza conservatrice si è consolidata con l'ultima scelta della guida suprema ricaduta su Muḥammad Badīʿ87. Si tratta perciò di una Fratellanza musulmana salita su un treno in corsa, nel periodo «più libero e meno conservatore della storia contemporanea egiziana». Il Consiglio supremo delle forze armate, una volta assunto il potere in seguito alla caduta di Mubārak, ha subito mostrato l'intenzione di fare della Fratellanza musulmana un interlocutore privilegiato.88

I Fratelli musulmani iniziarono così ad appoggiare il Consiglio militare supremo nel tentativo di porre fine alle sollevazioni rivoluzionarie e difatti a maggio decisero di non aderire alla «Seconda giornata della rabbia». Ciò ha dimostrato, come ha affermato Paola Caridi, che «la dirigenza conservatrice dell'Ikhwan ha beneficiato di una rivoluzione che non ha voluto».

Dal mese di febbraio la corrente annunciò l'intenzione di voler costituire un partito e infatti il 6 giugno 2011 nacque Libertà e Giustizia, appunto ispirato dall'Ikhwan e guidato da alcuni suoi esponenti di spicco, fuoriusciti appositamente dal movimento, per aggirare la legge che proibisce partiti di ispirazione religiosa e rimanere nella tradizione della

84Quando ci si riferisce ai governi di Ben Ali e Mubārak come regimi laici, si deve tener presente la

precisazione ripresa da G. Guarini e citata all'inizio del paragrafo: non va cioè dimenticata la pregnanza dell'espressione religiosa in una società a maggioranza musulmana.

85

P. Caridi, Fratelli coltelli: l'Ihwan entra in politica e si spacca, op. cit., pp. 225-232.

86Nome di un partito. In italiano significa basta!, è sufficiente! da “Dizionario di Arabo”, Bologna,

Zanichelli, 2004.

87

P. Caridi, Fratelli coltelli: l'Ihwan entra in politica e si spacca, op. cit., pp. 225-232.

88

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Fratellanza che sosteneva l'incompatibilità di incarichi di governo per i suoi esponenti. Perciò mentre il movimento raggiungeva finalmente l'agognato obiettivo del riconoscimento del proprio ruolo politico nel paese, esso era percorso dai più ampi contrasti interni; «il vento della Tawra, della rivoluzione, ha insomma liberato anche le diverse anime della Fratellanza musulmana. Anime già vibranti da anni»89.

Libertà e Giustizia ha poi cercato di accreditarsi come partito autonomo, cercando di attrarre il voto di tutti e non solo dei musulmani e degli islamisti90 e subito ha cercato di lanciare segnali tranquillizzanti a quelle componenti, fra cui l'Occidente, che temevano per le implicazioni future dell'Islam politico: nel contesto dell'intenso dibattito circa la futura natura dello Stato egiziano, l'Ikhwan contrappose a uno stato laico o a una teocrazia basata sulla Sharīʿa voluta dai salafiti, uno «Stato civile islamico» e cioè basato sui valori dell'Islam, ma non governato dal clero quanto da esponenti scelti mediante libere elezioni; essi propugnavano quindi uno stato che garantisse le libertà civili delle minoranze slegando il concetto di cittadinanza dall'appartenenza religiosa; accettavano inoltre la possibilità per le donne e i copti di candidarsi alla presidenza e affermavano di essere favorevoli al processo di liberalizzazione economico91.

Non si deve però dimenticare che esistono correnti islamiche (fra le quali ricordiamo anche quelle componenti riformiste fuoriuscite dalla Fratellanza) che hanno fatto riferimento apertamente a uno stato laico che guardasse al modello turco.

I salafiti hanno concezioni molto più rigorose rispetto ai Fratelli musulmani92.

Essi credono che alle sacre scritture si debba dare una lettura letterale, «il che rende il loro pensiero fondamentalista e dogmatico», sono favorevoli all'applicazione letterale della legge islamica e ritengono che l'attività di governo debba essere controllata da dotti religiosi. I salafiti sono a favore della segregazione sessuale e dell'adozione di un rigido codice di abbigliamento, il che è stato confermato dal fatto che in Egitto, durante la campagna elettorale del neonato partito An-Nūr (La Luce) ispirato al movimento salafita, le foto delle donne, che la legge obbligava a candidare, furono sostituite con un fiore o con le foto dei loro mariti93.

89

Ibidem.

90

P. Caridi sottolinea la scelta del partito di porre alla vicepresidenza il copto Rafiq Habib, e il fatto che un quarto degli aderenti al neonato partito non appartenevano all' Ikhwan.

91

Le rivoluzioni arabe e l'ascesa dell'Islam politico, op. cit..

92

In questo caso il riferimento è al salafismo wahhabita. Il wahhabismo è una corrente rigorista che oggi rappresenta l'ideologia ufficiale in Arabia Saudita. La «Wahhabizzazione dell'Islam egiziano si ebbe quando I Fratelli musulmani si rifugiarono in Arabia Saudita per sfuggire alle persecuzioni di Nasser»; negli anni '70 e '80 cospicui finanziamenti furono dedicati dal governo saudita per esportare tale ideologia fuori dai confini nazionali. In questo paragrafo ogni volta che citerò il movimento salafita (movimento in realtà tutt'altro che monolitico) mi riferirò a questa precisa corrente. Le rivoluzioni arabe e l'ascesa dell'Islam politico, op. cit..

93

(21)

Dal momento che, a differenza dell'Ikhwan, il salafismo aveva a lungo predicato il disinteresse per la partecipazione politica e alla vita pubblica, Mubārak ritenne che non costituissero un pericolo per il proprio potere in Egitto e acconsentì a concessioni, ad esempio licenze per canali satellitari, per i quali hanno oltretutto potuto contare sui finanziamenti provenienti da Stati del Golfo e che hanno rappresentato un efficace mezzo di propaganda.

All'inizio dell'anno, quando si infiammarono le rivolte, i salafiti non aderirono alle proteste, confermando il loro approccio apolitico e di non ingerenza nelle attività di governo, tuttavia bastò poco tempo affinché mutassero comportamento caratterizzandosi per un forte dinamismo politico consacrato appunto dalla nascita del partito An-Nūr.94 La Tunisia costituisce un caso a se stante in quanto caratterizzata a lungo da un processo di secolarizzazione iniziato fin dai tempi dell'indipendenza. Tale processo assunse spesso un carattere forzato tramite l'emarginazione delle istituzioni religiose e il divieto di alcune pratiche islamiche come quella di usare il velo. Si è trattato di un processo che costituisce il patrimonio tanto delle forze laiche quanto di quelle islamiche e oggi le leggi che prevedono il divorzio su basi paritarie e pari opportunità lavorative e di istruzione delle donne costituiscono l'orgoglio soprattutto in quelle zone urbane del nord e costiere, dove vive parte della società più ricca, istruita e liberale. Non si può però dire che l'identità islamica non sia radicata nella società, ma anzi rappresenta una realtà dalle molteplici sfaccettature.

Il partito islamico storicamente meglio radicato nella società è an-Nahda. Questo,dopo esser stato per anni vittima della repressione del regime, ha iniziato a riorganizzarsi dopo la caduta di Ben Ali, facendo propri i disagi economici e sociali degli strati della popolazione economicamente depressa. Le forze islamiche intendono recuperare quei valori religiosi e culturali che ritengono fondamentali per una società che urge di maggior giustizia ed eguaglianza.

Il futuro della Tunisia si gioca pertanto sulla possibilità di giungere a una riconciliazione delle istanze islamiche e laiche, ed alla definizione di principi condivisi [...] sostenendo quei valori di libertà, dignità e giustizia per i quali i promotori della rivoluzione hanno combattuto, contro un regime che, prima ancora che laico, era "predatorio"95.

I partiti islamici sono arrivati ad affermarsi in ben tre paesi in cui le rivolte erano sfociate in rilevanti cambiamenti istituzionali:

An-Nahda alle elezioni tunisine della fine di ottobre ha ottenuto il 40 % unendosi in una

94

Ibidem.

95

(22)

coalizione con alcuni partiti laici96.

In Marocco il partito Giustizia e Sviluppo (PJD) è divenuto, con le elezioni legislative di novembre, il partito di maggioranza relativa, ottenendo 107 seggi, anche se il potere effettivo è rimasto nelle mani del re97.

In Egitto nella prima tornata elettorale di fine novembre per l‟elezione del Consiglio del Popolo, Libertà e Giustizia ha ottenuto il 40 % delle preferenze, e An-Nūr il 25 %98.

In Libia i movimenti islamici hanno «costituito la prima linea dei ribelli» e al momento attendono le nuove elezioni sperando di far breccia in un‟opinione pubblica prevalentemente islamica; in Yemen hanno rappresentato una componente fondamentale delle proteste anche se l'abbandono di Ali Abdullah Saleh ha lasciato in piedi il vecchio apparato di potere; in Siria svolgono un ruolo chiave nel Consiglio Nazionale siriano che riunisce le correnti di opposizione al regime.99

Ragioni di sospetto verso i partiti islamici riguardano anche il legame che alcuni di essi hanno stretto con gli Stati islamici del Golfo, che lascia aperta la questione dei rapporti e dell'influenza che questi ultimi andrebbero a costruire con i paesi mediterranei nel caso di un'ascesa al governo di tali componenti.

Ma l'affermarsi di componenti di ispirazione islamica in molti dei paesi travolti dallo tsunami della rivoluzione ha suscitato, e continua a suscitare, dibattiti e preoccupazioni, soprattutto per quel che concerne l'influenza che queste potrebbero avere sul dibattito con le componenti laiche, sull'evoluzione democratica e sullo sviluppo economico. Si potrebbe però affermare che tali timori non devono necessariamente riguardare solo i movimenti islamici. Dopo tutto la "primavera araba" ha avuto inizio proprio per combattere regimi “laici” tutt'altro che democratici.

Secondo il giornalista palestinese Abdel Bari Atwan, il prevedibile successo di quei partiti è dovuto al fatto che l'elettore arabo medio è un musulmano moderato che ripone la propria fiducia nei partiti islamici avendo lungamente sofferto della corruzione e dell'oppressione di regimi laici dittatoriali che hanno saccheggiato le risorse e le finanze dei loro paesi100.

96

A. Chrisafis e I. Black, Tunisia elections winner: 'We're hardly the Freemasons, we're a modern party,in „The Guardian“, 25 ottobre 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/oct/25/tunisia-elections-islamist-party-winner.

97

Marocco, ufficiale: elezioni vinte dal blocco islamista, in „Peace Reporter“, 28 novembre 2011, http://it.peacereporter.net/articolo/31821/Marocco,+ufficiale%3A+elezioni+vinte+dal+blocco+islamista.

98

B. E. S. El-Khoury, Fratelli vs salafiti: la partita del Cairo, in “Limes”, n 1, 2012, Protocollo Iran, p.214.

99

Le rivoluzioni arabe e l'ascesa dell'Islam politico, op. cit..

100

(23)

1.3.3 Il ruolo dei social network

Da parte dei media occidentali, tra gli elementi che hanno contribuito a delineare la così detta “primavera araba”, è stato dato grande risalto ai social network. Questi sicuramente hanno dato un forte contributo all‟organizzazione delle proteste spontanee ed è stato un luogo dove molti giovani hanno trovato il proprio spazio d‟espressione. Ma rispetto alle voci entusiastiche relative al fatto che Facebook e Twitter si farebbero potenti strumenti di rivalsa e ribellione in mano ai popoli oppressi, si dovrebbe forse andare più cauti.

Innanzi tutto potrebbe essere utile citare alcuni dati relativi all‟utilizzo di internet in alcuni dei paesi travolti dalle rivolte.

L‟Egitto è sicuramente il paese nord africano con il maggior utilizzo di tecnologie dell‟informazione, poiché su una popolazione stimata nel 2011 di 82.079.636, il 26,4% avrebbe fatto uso di internet e al 31 marzo 2012 gli utenti di Facebook erano valutati intorno ai 10.475.940101.

Rispetto alla popolazione totale, gli internauti sarebbero poi stati il 36,3% in Tunisia, il 5,9% in Libia, il 19,8% in Siria, e il 3,4% in Yemen102, mentre gli utenti Facebook, facendo ancora riferimento al mese di marzo 2012, erano rispettivamente2.974.940 per la Tunisia, 498.820 per la Libia e 512.080 in Yemen103. Per la Siria gli utenti sarebbero circa 580 mila104, ma è da rilevare che il social network era stato oscurato dal regime di Bashār al-Asad già nel 2007105 e solo a febbraio 2011 ne era stato nuovamente consentito l'accesso nell'ambito di una promessa riforma alla legge sui media106.

Qual è stata dunque l'importanza politica di tali mezzi di comunicazione?

Hassanpour riflette su tale questione rilevando che la convinzione sul ruolo delle reti sociali come mezzo di incitamento alla rivolta si baserebbe sul presupposto che le «le mobilitazioni dipendono dalla disponibilità di informazioni capaci di svelare una verità fino ad allora dissimulata»; egli però ricorda che le «comunicazioni davvero sediziose il più delle volte restano invisibili», perché, se così non fosse, l'élite al potere le individuerebbe per metterle a tacere107 e ritiene che non si debbano sottovalutare altri fattori: il primo è che non sempre l'abbondanza di informazioni coincide con la verità, 101 www.internernetworldstats.com. 102 Ibidem. 103 www. Socialbakers.com/facebook-statistics. 104 http://socialmediasurfer.wordpress.com/tag/rivoluzione-siriana/. 105

K. Yacoub Oweis, Syria blocks Facebook in Internet crackdown, in "Reuters", 23 novembre 2007, http://www.reuters.com/article/2007/11/23/us-syria-facebook-idUSOWE37285020071123.

106

L. Williams, Syria to set Facebook status to unbanned in gesture to people, in "The Guardian" 8 febbraio 2011, http://www.guardian.co.uk/world/2011/feb/08/syria-facebook-unbanned-people.

107

N. Hassanpour, Rivolta egiziana con o senza Twitter, in "Le Monde Diplomatique", http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Febbraio-2012/pagina.php?cosa=1202lm20.02.html.

(24)

l'autore infatti cita diversi casi in cui la diffusione di false informazioni è stata il detonatore di importanti sconvolgimenti storici, e secondo Hassanpour in tale aspetto potrebbe risiedere una grande potenzialità dei social network in quanto «in periodo di agitazione, l'esagerazione e la mancanza di informazione possono rivelarsi più efficaci del resoconto minuzioso degli abusi del potere». Il secondo aspetto è quello per cui «i nuovi media sociali possono parimenti scoraggiare l'assunzione collettiva del rischio» in quanto la visibilità del controllo e della sorveglianza esercitati dal potere sugli individui contribuirebbe alla conservazione dell'ordine. L'utilizzo di tali tecnologie perciò non modificherebbe gli equilibri tra una «maggioranza che si oppone all'assunzione di rischi» e una «minoranza radicale» e quindi non necessariamente intensificherebbe la mobilitazione.

Tali premesse conducono l'autore a sostenere che, analizzando il caso egiziano, potrebbe sembrare che la decisione presa dalle autorità il 28 gennaio 2011 di interrompere le comunicazioni di internet e della telefonia, abbia esacerbato l'agitazione in modo ben più rilevante rispetto al loro mero utilizzo di esse. Tale convinzione risiede nel fatto che a partire da quel momento si assistette al decollo della mobilitazione e alla moltiplicazione dei focolai della protesta, che fino ad allora si era concentrata in piazza Taḥrīr e che rese più difficile l'azione delle forze dell'ordine. Il blackout delle comunicazioni avrebbe infatti costretto gran parte degli egiziani a trovare modalità alternative di raccolta e produzione di informazione, ad esempio, per quanto possa sembrare banale, si potrebbe pensare alle persone che, preoccupate per i propri congiunti, sono dovute scendere in strada per ottenere informazioni e si sono trovate perciò a «ingrossare i ranghi delle folle nelle strade». Ricapitolando, Hassanpour rileva come questi avvenimenti abbiano agito su tre aspetti: la mobilitazione delle persone che fino ad allora si disinteressavano o non si preoccupavano particolarmente della mobilitazione, il rafforzamento dei «contatti in carne ossa» che hanno favorito l'occupazione dello spazio pubblico, «decentralizzazione dei luoghi della ribellione mediante tattiche comunicative ibride» che hanno complicato il monitoraggio della situazione da parte delle autorità108.

Si è parlato molto dei social network anche per quello che concerne il movimento egiziano "6 aprile", di cui avremo modo di parlare più avanti. Tale movimento sarebbe legato al movimento serbo Optor che contribuì alla caduta di Milošević, del quale hanno ripreso il simbolo (il pugno chiuso). È emerso che "6 aprile", di cui si è scoperta l'appartenenza

all'Alliance of Youth Movements creata dal dipartimento di Stato americano, avrebbe

perciò fatto tesoro dei legami e dell'organizzazione di Optor dal quale avrebbero ricevuto

108

(25)

la formazione riguardante le tecniche di rivolta (unità, disciplina, pianificazione e resistenza non violenta) finalizzate a rovesciare il regime di Mubarak109. Sembrerebbe insomma che "6 aprile" avesse incominciato già prima del 2011 a istruirsi circa il superamento della censura dei regimi rimanendo nell'anonimato e le modalità dell'attività politica tramite i social network110.

109

E. C. Del Re, Il gelsomino nel pugno: il modello Optor nelle rivolte arabe, in "Limes n 3, 2011", (Contro) Rivoluzioni in corso..., op. cit., passim.

110

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