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Il terzo tipo prevede la costruzione di alloggi all’interno di un tessuto urbano già esistente e consolidato, fornito dei servizi necessari alla vita quotidiana dell’operaio

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CA P I T O L O 5 – EL E M E N T I C A R A T T E R I S T I C I D E L V I L L A G G I O O P E R A I O

5.1 Insediamenti industriali

Gli attori che cercano di dare una risposta soddisfacente alla domanda di abitazioni che si genera con l’industrializzazione sono molteplici e le proposte fatte, che variano in base ai contesti territoriali, culturali e ideologici, sono diverse.

I casi analizzati fino a ora sono quelli in cui è l’imprenditore che si fa direttamente carico della richiesta di alloggi1 e, di sua iniziativa, costruisce, promuove e pianifica luoghi di residenza per i propri dipendenti, ma le tipologie di intervento attuate dagli industriali sono varie e cambiano anche in base all’ideologia sposata dall’imprenditore. Se ne possono individuare 4 tipi: il primo, quello più radicale, prevede la realizzazione di un una nuova entità urbana, autonoma e indipendente dai contesti vicini, costruita intorno alla fabbrica e fornita di tutti i servizi necessari alla vita quotidiana, come strutture educative, luoghi di svago, spazi per attività sportive, negozi, ecc. Il secondo prevede la costruzione di piccoli sistemi urbani a ridosso di realtà già esistenti e con essi integrati, con servizi per gli operai forniti dall’impresa. Il terzo tipo prevede la costruzione di alloggi all’interno di un tessuto urbano già esistente e consolidato, fornito dei servizi necessari alla vita quotidiana dell’operaio. L’ultimo tipo di intervento, è quello in cui l’impresa non adotta una propria politica di costruzione edilizia, ma rileva edifici già esistenti o, al più, tenta di influenzare la politica urbanistica delle amministrazioni comunali.

Nella prima e seconda tipologia, si possono far rientrare i casi delle Company Town, categoria anglosassone corrispondente ai nostri villaggi operai2, perché in entrambi i casi il proprietario della fabbrica, attorno alla quale nasce l’insediamento, fornisce sia le abitazioni sia i servizi per operai e impiegati, creando così un microcosmo urbano autosufficiente, sebbene contiguo ad altri agglomerati.

La terza tipologia rappresenta un’involuzione del villaggio operaio, che si afferma quando l’adozione di nuove fonti energetiche permette di concentrare le industrie nei pressi o all’interno delle città e che in Italia inizia a diffondersi a ridosso della Prima Guerra Mondiale.

1 L’unica eccezione è rappresentata da Follonica, dove l’industria è statale.

2Angelo Nesti, “Introduzione,” Ricerche Storiche, no. 1 Anno XXXIX (Gennaio-Aprile 2009): 8.

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La terza e quarta tipologia costituiscono l’ossatura portante della città- fabbrica, che si afferma grazie alla diffusione di questi nuclei urbani promossi direttamente o indirettamente da imprenditori in cui c’è un riuso da parte degli operai di strutture residenziali già esistenti.

Questa distinzione tipologica, nell’ordine visto, costituisce anche una serie diacronica: il villaggio operaio, cioè il primo tipo visto, è la risposta al problema dell’abitazione nella prima fase dell’industrializzazione, quando la produzione è legata a fonti energetiche non trasportabili a lunga distanza; in questi casi la dislocazione della fabbrica è obbligata e generalmente avviene in contesti isolati e privi di abitazioni, per cui si rende necessaria la costruzioni di alloggi, in prossimità degli impianti produttivi, per i lavoratori che provengono dai paesi limitrofi.

Con la diffusione dell’energia elettrica, all’inizio del XX secolo, la dislocazione delle fabbriche diventa libera e gli imprenditori decidono di costruire le loro aziende nei pressi o dentro centri urbani, a contatto coi mercati di sbocco della produzione industriale, per cui si diffonde il modello insediativo del quartiere operaio, che quindi si colloca in un contesto più ampio e meno omogeneo del villaggio operaio, la città, che non è soltanto un contesto produttivo e sociale chiuso in se stesso. Il quartiere operaio incarna l’idea tipica dell’età giolittiana di inserire e far crescere la componente operaia all’interno di una dinamica più ampia, di renderla autonoma dal capitale e di utilizzare il conflitto sociale come strumento di crescita economica e civile.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, invece, la questione della casa per gli operai passa agli enti autonomi, quindi ad organismi pubblici, che svincolano gli imprenditori, cioè i privati, dalla necessità di portare avanti una propria politica edilizia. Durante il fascismo, però, in particolare dagli anni ‘20, l’idea del villaggio operaio viene recuperata a scapito del quartiere operaio3, perché meglio si coniuga con l’ideologia fascista: il fatto di costruire, oltre alle abitazioni, una serie di strutture che permettono la socializzazione e lo svolgimento di attività extra- lavorative, ben si sposa con il pensiero fascista che mira al controllo totale della popolazione.

L’elemento ideologico che caratterizza il villaggio operaio è il paternalismo:

l’imprenditore si fa carico della costruzione di alloggi e servizi per gli operai e si adopera per creare un ambiente di vita armonioso, in cambio si assicura il controllo della vita sociale dei dipendenti e contiene i conflitti tipici del sistema di fabbrica.

5.2 Il villaggio operaio come modello di insediamento

La rivoluzione industriale pone il problema dell’abitazione, che si tenta di risolvere con nuove configurazioni territoriali che interessano sia città antiche sia centri minori, in egual modo interessati dalle nuove attività produttive, fino alla creazione di centri produttivo-residenziali concepiti ex novo, come i villaggi operai.

3 L’inaugurazione del villaggio operaio di Torviscosa, il 21 settembre 1938, avviane alla presenza del Duce.

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La necessità di costruire questi insediamenti si verifica nel momento in cui le edificazioni realizzate nelle città esistenti, sia per iniziativa pubblica (comuni e governo) sia privata (cooperative), non sono in grado di soddisfare la domanda abitativa. Il villaggio operaio si pone così come mediazione tra esperienza utopica e intervento pubblico inteso come risoluzione di massa del problema socio-urbano indotto dal processo produttivo-industriale: nel momento in cui le misure promosse da enti pubblici non bastano a rinnovare il tessuto urbanistico delle città e, simmetricamente, le prospettive e le profezie degli utopisti di città immaginarie autosufficienti falliscono, i promotori dei villaggi operai, nei loro progetti, cercano di integrare aspetti caratteristici di entrambe queste esperienze, facendo sì che l’industriale mantenga un controllo totale sull’insediamento, che si caratterizza come nucleo autosufficiente.

In particolare, nel villaggio operaio ottocentesco, la cui localizzazione è funzione della presenza di materie prime o di fonti di energia, del basso costo della manodopera, della preesistenza di infrastrutture, della possibilità di espansione e di integrazione delle attività produttive industriali e agrarie, gli investimenti aziendali non sono circoscritti a spazi e strutture produttive, ma coinvolgono tutti gli elementi che fanno parte del vivere quotidiano, come l’istruzione e l’organizzazione del tempo libero.

Il villaggio operaio esemplare si configura quindi come un organismo indipendente, in cui fabbrica, casa, lavoro, vita familiare e vita sociale si integrano perfettamente, seguendo esempi differenti che derivano dal pensiero di ideologi utopisti, di filantropi, di uomini politici illuminati e di ingegneri igienisti; questo insediamento, pianificato nel dettaglio, appare allora come un microcosmo in cui tutti i bisogni sono soddisfatti attraverso la creazione di alloggi e servizi sociali che consentono di ottenere una società stabile in cui il pericolo di proteste è decisamente remoto.

«Il “villaggio operaio” va definendosi in tal modo come il risultato da un lato di un intervento a livello urbano o microurbano, strettamente legato a un’attività industriale, dall’altro come il risultato di un’iniziativa paternalistica, fondata sui principî di famiglia, religione, proprietà. L’importanza dell’elaborazione ideologica è pertanto pari a quella del bagaglio tecnico della sua realizzazione»4, e l’ideologia che è alla base della fondazione del villaggio operaio si manifesta attraverso l’architettura adottata. Il villaggio, progettato e costruito come unico e omogeneo, rispecchia in modo estremamente fedele l’ideologia dominante: le forme e i rapporti di spazi non sono più abbandonati all’anarchia costruttiva della speculazione selvaggia, ma sono leggibili come una sorta di manifesto, di dichiarazione di principî.

In questo senso è emblematico l’utilizzo del “sistema a villette” come abitazioni per gli operai, che consente la diluizione della concentrazione residenziale tipica delle città, dove gli spazi disponibili per le edificazioni sono pochi e costosi. Questo sistema, apparentemente di carattere tecnico, ha in realtà un fondamento ideologico forte, che è quello di evitare l’assembramento di operai,

4 Abriani, “Il villaggio operaio,” 39.

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di isolare gli individui socialmente potenzialmente pericolosi e di legare indissolubilmente il lavoratore alla fabbrica tramite la proprietà della casa.

Ecco dunque che questo tipo di insediamento inizia ad essere preso come modello di abitato, sia meccanico «sia come modello simbolico della realtà sociale nella sua totalità, dominata dal dualismo di capitale e lavoro, e che può essere interpretata e manipolata a partire appunto dalla sua riproduzione in “modello”, con la stessa scientificità con cui si interpretano e si manipolano ad esempio i fenomeni dell’elasticità dei solidi»5.

La questione del “modello” è particolarmente rilevante nell’ambito della cultura positivistica dell’800, perché basilare sul piano tecnico-scientifico per la comprensione dei vari fenomeni. Nel caso del villaggio operaio, è l’ingegnere igienista6 che si fa promotore di questo modello, riconducendolo all’ambito delle scienze naturali e considerando l’operaio come essere allo stato selvatico da addomesticare.

5.3 La morfologia del villaggio operaio

La nascita del villaggio operaio è subordinata all’esistenza di una fabbrica localizzata in una zona lontana da nuclei urbani. La collocazione dell’industria in un’area isolata è dovuta alla presenza di una fonte energetica, che può essere un corso d’acqua (soprattutto per le industrie tessili) o una miniera. Diventa perciò necessario fornire un’abitazione alle persone chiamate a lavorare nelle fabbriche, perché è impensabile che ci si possa spostare giornalmente dai centri abitati più vicini agli impianti produttivi, sia per le distanze da coprire, sia per le difficoltà di spostamento. Poiché gli operai hanno in gran parte origine contadina, si cerca di riportare nei nuovi insediamenti caratteri agricoli, in modo che la manodopera non si senta completamente avulsa dalle proprie radici.

Si può quindi dire che si instaura un rapporto di sudditanza tra uomo e industria, che si manifesta sia sul piano sociale sia nel sistema planimetrico e urbanistico del villaggio operaio7. La fabbrica assume il ruolo di nodo e fulcro dell’organizzazione urbana e, in fase progettuale, è imposta alla stregua di un monumento e diventa un luogo celebrativo unificante e onnicomprensivo. Nella maggior parte dei casi, le abitazioni sorgono attorno o tangenzialmente agli edifici destinati al lavoro.

In questo senso è emblematica la descrizione di Negri dell’organizzazione planimetrica di Crespi d’Adda, che ruota intorno all’incrocio di due assi ortogonali, uno dei quali impostato all’ingresso della fabbrica: «l’asse più lungo divide gli spazi del lavoro […] dagli spazi del riposo e del tempo libero […] e conduce dall’ingresso del villaggio fino al cimitero. L’asse più corto unisce la piazza alberata – luogo privilegiato d’incontro e di vita sociale – con l’entrata della fabbrica. La residenza dell’imprenditore-fondatore è significativamente eccentrica, sia nella forma che

5 Ibid., 41.

6 Si veda il paragrafo 3.2.

7 Marco Lorandi, “Crespi e la tipologia del villaggio operaio,” in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981): 188.

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nella collocazione, rispetto alla distribuzione regolare lungo vie parallele e perpendicolari delle case operaie […]. Visivamente propone una precisa gerarchia rispetto alle case operaie tutte uguali […] che si ripete nel cimitero, con il faraonico mausoleo della famiglia Crespi, […] sovrastante le schiere di tombe tutte uguali dei dipendenti»8.

I villaggi operai creati ex novo presentano generalmente un piano urbanistico unitario, che si sviluppa da una figura geometrica: centro fisico dell’insediamento è una piazza, attorno alla quale sorgono strutture ad uso collettivo, e da cui si diramano le principali vie che tagliano simmetricamente in sezioni uguali la pianta dell’insediamento. Questa geometrizzazione tende a caratterizzare tutti gli spazi del villaggio, in particolare la parte destinata alle residenze operaie: qui si cerca di evitare la presenza di edifici plurifamiliari, preferendo la costruzione di abitazioni per una o, al più, per poche famiglie9, che si inseriscono in un tessuto edilizio piuttosto rado. Le case sono contornate da spazi verdi, destinati anche a orto, e, nell’insieme, la planimetria di questa parte dell’insediamento è molto regolare perché si vuol dare una sensazione di ordine ed equilibrio che trova la sua massima espressione nella razionalizzazione dello spazio.

«La pianificazione dei quartieri operai secondo il volere dell’industriale paternalista si struttura sempre in uno schema rigido, ortogonale, “in quadrato”.

Vie diritte, incroci ad angolo retto, case poste a distanze predeterminate e costanti, netta divisione tra zone dedicate alla vita pubblica e zone residenziali: la geometria presa a modulo espressivo di una più generale concezione sociale di ordine, di disciplina, di gerarchia. Il mito dell’ordine, l’obiettivo dell’igiene fisica e mentale da raggiungere diventa, nella stesura di progetti a schema rigido, pratica quotidiana ed immutabile, fisicità su cui bloccare ogni tendenza all’affermazione di necessità alterative.

La rappresentazione esteriore come rifinitura e strumento al tempo stesso della più importante organicità formalizzata della struttura sociale totale. La pianta ortogonale diventa simbolo di appiattimento, negazione, rinuncia ai valori culturali più vitali e stimolanti in nome di una semplicità e pulizia artificiose e oppressive. La struttura della città riflette così fedelmente l’ideologia di dominanza-sottomissione tipica dei rapporti sociali, nell’ambito dello scambio lavoro-salario, allargandolo a comprendere l’intera vita associata, in una pianificazione martellante di distruzione dei rapporti interindividuali più spontanei e creativi»10.

È emblematico a questo proposito il caso di Schio, dove la soluzione presentata dall’architetto Negrin per la realizzazione dell’insediamento è sostituita da una nettamente diversa, basata su una rigida griglia ortogonale, suggerita dallo stesso imprenditore11.

Questo schema ortogonale, apparentemente ovvio e semplice, adottato nella costruzione dei villaggi operai riflette una programmazione precisa, un’esplicita

8 Negri, “Villaggi operai,” 106.

9 Massimo per 4/6 famiglie.

10 Luigi Guiotto, La fabbrica totale (Milano, I: Feltrinelli, 1979), 74-75.

11 Si veda paragrafo 3.4.1.

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volontà di dominio, presente già nel passato: le città coloniali ellenistiche e romane presentano generalmente una pianta a scacchiera che rappresenta l’ordine nell’imposizione di un potere sovrastante, esterno alla vita propria della città.

Anche durante il Medioevo, questo schema è adottato nelle piante urbane delle nuove colonie tedesche nei paesi slavi e pure la città di Chandigarh progettata da Le Corbusier esprime, nella ripartizione a scacchiera rigorosa, l’assetto istituzionale della società indiana, con l’impossibilità di avere contatti tra membri appartenenti a caste differenti.

Indicazioni riguardo all’organizzazione spaziale del villaggio operaio si trovano pubblicate anche nei vari manuali che si occupano delle case popolari, pubblicati a inizio ‘900 e a questo proposito è interessante riportare un brano di Albertini del 1910: «allorché il quartiere operaio deve servire un grande stabilimento industriale, converrà che l’area sul quale esso deve sorgere sia scelta in modo che i venti dominanti non vi rechino le esalazioni o il fumo che possono provenire dall’esercizio dell’industria. Analoga preoccupazione si dovrà avere per gli scoli dei residui liquidi provenienti da talune industrie che possibilmente dovranno eliminarsi in direzione opposta a quella nella quale si vuol collocare il quartiere operaio, e in ogni modo senza attraversarlo. […] La planimetria di un quartiere operaio deve essere da parte del progettista oggetto di serio e ponderato studio. È intuitivo che il centro di irradiazione del quartiere operaio dovrebbe essere costituito dagli edifici di uso pubblico, come il municipio, la chiesa, le scuole, gli asili, gli spacci di generi alimentari, i pubblici lavatoi, i depositi delle pompe da incendio. Di qui dovrebbero dipartirsi le strade principali, quando la configurazione del terreno lo consenta, in senso radiale.

Tale forma appare preferibile allo scopo di indirizzare lo sviluppo del quartiere operaio secondo le principali arterie, così da rendere in ogni caso minima la distanza dal centro. La formazione di angoli molto acuti all’incontro delle vie […]

non ha qui importanza data la opportunità, anzi la necessità, di alternare le aree fabbricate con abbondanti spazi a giardino. Un accorgimento facile ed intuitivo farà sì che i giardinetti smussino l’eccessiva ristrettezza di taluni angoli, quando non si creda di risolvere più radicalmente il problema colla formazione di piazze poligonali o simili. […] Infine converrà tener presente, ove si tratti di un quartiere operaio da crearsi ex novo, che sul principio è economicamente conveniente costruire le case a parecchi piani, e che in generale i villini vengono construtti quando la fabbricazione si è già estesa e l’industria è avviata al punto da concedere ad operai ben retribuiti l’uso di una abitazione più costosa com’è quella del tipo a villini»12.

5.4 Come riconoscere un villaggio operaio

«Le condizioni primarie, perché si possa parlare di villaggio operaio, sono, da un lato l’esistenza di una fabbrica che rappresenti un continuum di sussistenza

12 Cesare Albertini, “Case operaie,” in L’arte moderna del fabbricare vol. IV, (Milano, I: Vallardi, 1910), 7-9.

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economica per gli uomini che vi lavorano, dall’altro la manodopera senza la quale non si può parlare di villaggio-operaio, perché la presenza della prima condiziona l’esistenza dell’altro e viceversa»13.

Secondo Alberto Abriani, generalizzando, sono 3 le caratteristiche fondamentali che consentono di capire se un dato insediamento costituisce un villaggio operaio oppure no.

Dal punto di vista localizzativo, territoriale e urbanistico, il villaggio operaio si pone in posizione antitetica rispetto alla configurazione attuale della città, dove luogo di residenza e di lavoro sono divisi. Il villaggio operaio, infatti, nasce sì per dare alloggio ai lavoratori, ma sin dal principio si configura come un’entità completamente autonoma e autosufficiente, così da controllarne lo sviluppo e dosarne l’estensione, senza incidere sulla città, e non incorrere nelle contraddizioni generate dall’irrazionale sviluppo industriale delle metropoli.

La delimitazione del territorio, sia in termini propriamente fisici, sia come condizione di isolamento necessaria per evitare le concentrazioni operaie e lo scoppio di conflitti sociali, è un dato fondamentale per il riconoscimento del villaggio operaio, che deve quindi essere provvisto di adeguate infrastrutture urbane nei dintorni della fabbrica.

Dal punto di vista tipologico, «si rileva come l’aspetto fisico più appariscente in quell’insieme che chiamiamo villaggio operaio, è dato dal complesso delle case e degli edifici»14. All’interno del villaggio, infatti, troviamo tipologie abitative diverse, che si differenziano per dimensioni, rifiniture, localizzazione, assegnate in base al lavoro svolto all’interno della fabbrica, per cui si ha diritto a un alloggio migliore quanto più prestigioso è l’incarico svolto. Ogni abitazione, indipendentemente dal fatto che sia destinato ad impiegati oppure ad operai, è dotato di WC, cantina e di un orto-giardino.

La casa operaia, detta anche casa di campagna urbana, presenta sia caratteristiche delle residenze di città sia di quelle di campagna, può essere unifamiliare, bifamiliare o a schiera ed è generalmente ubicata nella periferia dell’insediamento; è dotata di un orto-giardino produttivo, che integra il salario del lavoratore e ne favorisce una vita sana.

«L’impianto microurbanistico è di norma organizzato secondo linee e assi strettamente gerarchici, che tracciano percorsi e comparti rigidamente assegnati:

complesso di villini per impiegati, di case per capi operai, per operai, ecc.;

prospettive convergenti sui simboli-funzione del villaggio: dalla casa allo stabilimento, alla scuola, alla chiesa ecc., con rimandi incrociati, in cui l’oggetto spaziale dominante è l’opificio»15.

Infine, dal punto di vista semantico, è possibile trovare un elemento di connessione che unisce tutto il villaggio operaio e che è dato dall’insieme delle iniziative nel campo dell’organizzazione dell’assistenza sociale, a cui corrispondono alcune tipologie edilizie ben precise. Si tratta di refettori e mense,

13Lorandi, “Crespi e la tipologia del villaggio operaio,” 188.

14Abriani, “Il villaggio operaio,” 44.

15 Ibid., 44-45.

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cassa di previdenza per le malattie e per la pensione di impiegati e di operai, bagni e lavatoi, circoli sportivi, teatro (successivamente cinema), cassa per le puerpere e cassa nuziale, ambulatorio, ufficio postale, club per gli impiegati, “dopolavoro” per gli operai, chiesa, convitto per le giovani operaie e soprattutto scuole e biblioteche, dove l’industriale esercita un controllo serrato sulla popolazione attraverso la scelta di docenti e programmi di studio.

5.5 Le architetture del villaggio operaio

Lo stile cui si affidano architetti, ingegneri e industriali-committenti per esprimere l’ideologia che sottende alla realizzazione delle architetture funzionali produttive si ispira ed attinge alle fonti più disparate: New Lanark, ad esempio, si ispira al gotico veneziano, il villaggio Leumann, invece, è in stile Liberty e Crespi d’Adda si rifà al romanico lombardo, anche se la centrale idroelettrica di Trezzo è in stile eclettico.

Una prima distinzione, che può essere anche cronologica per quanto detto nel paragrafo 5.1, è tra gli insediamenti operai in campagna e quelli in città: nel primo caso, gli edifici, anche se destinati a nuove funzioni, sono realizzati con un linguaggio che riproduce la tradizione locale, spesso legata all’architettura rurale.

Nella prima fase dello sviluppo industriale, infatti, le fabbriche si localizzano in aperta campagna e nella realizzazione dei villaggi operai, in genere, si predilige la villetta per una o poche famiglie. Gli insediamenti, organizzati come comunità, offrono una buona occasione per tentativi di riforma sociale, perché la campagna è priva degli impacci e dei condizionamenti della grande città. Inoltre, la tipologia delle villette è ideale per moralizzare e isolare gli individui sociali utili all’imprenditore, ma potenzialmente dannosi per il sistema della fabbrica. La disposizione delle case è artificiale ma viene mimetizzata dai frammenti di natura disposti fra esse, e dal piccolo orto-giardino, che oltre a dare un’illusione di continuità con il passato contadino della manodopera ora impegnata in fabbrica, può dare vita a una sorta di economia di sussistenza a integrazione dei salari provenienti dal lavoro industriale.

«Lontana dal caos e dalla promiscuità urbana l’architettura diventa così strumento per definire in vitro e con nettezza l’ordine sociale, la perfetta rispondenza fra le mansioni all’interno della fabbrica e la gerarchia di classi e sottoclassi in una fissità che promette però possibilità di promozione ed elevazione»16.

Con l’introduzione nel processo produttivo di nuove fonti energetiche, le fabbriche si spostano in città e qui, poiché il costo dei suoli è maggiore che in campagna, si tende realizzare per gli operai grandi caseggiati multipiano, per sfruttare il più possibile lo spazio a disposizione.

16 Silvia Danesi Squarzina, “La fondazione dei villaggi industriali in Europa nel secolo XIX,” in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981), 84.

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Oltre alla casa operaia, gli elementi che caratterizzano il villaggio sono le strutture pubbliche, la fabbrica e la residenza dell’imprenditore.

5.5.1 La casa operaia

La casa operaia, più delle abitazioni dei dirigenti, è elemento caratterizzante del villaggio industriale e riguardo alla sua struttura sono testimoniati dibattiti tra amministratori, legislatori, inquirenti e moralisti fin dalla prima metà del XIX secolo.

Meglio un edificio tipo falansterio (agglomerazione) o una serie di villette distribuite sul territorio (diluizione)?

Meglio un quartiere integrato nel tessuto della vecchia città storica o un nuovo insediamento al di fuori della cinta urbana?

Meglio edifici unifamiliari o plurifamiliari?

Meglio la cessione in affitto o in proprietà?

Queste sono le questioni che animano le discussioni del tempo.

L’agglomerazione, con la centralizzazione, consente economie alla piccola scala, ma permette una socializzazione eccessiva. Dall’altra parte, la diluizione ha maggiori costi edilizi e urbanistici, ma permette fisicamente di isolare gli individui sociali utili ma potenzialmente pericolosi e, sul lungo periodo, permette economie alla grande scala territoriale. Albertini, ad esempio, consiglia di costruire casermoni sul principio del nascere del villaggio operaio e invita gli industriali a inserire le case singole quando l’agglomerato urbano è in parte già costruito e la fabbrica è ben avviata, così da consentire all’industriale di accollarsi investimenti più onerosi.

Un altro argomento molto dibattuto è se le case debbano essere affittate o vendute agli operai: teoricamente, si predilige il possesso della casa, perché considerato una sorta di garanzia di stabilità sociale, ma, all’atto pratico, soprattutto nei villaggi, si sceglie la soluzione dell’affitto, perché c’è il timore che l’operaio, una volta divenuto proprietario della casa, si svincoli dall’industriale, che si può, poi, trovare in difficoltà nel reperire nuovi terreni su cui costruire altre abitazioni per i suoi operai, perché i costi delle terre limitrofe all’industria hanno acquistato valore e quindi risultano costose.

Una strada alternativa a quelle viste è l’affitto a riscatto, che prevede la cessione mensile di denaro all’imprenditore come parte percentuale del prezzo dell’intera abitazione, comprensivo di interessi e tangenti, così da rendere l’operaio proprietario dell’immobile dopo 15-20 anni.

Riguardo la tipologia da adottare nel caso delle abitazioni operaie, troviamo descrizioni in alcuni manuali dell’epoca. Essenzialmente, ci sono due tipi che si contrappongono: l’edificio a caserne, cioè il casermone a più piani per più nuclei familiari in stretta relazione abitativa e la villetta unifamiliare (cottage), spesso dotata di orto e giardino; tra questi due estremi si collocano varie soluzioni intermedie.

Come abbiamo visto anche negli esempi riportati nei capitoli precedenti, entrambe queste tipologie sono state adottate secondo le circostanze locali ed tutte e due presentano sempre una duplice versione, una ricca e una povera. Nelle aree migliori si costruiscono isolati di decorosi palazzi o quartieri con villette in stile

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eclettico destinati alle classi più elevate e nelle aree nuove, case a ringhiera o semplici aggregati di case isolate o a schiera dotate di piccoli orti.

L’edificio a caserne è una costruzione di tipo intensivo, a più piani, serviti da varie scale che disimpegnano diversi alloggi per ogni livello. È una costruzione economica, che permette un certo risparmio grazie all’unificazione dei servizi, ma è poco conveniente dal punto di vista igienico e morale e non offre all’operaio la tranquillità di cui ha bisogno dopo una giornata di intenso lavoro. Questa tipologia abitativa è consigliabile in città e nei centri urbani, perché permette di sfruttare al massimo il terreno su cui si costruisce, che per l’imprenditore rappresenta un investimento importante, dato il costo elevato.

Albertini descrive così questo tipo di alloggio: «Una scala al centro di un corpo di fabbrica doppio dà accesso ad ogni piano ad una ringhiera: su questa si aprono le porte di ogni gruppo di due camere. […] A ciascuna estremità delle ringhiere si trova una latrina e un vaso di acquaio. Peggior tipo non potrebbe offrirsi agli strali degli igienisti […]. Accorgimenti opportuni oculatamente adottati potranno attenuare gli inconvenienti che sono insiti nella stessa natura di questo tipo. Limitare il numero dei piani a non più di tre oltre il terreno, aumentare le scale in modo da dar accesso ai gruppi di locali senza dover ricorrere a ballatoi, disporre le ritirate in modo conveniente così che ciascun gruppo abbia la propria, e tutt’al più ve ne sia una ogni due gruppi»17.

Il problema che si pone è dunque quello di mantenere indipendenti gli alloggi il più possibile, riducendo al minimo passaggi e servizi in comune e questo comporta l’inserimento di molti vani scala.

La forma abitativa preferita dall’imprenditore paternalista è, però, per diversi motivi, la casa unifamiliare o doppia o a schiera con giardino e orto.

Innanzitutto, poiché i villaggi operai nascono in aree abbastanza remote, non si pone la questione del costo elevato dei terreni, quindi l’industriale non ha particolari problemi ad adottare una tipologia abitativa diffusa nel territorio;

inoltre questa diluizione evita l’accentramento dei lavoratori, ritenuta pericolosa.

L’alloggiare in spazi ampi, costruiti secondo norme igienico-sanitarie opportune, poi, evita il diffondersi di malattie ed epidemie e anche la presenza dell’orto favorisce uno stile di vita sano e l’integrazione del salario con prodotti agricoli.

In realtà, il modello della casa singola, tipo cottage, non viene impiegata frequentemente, perché la sua costruzione risulta costosa e quindi richiede affitti elevati che gli operai non si possono permettere. La soluzione adottata è quindi intermedia tra quella della casa isolata e del casermone: si costruiscono, infatti, case isolate per più famiglie, da 2 a massimo 6, con ingresso indipendente, per consentire la separazione dei vari nuclei familiari, e orto-giardino.

Lo spazio interno degli alloggi è razionalizzato al massimo e gli spazi abitativi sono ridotti al minimo, secondo le prescrizioni igienico-sanitarie dell’epoca; gli esterni sono molto semplici, sia per una questione di rapidità di esecuzione, sia per fattori economici.

17 Albertini, “Case operaie,” 3.

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Silvio Crespi, a proposito della casa operaia osserva che «La casa operaia deve contenere una sola famiglia ed essere circondata da un piccolo orto, separata da ogni comunione con altri. Ricordiamo le città operaie inglesi, composte da lunghe file di abitazioni fronteggiate da un piccolo giardino, e avente a tergo un piccolo orto. Il giardino è cintato e serve d’ingresso; la porta dà poi di solito in uno stretto corridoio, che di fianco accede ad un salotto, di fronte alla cucina. Fra il salotto e la cucina è situata la scala a una sola mandata, che mette alle due camere da letto al primo piano; la latrina è sul di dietro della casa e isolata; le case sono unite fra loro ai lati opposti; […]. Le palazzine sono di due specie; quali a una sola e quali a due entrate. Quelle a due entrate servono per due famiglie, di cui ognuna gode quattro camere, formanti per se stesse una piccola casa completa. Vi si accede mediante un corridoio che mette alla scala e alla cucina: e la scala è disposta ora longitudinalmente alla casa, ora perpendicolarmente, essendosi per la sua costruzione tentato vari sistemi… Dietro la casa si ha un piccolo porticato con un lavatoio, e di seguito la latrina, che è così completamente staccata dall’abitato. Le camere ricevono aria e luce da due parti… Dacché la popolazione è distribuita nelle nuove casette la tranquillità e l’igiene del citato villaggio operaio sono perfette»18.

Nei manuali, oltre a trattare la tipologia più indicata per le abitazioni operaie, si trovano regole igieniche e costruttive ben precise. Grande interesse è poi suscitato dall’ubicazione dei terreni da edificare, che devono essere il più possibile salubri. Si prediligono aree incontaminate, che non provengono da costruzioni precedenti, con terreni drenanti, che quindi evitino l’umidità di risalita, ricchi d’acqua fresca, vicini a infrastrutture che consentano facili contatti con città e paesi limitrofi.

All’interno del villaggio operaio ci sono diverse tipi di case operaie, al di là delle tipologie viste. La diversa fisionomia e dislocazione degli edifici rivelano una precisa gerarchia sociale e rispecchiano le diverse scale di merito e la gerarchia di fabbrica.

5.5.2 Le strutture pubbliche

Chiese, asili, scuole, biblioteche, teatri, centri sportivi ecc. sono elementi fondamentali del villaggio operaio, perché offrono servizi che rendono la comunità autosufficiente rispetto a qualsiasi bisogno che il lavoratore può manifestare.

Il padrone della fabbrica offre ai suoi dipendenti una serie di servizi non tanto per supplire alla mancanza di attività che si verifica lontano dai centri urbani, quanto per attuare un controllo serrato sugli abitanti del villaggio, dato che è lui che organizza e decide i programmi da attuare nelle varie strutture.

La socializzazione non avviene a caso ma si sviluppa in luoghi stabiliti e costruiti dall’industriale e vengono banditi come nemici del progresso sociale i luoghi d’incontro non istituzionali, come, ad esempio, l’osteria. Per rendere più completa l’appropriazione del tempo libero, si organizzano gite sociali, operette, esibizioni della banda, attività sportive ecc.

18 Ulderico Bernardi, “Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda,” in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981),133-134.

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«È utile sottolineare l’importanza che l’organizzazione del tempo libero ebbe sempre nella gestione paternalistica della vita operaia. A parte l’aspetto immediato di circenses, queste attività ricreative, nobilitate da una patina culturale, presentavano il grosso vantaggio di rendere in maniera immediata e tangibile l’evidenza dell’interessamento padronale, non solo e direttamente finalizzato alla produttività. Il padrone, di conseguenza, aveva sempre la possibilità di pretendere qualcosa in cambio della sua bontà, rovesciando l’ordine dei rapporti tra prestazione economica e compenso»19.

L’operaio è sottoposto al datore di lavoro dentro la fabbrica e fuori di essa, nella casa che gli ha assegnato il padrone, nella scuola e nella chiesa, che appartengono tutte alla ditta. L’imprenditore ha il compito di provvedere al soddisfacimento di qualsiasi bisogno del dipendente, da quelli materiali a quelli spirituali, ai ricreativi, agli esistenziali. Il padrone vuole che gli scampoli di tempo libero non destinati ad orto, casa e famiglia siano occupati da altre attività, perché gli spazi liberi possono sollecitare l’immaginazione e favorire una pericolosa comunicazione sociale, quindi a nessun costo gli operai devono essere lasciati in balia di loro stessi, con del tempo a disposizione, men che meno nello stesso momento e tutti insieme.

«[…] il vero elemento connettivo di tutto il complesso del villaggio operaio è dato dall’insieme delle iniziative nel campo dell’assistenza sociale, che esprime anche tipologie edilizie corrispondenti, a livello microurbano, ai “monumenti sociali” metropolitani.

Refettorio e mense, cassa di previdenza, per la malattia, per la pensione agli impiegati e agli operai, bagni e lavatoi, circoli sportivi, teatro (e cinema poi), cassa per le puerpere e cassa nuziale, ambulatorio, ufficio postale, club per gli impiegati,

“dopolavoro” per gli impiegati, chiesa, convitto per le giovani operaie. Ma soprattutto, là ove si presenti (ed è frequente), è nel complesso delle istituzioni scolastiche, in genere strettamente controllate dai proprietari-fondatori del villaggio medesimo, che si applicano e si disvelano tutte le azioni di prima e seconda intenzione messe in moto dal meccanismo filantropico-riformistico, o caritatevole-conservatore […], che presiede al funzionamento del villaggio:

dall’asilo infantile, alle scuole elementari, alle scuole serali, alla biblioteca, alla scuola della “buona massaia”, alla eventuale colonia marina o montana per i figli dei dipendenti, il ciclo dell’educazione è interamente fornito, imposto e controllato»20.

Il disegno edilizio dell’insediamento sottostà ad un apparato di relazioni sociali che gli corrisponde perfettamente, caratterizzato da ridotta mobilità con conseguente fissità dei ruoli, organizzati secondo un preciso rapporto gerarchico.

Le strutture sono realizzate dai padroni paternalisti anche per favorire l’adattamento del lavoratore alla nuova situazione di operaio, il cui lavoro, caratterizzato da ripetitività e monotonia, tende ad annullare l’individualità della persona. Attraverso l’inserimento di attività da praticare, l’operaio può costruirsi sì una nuova identità al di fuori della fabbrica, plasmata però dall’imprenditore.

19 Guiotto, La fabbrica totale, 123.

20 Abriani, “Il villaggio operaio,” 45.

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Uno degli elementi fondanti del villaggio operaio è la scuola e può essere considerata dall’industriale un investimento a lunga scadenza, perché è un mezzo economico per procurarsi manodopera fidata, preparata e di sicuro rendimento.

Inoltre, la presenza di asili e di scuole elementari consente alle madri di lavorare, fatto importante per l’imprenditore, perché la loro paga è nettamente inferiore rispetto a quella dei maschi.

Il lavoro della donna all’interno della fabbrica è molto controverso, perché la sua assenza dal focolare domestico provoca mancanza d’igiene e ordine nelle case operaie, che contribuisce alla disorganizzazione del nucleo familiare e porta l’uomo a frequentare le osterie. Per ovviare a questo problema, alcuni imprenditori, tra cui Leumann, istituiscono delle scuole specializzate per l’insegnamento delle arti domestiche21, con corsi tenuti nel fine settimana, per permettere a tutte le donne di partecipare. Per rafforzare lo spirito casalingo delle operaie, si istituiscono addirittura speciali ricompense in denaro per premiare la pulizia e l’ordine delle abitazioni.

La scuola serve per integrare culturalmente parte del proletariato e per predisporre l’allievo al lavoro: dall’alfabetizzazione all’insegnamento tecnico, la trasmissione e l’assimilazione culturale avviene non solo attraverso i canali disciplinari, le nozioni tecniche, la pratica dei livelli elementari di acculturazione, ma anche grazie ad una generale impostazione didattica finalizzata all’educazione del lavoro. Durante il corso degli studi, infatti, i ragazzi si preparano per entrare in fabbrica.

«Attraverso una formazione così ben definita il ragazzo era temprato e pronto per l’arruolamento nell’esercito industriale.

Ordine, disciplina, rispetto per la gerarchia e stimolo al raggiungimento di più elevate qualificazioni erano le munizioni nel suo zaino e molti avevano vigilato che egli ve le ficcasse. […]. Disciplina: che vuol dire assimilazione del concetto gerarchico; ordine: che vuol dire produttività accelerata e rifiuto di ogni atteggiamento capace di sminuirla; devozione: che vuol dire timore reverenziale ed attaccamento affettivo; delega di responsabilità: acquiescenza all’esercizio di patria potestà che si manifesta in ogni attimo della giornata nello stabilimento, nella famiglia, dentro la Chiesa e fra i banchi di scuola»22.

Il compito della scuola è fornire operai disciplinati e fedeli e i programmi e gli orari scolastici sono organizzati in modo tale da raggiungere questo scopo.

Questo significa che non c’è spazio per divagazioni e attività ricreative, ma solo per l’esecuzione dei compiti e l’orario di studio è pari quasi all’orario di lavoro. I ragazzi sono stimolati a competere tra loro grazie l’inserimento di premi e castighi e la possibilità di migliorare la loro posizione in fabbrica attraverso lo studio, li induce a dedicarsi con abnegazione a questa attività.

I ragazzi sono educati alla dipendenza e al rispetto delle autorità: personaggi come il capoclasse, l’insegnante, il direttore, il benefattore, nella vita lavorativa si trasformano nel caposquadra, nel capofficina, nell’imprenditore, nell’uomo politico.

21 Nel 1910 nel villaggio Leumann si istituisce la “Scuola per la buona Massaia”.

22 Bernardi, “Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda,” 158, 160.

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L’industriale paternalista trova un valido appoggio per il controllo dei lavoratori anche nella religione e spesso la chiesa si costruisce prima di ogni altro edificio a carattere sociale.

«Nella ricerca del consenso sociale l’organizzazione padronale trova un validissimo appoggio nella strumentalizzazione della religione. Il sentimento religioso diventa anzi il monito primario che sottolinea ogni azione sociale dei nuovi padroni. Da una parte esso si risolve nella propaganda dell’azione caritatevole di soccorso ai poveri e ai derelitti […]. Di contro proprio ai sottoposti vengono sbandierati i precetti cristiani dell’ubbidienza e della rassegnazione, nel fondamentale rispetto a genitori (il Padre) e superiori (il Padrone)»23.

A Crespi d’Adda, Silvio Crespi arriva addirittura a scegliere il cappellano della fabbrica e gli chiarisce in maniera ampia e dettagliata quali sono i suoi compiti:

dalla cura spirituale degli operai, all’insegnamento religioso nell’asilo e nelle scuole24.

Le feste religiose, poi, sono un momento forte di aggregazione e integrazione della popolazione, servono a creare una identità per gli abitanti del villaggio e rappresentano occasioni in cui sciogliere le tensioni accumulate dalla comunità.

Interessante è, ad esempio, la decisione di Leumann di costruire una chiesa cattolica pur professando una fede religiosa diversa e decide di realizzarla nello stile dell’epoca, cioè il Liberty.

Accanto alla chiesa, elemento fondamentale è il cimitero, che rispecchia la stratificazione sociale presente all’interno del villaggio. Emblematico è a questo proposito il caso del cimitero monumentale di Crespi d’Adda, dove la famiglia Crespi si fa costruire un mausoleo che con la sua grandezza sovrasta le umili sepolture dei dipendenti.

Uno dei servizi offerti dall’industriale ai lavoratori è quello del bagno pubblico, dettato a prima vista dalla sola motivazione filantropica di assicurare l’igiene degli operai. Con la fine del XIX secolo si assiste ad una sostanziale modificazione nella la concezione dei bagni pubblici, causata dall’introduzione della doccia, che permette una pulizia più economica e rapida di quella offerta dalla vasca da bagno usata fino a quel momento. L’inserimento nel villaggio di questi impianti collettivi è volto all’educazione igienica degli operai, così da prevenire malattie derivate da scarsa igiene: la pulizia è lo scopo dell’operazione, mentre la disciplina, la rapidità, l’educazione, sono i mezzi attraverso cui si attua. Inoltre, la presenza di docce rimarca la differenza tra le classi sociali all’interno dell’insediamento, perché la vasca rimane appannaggio delle classi privilegiate.

5.5.3 La fabbrica

La fabbrica è il nucleo centrale del villaggio operaio: senza di lei, le residenze e tutte le altre opere connesse all’abitare non potrebbero esistere. L’edificio produttivo è il baricentro di un sistema al quale, per stretta connessione funzionale,

23 Guiotto, La fabbrica totale, 81.

24 Bernardi, “Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda,” 138.

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appartengono case, strade, luoghi per tempo libero e strutture terziarie, aspetti paesistici ecc.

«La fabbrica, in quanto matrice unica della genesi e dello sviluppo della città, diventa l’operatore ambientale, polo di riferimento di una realtà determinata e statica, all’interno di un microcosmo privatistico, astratto dal tessuto urbano generale in quanto privo, per definizione, di possibilità dinamiche di sviluppo organico, coordinato. A Schio […] la “Fabbrica Alta”, con la sua mole torreggiante, nell’enorme cubatura del suo sviluppo, s’impone anche sull’ordito preciso delle abitazioni operaie ai suoi piedi; a Crespi, invece, il corpo allungato e compatto del cotonificio contrasta con la frammentarietà delle palazzine»25.

Il luogo di lavoro, oltre ad essere funzionale alla produzione, mira a trasmettere i contenuti della nuova organizzazione sociale.

La sistemazione gerarchica dell’insieme (assialità, simmetria, rapporti di masse, progressione, ecc.) si rispecchia anche nel trattamento ornamentale dei corpi edilizi, e, attraverso l’ordinamento spaziale si materializza la configurazione dei rapporti sociali all’interno del luogo di produzione, direttamente riferita al desiderio di controllo sulle maestranze. Il luogo di lavoro è dunque inteso sia come momento di produzione, sia come occasione di controllo sociale.

Per attirare il giudizio favorevole dei contemporanei sui benefici effetti dell’industria, l’imprenditore studia l’immagine dell’edificio simbolo dell’insediamento nel dettaglio. Salt26, ad esempio, fa realizzare in stile gotico- veneziano la sua fabbrica e la ciminiera è la riproduzione del campanile della chiesa di Santa Maria Gloriosa.

La fabbrica, oltre ad essere l’elemento distributore dello spazio del villaggio, è l’organo che stabilisce la scansione temporale all’interno dell’insediamento: non c’è più l’ora dettata dall’alternarsi del giorno e della notte, ma quella dettata dai turni di lavoro. In altre parole, il tempo solare è sostituito dal tempo industriale. Per questo, un elemento distintivo che spesso si trova nelle adiacenze della fabbrica è l’orologio, spesso di grandi dimensioni, che scandisce l’avvicendarsi degli operai in fabbrica e quindi la vita degli abitanti del villaggio. Poiché lo stabilimento produttivo si trova in prossimità delle case dei lavoratori, la sirena che segnala i cambi di turno in fabbrica è facilmente udibile da tutti gli abitanti e scandisce non solo la vita all’interno della fabbrica ma quella dell’intero villaggio.

Alla fine del XVIII secolo, soprattutto in campo tessile, compare una nuova tipologia di edificio-fabbrica, a seguito delle innovazioni tecnologiche introdotte nel settore. La fabbrica si sviluppa secondo una pianta rettangolare lunga e stretta, così da consentire la corretta illuminazione e disposizione dei macchinari e, per permettere l’utilizzo di un solo albero motore, presenta un notevole sviluppo in altezza, come dimostra la Fabbrica Alta di Schio.

Dall’inizio del XIX secolo, inoltre con l’impiego del vapore essa la fabbrica si libera della localizzazione forzata presso le fonti naturali di energia.

25 Guiotto, La fabbrica totale, 77.

26 Si veda il paragrafo 2.3.2.

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5.5.4 L’abitazione dell’imprenditore

Quando presente, l’abitazione dell’imprenditore rispecchia perfettamente la scala gerarchica presente all’interno del villaggio.

Generalmente non è ubicata tra le case degli operai, ma è in disparte e collocata in posizione dominante, ad esempio sopra una collina.

L’esempio italiano più noto di abitazione dell’imprenditore è il castello di Crespi, che si trova a lato della fabbrica, in linea diretta con la chiesa, modellato come un vero e proprio castello medievale a pianta quadrata, merlato, con due torrioni, di cui quello più alto ricalca il mastio. La simbologia architettonica del castello richiama inequivocabilmente la figura dei padroni delle terre di epoca medievale.

Un’altra residenza che richiama nelle forme il castello medievale è quella di Larderel27, costruita nel 1840. Il palazzo ha forma di parallelepipedo, è intonacato e finestrato e presenta nei 4 vertici delle torrette angolari in pietra con portali a sesto acuto archi.

Anche a Lucca ci sono testimonianze di residenze costruite per gli imprenditori legati a insediamenti industriali: si tratta delle ville realizzate nei pressi della fabbrica Cucirini Cantoni Coats e della villa di Balestreri, tuttora esistente, che si trova a Palmata, una località collinare nei pressi di Ponte a Moriano.

27 Attualmente è sede del Museo della Geotermia.

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Bibliografia

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Sitografia

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Riferimenti

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