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Academic year: 2021

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Introduzione 1 1. Interazione delle radiazioni con la materia 3

1.1. L’interazione delle particelle alfa con la materia 3

1.2. L’interazione degli elettroni con la materia 5

1.3. Gli scintillatori organici liquidi e i meccanismi di scintillazione nei materiali organici 8 1.4. Interazione della radiazione ionizzante con un liquido scintillante. 12 1.5. La resa di scintillazione e la risposta degli scintillatori in funzione della densità di

ionizzazione della radiazione incidente 14

1.6. Il conteggio in scintillazione e la discriminazione della forma degli impulsi 15

1.7. I fenomeni di spegnimento (quenching) 18

1.8. Caratteristiche principali dei rivelatori a scintillazione liquida 21

1.9. Il fondo 22

1.10. Radioattività naturale 23

1.11. Chemiluminescenza 25

1.12. Fotoluminescenza 26

1.13. I diversi contributi al rumore elettronico 27

1.13.1. Emissione spontanea di elettroni dal fotocatodo 27

1.13.2. Cross-talk 27

1.13.3. Effetto Cherenkov 28

1.14. Il Quantulus 1220, descrizione dello strumento 29

1.14.1. Schermo passivo 31

1.14.2. Schermo attivo 32

1.14.3. Unità di coincidenza 32

1.14.4. Unità di soglia 33

1.14.5. Circuito per l’analisi della forma degli impulsi (PSA) 33 1.14.6. Circuito per il confronto dell’altezza degli impulsi sui due fototubi (PAC) 34

1.14.7. Convertitore analogico digitale (ADC) 34

1.14.8. Analizzatore multicanale ( MCA) 35

1.14.9. Lo stabilizzatore di spettro 35

1.14.10. Il dispositivo per la misura dello spegnimento del campione 36

1.15. Impostazione dello strumento 36

Configurazione standard per misure con discriminazione alfa beta 40 2. Messa a punto del metodo, calibrazione strumentale e determinazione delle attività alfa e beta totale e 226Ra 43

(2)

2.1. Descrizione degli obiettivi generali della ricerca sperimentale 43

2.2. Stato dell’arte sui metodi di misura 43

2.3. Modalità di prelievo e preparazione del campione 45

2.4. Valutazione del valore di PSA (Pulse Shape Analyzer) e ottimizzazione delle condizioni di

misura 48

2.5. Modalità di misura 51

2.6. Determinazione del rumore di fondo (bianco di analisi) 52

2.7. Efficienza di rivelazione 55

2.8. Minima attività rivelabile (LLD – Lower Limit of Detection) 58 2.9. Contributi del conteggio α e β totale e calcolo dell’attività ed incertezza associata 60

2.10. Spegnimento (Quenching) 63 2.11. Determinazione del 226Ra 64 2.12. Ripetibilità analitica 67 2.13. Ripetibilità strumentale 68 2.14. Interconfronti 69 2.15. Conclusioni 74

3. Studio radiometrico e geochimico di acque ad uso idropotabile del Monferrato orientale 76

3.1. Premessa ed obiettivi della ricerca 76

3.2. Inquadramento geologico 78

3.3. Descrizione degli aspetti fisici del territorio 88

3.3.1. Inquadramento geografico 88

3.3.2. Inquadramento idrografico e idrologico 88

3.4. Caratteristiche degli acquiferi 89

3.4.1. Tipologie di acquiferi 89

3.4.2. Direzione e rapporti con l’idrografia superficiale della falda libera 91 3.4.3. Soggiacenza della falda libera e rapporti tra le falde 93

3.4.4. Parametri idrodinamici degli acquiferi e della falda 93

3.5. Metodi di campionamento 95

3.6. Procedure analitiche di laboratorio 98

3.6.1. Determinazione degli anioni, dei cationi e degli elementi in traccia 98

3.6.2. Determinazione della silice 99

3.6.3. Determinazione del boro 99

3.6.4. Determinazione dei valori di δ18O 99

(3)

3.6.6. Determinazione dei valori di δ13C 101

3.6.7. Determinazione del trizio (3H) 101

3.6.8. Determinazione delle attività Alfa e beta totale e 226Ra 102

3.6.9. Determinazione del 222Rn 102

3.6.10. Determinazione degli isotopi dell’uranio 234U e 238U 103 3.6.11. Determinazione di 238U, 232Th e 40K nei campioni solidi (rocce e sedimenti) 103 3.6.12. Determinazione delle fasi mineralogiche tramite analisi diffrattometrica 104 3.6.13. Determinazioni mineralogiche mediazione Microscopia Elettronica a Scansione 105 3.7. Caratteristiche idrogeochimiche e isotopiche delle acque sotterranee 106

3.7.1. Idrochimica 106

3.7.2. Isotopi stabili δ18O, δ2H e δ13C 112

3.7.3. Trizio 119

3.8. Caratteristiche radiometriche delle acque sotterranee 123

3.8.1. alfa e beta totale, 226Ra e speciazione dell’uranio 123

3.8.2. Radon 130

3.8.3. Isotopi dell’uranio 138

3.9. Caratterizzazione radiometrica, mineralogica e isotopica dei campioni di rocce e sedimenti

fluviali 148

3.10. Conclusioni 155

3.10. Conclusioni 156

4. Studio radiometrico e geochimico di acque sorgive del bacino idrografico del fiume Versilia 160

4.1. Premessa ed obiettivi della ricerca 160

4.2. Inquadramento geologico 161

4.2.1. Evoluzione tettonica e geodinamica 161

4.2.2. Complessi stratigrafici 166

4.3. Descrizione degli aspetti fisici del territorio 174

4.3.1. Geomorfologia e Climatologia 174

4.3.2. Idrogeologia. 176

4.4. Metodi di campionamento 180

4.5. Procedure analitiche di laboratorio 183

4.5.1. Determinazione dello ione ortofosfato 183

4.5.2. Determinazione delle attività Alfa e beta totale e 226Ra 183 4.5.3. Determinazione degli elementi chimici maggiori su campioni di rocce e stream sediment

(4)

4.5.4. Microscopia elettronica e microanalisi EDS 184 4.5.5. Determinazione di elementi in traccia tramite ICP-MS su campioni acquosi e rocce. 184

4.6. Caratteristiche idrochimiche delle acque sorgive 185

4.7. Caratterizzazione radiometrica e geochimica delle acque sorgive 187 4.8. Petrografia e composizione mineralogica e chimica dei campioni di rocce e sedimenti 193

4.8.1. Petrografia e mineralogia 193

4.8.2. Chimica degli elementi maggiori e in traccia 196

4.9. Interazione acqua-roccia: la dissoluzione dei minerali fosfatici 198

4.10. Idrogeochimica delle REE 205

4.11. Conclusioni 210

Conclusioni, considerazioni e prospettive future 212 Appendici

(5)

Introduzione

La tecnica per la misura di debolissime attività viene chiamata low level counting e fu utilizzata per la prima volta alla fine degli anni ’40 da Williard F. Libby quando sviluppò il metodo della datazione al radiocarbonio (14C). Al giorno d’oggi questa tecnica è applicata a un gran numero di studi come, ad esempio, alla misura del trizio in acqua naturale, allo studio del fall-out, all’analisi attraverso attivazione neutronica, allo studio degli isotopi cosmogenici, al decadimento doppio beta e a numerosi altri processi e più in generale alla determinazione dell’attività di radionuclidi naturali per studi ambientali, geochimici e geofisici.

Tradizionalmente le misure di radioattività su campioni di acqua si eseguono attraverso l’applicazione di metodi radiochimici specifici e successivo conteggio in scintillazione con solfuro di zinco (alfa) o scintillatori plastici (beta). Tali metodi, tuttavia, sono generalmente onerosi in termini sia di tempo che di impegno di risorse strumentali, ed il numero di campioni analizzabili è di conseguenza limitato.

A partire dalla fine degli anni ’80 molti gruppi di ricerca hanno utilizzato nuovi metodi analitici per la determinazione dell’attività alfa totale e beta totale in campioni di acque potabili, avvalendosi della scintillazione liquida (Sanchez-Cabeza 1993, 1995; Salonen 1989, 1993, 1994).

Attualmente la presenza di uno strumento per scintillazione liquida a fondo sufficientemente basso (del tipo ultra low-level), riduce nella maggior parte delle analisi sia i tempi di preparazione che di conteggio, permettendo la realizzazione di campagne di misura estese e una notevole semplificazione di procedure particolarmente complesse (come nel caso dell’uranio), garantendo un elevato controllo della qualità del dato analitico.

Lo studio di radioisotopi naturali della serie dell’uranio e del torio e la conseguente caratterizzazione geochimica delle acque, sia continentali che marine, sta avendo un grande sviluppo, con interessanti risvolti applicativi. Uno dei parametri più investigati, attraverso il loro impiego, è certamente quello cronologico; per esempio al fine di determinare il tempo medio di residenza delle acque negli acquiferi. Anche gli aspetti radioprotezionistici, con particolare rilevanza al radon (in generale l’elemento radioattivo naturale più abbondante e più pericoloso nelle acque continentali) e al contenuto e all’assunzione di uranio e radio nelle acque ad uso idropotabile, sono in una fase di alacre sviluppo legislativo, specialmente da parte dell’Unione Europea.

Le finalità principali di questa ricerca sono quelle di sviluppare e mettere a punto una tecnica per la determinazione delle attività alfa e beta totale e 226Ra attraverso l’utilizzo di uno scintillatore liquido a basso fondo (Quantulus 1220) in dotazione presso i laboratori dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR di Pisa e di verificarne sperimentalmente sul campo le possibilità applicative in

(6)

diversi contesti geologici. A questo proposito, sono state condotte due ricerche radiometriche su campioni di acque di falda e di sorgenti in due aree distinte del territorio italiano: la prima localizzata nel Monferrato orientale (provincia di Alessandria) e la seconda nel bacino idrografico del fiume Versilia (provincia di Lucca e Massa Carrara). La scelta di queste due aree è legata sia a motivi scientifici che pratici. Infatti, il primo caso di studio si è ritenuto interessante sia per la collocazione geografica, essendo la zona (Pianura Padana) soggetta a possibili forti pressioni antropiche, sia per la possibilità di collaborare proficuamente con l’ARPA Piemonte, che possiede notevoli competenze nel campo radioprotezionistico. Lo studio del secondo caso, invece, è sembrato interessante poiché, notoriamente, il Complesso Metamorfico Apuano è ricco di vari tipi di mineralizzazioni e quindi misure radiometriche condotte su acque sorgive che circolano all’interno di questi acquiferi potrebbero essere utili traccianti geochimici, anche se, suddette acque contengono, frequentemente, concentrazioni in radioelementi estremamente basse.

Al fine di caratterizzare meglio le aree investigate, sono state eseguite anche misure del 222Rn e del rapporto 234U/238U, di composizione degli isotopi stabili (δ18O, δD e δ13C) e delle concentrazioni degli elementi maggiori e in traccia. Inoltre misure di spettrometria gamma, analisi chimiche e mineralogiche sono state condotte su campioni di roccia e sedimento.

La tesi si articola in quattro capitoli. Il primo tratta la fisica delle interazioni tra particelle e materia, i fenomeni che regolano l’interazione della radiazione ionizzante con il liquido scintillante e l’illustrazione delle caratteristiche tecniche dei rivelatori a scintillazione liquida.

Il secondo capitolo riguarda le procedure di messa a punto, analitiche e strumentali, per la misura delle attività alfa e beta totale e del 226Ra, e in particolare la preparazione del campione da analizzare, l’ottimizzazione delle condizioni di misura, la valutazione del fondo e dell’efficienza, la determinazione delle minime attività rivelabili, la stima di possibili effetti di spegnimento, la ripetibilità analitica e strumentale. Sono stati anche eseguiti interconfronti con dati di letteratura e con un laboratorio dell’ARPA Piemonte.

Nel terzo capitolo si descrive lo studio di un’area del Monferrato orientale, zona alquanto eterogenea dal punto di vista geologico, strutturale e idrochimico, i cui campioni d’acqua, in molti casi, hanno un’attività alfa totale superiore a 100 mBq/kg. Le rocce interessate dai processi di weathering sono di varia natura: carbonatiche e silicatiche sia acide che basiche, e i tempi medi di residenza delle acque circolanti nella falda possono essere anche molto lunghi.

Infine il quarto capitolo riguarda lo studio di una zona montana del comprensorio Apuo-Versiliese, area particolarmente piovosa (2500 mm all’anno) in cui, invece, le attività alfa totale sono basse e mediamente non superiori ai 20 mBq/kg, la circolazione delle acque avviene rapidamente e in rocce fratturate prevalentemente carbonatiche.

(7)

1. Interazione delle radiazioni con la materia

1.1. L’interazione delle particelle alfa con la materia

Le cariche elettriche positive delle particelle pesanti alfa 4He2+ interagiscono con gli elettroni degli atomi dell’elemento assorbitore, attraverso le forze di interazione colombiana. In taluni casi sono possibili anche interazioni delle particelle cariche incidenti con i nuclei dell’assorbitore (scattering Rutherford), ma tali eventi sono eccezionalmente rari e poco rilevanti.

Le particelle alfa esercitano una forza attrattiva sugli elettroni e possono provocare fenomeni di eccitazione (l’elettrone viene innalzato ad un livello energetico superiore) o di ionizzazione (l’elettrone viene rimosso completamente dall’atomo).

E’ utile e istruttivo caratterizzare il meccanismo di interazione introducendo il potere frenante lineare S (ovvero la perdita di energia specifica). E’ questo definito, al limite di piccoli intervalli, come il rapporto tra la perdita di energia (-∆Ε, dove ∆Ε è la variazione di energia cinetica) e la distanza ∆x in cui essa è avvenuta, ossia:

dx dE x ∆ E ∆ S lim 0 x ∆ − =− = → .

Esso rappresenta pertanto, punto per punto, una misura dell’energia rilasciata localmente e di conseguenza del grado di ionizzazione in quel punto. La naturale unità di misura è l’elettronVolt al metro (eV/m), ma spesso viene più appropriatamente misurato in KeV/µm. Il potere frenante varia a seconda del materiale, della carica e dell’energia iniziale della particella, ma soprattutto varia lungo la traiettoria durante il processo di arresto.

Il potere frenante lineare è ben descritto dalla formula di Bethe-Bloch (Jackson, 1962):

2 2 4 2 4 (4) S ro z m ce N B v π⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ = ; dove 2 2 0 0 mc e πε 4 1

r = ⋅ è il raggio classico dell’elettrone (2.81·10-15 m), z il numero di cariche della particella incidente (ad esempio z = 2 per una particella α), me la massa dell’elettrone ed e la sua

carica, N la densità di atomi del materiale (atomi per unità di volume), v la velocità della particella e

(8)

2 0

(5) B≈ ⋅ ⋅Z ln [(2m v ) / ]J ;

che è espresso in termini del numero atomico Z dell’assorbitore e dell’energia media J di ionizzazione. La formula mette in evidenza che il potere frenante aumenta all’aumentare del numero atomico Z (perciò uno spessore di piombo è più efficace di uno di alluminio) e varia con maggior potenza con la carica della particella (a parità di altre condizioni, una particella alfa, con Z = 2, è assorbita quattro volte più di un protone che ha Z = 1). Ma soprattutto importante è la dipendenza inversa dal quadrato della velocità della particella e quindi la sua dipendenza inversa dall’energia. Pertanto, poiché il potere frenante aumenta al diminuire della velocità, esso sarà massimo proprio quando la particella sta per fermarsi, ne consegue che alla fine del percorso saranno massime la ionizzazione e l’energia trasferita.

Nel caso di particelle cariche non relativistiche (v«c), l’unico termine significativo nell’espressione di B, sopra riportata, è l’energia della particella incidente, e si osserva che il parametro B varia lentamente in funzione di essa. Il comportamento della funzione che descrive il potere frenante dipende quindi in modo sostanziale dal fattore moltiplicativo di B; si osserva, in particolare, che per una data particella non relativistica dE/dx varia come 1/v2, cioè la perdita specifica di energia della particella aumenta al diminuire della velocità della stessa.

Fig. 1.1 – Perdita specifica di energia di una particella alfa lungo il suo percorso (curva di Bragg), modificato da Birks, 1964

La formula di Bethe non è più adeguata per descrivere l’andamento del potere frenante lineare quando l’energia della particella incidente si è notevolmente ridotta e gli scambi di carica tra la particella incidente e l’assorbitore diventano importanti; in queste condizioni le particelle cariche positive tendono a catturare elettroni dall’assorbitore, riducendo di conseguenza la propria carica e le perdite lineari di energia.

(9)

L’andamento della funzione di perdita di energia specifica di una particella carica lungo la sua traccia in un mezzo assorbitore è noto come curva di Bragg (Fig. 1.1).

Nel caso delle particelle cariche pesanti si verifica che, tranne che alla fine del loro percorso nell’assorbitore, esse non subiscono deflessioni rispetto alla direzione iniziale di incidenza. L’andamento della curva di trasmissione di particelle alfa attraverso un dato assorbitore è rappresentato nel grafico seguente (Fig. 1.2):

Fig. 1.2 – Curva di trasmissione di una particella alfa attraverso un assorbitore. Sono indicati il range medio Rm e il range estrapolato Re, modificato da Birks, 1964

Il rapporto I/I0 è il rapporto tra l’intensità misurata di un fascio di particelle alfa misurata dal

rivelatore che attraversa un mezzo assorbitore di spessore t e quella misurata in sua assenza e quindi rappresenta la frazione trasmessa al variare dello spessore t dell’assorbitore stesso.

Il percorso della particella è denominato range medio (Rm) quando corrisponde allo spessore di un

assorbitore che riduce ad ½ il numero di particelle rispetto a quelle che si avrebbe in sua assenza; mentre range estrapolato (Re) è lo spessore dell’assorbitore a cui corrisponde il completo

assorbimento delle particelle incidenti, quest’ultimo coincide con il punto di intersezione all'asse delle distanze (t) della retta tangente alla curva di trasmissione condotta dal valore corrispondente al range medio.

1.2. L’interazione degli elettroni con la materia

Gli elettroni interagendo con la materia producono fenomeni sostanzialmente simili a quelli delle particelle cariche pesanti, ma, avendo differenti carica e massa, mostrano interazioni con un mezzo assorbitore sia di tipo coulombiane che processi radiativi (bremsstrahlung), propri delle particelle cariche che subiscono fenomeni di accelerazione.

(10)

r c dx dE dx dE dx dE       +       = ;

Fig. 1.3 – Interazioni coulombiane e processi radiativi, modificato da Ross, 1991

in particolare, le perdite di energia causate da fenomeni di eccitazione e ionizzazione (perdite per collisione) sono descritte dalla seguente espressione, che è stata derivata analogamente a quanto fatto per le particelle cariche pesanti (Leo, 1994):

( )

( )

            ⋅ + − +       + ⋅ − − ⋅ ⋅ =       − 2 2 2 2 2 2 2 2 0 2 0 4 c β 1 1 8 1 β 1 β 1 β 1 2 2 ln β 1 I 2 E v m ln v m NZ e π 2 dx dE .

I simboli hanno lo stesso significato sopra richiamato e β = v/c.

Le perdite di energia a seguito di processi radiativi sono invece descritte dalla seguente funzione (Leo, 1994):

(

)

        − ⋅ ⋅ + ⋅ =       − 3 4 c m E 2 ln 4 c m 137 e 1 Z NEZ dx dE 2 0 4 2 0 4 r ;

nella quale i fattori E e Z2al numeratore dimostrano che le perdite radiative sono più importanti per gli elettroni ad alta energia e per i materiali assorbitori di elevato numero atomico.

Il rapporto tra le perdite di energia specifica prodotte da eventi radiativi rispetto a quelle prodotte da collisioni è dato approssimativamente dall’espressione (Johansen & Peter, 2004):

( )

( )

700 EZ dx dE dx dE c r ;

(11)

Per le particelle beta emesse da nuclei radioattivi le energie sono tipicamente inferiori a pochi MeV. Ne consegue, che le perdite radiative rappresentano sempre una piccola frazione dell’energia persa per ionizzazione ed eccitazione, e sono significative solo quando il mezzo assorbitore possiede numero atomico elevato.

La curva di trasmissione di elettroni monoenergetici attraverso un materiale assorbitore, e la rappresentazione grafica del range estrapolato, sono riportati nella figura seguente (Fig. 1.4):

Fig. 1.4 – Curva di trasmissione per elettroni monoenergetici. Re è il range estrapolato, modificato da Birks, 1964

Nel caso dell’interazione degli elettroni con un mezzo assorbitore la massa della particella incidente è uguale a quella degli elettroni orbitali con cui interagisce, e nel corso di ogni singola interazione la quantità di energia ceduta può rappresentare una frazione significativa dell’energia incidente. E’ quindi possibile che il processo di interazione causi deviazioni notevoli del percorso degli elettroni incidenti rispetto alla direzione iniziale di incidenza, e che il loro percorso attraverso il materiale assorbitore sia molto più tortuoso di quello di una particella alfa. Per questo motivo il concetto di range per gli elettroni è meno definito di quanto non lo sia per le particelle cariche pesanti, ed il percorso totale degli elettroni nel mezzo assorbitore è molto maggiore della distanza di penetrazione lungo la direzione iniziale di incidenza della particella. Per estrapolazione, nel caso degli elettroni il range viene definito come lo spessore necessario ad arrestare totalmente tutti gli elettroni incidenti su un certo assorbitore.

La distribuzione iniziale di energia delle particelle beta emesse da un radioisotopo è continua, e per tale motivo la curva di trasmissione delle particelle beta è differente da quella degli elettroni monoenergetici sopra riportata. La componente a bassa energia dello spettro di emissione beta è rapidamente assorbito, anche in assorbitori sottili.

E’ quindi possibile definire un coefficiente di assorbimento n utilizzando la seguente espressione (Leo, 1994):

(12)

nt 0 e I I = ; dove:

I0 = rateo di conteggio senza assorbitore I = rateo di conteggio con l’assorbitore t = spessore dell’assorbitore

Fissato che sia il mezzo assorbitore, il coefficiente n risulta ben correlato con l’energia massima del beta emettitore in questione.

Infine, le particelle alfa e beta producono ionizzazione e stati elettronici eccitati negli atomi neutri. La presenza di stati elettronici eccitati nelle specie neutre è seguita da processi interni di decadimento dell’energia, che risultano in un aumento dell’energia traslazionale, oppure da fenomeni di decadimento per fluorescenza (emissione pronta di radiazione visibile), fosforescenza (emissione di radiazione a lunghezza d’onda superiore a quella della fluorescenza e con un tempo caratteristico solitamente più lungo) e fluorescenza ritardata (emissione dello stesso spettro di radiazione proprio della fluorescenza, ma con un tempo di emissione più lungo). Questi processi di diseccitazione sono alla base delle tecniche di rivelazione dei rivelatori a scintillazione, di cui fanno parte gli scintillatori organici. Per questi ultimi, a cui appartengono anche gli scintillatori liquidi, si fornisce di seguito una spiegazione più dettagliata dei processi e dei meccanismi di scintillazione (fluorescenza, fosforescenza, etc.).

1.3. Gli scintillatori organici liquidi e i meccanismi di scintillazione nei materiali

organici

Nei materiali organici il fenomeno di fluorescenza, vale a dire la produzione di energia luminosa a seguito di fenomeni di eccitazione elettronica e/o molecolare causati dall’interazione con una particella carica, ha origine da transizioni nella struttura dei livelli energetici di una singola molecola e non dipende, pertanto, dallo stato fisico del materiale scintillante; per questo motivo alla categoria degli scintillatori organici appartengono composti solidi, liquidi e gassosi.

Tra le sostanze organiche che possiedono le proprietà proprie degli scintillatori vi sono le molecole organiche che possiedono legami π (in particolar modo se delocalizzati come ad esempio nei composti aromatici) dotati di orbitali di antilegame facilmente accessibili. Questi orbitali permettono una permanenza relativamente lunga di un elettrone nello stato eccitato.

I livelli energetici π-elettronici di una molecola organica che abbia queste proprietà sono illustrati in figura 1.5.

(13)

In presenza di una configurazione elettronica di questo tipo i processi di eccitazione elettronica prodotti dall’interazione con la radiazione ionizzante possono coinvolgere diversi livelli energetici e produrre una varietà di stati eccitati.

Nella figura è indicata una serie di stati di singoletto (spin 0), denominati rispettivamente S0, S1, S2. E’ inoltre riportato un insieme simile di livelli elettronici di tripletto (spin 1), denominati rispettivamente T1, T2, T3, …

Nel caso delle molecole che possono essere utilizzate come scintillatori organici la distanza in energia tra i livelli S0 ed S1 è dell’ordine di 3-4 eV, mentre la distanza tra i livelli energetici superiori è normalmente inferiore.

Fig. 1.5 – Livelli energetici π-elettronici di una molecola organica, modificato da Crook, 1972

Ciascuno di questi livelli energetici è ulteriormente suddiviso in una serie di livelli (indicati in figura con S00, S01, S02, etc.) con spaziatura molto più fine, dell’ordine di 0.15 eV, che corrispondono ai diversi stati vibrazionali di ognuno dei livelli energetici della molecola. Poiché la distanza tra gli stati vibrazionali è grande rispetto al valore medio dell’energia termica (0.025 eV), a temperatura ambiente pressoché tutte le molecole si trovano nello stato S00.

(14)

A seguito dell’interazione con una particella carica, la molecola assorbe parte dell’energia cinetica della radiazione incidente che provoca l’eccitazione di uno o più degli stati elettronici fondamentali (rappresentati in figura dalle frecce verso l’alto). Gli stati di singoletto che hanno subito la maggiore eccitazione (in figura: S3n, S2n) si diseccitano rapidamente (nell’ordine di picosecondi) e tornano al livello S1 attraverso processi di conversione interna che non comportano l’emissione di radiazione. Inoltre, ogni livello con energia vibrazionale in eccesso (come gli stati S11, S12, etc.) torna rapidamente allo stato di equilibrio termico con i livelli adiacenti, cedendo rapidamente l’energia vibrazionale in eccesso. L’effetto netto del processo di eccitazione in un cristallo organico semplice è quindi quello di produrre, dopo un intervallo di tempo trascurabile, una popolazione di molecole eccitate nello stato S10.

La diseccitazione di queste molecole eccitate, attraverso l’emissione di luce, viene definita, genericamente, luminescenza; nei composti organici la luminescenza può assumere caratteristiche diverse. La luce di scintillazione principale (o fluorescenza pronta) è emessa a seguito di transizioni tra il livello S10 ed uno degli stati vibrazionali dello stato elettronico fondamentale (queste transizioni sono indicate in figura dalle frecce rivolte verso il basso). Se τ rappresenta la costante di tempo di decadimento per fluorescenza del livello S10, allora l’intensità della fluorescenza pronta al tempo t successivo all’evento di eccitazione è data da (Leo, 1994):

τ

t 0e

I I= − .

Nella maggior parte degli scintillatori organici τ è dell’ordine di pochi nanosecondi.

La vita media del primo stato di tripletto T1 è significativamente più lunga di quella dello stato S1. Attraverso una transizione chiamata “transizione inter-sistema” alcuni stati di singoletto eccitati possono essere convertiti in stati di tripletto. La vita media di T1 può essere anche dell’ordine di 10

-3

sec (mediamente varia tra 10-7e 10-3 sec), e la radiazione emessa nella diseccitazione da T1 ad S0 è perciò una emissione di luce ritardata caratterizzata come fosforescenza. Poiché il livello energetico T1 è inferiore ad S1, la lunghezza d’onda dello spettro di fosforescenza è maggiore di quella dello spettro di fluorescenza.

E’ anche possibile che alcune delle molecole che si trovano nello stato eccitato T1 vengano nuovamente eccitate allo stato S1, e che successivamente tornino allo stato fondamentale S0, processo responsabile dei fenomeni di fluorescenza ritardata (vita media dell’ordine di 10-6sec) che si osservano a volte nei materiali organici.

(15)

La figura 1.5 rende anche conto del perché gli scintillatori organici sono pressoché trasparenti alla loro stessa emissione di fluorescenza. Infatti la lunghezza delle frecce verso l’alto corrisponde a quei valori di energia dei fotoni che sarebbero fortemente riassorbiti dal materiale stesso; poiché, d’altro canto, tutte le transizioni di fluorescenza (rappresentate dalle frecce verso il basso), con l’eccezione di S10-S00, hanno energia più bassa di quella minima richiesta per l’eccitazione, gli spettri ottici di assorbimento e di emissione (Fig. 1.6) risultano di fatto solo parzialmente sovrapposti, e di conseguenza i fenomeni di autoassorbimento della fluorescenza sono di fatto limitati.

Fig. 1.6 – Spettri di emissione ed assorbimento tipici di uno scintillatore organico, modificato da Crook, 1972

In quasi tutti i materiali organici il processo di diseccitazione dei livelli energetici eccitati S10 e T1 allo stato fondamentale è preceduto da processi ripetuti di trasferimento dell’energia di eccitazione tra molecole adiacenti. In alcuni casi, al fine di limitare ulteriormente la possibilità che si verifichino fenomeni di autoassorbimento della fluorescenza prodotta è possibile aggiungere al materiale scintillante una ulteriore componente, denominata waveshifter, la cui funzione è quella di assorbire la luce prodotta dallo scintillante primario e reirradiarla a lunghezza d’onda maggiore; in questo modo si produce di fatto uno spostamento dello spettro di emissione che può essere funzionale sia per garantire un migliore accoppiamento con la sensibilità spettrale del tubo fotomoltiplicatore che per minimizzare ulteriormente i fenomeni di autoassorbimento.

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1.4. Interazione della radiazione ionizzante con un liquido scintillante.

Un cocktail scintillante è composto da un solvente S, da un soluto o materiale scintillante F, da ossigeno e da molecole M che contengono i radionuclidi che emettono le particelle radioattive P. I processi di scambio dell’energia che portano alla produzione di un fotone hν (che può essere rivelato dal tubo fotomoltiplicatore PMT) si possono schematizzare come mostrato in Tabella 1.1 (Horrocks, 1974):

Tab. 1.1 – Fenomeni di Interazione tra radiazione ionizzante e liquido scintillante

P* + S → P + S* eccitazione del solvente

S* + F → S + F* eccitazione della molecola fluorescente

F* → F + hν emissione del fotone hν 375-425 nm

3 hν + PMT → e- rivelazione/conversione fotoelettrica (εPMT = 33%)

Nel primo passaggio si osserva un’eccitazione elettronica della molecola di solvente S per il trasferimento dell’energia cinetica dalla particella radioattiva P*; successivamente l’energia di eccitazione del solvente si trasforma in eccitazione elettronica del soluto, o fluoro, F* (passaggio 2), che diseccitandosi emette un fotone, hν (passaggio 3). La rivelazione del fotone hν da parte del tubo fotomoltiplicatore (passaggio 4) rappresenta l’anello finale della catena di produzione e trasferimento dell’energia di scintillazione.

La stessa catena di eventi è riassunta in figura 1.7:

Fig. 1.7 – Trasferimento dell’energia nella soluzione scintillatrice, modificato da Rusconi, 2008

Alla fine degli anni ’80, è stato introdotto come solvente il diisopropilnaftalene, tutt’oggi ampiamente utilizzato, che ad una buona efficienza, unisce caratteristiche di maggior sicurezza, bassa permeazione nel polietilene (materiale di cui si compone la fiala per la misura) ed elevate prestazioni nella discriminazione degli impulsi alfa e beta.

I soluti (o fluor) sono molecole organiche eteroaromatiche abbastanza complesse, dotate di un orbitale π delocalizzato molto esteso.

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Le molecole di soluto assorbendo l’energia delle molecole di solvente eccitate si portano a loro volta in uno stato eccitato; poiché l’energia di eccitazione del soluto è minore di quella del solvente, essa non può essere nuovamente assorbita dalle molecole di solvente rimanendo così intrappolata nel soluto. Le molecole di soluto si diseccitano riportandosi nello stato fondamentale per mezzo di emissione di fotoni luminosi (fluorescenza), oppure attraverso processi non radiativi.

L’efficienza di trasferimento di energia dal solvente al soluto dipende dalla concentrazione del soluto; per la maggior parte dei soluti normalmente utilizzati nelle tecniche di scintillazione liquida il valore massimo dell’efficienza di trasferimento (circa il 100 %) si raggiunge per valori di concentrazione pari circa a 7-10 g/litro.

A causa di possibili processi di auto-spegnimento del soluto, che intervengono quando una molecola eccitata di soluto interagisce direttamente con una molecola di soluto allo stato fondamentale dando luogo a processi che non producono fotoni luminosi o non sufficientemente energetici si aggiungono alla soluzione scintillante un ulteriore soluto, definito soluto secondario, che ha lo scopo di migliorare la solubilità della soluzione ed agisce anche come convertitore di lunghezza d’onda, assorbendo le lunghezza d’onda emesse dal soluto primario e riemettendole in una regione dello spettro in cui l’auto-assorbimento risulta minore; il soluto secondario spesso ha anche lo scopo di garantire un migliore accoppiamento ottico con il tubo fotomoltiplicatore.

L’aggiunta di anche piccole quantità di soluti secondari (spesso in concentrazione pari solo all’1% della concentrazione del soluto primario) porta ad un notevole aumento dell’efficienza di scintillazione.

Per misurare le radiazioni emesse da campioni acquosi è necessario aggiungere al cocktail sostanze emulsionanti dette anche surfattanti. Queste molecole presentano una parte polare ed una apolare e sono in grado di rendere miscibili, entro certe proporzioni, la fase organica e quella acquosa.

I processi che hanno luogo in un liquido scintillante prevedono l’interazione primaria della radiazione con il liquido e processi di trasferimento di energia. Poiché tali fenomeni hanno un’importanza fondamentale nel determinare la risposta di uno scintillatore ai diversi tipi di radiazione ed in diverse situazioni sperimentali, se ne da di seguito un rapido cenno.

Nel liquido scintillante l’interazione primaria con la radiazione ionizzante può produrre ioni positivi e negativi sia del solvente che del composto scintillante (S

+ , S -, F + , F -), molecole eccitate (S*, F*) e radicali (S·, F·). Gli stati elettronici eccitati di ciascuna delle specie prodotte possono essere di singoletto, doppietto e tripletto: ad esempio

1 S, 1 F, 3 S, 3 F (Ross et al.,1991).

La concentrazione di particelle eccitate o ionizzate determina, a sua volta, i tipi di processi (fisici o chimici) che intervengono come risultato dell’interazione primaria con la radiazione ionizzante.

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loro ed eventualmente, di nuovo, con la radiazione incidente primaria dando luogo ad una varietà di processi chimici (ad esempio reazioni di ricombinazione di ioni, reazioni di radicali liberi, formazione di eccimeri, etc.) e fisici (tra cui, ad esempio, emissione di raggi X, fluorescenza, fosforescenza, migrazione o trasferimento di energia). La probabilità di ciascuno di questi fenomeni secondari dipende proporzionalmente dalla concentrazione delle specie prodotte. Quindi l’emissione di un fotone luminoso, rivelato dal tubo fotomoltiplicatore, dipende in modo drastico dalla competizione con tutti i processi concorrenti più sopra richiamati.

1.5. La resa di scintillazione e la risposta degli scintillatori in funzione della

densità di ionizzazione della radiazione incidente

Il numero di fotoni luminosi prodotti nel liquido scintillante per unità di energia depositata dalla radiazione incidente (resa di scintillazione) dipende sia dal tipo di radiazione incidente che dalla sua energia. In particolare, la resa di scintillazione di particelle alfa e beta differisce in modo significativo.

La figura (1.8) mette a confronto la relazione tra l’altezza dell’impulso e l’energia della particella incidente in un dato liquido scintillante rispettivamente per particelle alfa e beta. Come si può osservare nel grafico, la relazione tra l’altezza dell’impulso e l’energia è lineare su tutto l’intervallo per le particelle beta, mentre per le particelle alfa la linearità è limitata all’intervallo di energie compreso tra 4 e 6 MeV; inoltre appare evidente che la resa di scintillazione delle particelle alfa è molto inferiore di quella delle particelle beta.

Fig 1.8 – Altezza dell’impulso prodotto da particelle alfa e beta in funzione dell’energia della particella incidente, modificato da Birks, 1964

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La resa di scintillazione dipende dalla ionizzazione specifica prodotta dalla radiazione incidente. La ionizzazione specifica di una particella alfa è maggiore di quella di una particella beta; ne segue che la concentrazione delle specie prodotte dall’interazione di una particella beta con un liquido scintillante è inferiore rispetto a quella prodotta dall’interazione con una particella alfa; di conseguenza, la possibilità che i prodotti dell’interazione interagiscano ulteriormente tra di loro dissipando l’energia secondo modalità non radiative è minore per una particella beta rispetto ad una particella alfa.

Per questo motivo una particella alfa che interagisce con un liquido scintillante produce mediamente lo stesso numero di fotoni per unità di energia di una particella beta la cui energia sia 10 volte più bassa. Questo fatto è evidente nel grafico in figura 1.9 (in ascissa sono riportati i canali di conteggio relativi alla finestra 0 – 1000, gli spettri sono compresi nell’intervallo di energia 3 - 2000 keV circa, mentre in ordinate i conteggi al minuto), nel quale sono visibili lo spettro beta del

90

Sr/90Y (energia massima di emissione: 546,2 keV - 2283 keV) e lo spettro alfa di 241Am (energia di emissione 5,486 MeV), praticamente sovrapposti nonostante la differenza in energia dei due tipi di particelle.

Fig. 1.9 – Spettro di un campione di 241Am (rosso) e di un campione di 90Sr/90Y (verde)

1.6. Il conteggio in scintillazione e la discriminazione della forma degli impulsi

Se si segue nel tempo l’impulso I(t) di luce generato dalla radiazione in un materiale scintillante è possibile osservare l’esistenza di due componenti (I1 e I2), ciascuna delle quali può essere descritta

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( )

     −       − + = 1 τ2 t 2 τ t 1e I e I t I .

I tempi di decadimento delle due componenti sono significativamente diversi e dipendono dalla composizione del complesso scintillante: mediamente, si osserva che la componente veloce ha un tempo di decadimento compreso nell’intervallo 1-10 nanosecondi, mentre quella lenta ha un tempo di decadimento compreso nell’intervallo di 200-350 ns (Fig. 1.10). La tabella 1.2 riporta, a titolo di esempio, i tempi di decadimento di alcuni composti scintillanti.

La maggior parte della luce prodotta è contenuta nella componente veloce. La distribuzione della luce tra le due componenti dipende dalla natura della particella incidente (Wright, 1956), quanto più sarà la densità di ionizzazione della particella incidente tanto maggiore l’intensità della componente lenta.

Fig.1.10 – Tempi di decadimento della componente veloce e della componente lenta del segnale generato da uno scintillatore organico, modificato da Rusconi, 2008

Alla luce di quanto noto sui meccanismi di eccitazione causati dall’interazione della radiazione ionizzante, risulta che la componente veloce dei segnali luminosi prodotti in un materiale scintillante è il risultato dei processi di fluorescenza pronta; la componente lenta è il risultato dei fenomeni di fluorescenza ritardata (fosforescenza). Conseguentemente, l’entità delle due componenti (ed in particolare della componente di fluorescenza ritardata) dipende dalla concentrazione di stati di tripletto lungo la traccia della particella incidente.

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Tabella 1.2 – Tempi di decadimento di alcuni composti scintillanti (Leo, 1994)

Sostanza Remissione veloce(fluorescenza) riemissione lenta (fosforescenza)

Stilbene 6,2 ns 370 ns

Antracene 33 ns 370 ns

p-quaterphenyl 4,5 ns 350 ns

p-terphenyl (4g/l) +

POPOP (0,4g/l) + Toluene 2,8 ns 200 ns

Ne segue che l’intensità della componente lenta è maggiore per le particelle ad alta densità di ionizzazione specifica, come le particelle alfa, che producono lungo la traccia del loro passaggio una concentrazione più elevata di molecole nello stato eccitato di tripletto.

L’analisi della forma degli impulsi evidenzia inoltre che i tempi di decadimento della componente lenta e veloce prodotte in uno stesso scintillante da particelle diverse non cambiano; cambia, invece, il rapporto delle intensità delle due componenti. Questo fatto è evidente se si considerano gli impulsi prodotti separatamente da una particella alfa e da una particella beta e si calcola, per ciascuno di essi, il rapporto dell’area dell’impulso al tempo t2 (corrispondente al completo decadimento della componente lenta) rispetto all’area dello stesso impulso al tempo t1 (corrispondente al decadimento della componente veloce).

La componente lenta degli impulsi di fluorescenza va incontro a fenomeni di spegnimento con maggiore probabilità di quanto avvenga per la componente pronta, in quanto la sua vita media è più lunga e di conseguenza la probabilità di interagire con agenti interferenti è maggiore. Questo effetto è ben visibile nella figura 1.13, nella quale sono confrontate la forma dell’impulso prodotto da una particella alfa in assenza ed in presenza di agenti di spegnimento (ad esempio l’ossigeno).

La possibilità di separare eventi alfa e beta può essere migliorata aumentando la componente lenta del segnale attraverso l’introduzione nello scintillante di composti più ‘predisposti’ alla formazione di tripletti (ad esempio il naftalene), in relazione alle caratteristiche specifiche della loro configurazione elettronica.

L’analisi degli impulsi di fluorescenza per l’identificazione della particella incidente (alfa o beta) viene effettuata misurando la parte di impulso relativa alla componente lenta rispetto a quella veloce attraverso elaborazione elettronica dei segnali prodotti.

Il sistema di identificazione prevede che si utilizzi una soglia temporale settata oltre il tempo di decadimento della componente veloce, ma prima del completo decadimento della componente lenta; tipicamente, questa soglia temporale è impostata circa a 90 ns dall’origine del segnale. Alla separazione delle due componenti fa seguito l’amplificazione ed il confronto dei segnali ottenuti.

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Il punto critico di questa tecnica consiste nella determinazione della soglia temporale, il cui valore dipende dall’energia delle particelle da discriminare, dalle caratteristiche chimiche del campione e soprattutto dal suo grado di spegnimento. La figura 1.11 mostra un esempio di distribuzione degli impulsi in funzione della forma e della loro lunghezza, ed evidenzia le interferenze conseguenti ad una definizione non ottimale della soglia temporale di discriminazione.

Fig.1.11 – Distribuzione della lunghezza degli impulsi in funzione della loro altezza relativa allo spettro di un campione contenente particelle alfa e beta, modificato da PerkinElmer , 2004

1.7. I fenomeni di spegnimento (quenching)

Con il termine quenching, o spegnimento, si intendono tutti i processi di diseccitazione delle molecole eccitate che non comportano l’emissione di luce, o più in generale di radiazione, e nel corso dei quali l’eccitazione si degrada principalmente sotto forma di calore (Fig.1.12). Si intende per agente quenchante qualunque composto che, interagendo con le molecole eccitate direttamente o indirettamente dalla radiazione, rimuove la loro energia di eccitazione contribuendo a dissiparla per via non radiativa (Horrocks, 1974).

Tabella 1.3 – Tipi di quenching

P* + S → P + S* Quench di assorbimento

S* + F→ S + F* Quench chimico

F* → F + hν Quench chimico

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Fig.1.12 – Schema di trasferimento dell’energia e relative interferenze, modificato da Rusconi, 2008

Quench di assorbimento: si riferisce ad interferenze al primo stadio, materiale o corpuscoli interposti tra la particella radioattiva ed il solvente assorbono l’energia emessa dalla particella ed impediscono l’eccitazione delle molecole di solvente e/o della molecola fluorescente.

Quench chimico: si riferisce ad interferenze nel secondo stadio, il solvente eccita una molecola di un interferente (o impurità) anziché la molecola fluorescente, ed è causato dagli elementi elettronegativi presenti all’interno del campione, compreso l’ossigeno O2, che hanno una forte

tendenza a catturare elettroni.

Il suo effetto sullo spettro misurato da uno scintillatore è quello di produrre una compressione dello spettro verso le basse energie, diminuendo l’energia massima (Emax) apparente (Fig. 1.13).

Fig.1.13 – Effetto del quenching chimico, modificato da Birks, 1964

Quench ottico (o di colore): si riferisce ad interferenze nell’ultimo stadio, il fotone hν emesso dal fluoro F* può essere assorbito da un composto colorato, prima di raggiungere il tubo fotomoltiplicatore. La diseccitazione di C* può avvenire senza emissione di radiazione, oppure con emissione di radiazione ad una frequenza inadeguata ai fini della rivelazione dal parte del tubo fotomoltiplicatore. In entrambi i casi, dal punto di vista del sistema di rivelazione il fotone è perso.

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Fig.1.14 – Effetto del quenching ottico, modificato da Birks, 1964

Il quench ottico è dovuto ad alterazioni delle proprietà ottiche della soluzione da parte del campione, causate ad esempio dalla presenza di particelle in sospensione; il suo effetto netto sullo spettro misurato da uno scintillatore è quello di diminuire, in modo pressoché uniforme, l’altezza dello spettro senza però modificarne la forma (Fig. 1.14).

Il metodo più usato per il monitoraggio del quenching utilizza una sorgente standard gamma esterna (External Standard) al campione, che viene utilizzata per irraggiare il campione prima della misura (Fig. 1.15).

Fig.1.15 – Irraggiamento del campione da una sorgente gamma esterna modificato da Hou, 2010

Lo spettro di elettroni Compton prodotto dall’interazione delle emissioni gamma della sorgente con il campione ha una forma caratteristica e dipendente dal grado di spegnimento del campione; anche in questo caso il grado di spegnimento del campione può essere quantificato introducendo un indice opportuno di ‘distorsione’ della forma dello spettro Compton (esempio: rapporto tra i conteggi

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relativi a due intervalli distinti (ESR); misura del canale oltre il quale si misura l’1 % dei conteggi totali (SQP(E)).

La determinazione del parametro di forma dello spettro dipende dal volume del campione, che influenza l’interazione con la sorgente esterna.

Ciò nonostante, questo metodo è ad oggi uno dei più utilizzati negli strumenti per scintillazione liquida per monitorare il grado di spegnimento dei campioni (vedi per dettagli il paragrafo 14.10).

1.8. Caratteristiche principali dei rivelatori a scintillazione liquida

I rivelatori a scintillazione liquida sono dispositivi sviluppati al fine di rivelare, registrare ed analizzare i fenomeni luminosi prodotti dalla radiazione ionizzante in un liquido scintillante, e sono costituiti principalmente da una camera di misura a tenuta di luce nella quale viene collocato il campione e da almeno un rivelatore di luce (tubo fotomoltiplicatore) in grado di misurare gli eventi di scintillazione.

Il conteggio in scintillazione liquida viene comunemente utilizzato per misurare radiazione alfa e beta: il campione viene posto in una fiala a cui viene aggiunto il liquido scintillante, che trasforma la radiazione del campione in impulsi di luce rivelabili da un tubo fotomoltiplicatore. E’ inoltre possibile discriminare la radiazione alfa e beta attraverso tecniche di analisi della forma del segnale prodotto. L’implementazione di questa tecnica richiede tuttavia una particolare cura nella preparazione del campione, le cui caratteristiche condizionano pesantemente l’esito del processo di discriminazione.

Per quanto riguarda la preparazione del campione, un primo problema pratico nell’implementazione della tecnica consiste nel fatto che la maggior parte dei liquidi scintillanti utilizza come solvente il toluene o altri solventi organici (idrofobi), ma in genere è più adeguato preparare i campioni in soluzione acquosa.

Se i campioni da analizzare sono solidi e insolubili possono essere, ad esempio, posti in misura sotto forma di sospensione di particelle fini e, nei casi in cui esistesse il problema della deposizione rapida, è possibile utilizzare metodi che comportano la conversione della soluzione in un gel subito dopo la preparazione della sospensione stessa.

Un problema ulteriore consiste nel fatto che l’introduzione del campione tende a ridurre la resa di scintillazione rispetto a quella del liquido scintillante puro, questi fenomeni di quenching limitano spesso la quantità effettiva di campione che può essere sottoposto ad analisi.

Un altro problema è dato dal fatto che, specialmente nella misura di campioni poco attivi e di radionuclidi a bassa energia, è difficile identificare ed eliminare il contributo del fondo, sia esso

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dovuto alla radioattività ambientale o a rumore elettronico, che può interferire pesantemente con la sensibilità, l’accuratezza e la ripetibilità della misura.

Il fondo ambientale può essere eliminato, o almeno ridotto, utilizzando schermi passivi (realizzati in piombo ed altri materiali idonei) e schermi attivi, costituiti da rivelatori di guardia posti in anticoincidenza con i segnali prodotti dai campioni sottoposti ad analisi.

I fotoelettroni generati per effetto termico dal fotocatodo dei tubi fotomoltiplicatori, i fenomeni di fosforescenza a vita lunga nello scintillante, i fenomeni di foto e chemiluminescenza in teoria sono tutte sorgenti di rumore a cui corrisponde la produzione di un solo fotoelettrone per impulso, cosicché possono normalmente essere eliminate fissando un livello di discriminazione nella catena del segnale tale da eliminare gli impulsi di ampiezza corrispondente ad un solo fotoelettrone. Tuttavia, poiché anche il segnale reale prodotto dal campione corrisponde spesso a soli pochi fotoelettroni, c’è il rischio che questo processo di discriminazione elimini anche parte del segnale utile.

Un metodo alternativo per la discriminazione del rumore si basa sull’utilizzo contemporaneo di due tubi fotomoltiplicatori che operano simultaneamente accettando solo i segnali che sono rivelati contemporaneamente da entrambi; questa tecnica consente ad esempio di eliminare la maggior parte del rumore elettronico senza tuttavia condizionare pesantemente l’efficienza di rivelazione.

Negli strumenti che utilizzano due fotomoltiplicatori per l’analisi dei segnali prodotti dal campione è possibile ridurre ulteriormente il fondo utilizzando circuiti per il confronto dell’ampiezza degli impulsi generati sui due fototubi (comunemente denominati PAC - Pulse Amplitude Comparator); questa tecnica è particolarmente efficace per la riduzione dei cosiddetti fenomeni di cross-talk. Poichè il fondo strumentale condiziona pesantemente le prestazioni degli strumenti per scintillazione liquida, si riporta di seguito una descrizione più dettagliata delle componenti che vi concorrono e dei principali metodi per eliminarle o quanto meno ridurle.

1.9. Il fondo

Le componenti principali che contribuiscono allo spettro di fondo in uno scintillatore liquido sono quattro:

o la radioattività ambientale artificiale e naturale, quest’ultima sia di origine primordiale che cosmogenica;

o la chemiluminescenza; o la fotoluminescenza; o il rumore elettronico.

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Questi fenomeni possono avere origine nel campione o nel sistema di rivelazione nel suo complesso; la tabella che segue identifica, sommariamente, i contributi al fondo dei diversi elementi che intervengono nelle misure in scintillazione liquida:

Tabella 1.4 – Principali componenti che contribuiscono allo spettro di fondo

ELEMENTO CONTRIBUTI

Radioattività naturale dei materiali che costituiscono il liquido scintillante

Liquido scintillante:

Chemiluminescenza e fosforescenza di alcuni solventi causate dalla presenza dei soluti

Componente di radioattività “indesiderata” nel campione

Campione: Chemiluminescenza e fosforescenza prodotte dal campione o da

impurità in esso presenti

Radioattività naturale nelle pareti o nel tappo della fiala

Fondo indotto da interazione con i raggi cosmici (elettroni secondari e Cerenkov e fotoni)

Fiala:

Chemiluminescenza e fosforescenza prodotte nella fiala dalla luce solare o da impurità

Carica elettrostatica prodotta durante il movimento della fiala nello scambiatore dei campioni

Radioattività naturale nei tubi fotomoltiplicatori

Interazione con i raggi cosmici con produzione di radiazione Cerenkov, elettroni secondari, fotoni

Emissione di elettroni termoionici e secondari dal fotocatodo e dai dinodi,

Tubi

fotomoltiplicatori:

Crosstalk causato da scariche elettriche e/o impulsi ritardati di radiazione Cerenkov

1.10. Radioattività naturale

Il contributo della radioattività naturale al fondo di un rivelatore a scintillazione è dovuto:

1. alla radioattività ambientale, sia primordiale che di origine cosmica, che può interagire con il sistema di rivelazione,

2. alla radioattività presente nei diversi elementi che costituiscono la catena di misura, ed in particolare:

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b) al campione, che può contenere radionuclidi “indesiderati” ai fini dell’analisi,

c) alla fiala, che può contenere (soprattutto se è di vetro) 232Th e 238U ed i loro prodotti di decadimento e 40K,

d) alla camera di conteggio ed ai fotomoltiplicatori, che possono contenere 232Th h e 238U ed i loro prodotti di decadimento ed il 40K.

Il contributo della radioattività primordiale è legato alle caratteristiche proprie del luogo nel quale è posizionato lo strumento di misura. Rivelatori collocati in zone ad alto fondo gamma ambientale, causato dalle corrispondenti caratteristiche litologiche e geomorfologiche, hanno un fondo normalmente più elevato.

La radiazione cosmica primaria, di origine galattica o solare, è costituita da particelle cariche e ioni pesanti con energie estremamente alte (Rossi, 1971); quando queste interagiscono con l’atmosfera viene prodotta una grande quantità di particelle secondarie (mesoni pi, mesoni mu, elettroni, protoni, neutroni e fotoni elettromagnetici) con energie di centinaia di MeV. Queste possono interagire con la superficie terrestre o con la schermatura stessa del rivelatore dando origine ad un significativo apporto al fondo.

Questa componente del fondo viene normalmente contenuta costituendo uno schermo passivo ed uno attivo attorno al rivelatore.

Lo schermo passivo consiste in una schermatura di piombo, cadmio e rame; la schermatura in piombo elimina la componente gamma del fondo ambientale, anche se contribuisce alla componente X a causa delle emissioni beta del suo prodotto di decadimento 210Pb e della radiazione di frenamento da esse prodotta (Rossi, 1971). Questo problema può essere limitato utilizzando piombo opportunamente trattato o piombo antico, nel quale la concentrazione di 210Pb sia limitata. Inoltre il piombo viene normalmente utilizzato solo per il rivestimento più esterno della schermatura; internamente lo schermo viene rivestito con del cadmio, che è in grado di assorbire i raggi X caratteristici del piombo, e con del rame che assorbe i raggi X caratteristici del cadmio. Lo schermo attivo consiste in uno o più rivelatori di guardia che circondano completamente il sistema di rivelazione, collegati a dei fototubi; i rivelatori di guardia, posti in anticoincidenza con i rivelatori del campione, discriminano gli eventi originatisi esternamente alla camera di conteggio e ne impediscono la registrazione da parte dei rivelatori del campione (PerkinElmer, 2004). Lo schermo attivo è particolarmente efficace nella riduzione della componente di fondo dovuta ai raggi cosmici.

Per quanto riguarda la radioattività presente nei diversi elementi che costituiscono nel complesso la catena di misura, si possono adottare i seguenti accorgimenti:

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a) al fine di ovviare o almeno ridurre il problema della presenza di 3H e 14C nel liquido scintillante è preferibile che i solventi ed i soluti utilizzati per la sua preparazione siano prodotti derivati dal petrolio, che essenzialmente non contiene né 14C, né 3H;

b) la presenza di radionuclidi “indesiderati” nel campione può essere rimossa selezionando opportunamente le finestre di conteggio, quando questo è possibile; l’approccio preferibile è comunque quello del pretrattamento chimico del campione, ad esempio attraverso separazioni selettive, allo scopo di estrarre il radionuclide di interesse e porre in misura solo quest’ultimo;

c) il contributo al fondo della fiala può essere ridotto effettuando una selezione oculata della stessa: sono da evitare, per quanto possibile, le fiale in vetro che contribuiscono notevolmente al fondo (il vetro è ricco di 40K e di elementi appartenenti alle serie radioattive di uranio e torio); sono da preferire fiale in polietilene o teflon;

d) la camera di conteggio ed i fotomoltiplicatori forniscono, in conclusione, il contributo principale e difficilmente eliminabile a causa degli elementi radioattivi naturali in essi normalmente presenti. L’unica accortezza che si può adottare, a questo proposito, è quella di scegliere materiali a basso contenuto di radioattività.

1.11. Chemiluminescenza

La chemiluminescenza (il termine indica l’emissione di fotoni risultanti da reazioni chimiche) è il prodotto delle reazioni chimiche che avvengono tra il campione ed il liquido scintillante dal momento in cui vengono miscelati (Pinzani et al.1993). Queste reazioni possono coinvolgere le impurità presenti nella soluzione scintillatrice, i reagenti usati per la solubilizzazione del campione ed il campione stesso; il rateo di reazione dipende dalla concentrazione dei reagenti e dalla temperatura a cui si trovano.

Il risultato delle reazioni di chemiluminescenza è la produzione, a rateo non costante, di fotoni luminosi che contribuiscono ai conteggi nella parte bassa dello spettro; questo effetto è particolarmente fastidioso quando si misurano beta emettitori a bassa energia, in quanto in questo caso i due spettri risultano significativamente sovrapposti.

Solitamente si osserva che i fenomeni di chemiluminescenza caratterizzati da rateo elevato tendono ad esaurirsi rapidamente nel tempo; in questo caso per eliminare il problema è sufficiente attendere un tempo adeguato prima di misurare il campione. Ratei di reazione bassi corrispondono invece, solitamente, a fenomeni più persistenti nel tempo; in questo caso per eliminare il problema si può aumentare la temperatura del campione, inducendo un aumento della velocità di reazione e quindi

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della chemiluminescenza, ed attendere quindi il tempo normalmente necessario all’estinzione dei fenomeni di chemiluminescenza caratterizzati da ratei più elevati.

Al fine di limitare il fenomeno della chemiluminescenza si possono adottare i seguenti accorgimenti:

1) immagazzinamento dei campioni per lunghi periodi prima del conteggio,

2) immagazzinamento dei campioni a temperature elevate (per accrescere il rate di chemiluminescenza ed accelerarne l’estinzione),

3) uso di tecniche che eliminano gli agenti chimici responsabili del fenomeno (ossidazione del campione),

4) purificazione dei solventi e delle altre sostanze chimiche presenti,

5) aggiunta di agenti chimici che inibiscono o competono con i reagenti che danno chemiluminescenza dando origine a prodotti non chemiluminescenti, come ad esempio l’acido cloridrico e l’acido ascorbico

Nei casi in cui la chemiluminescenza non sia totalmente eliminabile, è comunque possibile monitorarla nei rivelatori a scintillazione che utilizzano due tubi fotomoltiplicatori in coincidenza per la misura dei campioni. Infatti ogni reazione di chemiluminescenza produce un solo fotone, e quando queste reazioni avvengono con rateo elevato danno luogo ad un numero significativo di coincidenze casuali pur non avendo alcuna caratteristica di correlazione temporale; se lo strumento consente di monitorare le coincidenze ritardate, vale a dire gli eventi che sono coincidenti ma entro un intervallo di tempo maggiore di quello proprio delle coincidenze reali prodotte dall’interazione della radiazione ionizzante, è possibile ottenere una valutazione almeno indicativa della presenza di eventi di chemiluminescenza anche nella finestra di conteggio del campione (PerkinElmer, 2004).

1.12. Fotoluminescenza

La fotoluminescenza è un processo in cui una sostanza assorbe fotoni (radiazione elettromagnetica) per poi riemetterli (Einstein, 1905).

Questo fenomeno può essere indotto dalla luce solare o da luci artificiali presenti nella stanza in cui si trovano i campioni prima di essere posti nel rivelatore, e può provocare un aumento di conteggi nella parte dello spettro a bassa energia.

La sua intensità ed il tempo necessario per il suo completo decadimento dipendono dalla durata dell’esposizione, dall’intensità e dal tipo di luce, dalla composizione chimica del campione e dal rapporto volumetrico campione/scintillante.

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1.13. I diversi contributi al rumore elettronico

1.13.1. Emissione spontanea di elettroni dal fotocatodo

Il rumore elettronico dovuto all’emissione spontanea di elettroni dal fotocatodo e dai dinodi può essere non trascurabile quando si utilizzano tubi fotomoltiplicatori ad alta sensibilità quali quelli necessari per misure di particelle a bassa energia. Questi impulsi, che sono costituiti da meno di due o tre fotoelettroni, producono nella parte bassa dello spettro un picco che può interferire significativamente con lo spettro di beta emettitori a bassa energia, e principalmente con il trizio. Negli strumenti che utilizzano due fotomoltiplicatori in coincidenza per la misura degli eventi di scintillazione generati dal campione si ottiene la quasi totale eliminazione di questa componente del fondo strumentale; infatti l’emissione spontanea di elettroni dal fotocatodo e dai dinodi è un processo casuale, e la probabilità che due impulsi emessi indipendentemente dai due fotomoltiplicatori vengano rivelati come coincidenti è funzione del rateo di conteggio in ognuno dei due fotomoltiplicatori ( N1, N2) e del tempo di risoluzione τ del circuito di coincidenza:

2 1

2 N N Nc = τ

Si dimostra sperimentalmente (Kogan, 1996) che selezionando opportunamente i tubi fotomoltiplicatori ed il tempo di risoluzione del circuito di coincidenza la maggior parte di questi eventi cade al di fuori della finestra di coincidenza definita (solitamente τ = 20-30 ns), ottenendo la rimozione pressoché completa di questa potenziale sorgente di rumore elettronico.

Un ulteriore contributo al rumore elettronico può essere dato dall’interferenza con radiofrequenze e dalla elettricità statica con cui si caricano, per sfregamento, le fiale. Entrambi questi fenomeni possono essere eliminati adottando delle semplici contromisure strumentali (dispositivi (antenne) per l’eliminazione delle interferenze da radiofrequenza; deionizzatori per l’eliminazione delle cariche elettrostatiche).

1.13.2. Cross-talk

Negli strumenti che utilizzano due fotomoltiplicatori in coincidenza per la misura degli eventi di scintillazione generati dal campione un ulteriore contributo al fondo strumentale è legato al cosiddetto fenomeno di cross-talk (Mohr, 2010).

Il termine cross-talk identifica quegli eventi che producono l’emissione di fotoni luminosi in uno dei due fotomoltiplicatori e che contemporaneamente sono rivelati anche dal secondo fotomoltiplicatore all’interno della finestra temporale di coincidenza prestabilita.

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a) scariche elettriche generate nei fototubi

b) radiazione Cerenkov prodotta dall’interazione della radiazione cosmica c) radioattività naturale nei materiali di cui sono costituiti i fotomoltiplicatori.

Se il fotone prodotto in uno dei due fotomoltiplicatori passa attraverso il campione e la fiala che lo contiene senza venire assorbito, oppure se subisce riflessioni da parte del sistema ottico della camera di conteggio del campione, è possibile che venga rivelato anche dal secondo tubo fotomoltiplicatore all’interno della finestra di coincidenza prestabilita; si origina in questo modo un segnale che contribuisce al fondo strumentale.

Il cross-talk può essere ridotto utilizzando fiale opache, così da evitare fenomeni riflessione della luce, oppure impostando una soglia sull’altezza relativa degli impulsi registrati in coincidenza dai due fotocatodi.

1.13.3. Effetto Cherenkov

Quando una particella interagisce con un mezzo è possibile che parte della sua energia produca fenomeni di polarizzazione elettronica nelle molecole dell’assorbitore con cui interagisce; quando le molecole polarizzate tornano allo stato fondamentale l’energia in eccesso viene riemessa sotto forma di radiazione elettromagnetica, principalmente nell’intervallo di lunghezza d’onda corrispondente all’ultravioletto. Questo tipo di radiazione viene denominata radiazione Cherenkov (Jelley, 1958).

La produzione di radiazione Cherenkov è un effetto con soglia, dipendente dalla velocità (e quindi dall’energia) della particella incidente oltre che dall’indice di rifrazione del mezzo; in particolare si trova che si può osservare produzione di radiazione Cherenkov nei casi in cui:

n c

>

v

dove v è la velocità della particella, c rappresenta la velocità della luce ed n è l’indice di rifrazione del mezzo con cui avviene l’interazione. L’aumento dell’indice di rifrazione del mezzo corrisponde alla diminuizione del valore dell’energia di soglia.

Si osserva inoltre che l’emissione di radiazione Cherenkov è un fenomeno direzionale, e che il semiangolo del cono di radiazione emessa è definito dalla relazione:

n c

v cosφ =

Nel caso ad esempio in cui il mezzo assorbitore sia l’acqua e la particella incidente sia un elettrone, l’energia di soglia corrisponde circa a 250 keV; nel caso di materiali con indice di rifrazione compreso tra 1,2 ed 1,6, l’energia di soglia per elettroni è pari rispettivamente a 400 ed a 150 keV.

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