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Campo e controcampo. Un Visual Storytelling d’Architettura.

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Academic year: 2021

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Capitolo 2

Campo e controcampo.

Un Visual Storytelling d’Architettura.

« Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna polverosi, cortili di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi finché una visione notturna mi rivelò che anche i templi e i mari sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole, e questa enorme casa, ma non me ne ricordo ».

Jorge Luis Borges, La casa di Asterione, in L’Aleph, 1952

In questo capitolo tratteremo dell’architettura contemporanea abbracciando un arco temporale che va dal dopoguerra fino alle soglie del nuovo millennio. Questo frammento di una realtà ben più ampia e articolata, mira a tracciare un percorso facendone affiorare alcuni aspetti utili alla nostra ricerca. Le immagini delle opere che presenteremo, saranno come “isole” che emergono da un mare di eventi; fotogrammi che punteggiano una “mappa mentale”, che si dipana in una pluralità di possibili itinerari. Ogni fotogramma, culmine di un processo conoscitivo e costruttivo, evocherà altre immagini del testo, offrendo un racconto non lineare e aperto.

Probabilmente non riusciremo a dare una forma stabile a questo lavoro, nel senso scientifico di una ricerca che procede per successive iterazioni compiendo ripetuti cicli di ipotesi, verifica, validazione, tesi.

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Nostro intento, piuttosto, è quello di rilevare dalla “mappa” che abbiamo organizzato, il senso di alcune dinamiche, di porre domande, di evidenziare alcune tendenze e, ci auguriamo, di fornire ulteriori spunti di riflessione e approfondimento.

Il cosiddetto Triangolo di Kanizsa, nota figura della Psicologia della Gestalt, potrebbe essere utile a chiarire il senso del percorso che affronteremo.

Osservando gli elementi che compongono questa immagine, rileviamo la disposizione regolare di tre cerchi privi di un settore, e di tre linee spezzate. La loro reciproca disposizione fa apparire all’occhio, che esplora rapido e curioso la superficie, due triangoli sovrapposti che, ora si materializzano, ora scompaiono. Come in una messa a fuoco, in un movimento che cerca un’altra dimensione, i nostri schemi mentali vi riconoscono, vi apportano, qualcosa di già noto, tentando ostinatamente di ricondurre lo strano assemblaggio ad un “di già visto”. Ciò che ci interessa sottolineare è il carattere di transitorietà della figura, l’instabilità delle forme che “giocano” a nascondersi.

Un’altra metafora ci sembra utile a descrivere il senso della discussione che andremo a svolgere: la nave (il piroscafo Aquitania) che compare nel testo Verso un’architettura (1923) di Le Corbusier, in una illustrazione che abbiamo riprodotto.

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Abbiamo intervallato al testo alcuni fotogrammi componendo un Visual Storytelling

d’Architettura: le architetture presentate nel racconto potranno essere viste come “isole”

raggiunte da una “imbarcazione”, il Cinema. Talvolta questa, si terrà a debita distanza, in alcune casi le lambirà, talaltra vi approderà.

La strategia che adotteremo nella ricerca è simile a quelle proposte, in ambito urbanistico, da due protagonisti degli anni ottanta: Bernard Tschumi, che nel 1982 vinse il concorso per il

Parco della Villette a Parigi (fig. 2), dove il percorso architettonico progettato è definito una «

passeggiata cinematografica », e Peter Eisenman, che nel 1985, in occasione della Biennale di Venezia, presentò il progetto fortemente sperimentale Moving Arrows, Eros and Other

Errors: Romeo + Julet (fig. 1), contrassegnato dalla sovrapposizione random di tre

planimetrie della città di Verona (6).

1 - Moving Arrows, Eros and Other Errors: Romeo + Julet. Plastici di progetto, Peter Eisenman, 1985.

In questo progetto le immagini, in tre scale dimensionali differenti, non hanno predominanza una sull’altra. Sono immagini che vengono rivelate come se sorgessero da uno scavo archeologico. L’idea di scoprire una storia è sia simbolica che reale; l’illusione e la realtà vi si incontrano; il passato, il presente e il futuro si sovrappongono in un flusso perpetuo. Eisenman, interrogandosi sul destino dello sguardo nell’epoca dei media elettronici, condanna senza appello l’Architettura, rea di non aver affrontato seriamente il problema della visione. Fra le tecniche sperimentate nella sua ricerca vi è lo scaling: una serie di rilievi informatizzati (geografici, storici, altimetrici, etc.), non necessariamente relativi ad un luogo di progetto, vengono a sovrapporsi, anche a scale differenti, facendo emergere segni

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indecifrabili, ma fortemente significativi perché legati alle specificità del luogo. Nascono “grumi iconici”, quasi come nelle opere di Jackson Pollock, in cui la città esistente è interpretata come un territorio in divenire senza distinzione tra causalità e casualità.

Nel progetto per il Parco della Villette, Tschumi sovrappone tre sistemi indipendenti che nella casualità del loro incontro, generano « i nuovi luoghi della contemporaneità ». Il primo sistema (delle linee) è quello della circolazione: due assi principali, rettilinei e ortogonali tra loro, si intersecano; sono sottolineati da pensiline ondulate e congiungono i punti estremi di accesso al parco. La Promenade Cinématique, invece, è un percorso sinuoso e articolato, con numerosi episodi consecutivi come in una pellicola cinematografica. Il secondo sistema (delle superfici) è costituito da grandi estensioni, destinate a prato, definite nella loro forma come spazi residuali ottenuti dall’intersezione dei diversi percorsi. Infine, le folies (i padiglioni) compongono un sistema puntiforme di oggetti collocati all’intersezione di un reticolo ortogonale che si sovrappone, in modo indifferente, al sito.

2 - Parco della Villette, Parigi, progetto di Bernard Tschumi, 1983.

Le folies disegnate da Tschumi, sono piccoli edifici-scultura che fanno riferimento esplicito all’architettura costruttivista. Sono “attrazioni” come nella tradizione delle grandi case nella campagna francese. Tschumi non fa mistero nel ricondursi alle tecniche di montaggio cinematografico elaborate da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1898-1948), pioniere e teorico del montaggio.

Secondo il regista, era possibile “manipolare” efficacemente le emozioni, e le convinzioni ideologiche degli spettatori, utilizzando la tecnica delle “attrazioni”: un montaggio disordinato, incompleto e scomposto.

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Nella sua teoria degli stimoli, l’immaginario del pubblico viene continuamente provocato. Lo spettatore è chiamato a fare uno sforzo attivo per ricomporre il senso della storia e dei personaggi. Il suo intelletto deve completare le figure inquadrate soltanto parzialmente, le azioni mostrate solo in parte, etc. Questo modo di orientarsi all’interno di un film è molto simile al modo in cui ci orientiamo all’interno di un luogo. Di questo abbiamo soltanto una visione parziale, il nostro sguardo non lo abbraccia nella sua interezza e siamo costretti a ricostruirne la forma intuitivamente. Ad ogni frequentazione ne chiariamo la forma e il senso, sedimentandolo. Quest’unità “virtuale” che la nostra mente ricostruisce, tuttavia, non ricalca fedelmente il luogo, ma ne “condensa” il senso complessivo, mutevole e cangiante, che ne abbiamo tratto, e ci permette di orientarci in esso.

Ejzenštejn era contrario alla linearità temporale. Invertendo l’ordine delle sequenze elementari (ad esempio mostrando prima una persona che cade, poi uno sparo, poi il grilletto di una pistola) generava ansia e paura più efficacemente, rispetto ad una sequenza montata secondo un ordine canonico e scontato. Un’altra significativa teoria fu quella del cine-pugno, che mirava a scioccare lo spettatore, a colpirlo con le immagini, come primi piani improvvisi e molto ravvicinati, espressioni violente, azioni serratissime. Il capolavoro in cui Ejzenštejn sperimentò queste teorie fu La corazzata Potëmkin (1926), soprattutto nella famosa e straordinaria scena della scalinata di Odessa. Con questi procedimenti Ejzenštejn intendeva scuotere lo spettatore sollevandolo dal torpore di un assorbimento passivo della storia, suscitando emozioni e stimolando nuove associazioni di idee.

Nel 1978, Rem Koolhaas scrive Delirious New York, testo che gli recò immediata fama internazionale.

Racconta la storia di New York e dei suoi edifici, cerca di spiegare il motivo per il quale una città, quasi per nulla pianificata, possa aver dato forma alla nostra contemporaneità, diversamente da quanto riuscirono a fare gli architetti del Movimento Moderno con le loro utopie metropolitane.

Nel libro afferma: « New York è riuscita a produrre la cultura della congestione e, inoltre, è riuscita a esprimere la tecnologia del fantastico, un ideale che forse ha poco a che vedere con le regole della composizione architettonica ma che, in effetti, riesce a produrre manufatti edilizi certamente non meno interessanti di quelli che escono dalle accademie, vecchie o nuove, delle nostre scuole di architettura ».

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New York risulta da questo moto, che non si arresta dietro una metodica di principi che hanno inciso e strutturato la coscienza europea. Il suo spirito vive di interpretazioni, di proiezioni inconsce, di genialità quasi surrealista che trova il suo equivalente nelle mutazioni di Manhattan. La logica cartesiana di Le Corbusier non riesce a coglierne la dimensione poetica, bensì la interpreta come caos informe e degenerativo. Ogni attualizzazione, che la griglia di Manhattan accoglie, è la manifestazione di una convivenza nella molteplicità: rende eguali nella possibilità di divenire.

L’instabilità è crisi, cambiamento nel senso etimologico del termine. Affermazione di nuovi valori del costruire, basati sulla differenza e sull’ibridazione a discapito della struttura seriale e omogenea della matrice che li ospita, comune base di sviluppo di ciascun isolato. New York è il delirio della dimensione dell’esistere, con tutte le sue valenze e contraddizioni.

Nel 1980, Koolhaas è uno degli architetti chiamati da Paolo Portoghesi alla Biennale di Venezia per partecipare all’installazione Strada Novissima (fig. 47), che diverrà il manifesto dell’architettura postmoderna.

Il film Manhattan (1979), omaggio che Woody Allen affresca per New York, si apre con il protagonista sdraiato sul divano del suo appartamento, come su un lettino da psicanalista. Nel tentativo di dare inizio ad un racconto sulla città, scandaglia diversi incipit, sulla falsa riga del romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), di Italo Calvino. In questo romanzo è il lettore ad essere protagonista: per dieci volte inizia a leggere un libro che non riuscirà a finire, a causa di una serie di vicissitudini. Incipit che sembrano i frammenti di una città. Nel romanzo i titoli dei capitoli, letti nella loro sequenza, compongono questo periodo:

Se una notte d’inverno un viaggiatore | Fuori dall’abitato di Malbork | Sporgendosi dalla costa scoscesa | Senza temere il vento e la vertigine | Guarda in basso dove l’ombra si addensa | In una rete di linee che s’allacciano | In una rete di linee che s’intersecano | Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna | Intorno ad una fossa vuota | Quale storia laggiù attende la fine?

Cos’è un Visual Storytelling? È una storia raccontata attraverso la narrazione visiva, puntando a imprimere nella memoria del destinatario i concetti che si intendono trasmettere. Nel Visual Storytelling che abbiamo montato, non tutto sarà esplicito.

Lasceremo parlare le immagini attraverso il loro accostamento. Giocando su associazioni e contrasti, cercheremo di renderle maggiormente eloquenti. Necessariamente, abbiamo dovuto

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compiere una forte selezione di opere, parziale e incompleta come tutte le sintesi, ma che riteniamo sia alimentata da elementi, frammenti, schegge utili a rendere il senso di alcune dinamiche culturali e di determinate tendenze ancora in atto.

Ci riferiamo a quella “esplosione”, avvenuta a partire dalla Pop Art, che ha spostato fortemente il significato dell’opera d’arte dal suo contenuto alla sua comunicazione.

Un importante filo conduttore di questa storia sarà costituito dal lavoro cinematografico di Stanley Kubrick, che abbraccia il periodo analizzato, ne sottolinea il carattere claustrofobico e le conseguenze psico-comportamentali che investono il ”cittadino globale”: il senso di inadeguatezza che genera choc e crea impasse.

3 - Marcel Duchamp e John Cage, Toronto, 1968. Fotografia di Lynn Rosenthal - ©The John Cage Trust.

Ci sono vie d’uscita ai nostri “labirinti mentali”? Questa tematica, a ben vedere, non è nuova in letteratura. Si pensi all’Amleto di William Shakespeare, che ha avuto intense trasposizioni cinematografiche. Perché Amleto non fugge? Perché, nel celeberrimo monologo sull’essere e il non essere, non giunge all’estremo gesto? Per paura dell’ignoto, afferma, accettiamo di « patire gli strali, i colpi di una fortuna oltraggiosa ». I “labirinti” in cui si costringono e si muovono Amleto o i personaggi di Kubrick (il castello, la caserma, l’hotel,

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l’astronave, il rapporto di coppia, etc.) sono griglie indifferenziate che sottendono alle infinite possibilità di manovra di uno scacchista. Ci vengono realmente imposte? O ne siamo irresistibilmente attratti, senza poterne fare a meno?

Oltre alle Esposizioni Internazionali di Roma (1942, non tenuta), Bruxelles (1958), Montréal (1967), tre collettive punteggeranno il nostro percorso: This is Tomorrow, tenuta alla Whitechapel Art Gallery di Londra, nel 1956; Italy: The New Domestic Landascape, tenuta al MoMa di New York, nel 1972 e Strada Novissima, installazione alla Biennale di Architettura di Venezia, del 1980.

La sequenza di montaggio che proponiamo, ci auguriamo riesca a suggerire spunti e ulteriori occasioni di riflessione, che ci sfuggono e che lasciamo al “visitatore”.

4 - Casa del Fascio, Como, Giuseppe Terragni, 1936. 5 - Palazzo della Civiltà e del Lavoro, Eur Roma, Guerrini, Lapadula, Romano, 1940.

Inizieremo il racconto con due opere significative realizzate in Italia, durante gli ultimi anni del Regime. La Casa del fascio di Como (1936), di Giuseppe Terragni e il Palazzo della

Civiltà e del Lavoro (1940), opera del un gruppo di architetti Giovanni Guerrini, Ernesto

Lapadula, Mario Romano (fig. 5), scelta da Marcello Piacentini in occasione del concorso bandito per l’Esposizione Internazionale di Roma del 1942.

Due aspetti caratterizzano queste realizzazioni e le rendono non troppo distanti tra loro: la geometria che ne racchiude i volumi e lo scavo, il “levare”, che ne descrive il procedere

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compositivo. Ma una differenza sostanziale caratterizza la Casa del fascio: è frutto di un lavoro che muove dallo scheletro, da una matrice sulla quale aggiunte e sottrazioni conformano spazi geometricamente controllati. Questi rivelano la loro “natura” formativa sui piani dei prospetti, ognuno differente dall’altro. La scatola, la pelle dell’edifico, è un supporto su cui “scrivere”, rivelare un’intenzione, schermo su cui proiettare un’idea. Il risultato è un’architettura permeabile, un filtro, un portico, un atrio che si offre alla città.

6 - Mausoleo Fosse Ardeatine, Roma, Aprile, Calcaprina, Cardelli, Fiorentini, Perugini, 1949.

Il palazzo romano, all’opposto, è isolato e drammatico nell’iterazione dei suoi elementi e nella profondità delle sue arcate; dialoga a distanza con la cupola di San Pietro, marca il territorio come una stele. È una pietra miliare che deforma l’immagine di un altro landmark urbano: il Colosseo. Reitera in maniera ossessiva l’innovazione e il simbolo dell’architettura dell’antica Roma: l’arco. Come la Casa del fascio, tuttavia, rimanda ad un altro da sé: alla storia. Ma è uno schiaffo alla retorica che se ne può fare: al suo uso strumentale che ne “piega” e ne deforma i significati alla propaga.

Terragni dà vita ad un lavoro meditato di estrema raffinatezza, attualizzando il linguaggio classico, con una sensibilità moderna.

Il lavoro del gruppo romano, alla luce della sensibilità contemporanea, è invece un’opera surreale e sofisticata. .

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7 - Guggenheim Museum, New York City, Frank Lloyd Wright, progetto del 1943, realizzazione 1956-59.

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All’altro capo dell’Oceano, negli stessi anni, Frank Loyd Wright progetta il Museo Guggenheim di New York (fig. 7). Avvolge attorno ad un vuoto, illuminato da una luce zenitale, un moderno Panthéon per le arti contemporanee. Il vuoto e la luce dominano con la loro presenza. Attorno ad esso si “dipana“ un nastro coclide: una sorta di Colonna Traiana percorribile senza soluzione di continuità con le avenue e le street newyorkesi, che si adagia sopra uno “stilobate” sospeso.

Se nel palazzo dell’Eur, Roma è un’iscrizione a caratteri cubitali che ricorre ossessivamente nelle sue arcate e, nell’opera di Terragni trovano una sottile linea di convergenza l’agorà e l’Acropoli, in quest’opera elegante e morbida di Wright sono accolte le suggestioni e reinterpretate le valenze dei vertici dell’architettura classica.

È un oggetto architettonico che si fonde con la città, che pare sorgere da essa ma che, al tempo stesso, gli volge le spalle derogando alla regola che ne governa la geometria. Fiore all’occhiello per i “monoliti” di Manhattan (fig. 9).

James G. Ballard in Miracles of Life. Shanghai to Shepperton. An Autobiography (2008) racconta: « Nel 1956, lo stesso anno in cui pubblicai il mio primo racconto, andai a vedere una mostra straordinaria alla Whitechapel Art Gallery: la mostra si chiamava This is

Tomorrow, “Questo è il domani”, considerata generalmente come l’atto di nascita della Pop

Art. Una dozzina di squadre, che comprendevano ognuna un architetto, un pittore e uno scultore, progettarono e realizzarono altrettante installazioni che rappresentavano la loro visione del futuro. Fra i partecipanti c’era l’artista Richard Hamilton, che presentò il suo collage Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (Che cos’è che

rende le case di oggi così diverse, così attraenti?).

Un’altra squadra riunì lo scultore Eduardo Paolozzi e gli architetti Peter e Alison Smithson, che costruirono un’unità di abitazione umana in ciò che sarebbe rimasto del mondo dopo una guerra nucleare. La loro “capanna terminale”, come pensavo si potesse considerarla, stava su una chiazza di sabbia, sulla quale erano disposti gli attrezzi indispensabili all’uomo moderno per sopravvivere: un trapano, una ruota di bicicletta e una pistola.

Just what is it…? di Hamilton mostrava un mondo fatto interamente di pubblicità popolare,

ed era una convincente visione del futuro che ci stava di fronte: il marito tutto muscoli e la moglie spogliarellista nella loro casa di periferia, i beni di consumo, come la lattina di prosciutto, considerati in quanto tali come decorazioni, l’idea della casa come elemento

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primario del circuito di vendita e di tutta la società dei consumi. Siamo ciò che vendiamo e compriamo.

10 - Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?, collage di Richard Hamilton, 1956.

Nell’installazione di Paolozzi il trapano posato sulla sabbia post-nucleare non era solo un dispositivo portatile per scavare dei buchi, ma un oggetto simbolico, con proprietà quasi magiche.

Se il futuro doveva essere costituito da qualcosa, questo qualcosa era un insieme di blocchi da costruzione forniti dal consumismo. La pubblicità di una nuova mistura per torta conteneva i codici che definivano il rapporto di una madre con i suoi bambini, imitati in tutto il pianeta.

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This is Tomorrow mi convinse che la fantascienza era molto più vicina alla realtà di quanto

non lo fossero il romanzo realista convenzionale in auge allora, o i giovani arrabbiati coi loro risentimenti e i loro brontolii. E soprattutto, la fantascienza aveva una vitalità che il romanzo modernista non aveva più. Era un motore visionario che a ogni giro creava un nuovo futuro, un’automobile truccata che accelerava davanti al lettore, spinta da un carburante letterario esotico altrettanto ricco e pericoloso quanto quello che spingeva i surrealisti » (7).

13 - Andy Warhol con Philip Johnson (1981), Glass House, New Canaan, Connecticut, 1949.

Nel film di fantascienza Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij, tre uomini compiono un viaggio verso un luogo proibito, recintato e sotto sorveglianza militare, detto “la zona”. Una volta dentro, per orientarsi e cercare la strada, dovranno lanciare a turno un sasso. Ogni volta, intuendo i loro pensieri e le loro emozioni al pari di una “persona”, “la zona” reagisce cambiando la sua forma, portando così i tre viaggiatori a perdersi o a dover ricominciare da capo (8).

Nel 1980, il pubblico cinematografico di mezzo mondo fu scosso da un film che si rivelò subito un notevole successo critico ed economico, e che entrò immediatamente e di diritto nella storia del cinema: Shining (letteralmente “la luccicanza”), undicesimo film del regista statunitense Stanley Kubrick.

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14 - Padiglione Philips, Esposizione di Bruxelles, Le Corbusier, 1958.

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16 - Palazzo del Lavoro, Torino, Pier Luigi Nervi, 1960.

Il film è basato sul romanzo omonimo del 1977 di Stephen King e narra della vicenda della famiglia Torrance, che trascorre il periodo invernale nell’Overlook Hotel, disperso sulle Montagne Rocciose, dove il capofamiglia Jack ha accettato l’incarico di guardiano per i cinque mesi freddi. L’influenza negativa dell’albergo e della sua storia (il precedente guardiano ha ucciso le due piccole figlie e la moglie, per poi uccidersi a sua volta) porta Jack verso una progressiva schizofrenica follia, che lo spinge a minacciare di morte la sua famiglia.

Un breve saggio del 1919 di Sigmund Freud, Il Perturbante, è considerato dal regista « il massimo discorso fatto dalla cultura occidentale sul tema della paura ». Nel saggio, Freud cerca di spiegare il “perturbante”, un sentimento spaventoso che trae origine da ciò che non è noto e familiare ma, soprattutto, da ciò che è inconsueto. L’autore elenca una serie di elementi che possono causare il sentimento del “perturbante”. È interessante notare come essi siano tutti presenti in Shining, come se Kubrick avesse utilizzato questo breve testo come guida per turbare l’inconscio degli spettatori.

La parola che in tedesco significa “perturbante” è unheimlich, antitesi di heimlich, che vuol dire “confortevole”, “tranquillo”, e di heimisch, che significa “patrio”, “nativo” e quindi familiare, abituale.

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A questo bisogna aggiungere il senso di incertezza: « tanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno facilmente riceverà un’impressione di turbamento (unheimlichkeit) da cose o eventi ». Ma, come nota Freud, la cosa veramente interessante del termine è che la parola heimlich ha tra le sfumature del suo significato il contrario unheimlich, questo perché il termine heimlich appartiene a due cerchie di rappresentazioni estranee l’una all’altra: quella della familiarità, dell’agio, e quella del nascondere, del tenere celato.

17 - Piano per Tokio, progetto di Kenzo Tange, 1960.

Secondo una definizione di Schelling, l’unheimlich è ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato. Il sentimento del “perturbante” è caratterizzato, fin dalla sua trascrizione letterale, da un contrasto tra ciò che sembra sicuro e ciò che non lo è,

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fino al limite di percepire entrambe le sensazioni simultaneamente: È da una simile imprevedibilità, dall’inspiegabile ribaltamento, che dipende la paura.

Con questo genere di sensazioni Kubrick gioca a stimolare il suo pubblico (9).

Nel 1956, l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer viene nominato consulente della Nova

Cap, un’organizzazione incaricata di realizzare i progetti di Lucio Costa, per la nuova capitale

del Brasile (fig. 18). L’anno successivo progetterà la maggior parte dei più importanti edifici di Brasilia. Nel 1967 Niemeyer è esule a Parigi.

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Dell’anno seguente è il suo più famoso progetto in Italia: la sede della Mondadori a Segrate, che lo stesso architetto riteneva il suo edificio più bello, come spiegò in una intervista al “Corriere” molti anni dopo:

« Anche alla Mondadori, in quegli anni, si respirava un clima di audacia e innovazione. Andammo contro molti pareri: “non funzionerà”, dicevano. Invece riuscimmo a fare una cosa molto nuova, con gli spazi di forma irregolare tra le colonne. Nell’architettura il vuoto è importante quanto il pieno, per dare armonia all’insieme. E poi lo spazio interno senza divisioni fu una scelta di democrazia. In Brasile sarebbe stato impossibile costruire un palazzo di giornalisti senza la stanza del direttore, quella della segretaria... ».

In un’intervita apparsa su la Repubblica il 7 dicembre 2012, Renzo Piano parla di Oscar Niemeyer:

« Niemeyer era membro della giuria che doveva decidere del Beaubourg, a Parigi (fig. 45). In quel gruppo c’erano anche gli architetti Philip Johnson e Jean Prouvé, che era anche il presidente. […] Sia Johnson che Niemeyer avevano più di sessant’anni quando si svolse il concorso. Ma so per certo che Niemeyer si batté per le innovazioni che proponevamo, scontentando la parte più accademica dell’architettura di quel tempo, soprattutto quella francese e vicina al prestigioso Grand Prix de Rome. […] L’assoluta coerenza del suo linguaggio, che potrei definire anche come una forma di integrità, […] per certi aspetti mi fa pensare ai romanzi di José Saramago. Un atteggiamento molto lontano dall’idea che la propria architettura debba fare ogni sforzo per essere riconosciuta. […] I suoi progetti non puntano mai a diventare un brand, come si dice oggi. E non c’è nulla di più noioso di un brand. Niemeyer ha esplorato diverse strade, ha manifestato un costante desiderio di movimento. Ma, appunto, non è difficile rintracciare in lui una coerenza di fondo ».

Il 1956 è anche l’anno in cui viene commissionato a Eero Saarinen, architetto scandinavo, il progetto per il Terminal TWA dell’aeroporto internazionale J.F.K. di New York (fig. 19). La coerenza formale, di questa “caverna” irrorata dalla luce di grandi vetrate, è l’idea guida. Come afferma Saarinen: « Tutte le curve, tutti gli spazi e gli elementi fino alla forma di segnali, tabelloni, ringhiere e banchi check-in scaturiscono da una medesima natura. Volevamo che i passeggeri in transito attraverso la costruzione sperimentassero un ambiente completamente progettato, in cui ogni parte deriva da un’altra e tutto appartiene allo stesso

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Michelangelo Antonioni ha avuto un rapporto con l’arte del costruire tale da rendere le architetture parte dei suoi racconti. Esse rappresentano le situazioni interiori dei suoi personaggi, i quali, a loro volta, aggiungono qualcosa di nuovo alle opere che il regista seleziona.

La ricerca di un’immagine femminile, come ricerca di identità, è un tema fondante e ricorrente nel lavoro di Antonioni come per i più grandi artisti della pittura: da Raffaello a Caravaggio, da Goya a Matisse, fino all’esplosivo Picasso (10).

20 - L’Eclisse, diretto da Michelangelo Antonioni, 1962.

Antonioni è riuscito a portare questa ricerca straordinaria in tutti i luoghi che ha scelto, apportandovi nuovi significati con il movimento delle sue attrici e dei suoi attori. In L’eclisse del 1962, ambientato nell’allora nuovo quartiere Eur di Roma, propone la “crisi” dei suoi personaggi trasmettendola anche attraverso quell’architettura rappresentativa, nella sua razionalità, del vuoto e della desolazione interiore. Con le sue opere evidenzia che un certo tipo di costruzioni non può che suscitare malessere e freddezza nei rapporti umani.

Al tempo stesso, quel tipo di architettura è capace di rappresentare la grave crisi di identità dei suoi frequentatori.

Il regista tedesco Wim Wenders, rapportandosi alla metropoli, ne apprezza la stimolante vitalità e ne difende, invece, l’assenza di regole: « Credo esista una bellezza particolare della città, una bellezza che non si può misurare coi canoni estetici obbiettivi. [...]

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Penso al traffico, c’è un modo di arrangiarsi nella grande città, di convivere con la metropoli, di tuffarsi nel grande flusso, che dà euforia ».

21 - Casa di Vanna Venturi, Philadelphia, Robert Venturi, 1964.

Mentre la pianificazione urbana mira all’omogeneità, la città moderna si definisce attraverso i suoi contrasti, che affascinano il regista: « Ciò che chiedo a una città è di essere scosso da un luogo all’altro, da una sensazione all’altra ». Parlando di Berlino dice: « A Berlino si è sempre trasportati da sensazioni urbane diversissime. A Berlino bisogna leggere da sé i nessi della storia, tra rotture e passaggi discontinui ».

Le città riprese da Wenders sono quelle degli scorci, dei luoghi dimenticati, dove però vi è ancora la possibilità di costruire un sogno, uno spazio onirico, ludico, fatto di libertà e bellezza potenziali, ricco di speranza in un futuro migliore, a misura di chi lo abita.

Agli architetti si rivolge direttamente dicendo:

« Vorrei anche che provaste a considerare ciò che per definizione è l’esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici bensì creare spazi di libertà, spazi liberi per conservare l’equilibrio dei vuoti, affinché la sovrabbondanza non ci renda invisibili i mondi che ci circondano ».

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Sul rapporto tra il suo cinema e la città di Berlino, Wenders afferma: « Il solo fatto che qualcosa dovesse scomparire è sempre stato un buon motivo per posizionare la macchina da presa. Il cielo sopra Berlino (1987) è un esempio paradigmatico, in questo senso. Quasi nessuno dei luoghi in cui abbiamo girato si è conservato intatto. [...] Il film è oggi un archivio unico di luoghi che non esistono più. [...] Il film è nato dal desiderio di mostrare Berlino: è la città stessa che ha deciso dell’esistenza del film. [...] Volevo un film che potesse dare un’idea della storia di questa città dalla fine della guerra » (11).

22 - Il cielo sopra Berlino, diretto da Wim Wenders, 1987.

Il cinema di Kubrick, al contrario, è pervaso da mondi/labirinto chiusi.

Spazi come l’Overlook Hotel di Shining (1980), o la caserma di Full Metal Jacket (1987), l’astronave di 2001: Odissea nello spazio (1968; fig.30) sono teatro di sfide o duelli, di partite a scacchi giocate tra due antagonisti, come quella tra il computer Hal 9000 e l’astronauta.

Il film Barry Lyndon (1975) si apre con un duello simbolico: la morte del padre segna i momenti più importanti della storia, riportando la sfida al valore archetipico del contrasto tra padri e figli.

Le idee di labirinto, di luogo circoscritto segnato da regole, di sfida, trovano origine nella passione che Kubrick ha sempre nutrito per gli scacchi. Scacchiera e labirinto, infatti, sono figure che spesso ricorrono nella messa in scena del regista; delineano i tratti espressivi di una poetica incentrata su una visione del mondo dove tutto è logica, calcolo, prevenzione, azzardo

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e dove la volontà di azione è continuamente frustrata, sconfitta, messa in scacco. Nell’ultimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut (1999), il protagonista Bill è impegnato in una sfida intellettuale con la moglie e non solo: si aggira per la città e in casa come fosse controllato, in trappola.

Non v’è, tuttavia, interpretazione univoca nella lettura dei suoi film. Nei suoi lavori, ogni scena è una sorta di portale che apre a più direzioni.

La complessità di interpretazione dei film di Kubrick aumenta ad ogni loro rivisitazione.

23 - Chiesa di Longarone, Giovanni Michelucci, 1966-83.

Lo spettatore, man mano chiarisce e delinea precedenti significati iconografici, fino ad entrare in profondità, a “spaziare tridimensionalmente” nell’opera. Tridimensionalità e presenza contemporanea di diverse direzioni interpretative che si perde dovendo scriverne (12)

.

L’approccio lineare della scrittura, non è sufficiente a rendere la complessità testuale dei film. Analogamente la “sperimentazione” degli spazi, la loro complessità cinestesica, non può essere resa dall’immagine fotografica.

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26 - Serial Project, installazione di Sol LeWitt, 1968.

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28 - Walking-City, Archigram, fotomontaggio di Ron Herron, 1964.

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31 - Design must disappear, performance di Superstudio, 1969.

Tornando alla nostra metafora iniziale, osserviamo che le figure come il Triangolo di

Kanizsa rispecchiano, in maniera estremamente semplificata, un meccanismo simile a quello

onirico: tanto apparentemente indecifrabile, ambigua e sorprendente è l’esperienza, tanto più profondo sarà il contenuto che si cela dietro alla sua manifestazione.

Sullo sfondo della sfida tra i due protagonisti di una storia, resta quello tra uomo e natura.

La perdita di armonia tra l’uomo e il suo ambiente, sia sociale che naturale, è senza dubbio il tema dominante dell’età moderna e contemporanea. Anche se inespresso, investe quella “volontà di controllo”, di dominio, che è la caratteristica distintiva dell’essere umano, rispetto al mondo animale. Marshall McLuhan osserva che un media, sia esso danaro, aeroplano o radio, è un’estensione dei nostri sensi. I media permettono all’essere umano di trasmettere qualcosa a distanza; di ampliare i suoi orizzonti percettivi; di superare le barriere fisiche che da sempre ne hanno condizionato l’azione. Questa sua capacità d’espansione appare senza limiti. Il prezzo da pagare è la dipendenza che i media generano, sia concreta che psicologica, e l’impatto enormemente potenziato dell’azione dell’uomo su una natura apparentemente

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silente. All’uso indiscriminato o all’abuso dei media è legato il timore di perderne il controllo, di trovarsi improvvisamente di fronte a realtà ribelli da noi stessi generate.

Si pensi, ad esempio, a ciò che è accaduto con la cosiddetta “finanza creativa”.

Il sentimento di straniamento e turbamento, così mirabilmente espresso e cercato dai registi, riflette una paura tipica dell’uomo contemporaneo: se il sonno della ragione genera mostri, ben altri Frankenstein può generarne il suo abuso.

32 - Spiral Jetty, Great Lake Salt, opera Earth Work di Robert Smithson, 1970.

Il Molo a spirale (Spiral Jetty) è un Earth Work realizzato nel 1970 da Robert Smithson, sul Great Salt Lake (fig. 32). Quest’opera Land Art, tuttora esistente, ha tre livelli di percezione, a seconda del punto da cui la si osserva:

- out (fuori): vista dall’aereo l’opera può essere apprezzata nella sua interezza, insieme

all’ambiente nel quale è inserita;

- in (presso): vista dal livello del terreno, l’opera si percepisce ad una scala maggiore ed isolata dal contesto generale: il paesaggio;

- at (dentro): osservata dall’interno l’opera appare gigantesca ed avvolge l’osservatore che non può percepirla interamente con un unico sguardo. Si possono vedere però i suoi dettagli: le rocce che la compongono, l’acqua e i cristalli di sale.

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Un film documentario in pellicola realizzato da Smithson, intitolato Spiral Jetty, è parte integrante di questo lavoro.

Un altro caso di “perturbante” è rappresentato dal motivo del sosia, che Freud definisce come « la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l’accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall’una all’altra di queste persone, fenomeno che noi chiameremmo telepatia, così che l’una è compartecipe della conoscenza, dei sentimenti e delle esperienze dell’altra; l’identificazione del soggetto con un’altra persona sì che egli dubita del proprio Io o lo sostituisce con quello della persona estranea; un raddoppiamento dell’Io, quindi, una suddivisione dell’Io, una permuta dell’Io ».

33 - Oklahoma Theatre Center, Oklahoma City, Johan Joansen, 1970.

È il motivo del sosia. Un motivo simile è quello « del perpetuo ritorno dell’uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose e perfino degli stessi nomi attraverso generazioni che si susseguono ».

L’analisi dei casi in cui compare l’elemento perturbante riconduce all’antica concezione del mondo propria dell’animismo. « Tale concezione era caratterizzata dagli spiriti umani che popolavano il mondo, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici,

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dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia che su questa onnipotenza era costituita, dall’attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell’evoluzione si opponeva alle esigenze irrecusabili della realtà ».

Animismo, primitivi e vita tribale. Ma anche nomadismo e diaspora che entra nel quotidiano. Temi ricorrenti nel design, nell’architettura e nel cinema contemporanei sono la tenda, il circo, l’open-space: sinonimi di assenza di quella stabilità stanziale che la città ha affermato sin dalla sia costituzione, quale sua ragion d’essere, Luogo da opporre alle incertezze della natura (13).

34 - Centro Residenziale Ovest Olivetti, Ivrea, Gabetti e Isola, 1970.

L’Architettura è arte concreta, costruzione di una forma di pensiero che offre ipotesi teoriche e figurative, risposte alternative e definitive ai problemi del rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale e con il costruito. Experimental Architecture e Architettura Radicale, in questo senso, furono sinonimi di un atteggiamento propulsivo, di una spinta al di là di scopi e strumenti canonici dell’architettura al fine di produrre teorie, immagini e pensieri elaborati. Tali visioni e scenari possono sembrare orientati soltanto al futuro, ma in realtà furono strettamente uniti alla crisi permanente della contemporaneità.

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35 - Microevent/Microenvironment, installazione di Superstudio, 1972. Foto di Cristiano Toraldo di Francia.

Nel 1972 al MoMa di New York la mostra Italy: the new Domestic Landscape, curata da Emilio Ambasz, segnò il lancio del design italiano nel mondo, puntando i riflettori su una nuova generazione di progettisti: Mario Bellini, Joe Colombo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Archizoom, Superstudio (figg.31, 35), Ugo La Pietra, Gruppo Strum e 9999.

In Preliminari di un’architettura concettuale (2002), a proposito del lavoro dell’architetto,

designer, critico e artista Gianni Pettena, che fu “pilastro” dei Radical, Gillo Dorfles osserva:

« Molto spesso l’architettura dei nostri giorni parte dalla fine invece che dal principio. In altre parole, l’architetto pensa all’edificio già costruito, e la costruzione avviene senza che l’idea e lo spunto che diventerà poi l’abbozzo del progetto definitivo venga preso in considerazione. In questo modo, viene a mancare proprio quella parte del fare architettonico che vive al di là della costruzione, nel mondo che possiamo chiamare ‘delle idee’.

Ora, io credo che sia nel passato che ai nostri giorni prima di tutto l’architettura debba prendere in considerazione quelle coordinate spaziali e spazio-temporali, materiche e dimensionali che formano il nocciolo di un edificio e che, se questo non avviene, la

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costruzione finisce per essere semplicemente una machine à habiter, oppure un coacervo di acciaio, vetro e altri materiali costruttivi.

Nel caso di Gianni Pettena avviene di frequente che le sue architetture, perché così possiamo chiamarle, siano prima di tutto messa a punto di una idea costruttiva, idea che può anche non essere realizzata, se non idealmente o ideologicamente, ma che è sempre alla base di quello che è il suo concetto del progettare. Così molte delle sue costruzioni, come la casa di ghiaccio, la casa di creta o la torre di tumbleweeds, hanno una loro vitalità e una loro sopravvivenza anche al di là del fatto che il momento esecutivo sia andato perduto.

Un esempio, secondo me molto significativo, anche perché dimostra che queste osservazioni valgono non solo per l’attualità ma anche per il passato, è quello dell’intervento di Pettena sul palazzo di Arnolfo a San Giovanni Valdarno, in cui l’euritmia e la straordinaria linearità e simmetria tipiche dell’architettura rinascimentale, vengono in un certo senso trasformate da losanghe inclinate che si sovrappongono ai vuoti dei loggiati e dei portici così da fornire, attraverso l’inserimento di un linguaggio contemporaneo, una percezione diversa eppure ancora integrata al linguaggio del passato.

Con questa operazione si viene ad ottenere un fenomeno molto interessante soprattutto dal punto di vista percettivo, perché dopo che l’edificio è stato osservato con la mascheratura delle bande inclinate e viene poi rivisto una volta ricondotto alla sua primitiva condizione, ci si rende immediatamente conto dell’esistenza di una specifica qualità percettiva che andava perduta senza la ‘sovrapposizione’ di cui abbiamo parlato: una dimostrazione tra le tante di come molto spesso grandi edifici del passato non siano perfettamente riconosciuti nelle loro diverse coordinate proprio per la insufficienza del nostro atteggiamento percettivo.

Inoltre, un edificio come il Tumbleweeds catche [fig. 36] costruito da Pettena a Salt Lake City nel 1972, ricoperto da vegetali in modo da mascherare quasi completamente le strutture sottostanti (come anche per la scuola inglobata nel ghiaccio o la casa ricoperta di creta, la

Clay House realizzata sempre nel ‘72 a Salt Lake City), sta a dimostrare come alle volte la

mascheratura che ad esso si sovrappone permetta in un secondo tempo di considerarlo come “rinnovato” per la caduta di queste schermature.

Allo stesso modo di un serpente che si rinnova quando depone la pelle, così questi edifici acquistano la loro primitiva vitalità proprio per il fatto di aver abbandonato le “spoglie” di un elemento sovrapposto.

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[…] Anche se Pettena appartiene per educazione, generazione e contiguità di esperienze al mondo della ricerca “radicale”, di questa costituisce l’aspetto concettualmente più rigoroso. Egli sembra non occuparsi quasi della realizzazione, ma preoccuparsi invece del processo ideativo e analitico e, quando dialoga con una preesistenza, elabora con questa un rapporto di continuità e innovazione.

36 - Tumbleweeds catcher, Salt Lake City, Gianni Pettena, 1972.

A differenza di Archigram, Superstudio, Ufo, le sue architetture non subiscono l’influenza del linguaggio del tempo, soggetto a datazione, ma rimangono assolute proprio perché senza tempo sono i linguaggi “naturali” adottati.

Egli preferisce lavorare questi “dialoghi” e queste architetture con materiali semplici: con la casa e la scuola di ghiaccio per esempio, lo strumento dell’operare è la temperatura che trasforma l’acqua in ghiaccio, con la casa di creta è il naturale processo di essiccamento a

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compiere l’opera e a rivelare di nuovo l’aspetto originario dell’edificio, con le “architetture d’erba” è ancora la natura, in cui si sono operate leggere manomissioni, l’artefice del risultato finale. Sono, quelli di Gianni Pettena, pensieri e studi che si confrontano sempre con un contesto e si concretizzano in un’architettura che si realizza e si dispone, come nel recente

Archipensieri realizzato a Cassino solo pochi mesi fa, a essere percepita e compresa anche nei

riferimenti di continuità con le sue origini, dalla Grecia al Rinascimento al Manierismo.

37 - Olympiastadio, Monaco, Frei Otto, Günther Benish, 1972 - © IL, Uni Stuttgart

Le correzioni prospettiche poi, le anamorfosi, gli interventi sullo spazio che producono una percezione più equilibrata e armoniosa, così come avveniva nel passato anche attraverso il controllo dimensionale della sezione aurea, sono strumenti di comunicazione di un pensiero che, pur usando linguaggi contemporanei, costruisce quella continuità che della storia ricompone e rivitalizza insegnamenti, riferimenti concettuali e momenti di alta qualità propositiva » (14).

Il termine originario labirinto (dal greco labýrinthos) si riferisce al mitico palazzo costruito a Creta per tenervi segregato il Minotauro, il leggendario mostro dalla duplice natura (umana

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e ferina) poi ucciso dalla scure (làbrys in greco) di Teseo e dalla quale avrebbe poi preso il nome. L’etimologia della parola labirinto deriverebbe quindi dalla stessa radice della parola che indicava l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta.

38 - Exodus, the voluntary prisoners, fotomontaggio di Rem Koolhaas e Zoe Zenghelis, 1972.

Nelle culture più diverse il labirinto è un modello iniziatico legato all’idea della morte e soprattutto all’idea del passaggio a un nuovo stato. Superare il labirinto, raggiungerne il centro e poi trovare la via d’uscita, indica allegoricamente il passaggio a un’altra dimensione, e, per questo, veniva impiegato anche come modello magico nelle dottrine esoteriche e misteriche. Il labirinto in generale può essere visto come metafora della ricostituzione dell’ordine perduto, e di conseguenza come metafora del pensiero umano, della psiche e della sua struttura.

Il labirinto è anche un simbolo del mondo, i cui schemi e la cui logica sono oscuri e incomprensibili all’uomo, ma chiari a colui che ne è l’architetto e l’artefice, e come tale esso è fonte di stupore e perplessità, quel genere di stupore (thaumàzein in greco) che secondo

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Aristotele è stato la causa principale e fondamentale della nascita della filosofia (« Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia », Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b.).

Il labirinto è il luogo in cui la soluzione deve essere tentata ad ogni svolta, senza occhi e senza memoria: è il simbolo della ricerca istintiva, anteriore alla ragione e alla scienza. La sua struttura complessa, frutto dell’elaborazione di una mente intelligente, è finalizzata a sconfiggere un’altra intelligenza, quella di chi si avventura dentro il labirinto.

39 - Shining, diretto da Stanley Kubrick, 1980.

Al suo interno la ragione non è più in grado di risolvere da sola il problema, e la soluzione deve essere tentata istintivamente, ad ogni nuova svolta, affidandosi all’intuito e alla buona sorte, allo stratagemma e all’astuzia.

Il concetto di labirinto racchiude così in sé una duplice, se non addirittura contraddittoria, valenza simbolica. Da un lato simboleggia il trionfo della ragione, la costruzione razionale perfetta costituita da un unico modulo compositivo elementare ripetuto potenzialmente all’infinito; dall’altro lato allude inevitabilmente alla sconfitta della ragione stessa e delle sue

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armi dialettiche che si rivelano inefficaci a districarsi in un contesto in cui la parzialità della visione, la completa ignoranza della propria posizione nello spazio e la conseguente incapacità di orientarsi impediscono l’elaborazione di una strategia razionale e vincente.

Il labirinto è quindi il luogo costruito dalla ragione per annientare e mettere in scacco se stessa; è lo spazio simbolico, l’arena in cui si consuma il dramma della ragione che per salvarsi è costretta a negare se stessa, a ridursi a furbizia, a puro istinto animale.

Nel centro del labirinto, che simbolicamente è anche il “Centro del mondo”, lo spazio sacro dove convergono tutte le serie infinite di piani spaziali e temporali, si confrontano i due volti della natura umana: quello solare, “umano”, razionale e creativo contro quello oscuro, bestiale, irrazionale e distruttivo.

40 - Conical Intersect, Les Halles, Parigi, opera site-specific di Gordon Matta-Clarke, 1974.

Il labirinto, con la sua simbologia e la sua intricata struttura che ricorda le impenetrabili circonvoluzioni del cervello, rinvia così inevitabilmente ai grovigli della psiche, ai mostri inquietanti che si nascondono al suo interno, agli enigmi che celano verità terribili e spaventose.

L’enigma, come in un altro famoso film, Quarto Potere (1941) di Orson Welles, rimane indecifrato, senza soluzione, e si finisce a vagare incessantemente da un capo all’altro del

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testo/labirinto alla ricerca di un significato e di una risposta soddisfacente che non arriva mai, per poi tornare al punto di partenza con un percorso perfettamente circolare, in un processo ermeneutico infinito (15).

41 - Walden 7, Sant Just Desvern, Ricardo Bofill, 1975.

Il 31 maggio del 1975, nel corso delle attività inaugurali della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, Pasolini torna nella sua città, si siede su una sedia e, di fronte a un pubblico allibito, si fa proiettare sul torace da Fabio Mauri il proprio Vangelo secondo Matteo, film girato nel 1964.

Di questa performance, intitolata semplicemente Intellettuale, restano documenti fotografici di Antonio Masotti (fig. 42).

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42 - “Intellettuale”, proiezione su Pier Paolo Pasolini del suo film “Vangelo secondo Matteo” (1964), Galleria d’Arte Moderna di Bologna, performance di Fabio Mauri, 1975. Fotografie di Antonio Masotti.

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Documenti che raccontano di un regista/poeta senza volto, attraversato da un raggio di luce che proietta sul suo petto, all’altezza del cuore, la ribellione solenne del Cristo Irazoqui e la straziata pietà della Vergine Susanna Pasolini.

Pasolini trafitto dalle proprie immagini, crocifisso dalla propria crocefissione, è vittima di un’opera che trasuda di vocazione al martirio e pulsione di morte: solo un’ultima estate separerà questa performance dalla tremenda scomparsa del suo soggetto. Ma la situazione agisce nei due sensi: Pasolini contemporaneamente offre il proprio corpo alla pellicola, incarna in sé quella scrittura della realtà che il cinema per lui è sempre stato.

Di fronte a tutto questo, esperimenti come quelli di Peter Greenaway (scrivere sul corpo degli uomini o delle città i racconti del cuscino) sembrano idee pallide, trovate grafiche. Infatti, lo stesso ideatore della performance, Mauri, dichiarò di trovarsi a disagio, e a lungo faticherà a discuterne:

« Mi ha impedito di parlarne distesamente l’eccesso di identità dell’azione stessa. Ideata in laboratorio, si resta sbigottiti dall’evidenza di ciò a cui si assiste, colpiti dalle sue evidenti implicazioni. La proiezione provoca un effetto singolare: possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una passione che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito ».

Pasolini fu un poeta civile che si misurò con i canali della comunicazione di massa, consapevole che solo attraverso di essi si potesse restare aggrappati all’utopia di una cultura popolare. Ritroviamo in televisione un Pasolini serissimo che discute dell’architettura fascista e un Pasolini maieutico che incontra i suoi compagni di scuola nel salotto di un Enzo Biagi, un Pasolini che tesse l’elogio dei gregari del Giro con la stessa convinzione con cui celebra Claudio Villa sulle pagine di Sorrisi e Canzoni e con cui dialoga coi lettori sulle pagine di Vie

Nuove o del Corriere (16).

Nel 1992, Marc Augé pubblica Non-lieux (Non-luoghi), proponendo un’antropologia della

surmodernità. Non-luoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade,

stazioni, aeroporti), sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei).

Sono non-luoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie.

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Il Non-luogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. Al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito, etc.

La sua surmodernità, anche detta supermodernismo, è un’evoluzione del postmoderno e suo contraltare, con la sempre più invasiva diffusione della globalizzazione nella vita degli individui. L’eccesso, con le sue declinazioni nell’eccesso di tempo, spazio ed ego, ne rappresenta la condizione.

I non-luoghi della surmodernità che frequentiamo facendo la spesa al supermercato, aspettando un volo in aeroporto o viaggiando sull’autostrada, dice Augé « si definiscono anche attraverso le parole, o i testi che ci propongono; insomma attraverso le loro modalità d’uso […] con ingiunzioni, consigli, ammonimenti, “messaggi” trasmessi dagli innumerevoli supporti ».

43 - Best Notch Showroom, Site Architects, 1975.

Viaggiando su un’autostrada francese, ben progettata perché evita i centri abitati e fa vedere il paesaggio, « si è passati dal film intimista ai grandi orizzonti del western. […] Non si attraversano più le città, ma i punti importanti sono segnalati dai cartelloni che recano veri e propri commenti.

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Il viaggiatore è, in qualche modo, dispensato dal fermarsi e anche dal guardare. […] Il paesaggio prende le distanze e i suoi dettagli architettonici o naturali costituiscono l’occasione per un testo, a volte ornato da un disegno schematico, allorché il viaggiatore di passaggio non è in grado di vedere il punto importante segnalato alla sua attenzione e si trova perciò condannato a gioire per il solo fatto di saperlo vicino.

Il percorso autostradale è dunque doppiamente significativo: esso evita, per necessità funzionale, tutti i luoghi importanti cui si avvicina, ma li commenta » (17).

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In questo è evidente tutta la distanza tra la sensibilità modernista dell’America dei grandi spazi, e quella dell’Europa contemporanea. Alla libertà donata all’individuo dall’automobile, che permise a Wright di immaginare la sua Broadacre City (1934), “città distesa” i cui abitanti, gli usoniani, avrebbero vissuto in una spazialità decentrata, si contrappone la città storica europea che diviene pura immagine, bypassata dalle grandi arterie della rete stradale. Come nei miraggi dei film di Fellini, la città, che del paesaggio è il monumento, è un sogno vagheggiato e lontano, probabilmente irraggiungibile. Augè introduce così, anche una etnologia della solitudine evidenziando l’illusione che il “cittadino globale” vive pensando di poter mutare il suo ruolo da spettatore ad attore.

45 - Centro d’arte contemporanea George Pompidou, R.Piano, G.Franchini e R.Rogers, Parigi, 1977.

La sequenza di immagini che gli vengono offerte nelle riprese cinematografiche, adesso gli stanno davanti mentre si muove da un capo all’altro di una città, di un territorio, di un continente.

Nirvana (1997) di Gabriele Salvatores si esprime sul doppio registro di un game progettato

e vissuto. Solo, il protagonista di un videogioco, a causa di un virus informatico, diventa cosciente di vivere in una realtà virtuale.

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In un dialogo con un personaggio femminile del videogame, nel tentativo di metterlo di fronte alla verità che questo non vuole accettare, dice che sono « come pesci in un acquario ».

Solo, non sopportando un’esistenza senza via d’uscita, costretto a “vivere” le medesime scene

ad ogni “partita”, chiede al suo ideatore Jimi di cancellarlo. Jimi asseconda le sue suppliche e instaura, a sua volta, un duello a distanza con la sua casa di produzione che conserva l’unica copia del videogame.

L’impresa riuscirà, ma nel portare a compimento la missione, Jimi finirà per condividere il destino del suo alter ego.

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Filo conduttore della Biennale di Architettura, diretta da Paolo Portoghesi e intitolata La

presenza del passato, è la riflessione sul movimento Postmoderno.

Tale movimento mette in discussione il Moderno, con i suoi miti legati al nuovo, alla tecnologia e alla purezza delle forme geometriche. Poiché il presente sembra non offrire ormai nulla di nuovo rispetto al passato, ecco che il Postmoderno suggerisce una nuova visione sincronica della Storia, che diventa serbatoio infinito di immagini e suggestioni, da cui gli architetti possono recuperare liberamente forme, stilemi ed elementi decorativi.

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Questa è l’idea che ispira a Portoghesi la creazione della Strada Novissima (fig. 47), la mostra centrale allestita alle Corderie dell’Arsenale. La Strada Novissima era costituita da venti facciate, progettate da altrettanti grandi architetti e pensate come quinte teatrali di un’ipotetica “strada” di edifici postmoderni. La mostra offriva al visitatore un’esperienza diretta e tattile dell’architettura: un’esposizione, come sottolineava l’ideatore, « con l’Architettura e non sull’Architettura ». A realizzare la Strada Novissima, che apre un dibattito di grande vitalità sul Postmoderno, diventandone un simbolo, vengono chiamati grandi nomi, tra i quali Frank O. Gehry, Rem Koolhaas, Arata Isozaki, Robert Venturi, Franco Purini, Ricardo Bofil, Christian de Portzamparc. Al di là di ogni facciata, ciascun architetto presenta una mostra monografica dei propri progetti (18).

48 - Jeff Wall, Mimic, 1982.

« Tre personaggi sulla ventina, due uomini e una donna, camminano lungo una strada di un suburbio americano, in una calda giornata estiva. Uno degli uomini ha la barba e tiene in

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mano la sua ragazza. Entrambi sono caucasici. Alla loro destra un asiatico. La fotografia che li ritrae coglie il momento in cui la coppia è in procinto di superarlo; l’uomo con la barba si gira in direzione dell’altro allungandosi un occhio con un dito, una chiara allusione razzista agli occhi a mandorla dell’asiatico, che a sua volta lo osserva con la coda dell’occhio; la ragazza guarda altrove.

Jeff Wall ha fotografato (fig. 48) un atto basato sul pregiudizio e sulla mimica, producendo un’immagine molto dura e aggressiva. Il centro dell’opera, la zona in cui gli artisti tendono tradizionalmente ad attirare l’attenzione degli osservatori, divide i tre protagonisti. Un’opera postmoderna è sempre ricca di sottintesi e ammiccamenti e in essa c’è sempre molto di più di quello che colpisce l’occhio.

Wall, con questa immagine, vuole denunciare le divisioni razziste della società americana.

A questo primo livello di significato se ne aggiungono altri più profondi. La fotografia, infatti, non è stata scattata nel corso di un reportage, ma è una simulazione molto elaborata. I protagonisti sono attori appositamente abbigliati, illuminati e truccati, come nei film. L’immagine non è stata ritratta sul momento ma ha richiesto lunghe ore di posa. Wall ha studiato le tecniche cinematografiche e le ha applicate alla fotografia.

Per esporre il lavoro si è servito, invece, della tecnologia dei cartelloni pubblicitari retroilluminati, che aveva notato mentre girava l’Europa in pulman. La foto misura circa due metri per due metri e trenta.

Quest’opera d’arte postmoderna è costituita interamente di frammenti ripresi da fonti diverse e copiati, mimati, come dice il suo titolo: è un collage di capolavori del passato e di diverse influenze. La forma e la composizione delle gambe dell’asiatico, sono un’immagine speculare di quelle dell’uomo caucasico, che a loro volta sono il riflesso di quelle della donna, che quindi appaiono nella stessa posizione delle gambe dell’asiatico. E allora chi imita chi?

Senza dubbio Wall sta mimando Gustave Caillebotte (1848-1894), un pittore francese vicino agli impressionisti. Per convincersene basta dare un’occhiata al suo Strada di Parigi in

un giorno di pioggia (1877). Cailbotte era un parigino della fine dell’Ottocento, un sostenitore

entusiasta della modernizzazione dello stile di vita. L’ambientazione scelta da Wall, una desolata via di un sobborgo americano, è una versione “satirica” postmoderna di ciò che rimane del sogno modernista. Un sogno realizzato con il contributo dei lavoratori immigrati, che per tutta ricompensa vengono sottoposti a continue discriminazioni ».

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Will Gompertz, autore del libro E questa la chiami arte? (2012), da cui abbiamo tratto il brano precedente, elenca le differenze sostanziali tra i due movimenti: « Il Modernismo amava i margini netti; il Postmodernismo era privo di margini. Il Modernismo rifiutava la tradizione, il Postmodernismo non rifiutava nulla.

Il Modernismo era lineare e sistematico; il Postmodernismo magmatico e privo di centro. I Modernisti credevano nel futuro; i Postmodernisti non credevano quasi in niente, preferivano fare domande. I Modernisti erano seri e avventurosi; i Postmodernisti erano maestri della sperimentazione giocosa: sapiente irriverenza e distaccato cinismo. […] tendevano a diffidare di chiunque proponesse verità assolute e facili soluzioni » (19).

Concludiamo questo capitolo accarezzando il tema della memoria.

Questo tema spesso è collegato a quello dell’assenza, al vuoto che nell’architettura sacra indica il suo contrario: la presenza di un dio.

Sacralità che nell’antica Roma, l’urbe, venne traslata nelle istituzioni che regolavano e proteggevano la vita della civitas. Nell’architettura dello statunitense Louis I. Kahn, il tema venne attualizzato traducendo la presenza/assenza di un’istituzione nel silenzio contemplativo che induce la monumentalità dei vuoti architettonici.

Ma il silenzio è anche quello della colpa di chi non ha saputo o voluto vedere il compimento di una immane tragedia.

Il tema del vuoto, che accomuna vittime e carnefici sullo sfondo del “silenzio di Dio”, viene affrontato nel film This Must Be the Place (2011), di Paolo Sorrentino. Nella sequenza finale del film, l’ex ufficiale aguzzino del campo di concentramento in cui era imprigionato il padre del protagonista viene rintracciato, più per una sorta di indolente curiosità del protagonista, che per sete di vendetta.

Durante l’incontro, l’anziano ex ufficiale recita a memoria alcuni passaggi delle lettere che la sua ex vittima gli scriveva negli anni in cui, consumando una personale vendetta, lo aveva braccato rendendone la vita impossibile:

« Prima dell’inferno c’è stata la casa, il bacio furtivo nel retro del giardino all’età di tredici anni, l’odore e la puzza della casa, le nuvole nere, le brezze del tuono molto vicino, il rifugio del bambino, l’angolo vicino alla finestra, la coperta durante la febbre, la noia felice e i brividi di beatitudine, c’è stata in due parole l’intimità mentale.

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Il campo [di concentramento] decreta la perdita dell’intimità mentale stabilendo così una nuova morte che respira. Ci sono molti modi di morire, il peggiore è rimanendo vivi ».

50 - Stratificare, Fra Futurismo e Metafisica, disegno di Franco Purini, 1993.

« Poi, durante l’inferno, anche noi dall’altra parte del filo spinato guardavamo la neve. E guardavamo Dio.

Dio è così: una forma infinita che stordisce. Bella, pigra e ferma, che non ha voglia di fare nulla. Come certe donne che, da ragazzi, abbiamo solo sognato ».

Una sorta di pigrizia diffusa è resa dal ritmo compassato del film, dal tono dei dialoghi, dall’inerzia dei personaggi che, pur attraversati da eventi tragici, ne accettano quasi indolenti il decorso.

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51 - Museo ebraico, Berlino, Daniel Libeskind, 1988.

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Ancora personaggi stanchi sullo sfondo di ambientazioni urbane dall’atmosfera sonnolenta, domenicale, estesi paesaggi e interni dilatati in cui si muovono poche figure, come pochi erano i sopravvissuti nei giorni della liberazione dai campi di concentramento.

Il Museo Ebraico di Berlino (1988) è il più grande museo europeo sull’olocausto. Trova spazio in due edifici, uno dei quali è un ampliamento appositamente progettato dall’architetto Daniel Libeskind (fig. 51).

L’autore ha battezzato il suo progetto between the lines (tra le linee) e nei punti in cui le due linee si intersecano si formano zone vuote, o voids, che attraversano l’intero museo. L’edificio visto dall’alto ha la forma di una linea a zig-zag e per questa ragione è stato soprannominato blitz, che in tedesco significa fulmine. La forma dell’edificio ricorda una stella di David decomposta e destrutturata.

Con tutt’altro approccio, quello poetico del Pinocchio di Mario Monicelli, il “Geppetto” dalle movenze di uno Charlot, impersonato da Roberto Benigni ne La vita è bella (1997), trasforma, con l’immaginazione, il lager in cui viene imprigionato con la famiglia.

Al suo bambino, a cui vuole risparmiare a tutti i costi la coscienza della tragedia che stanno vivendo, fa credere di stare partecipando a una sorta di “gioco di ruolo”.

Sullo sfondo, la sfida intellettuale tra il protagonista e il medico nazista appassionato di enigmi linguistici: « Se fai il mio nome non ci sono più, chi sono? ».

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