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Academic year: 2021

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COMMENTO

1. Alcune scelte traduttive

Durante il mio lavoro di traduzione, ho incontrato principalmente due ordini di sfide: 1. cercare di adattare la sintassi e il lessico italiani a comunicare le strutture e le sfumature talvolta distanti dell’originale francese, 2. plasmare la lingua italiana nella stessa misura in cui lo scrittore ha plasmato e rielaborato la lingua francese.

Partiamo dalla prima difficoltà. In ogni tipo di traduzione, il traduttore deve fare fronte alle differenze lessicali e sintattiche esistenti tra la lingua originale e quella di arrivo, e queste non sono mai indifferenti, neanche tra lingue della stessa famiglia. Non serve certo il cliché della lingua inuit - e delle sue (presunte) innumerevoli varianti per indicare la “neve” - per dimostrare che ogni lingua privilegia certe strutture o nozioni rispetto ad altre.

Per fare un esempio, prendiamo il pronome francese “on”, che può avere due utilizzi principali: 1. può servire ad attribuire un’azione svolta o un discorso riportato ad una o più persone indeterminate (l’equivalente dell’italiano “si”), 2. Nel linguaggio familiare, equivale a “loro”, “noi”, “io”, etc., dove “on” si riferisce per lo più ad una persona o un gruppo di persone ben definiti.

Spesso, com’è il caso di Mon secret (un dialogo-monologo-confessione di un vecchio pettegolo immerso in una solitudine disperata, a tratti cinico e caustico, a tratti solo disilluso) è difficile distinguere tra le diverse accezioni di “on”. Ebbene, questo breve racconto, che occupa appena sei paginette, contiene, per il suo tono familiare e la portata generale della sua riflessione, la bellezza di 47 “on”, spesso concentrati uno dopo l’altro in una serie di elenchi dalla cadenza estremamente ritmata e frenetica. A questo punto, si pone il problema di come rendere questo pronome, non solo per restituire la sua accezione originaria, ma anche per non rischiare di deteriorare il ritmo della frase, traducendo questo “on” così veloce a agile con una soluzione troppo pesante. È appunto questa seconda preoccupazione – quella di preservare il ritmo della frase – che mi ha incoraggiata a cercare una serie di soluzioni alternative. Così, ho tradotto di volta in volta con “noi”, con un “tu” impersonale, con “uno”, etc. Ecco due esempi tra i più rappresentativi:

[…] à mon âge, on ne se refait plus. On a pris ses petites habitudes et on les a gardées, parce que, elles, au moins, elles sont fidèles. Et, du coup, on n’a pas trop envie de les abandonner.1

[…] alla mia età non si cambia più. Ormai uno ha preso le sue piccole abitudini e le conserva, perché le abitudini, quelle almeno ti sono fedeli. E così non hai molta voglia di abbandonarle.

Parce que c’est vrai, au fond, ce qu’on fait tout seul, ce qu’on pense dans sa tête, ce qu’on fait aux toilettes, les crottes de nez qu’on mange, les yoghourts qu’on avale debout devant le frigo, les bruits qu’on lâche sous les draps, tout

Perché in fondo è vero che tutto ciò che facciamo da soli, quello che pensiamo nella nostra testa, quello che facciamo in bagno, le caccole mangiate di nascosto, gli yogurt trangugiati in piedi davanti al frigo, i

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ça, ça n’existe pas. Cela disparaîtra avec nous le jour où l’on ira se coucher sous la terre.2

rumorini sotto le lenzuola, insomma, tutto questo non esiste. Ogni cosa scomparirà insieme a noi il giorno in cui andremo a riposare sotto terra.

Come si può vedere nel secondo esempio, in alcuni casi ho optato per soluzioni più “leggere”, come sostituire il verbo coniugato con un participio - o sopprimerlo del tutto – sempre allo scopo di non appesantire eccessivamente una frase già di per sé sovraccarica di elementi.

Passiamo ad un altro esempio molto interessante – e singolare – di un escamotage che è possibile in francese, ma che si rivela decisamente più arduo in italiano. Ne L’échappée belle, assistiamo alle peripezie di un fuggitivo che si nasconde in un capanno degli attrezzi e lì, per una serie di contingenze (s)fortunate, trova l’amore. Solo alla fine, scopriamo che il fuggitivo è in realtà una fuggitiva. L’autore è riuscito a “far parlare” la donna per circa cinque pagine (solo cinque, perché le altre sono occupate dalla narrazione del co-protagonista) senza rivelarci la sua identità. Per riuscire nel suo intento, ha sfruttato la grammatica della lingua francese, che fa sì che buona parte dei verbi che indicano movimento e/o cambiamento di stato usino l’ausiliare “avere”. Così, dove in italiano si dice “sono saltato/a”, con l’obbligo di precisare il genere, il francese dice “j’ai sauté”, senza specificare se a saltare sia una donna o un uomo.

Di fronte a questo espediente, che a prima vista pare tanto spontaneo quanto invece è consapevole e ricercato, ho dovuto cercare delle soluzioni alternative, per far sì che il personaggio “resti uomo” fino allo scioglimento della storia:

[…] j’ai pris mon élan et sauté d’un coup de l’autre côté de la haie.

J’ai atterri sur le sol […]3

[…] ho preso lo slancio e...op, ho fatto un balzo dall’altra parte della siepe.

Eccomi a terra […]

J’ai collé mon corps contre le sol.4 Un istante, e il mio corpo era inchiodato a terra.

J’ai tiré la porte derrière moi et j’ai commencé à faire le ménage. Avec les sacs de terreau et le tuyau d’arrosage, j’ai pu me bricoler une sorte de couche presque confortable.5

Mi tiro dietro la porta e comincio a fare un po’ di ordine. Con i sacchi di terriccio e la pompa dell’acqua, riesco a ricavarmi una specie di materasso quasi comodo.

Così, in certi casi ho cambiato il verbo problematico – sostituendolo con uno che regga l’ausiliare “avere” – o l’ho addirittura soppresso, mentre nell’ultimo esempio ho risolto la questione adottando per l’intero passaggio l’uso del presente; così facendo, non solo ho risolto il problema principale, ma ho anche evitato di appesantire la sintassi con una serie di passati prossimi formati con l’ausiliare “essere”. L’effetto “collaterale” di questa manovra è un’accelerata che viene impressa alla narrazione, la quale sembra però valorizzata, anziché danneggiata, da questa scelta traduttiva.

2 Ivi, p.68. 3 L’échappée belle, p. 109. 4 Ivi, p. 110. 5 Ivi, p. 112.

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Se questi due sono i problemi sintattici più notevoli – e circoscritti - che ho incontrato, non sono tuttavia gli unici. Primo di tutti, e più esteso, è la necessità di riprodurre il più possibile la sintassi dell’autore, cioè il modo in cui Ancion usa la lingua a fini espressivi, plasmandola e deformandola. Un esempio di questo processo è l’accumulazione di frasi coordinate per asindeto, un tratto comune di molti racconti, dal già menzionato Mon secret a La tache de sauce. È infatti in quest’ultima novella che assistiamo ad un’accumulazione anomala di periodi – in questo caso delle subordinate – coordinati per asindeto, un elemento che costituisce una vera sfida per il traduttore. In buona parte di questi casi mi sono allontanata leggermente dall’originale, considerando che una traduzione “alla lettera” sarebbe stata ancora più sovraccarica della versione francese - e quasi illeggibile – e ho cercato di diversificare parzialmente il ritmo e le strutture della frase, come si è già visto nel secondo passo tratto da Mon

secret. Ecco un altro esempio, da La tache de sauce: Si je n’avais pas eu cette réunion importante ce

jeudi-là avec les acheteurs de Carrefour, si je n’avais pas mis ma chemise bleu clair avec les fines lignes blanches, si je n’étais pas descendu en vitesse manger un dorum sauce samouraï, si je n’avais pas mordu aussi fort en plein milieu de la crêpe, si la viande d’agneau ne s’était pas dérobée sous la pression de mes dents, si l’un des morceaux n’était pas tombé pile sur ma cravate et s’il n’avait pas glissé vers la gauche, il n’aurait pas maculé en une traînée blanchâtre et huileuse tout un pan de ma chemise.6

Se quel giovedì là non avessi avuto una riunione importante con i responsabili acquisti di Carrefour, se non avessi indossato la camicia azzurra a righette bianche, se non fossi sceso di corsa a mangiare un kebab con salsa samourai, e se poi non avessi dato un morso così forte proprio lì al centro della piadina, allora chissà, forse la carne d’agnello non sarebbe schizzata via sotto la pressione dei miei denti, e magari quel pezzetto non sarebbe caduto dritto sulla cravatta e scivolato verso sinistra, macchiandomi tutto un lembo della camicia con una strisciata biancastra e oleosa.

Variando leggermente la parte finale del passo con l’introduzione di periodi principali al posto delle subordinate, ho cercato di alleggerire il complesso della struttura, senza nulla togliere all’effetto di enfasi consciamente ricercato dall’autore.

Dopo questo breve panorama delle questioni sintattiche, bisogna passare a quella che è la difficoltà maggiore per chi traduce un testo di questo genere, profondamente impregnato di cultura e lingua popolare: il lessico. Questa difficoltà si pone su due livelli: 1) rispecchiare la varietà di registri linguistici presenti nell’originale, 2) riprodurre le varie elaborazioni e/o deviazioni rispetto alla norma che l’autore ha operato sul suo testo.

Per quanto riguarda la coerenza dei registri, il problema si pone abbastanza di frequente nella traduzione di quest’opera dallo stile così popolareggiante, perché in via generale il francese mostra un’”escursione” lessicale sconosciuta all’italiano. Così, di fronte al francese “voiture”, “bagnole” o “caisse”, l’italiano standard non ha da proporre che “macchina”, così come è privo di una varietà lessicale (non idiomatica) in grado di tradurre l’idea di “andarsene” (in francese “se sauver”, “se tirer”,

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“se casser”, se barrer”, etc.)7. Di fronte a questa carenza manifesta dell’italiano standard, non regionale, ho cercato di rimediare “gergalizzando” altre espressioni vicine – qualora fosse possibile – o di imprimere un tono più colloquiale alla struttura sintattica della frase. Vediamo un esempio:

N’empêche, moi, je serais vexé si mes potes s’endormissaient pendant que je cause au micro.8

Ciò non toglie che io un po’ offeso lo sarei, se i miei soci si facessero un pisolo mentre parlo al microfono.

Questo breve passo è tratto da Bruxelles insurrection ed è un esempio del tono volutamente irriverente e oltraggioso con cui uno dei protagonisti del racconto - un giovane “terrorista linguistico” in lotta contro la “dittatura” stantia e uniformizzante del mondo delle accademie – si rivolge all’Académie française e ai suoi illustri membri. Come si vede nel passo riportato, l’attività dell’accademico viene infatti riletta attraverso l’esperienza e il lessico (volutamente deformante) del protagonista, che trasforma gli altri accademici in “potes” e il discorso dell’uomo di lettere in “causer”. Ora, come tradurre questa esagerata colloquialità in italiano, dove non ci sono espressioni perfettamente adatte a rendere quelle in uso nel passo? Partiamo da “potes”, che è una formula popolare/familiare e giovanile corrispondente a “amis” e – già più colloquiale – “copains”. Di fronte alla mancanza di un corrispondente italiano, dove il termine “amici” regna incontrastato anche tra i più giovani, ho deciso di “calcare la mano” traducendo “potes” con un termine dagli effetti quasi comici – qualsiasi sia l’accezione attribuitagli – quale “soci” (interpretabile o come “collega”, nel mondo del business, o come “amico”, in un linguaggio esageratamente giovanile e cameratesco). In seguito, ho soppresso il carattere colloquiale del verbo “causer” (che indica per lo più una chiacchierata intima e familiare) traducendolo con un più standard “parlare”, e ho trasferito questo apporto di linguaggio familiare sul verbo “s’endormir”, che ho tradotto – anche qui “calcando” un po’ “la mano” – con “farsi un pisolo”. In questo modo, ho deciso di riprodurre il carattere gergale / colloquiale dell’originale francese ricorrendo ad un lessico fortemente familiare / giovanile, consapevole che il primo obiettivo, in questo caso, era di rendere il carattere di irriverente quotidianità con cui il giovane ribelle riveste la giornata media dell’accademico. Perché è proprio quando il mondo e il linguaggio del vecchio accademico si incontrano – o meglio scontrano – con quello del giovane ribelle, che lo scarto tra i due balza agli occhi.

Insieme e ancora più ardua della riproduzione del lessico è la traduzione di proverbi e metafore dal sapore tipicamente franco/belga – alcuni nella versione originale, altri rielaborati dall’autore a scopo espressivo e/o per essere plasmati sugli avvenimenti di un determinato racconto. Molte di queste espressioni sono poi altrettanti giochi di parola basati sulla quasi identità dei

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Per ritrovare questa varietà lessicale in italiano bisogna ricorrere, se non ai dialetti, alle varie forme di italiano regionale, caratteristiche di aree specifiche del suolo italiano. Cito dall’articolo di Teresa Poggi sull’Italiano regionale (http://www.treccani.it/enciclopedia/italiano-regionale_(Enciclopedia_dell'Italiano/): «[…] va poi detto che le varietà regionali (o diatopiche) dell’italiano costituiscono l’aspetto più appariscente della variazione nazionale, rispetto alle altre varietà di lingua (socioculturali, o diastratiche; situazionali, o diafasiche). Si dirà anzi che la variazione su base geografica, che pur appartiene in genere a ogni lingua, è caratteristica spiccata ed essenziale dell’italiano […]».

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significanti – identità che difficilmente persiste al momento della traduzione in una lingua straniera. Ora vedremo alcuni esempi tra i più rappresentativi, che saranno esaminati caso per caso.

Partiamo dai “fallimenti”, cioè dagli effetti linguistici sui quali ho deciso di sorvolare, nell’impossibilità di tradurli in italiano. Si tratta principalmente di tre giochi di parole, due provenienti da Haute pression, l’ultimo da Georges et les dragons:

Cynthia n’était plus que ce qu’elle aurait toujours dû être: une décolorée traitée à l’autobronzant […] qui passait plus de temps sous le banc solaire que sur les bancs scolaires.9

Ormai Cynthia non era più altro che quello che avrebbe dovuto essere sempre: una tipa tutta autoabbronzante e capelli decolorati […] che aveva passato più tempo sul lettini solari che sui banchi di scuola.

Au pied d’une borne électrique, une flaque de vomi s’étalait sur les pavés du trottoir. […] Qu’espérait-il? Que le jeune homme réapparaisse à son tour, revienne sur le lieu de la commotion, que ses parents endeuillés débarquent avec le cercueil ou simplement une gerbe, de fleurs cette fois-ci, à déposer au pied de la borne?10

Ai piedi di una colonnina elettrica, c’era una pozza di vomito spiaccicata sui sampietrini del marciapiede. […] Cosa sperava? Che il giovane ricomparisse a sua volta, di ritorno sul luogo della commozione cerebrale, che i genitori di lui in lutto venissero lì ai piedi della colonnina, soli o accompagnati dal figlio - questa volta in una bara – a depositare un mazzo di fiori ?

[…] il remonte sur son cheval blanc et fond sur la bête comme un glaçon sur la plage.11

[…] rimonta sul suo cavallo bianco e come un razzo si fionda sulla bestia.

Nel primo caso, le difficoltà sono due: non solo la forma italiana per “scolaire” è “scolastico” – che si allontana notevolmente da “solare”, l’equivalente italiano per “solaire” – ma viene a mancare anche l’identica ripetizione di “banc (solaire)” e “banc (scolaire)”, visto che l’equivalente italiano standard per il primo è “lettino (solare)”. In definitiva, questa coppia di espressioni quasi omofone e omografe in francese - e per questo in perfetta opposizione reciproca - una volta tradotta in italiano perde tutto il “senso” che nell’originale era dato dalla quasi identità dei significanti. Quello che resta è il significato puro, che è tuttavia abbastanza forte e chiaro perché l’espressione possa sopravvivere anche una volta venuto meno il gioco di parole. È proprio in considerazione di questa autonomia di significato che ho deciso di conservare la traduzione italiana così com’è, piuttosto che tentare di ricreare ex novo un altro gioco di parole (come ho fatto altrove con più o meno successo) con il rischio che questo risulti artificioso.

Nel secondo passo il gioco di parole è meno visibile, tanto che rischierebbe di passare inosservato, se non fosse per quel «cette fois-ci» che ci mette “la pulce nell’orecchio”: si tratta di un caso di omonimia tra “gerbe” come “mazzo di fiori” e “gerbe” come “spruzzo di vomito”, dal verbo “gerber” – una versione gergale/giovanile per “vomitare”. Visto che in italiano non c’è – che io sappia - nessun significante che veicoli insieme l’idea del vomito e quella dei fiori, mi sono vista costretta a 9 Haute pression, p. 119. 10 Ivi, p. 138. 11

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scegliere un’altra strada. Così, ho cercato di trasmettere l’idea di sorpresa sostituendo all’associazione “vomito – fiori (da depositare sul luogo della morte di qualcuno)” quella di “vivo – morto nella sua bara”. In questo modo, il mazzo di fiori resta ma diventa accessorio, perché l’effetto di sorpresa viene veicolato dalla successione « accompagnati dal figlio - questa volta in una bara ». Nell’impossibilità di riprodurre il gioco di parole dell’originale, ho optato per rendere quanto meno l’effetto di sorpresa e di interruzione del ritmo generato da quel “cette fois-ci”.

Il terzo esempio è ancora differente, poiché in questo caso il bisticcio linguistico è ottenuto associando allo stesso significante – «fond» – due significati diversi, rispettivamente 1. “precipitarsi, buttarsi contro”, e 2. “sciogliersi”. Quindi, il cavaliere «fond» contro il drago (significato 1) come un cubetto di ghiaccio «fond» (significato 2) sulla spiaggia. Le due immagini non hanno nulla in comune, se non il fatto di rappresentare la polisemanticità del verbo “fondre”, attraverso un esempio di antanaclasi12, e di veicolare un’impressione di grande rapidità. Idealmente, la traduzione italiana dovrebbe rendere entrambi i significati, ma purtroppo questo non è possibile, perché la relazione tra significanti e significati varia da lingua a lingua, e così gli equivalenti italiani per “fondre” non hanno lo stesso livello di polisemanticità. L’unica soluzione accettabile che abbia trovato in questo senso è la coppia minima “scagliarsi” – “squagliarsi”, se non fosse che l’uso di due termini distinti, in sostituzione del solo “fondre”, costringerebbe ad allungare e contorcere la frase, privandola di quel senso di rapidità che le due immagini dovrebbero suggerire. Di conseguenza, ho preferito anteporre la resa della velocità a quella della polisemanticità, traducendo “fondre” con il significato 1. di “precipitarsi, buttarsi contro” e sostituendo alla metafora del ghiacciolo – che non ha più senso se viene a mancare l’idea di “fondre” come “sciogliersi” - un’altra adatta a rappresentare piuttosto l’idea dello slancio rapido, corrispondente al primo significato di “fondre”. Di lì il risultato, «[…] e come un razzo si fionda sulla bestia». Si perde il bisticcio di parole, ma si preserva l’efficacia espressiva dell’immagine, nonché il suo carattere giocoso e infantile (bisogna ricordare che questo passo è tratto dalla “favola” che un padre scrive per il figlio in età pre-adolescenziale, “assetato” di mitologia cavalleresca).

In altri casi, si assiste a dei giochi di parole che reggono – più o meno bene – anche alla traduzione in italiano. Vediamone qualche caso:

Tous ces costardeux du Palais des Cacadémies, il ne l’ont jamais vu le surréalisme.13

Tutti questi scemi del Palazzo delle Caccademie, nei loro completi inamidati, loro il surrealismo non l’hanno mai visto..

Puis on n’a fait ni une ni deux, on a enroulé le câble autour des pieds de l’académichiant […]14

Poi, senza né uno né due, abbiamo avvolto il cavo intorno ai piedi del caccademico […] […] Parce que les Immortels, c’est bien connu,

ils ne bossent pas pour leur ego, c’est juste

Perché è noto, gli Immortali non lavorano per il loro ego, ma solo per la posterità. O la

12

Si tratta proprio di una tipologia di antanaclasi, quella figura retorica il cui nome viene etichettato da uno dei rapitori di Bruxelles insurrection come «argot de rhétoricien» (p. 49).

13

Bruxelles insurrection, p. 60. 14

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pour la postérité. Ou la « poussiérité », va savoir. […]15

polverosità, chissà. Je crois que j’ai encore plié des prospectus

pendant toute la nuit. Moi, ça me repose de plier. Question d’hébétude.16

Ho l’impressione di avere continuato a piegare volantini per tutta la notte. Mi riposa piegare.

Questione d’ebitudine.

Nel primo esempio, la scelta di “infangare” l’”Académie” trasformandola in una “Cacadémie” funziona anche in italiano, complice l’aggiunta di una semplice “c”. Questa formazione è così comoda che l’ho riutilizzata per tradurre “cacadémichiant” – che mi poneva non poche difficoltà - dove il suffisso “-cien” di “académi-cien” viene sostituito da “chiant” (“rompipalle”).

Nel caso del terzo esempio, il gioco di parole tra “postérité” e “poussiérité” risente sicuramente della traduzione in italiano, ma non così tanto - a mio avviso - da rendere indispensabile una riformulazione, del resto tutt’altro che evidente. Un adattamento l’ho invece tentato nel caso della formula “Question d’hébétude” (quarto esempio), che rimanda chiaramente alla ben più nota e usata espressione “Question d’habitude” – diffusa tanto in francese quanto in italiano. Ora, mi sarei potuta accontentare di tradurre questa formula con la traduzione letterale italiana, “Questione d’ebetudine”, che corrisponde perfettamente all’originale francese. Sembrerebbe una soluzione più che lecita, tanto più che “ebetudine” si discosta da “abitudine” esattamente quanto “hébétude” da “habitude”; in altre parole, sono due esempi di coppie semi-minime. Eppure, alla lettura, le due parole italiane “ebetudine” e “abitudine” sembrano più distanti tra di loro di quanto lo siano gli equivalenti francesi, così che, se “Question d’hébétude” richiama immediatamente “Question d’habitude”, lo stesso non si può dire nel caso dell’analogo italiano. Ciò è probabilmente dovuto a una differenza nei timbri vocalici, che in italiano sono molto più distinti e chiari di quanto lo siano in francese. Per rimediare, ho pensato di creare un ibrido scorretto, la parola “ebitudine”, che ha il vantaggio di richiamare immediatamente “abitudine”, apparendo come una sorta di “lapsus” freudiano.

Ma per la maggior parte dei giochi di parole – che sono incredibilmente numerosi nelle opere di Nicolas Ancion – non basta cambiare una lettera; al contrario, bisogna trovare nuove immagini, privilegiando il senso e l’effetto ritmico alla resa letterale dell’originale. Ecco alcuni tra gli esempi più interessanti:

[…] d’un côté , il était impatient d’annoncer à l’auteur renversé que son texte était renversant […]17

[…] da un lato, non vedeva l’ora di annunciare all’autore, il tizio che aveva messo sotto (con la macchina), che lui col suo testo aveva messo sottosopra un’intera casa editrice […]

[…] Yvon se sentait coupable pour l’accident, il voulait […] rattraper l’impossible: compenser

Yvon si sentiva in colpa per l’incidente e voleva […] riuscire nell’impossibile – compensare

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Ivi, p. 43. 16

Bureau, fais ton office, p. 80. 17

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le coup de volant imbécile par un coup de pouce capital.18

quella brutta botta in testa con una bella botta di fortuna.

[…] j’ai soulevé mon pouce en l’air dans un signe qui aux quatre coins du monde signifie que tout marche du tonnerre.

Sauf que lui, il allait se ramasser la foudre sur le coin de la gueule.19

[…] ho alzato il pollice, facendo un gesto che ovunque sulla faccia della terra significa che va tutto da dio.

Salvo che a lui il suo dio stava per abbandonarlo.

Orpheline, oui, mais surtout canon. Alors, je devais me farcir l’autre boulet de longues heures durant […]20

Orfana, sì, ma soprattutto gnocca, bella da mozzare il fiato. Ma a lasciarmi senza fiato era prima di tutto Mario, che mi sciroppavo per ore e ore […]

Ce ne sont pas les volontaires qui manquent, quand il s’agit de mettre l’église parisienne en dehors du village. Et puis d’y foutre le feu. Le feu, précisément, était passé au vert […]21

I volontari non mancano, quando si tratta di fare piazza pulita di tutti gli status quo e gli ipse dixit parigini. E di rispedirli a Parigi a calci nel culo.

Il semaforo era diventato verde […]

Se il primo esempio è chiaro, gli altri richiedono qualche spiegazione. Passando al secondo, vediamo che c’è una costruzione bilanciata, dove due espressioni si richiamano e si oppongono l’una all’altra, grazie all’utilizzo dello stesso sostantivo, “coup”. Questo termine, che nel francese familiare può avere svariati utilizzi – talvolta senza significare alcunché di preciso – non ha un corrispettivo italiano nell’espressione “coup de pouce” (it. “mano”, nella formula “dare una mano”). In questa situazione, ho preferito variare leggermente il passo, sostituendo a “coup” “botta” e creando la stessa opposizione, tra una “botta” negativa e una “botta” positiva. Il vantaggio è di poter conservare la stessa espressività dell’originale, con una piccola spesa: al “coup de pouce” (aiuto consapevole) subentra una “botta di fortuna”, il che sembra suggerire che questo aiuto inaspettato sia un frutto della sorte, e non dell’industria umana. Ma il carattere fittizio e retorico di questa opposizione mi sembra poter giustificare una piccola deviazione dal senso originale.

Proseguendo, troviamo due passi nei quali una expression figée viene continuata e sviluppata nel suo senso letterale, un procedimento quanto mai diffuso in questa raccolta di novelle. Nel primo caso, all’espressione “marcher du tonnerre”, equivalente agli italiani “filare come l’olio” e/o “andare a gonfie vele” segue la constatazione (priva di senso se viene a mancare il primo riferimento) che uno dei banditi – nonché futura vittima – “si sarebbe preso il fulmine in faccia”. Nell’impossibilità di mantenere l’immagine del tuono e del fulmine, ho scelto un’altra espressione italiana analoga a “marcher du tonnerre” – e cioè “andare da dio”, e da lì ho creato una rete di immagini equivalenti a quelle dell’originale, senza – così mi pare – alcuna perdita di senso. Lo stesso avviene nel passo successivo, dove a “canon” - termine familiare per indicare qualcuno di attraente (probabilmente in associazione con l’idea di “canone” di bellezza), viene associato “boulet” – cioè una palla di cannone,

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Ivi, p. 144. 19

Moi, je dis qu’il y a une justice, p. 14. 20

J’apprends à bien tuer, p. 101. 21

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ma anche un “peso”. Per ricreare questo gioco di parole, sono ricorsa all’idea del fiato, traducendo “canon” come “bella da mozzare il fiato” e “boulet” per mezzo di una perifrasi con l’espressione “lasciare senza fiato”.

Più complesso è l’ultimo passo citato, dove l’expression figée – simbolica - si fonde in un tutt’uno con il caso concreto del racconto: ecco allora che dall’espressione originale « garder/remettre l’église au milieu du village » (un belgicismo che significa essere equilibrati e avversi agli estremismi), l’autore rielabora una nuova formula “personalizzata”, e cioè «mettre l’église parisienne en dehors du village». E conclude aggiungendo un ulteriore tocco di concretezza e materialità: «Et puis d’y foutre le feu». In altre parole, l’autore sottopone questo modo di dire ad una serie di diverse operazioni: 1) in primo luogo lo personalizza, trasformando l’”église” e il simbolo di tradizionalismo astratto che questa incarna, in una più concreta “église parisienne”, 2) lo cambia “di segno”, trasformando l‘atto mentale di “remettre/garder […] au milieu” in quello di « mettre […] en dehors», 3) gioca con la metafora, aggiungendo l’elemento quanto mai concreto dell’incendio. Non trovando un analogo italiano che corrisponda sufficientemente a « garder/remettre l’église au milieu du village », ho scelto un’altra “strada”. In primo luogo, ho usato una perifrasi che rappresenti il significato incarnato dalla chiesa in questa expression figée – preferibilmente in maniera colorita e un po’ verbosa: una soluzione potrebbe essere «gli status quo e gli ipse dixit». Poi, visto che l’idea del “paese” non ha più senso se viene a mancare la “chiesa”, bisogna scegliere un’altra espressione che significhi “allontanare”, “distruggere”, etc. La mia scelta è stata «fare piazza pulita», che ha il vantaggio di essere una formula allo stesso tempo concreta e astratta - cioè che non “stona” se usata in un contesto astratto - e di veicolare sia un’energia e/o violenza non indifferente (d’altronde, dovrebbe sostituire l’immagine della chiesa a cui è appiccato il fuoco!), sia un grado di colloquialità che tende a stridere – in maniera molto espressiva – a contatto con le due espressioni latine. Infine, resta da tradurre «Et puis d’y foutre le feu» . In mancanza di una chiesa a cui appiccare il fuoco, ho preferito rinunciare a tradurre questo passaggio letteralmente (anche se l’idea di un fuoco concreto/metaforico non avrebbe probabilmente stonato troppo all’interno di questa raccolta) optando per l’espressione «E di rispedirli a Parigi a calci nel culo», che è altrettanto fisica, ma più “umana”. In altre parole, sostituendo al fuoco i “calci nel culo”, questa “tradizione” tanto esorcizzata – che nel testo francese è rappresentata dalla chiesa del proverbio – viene qui umanizzata e incarnata dal vecchio accademico. Al posto della chiesa buttata fuori dal paese e bruciata, c’è un mucchio di luoghi comuni della tradizione accademica (il vecchio?), rispediti nella capitale francese a forza di calci nel deretano. Insomma, è un modo per restituire una coerenza interna all’immagine originale – o almeno così spero. Ovviamente, ho dovuto rinunciare completamente al gioco “feu”- fuoco, “feu”- semaforo, e non troppo a malincuore, visto che avrebbe richiesto una trasformazione radicale per essere riproposto in italiano.

La fusione di concreto e astratto, grazie alla quale una expression figée viene reinterpretata in senso letterale è una pratica piuttosto diffusa in questa opera, e l’ultimo passo esaminato non ne è certo l’unica testimonianza. Vediamo altri esempi dello stesso genere:

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moment-là. J’aurais filé en douce, foutu le camp les poches emplies de poudre d’escampette que j’aurais fait détonner à l’air libre […]22

Sarei sgattaiolato via, avrei spezzato, strappato, tagliato la corda e me la sarei data a gambe levate.

J’ai noté l’information et je l’ai gardée dans un recoin de mon crâne. Tout est cuit à point pour qui sait attendre, c’est bien connu.23

Ho preso nota dell’informazione e l’ho custodita in un recesso del mio cranio: la pazienza è la virtù delle casseforti, è risaputo. √

la pazienza è la virtù dei ricchi, è risaputo. X Là-bas aussi, je suppose, on peut s’inventer

des cabanes au Canada et des châteaux en Espagne.24

Anche là, penso, ti puoi fare delle capanne sugli alberi e dei castelli in aria.

Il primo consiste nella rielaborazione – molto fantasiosa ed espressiva – di un vecchio modo di dire un po’ démodé, “prendre la poudre d’escampette”, il cui significato è “scappare”, generalmente in grande fretta. Ebbene, la “poudre d’escampette” – elemento metaforico svuotato di significato – viene ridotata qui della sua dimensione concreta e materiale, tanto che il protagonista de La tache de sauce immagina di lanciare per aria questa polvere (non più solo metaforica) e di farla esplodere, in una fuga quanto mai liberatrice. Per riprodurre questo processo, ho scelto anch’io un’immagine che possa essere interpretata in senso sia materiale sia metaforico, quella di “tagliare la corda”, e ho giocato tra concreto e astratto, creando una successione di verbi che hanno con la corda un rapporto ora puramente concreto (i primi due, “spezzare” e “strappare”) ora idiomatico (l’ultimo, “tagliare”). Così, i primi due verbi suggeriscono un desiderio di liberazione da un ostacolo generico (una corda… quale?), mentre l’ultimo restituisce senso all’insieme – come se al terzo tentativo il protagonista avesse finalmente trovato il verbo giusto per la sua “metafora” – e gli attribuisce il significato specifico che nell’originale era veicolato dalla “poudre d’escampette”, e cioè quello della “fuga”. L’effetto non è “esplosivo” come nella versione francese, ma almeno si è preservata un po’ della sua irruenza e del bisticcio linguistico che la rende tanto espressiva.

Un altro caso interessante che merita una spiegazione è quello di «Tout est cuit à point pour qui sait attendre», la frase che pronuncia il ricercato/a di L’échappée belle dopo aver preso nota (mentale) del luogo in cui il padrone di casa tiene le chiavi della macchina. Anche in questo caso, la formula è la rielaborazione di un’expression figée, che suona “Tout arrive à point pour qui sait attendre”. Attraverso la suggestione di “à point” – espressione in uso per indicare la cottura della carne (ben cotta) – la nozione dall’arrivo viene sostituita da quella della cottura, e così “arrive à point” diventa “est cuit à point”. Nella mia traduzione, ho cercato di rispettare – parzialmente – lo stesso processo di deformazione. Allora, per prima cosa ho scelto un proverbio – ben noto – che elogi la virtù della pazienza: “La pazienza è la virtù dei forti”. Quindi l’ho deformato, optando inizialmente non tanto 22 La tache de sauce, p. 23. 23 L’échappée belle, p. 111. 24 Châteaux en Espagne, p. 37.

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per una variazione di contesto, quanto per una deformazione linguistica; così, giocando sul “mestiere” del protagonista – una ladra – ho pensato in un primo tempo a “La pazienza è la virtù delle casseforti”. Il vantaggio in questo caso sarebbe un forte grado di espressività, nonché la vicinanza linguistica all’originale (forti ⟶ casseforti), ottenuta sostituendo al termine previsto un altro che gli è prossimo per significante, ma non per significato (di lì l’effetto sorpresa). Lo svantaggio è però che la formulazione originale italiana è sottoposta ad un processo più – e diversamente – deformante rispetto alla versione francese, e che la formulazione finale non ha senso se si perde di vista il proverbio originale. Considerati vantaggi e svantaggi, preferisco una versione dove lo slittamento è piuttosto nel significato che nel significante, come “La pazienza è la virtù dei ricchi”, che ha un significato autonomo e si adatta meglio a “fare da commento” al contesto del brano.

L’unità di idiomatico e non-idiomatico ricompare poi chiaramente nel terzo passo, che è tratto dal racconto Châteaux en Espagne. In questa novella tutto è sogno e metafora, a partire dal titolo, una

expression figée che in italiano possiamo tradurre con “castelli in aria”. Verso la fine del racconto,

questi castelli immaginari ricompaiono associati a delle costruzioni concrete, delle «cabanes au Canada». Come l’autore gioca con i nomi dei due paesi, così ho fatto io, sostituendo al Canada – che aveva senso perché in opposizione alla Spagna – gli alberi, luogo naturale per una capanna nella foresta canadese. Così, all’immagine – idiomatica - del castello in aria si oppone quella – concreta - della capanna sugli alberi. L’equilibrio e il senso dell’originale sono preservati.

Come si vede dai vari passi che ho esaminato finora, in alcuni casi non ho potuto rispettare rigorosamente il livello di coerenza/stranezza dell’originale, e quindi mi sono vista costretta dove ad “appiattire” leggermente il testo, dove a graduarlo, dove infine ad accentuare le sue anomalie. In ogni caso, ho cercato di rispettare le “proporzioni” dell’originale, compensando il difetto con l’eccesso. Ecco alcuni esempi di queste normalizzazioni/esagerazioni delle peculiarità stilistiche e linguistiche del testo e/o della lingua originale:

Il se brouilla deux oeufs, cafeta deux tasses de suite et rasa sa cravate en vitesse.25

Si fece due uova strapazzate, buttò giù due tazze di caffè, una dopo l’altra, un colpo di rasoio, in fretta e furia, e via con la cravatta. Je veux bien venir tenter le coup avec toi.26 Con te voglio tentare il colpo grosso.

[…] on riait […] de mes origines («Hé, Georges, va te faire voir chez les Grecs!») […]27

[…] la gente aveva sempre riso di me per le mie origini (“ehi Georges, perché non te ne torni in Grecia dai tuoi pastori”) […]

Nel primo caso, ho sicuramente attenuato il carattere anomalo dell’originale. Per dare un po’ di contesto, il protagonista di Haute pression, stressato e sopraffatto dai sensi di colpa, si prepara per andare al lavoro. È talmente confuso che «cafeta» due tazze di caffè - un neologismo, che rimanda

25 Haute pression, p. 139. 26 L’échappée belle, p. 117. 27

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probabilmente all’esistente “caf(e)ter”, che significa “denunciare”, “fare la spia”28– e «rasa sa cravate» - un’altra formula che non ha senso, se non ipotizzando che questa sovrapposizione ellittica di verbi e sostantivi serva a rappresentare verbalmente la confusione del personaggio.

Ebbene, di fronte a questa frase, ho optato per una soluzione meno “trasgressiva”: prima di tutto, vista l’impossibilità di rappresentare la presunta associazione tra café e cafeter, non ho ritenuto utile introdurre una forma di neologismo (come invece ho fatto altrove – per esempio per tradurre «entabouretté»29), quindi ho rappresentato la confusione del personaggio attraverso un sintassi “spezzata” e cadenzata da sostantivi e avverbi che suggeriscono un’impressione di grande fretta. Mentre invece non c’è più traccia dell’espressione «rasa sa cravate», la quale, venuta meno l’altra anomalia linguistica («cafeta»), rischierebbe di apparire come un semplice errore non premeditato.

Nel secondo esempio, invece, ho deciso di accentuare e mettere in primo piano quello che nella versione originale resta a livello più implicito. Quando la nostra ladra dice al suo nuovo partner che vuole «tenter le coup» con lui, quello che gli sta dicendo è che “vuole provarci”, provare a costruire una storia d’amore e magari anche una famiglia. “Tenter le coup” fa parte infatti delle numerose espressioni francesi costruite intorno al sostantivo “coup”, dove “coup” perde parzialmente o totalmente il suo significato originario di “colpo” per diventare parte di un’espressione idiomatica o di una formulazione avverbiale30. Eppure, a causa del passato di ladra della co-protagonista, il lettore è portato a vedervi un’allusione ad un’espressione colloquiale come “faire un coup”, dove con “coup” si intende, esattamente come in italiano, un atto criminale. Per non perdere questo riferimento, ho quindi deciso di esplicitarlo nella mia traduzione, traducendo “tenter le coup” (“provarci”?) con un più forte e stridente “tentare il colpo grosso” - che non lascia spazio a dubbi esegetici - contribuendo così a restituire globalmente l’espressività linguistica di questa raccolta di novelle così particolari.

Un buon compromesso tra i due opposti è rappresentato dalla traduzione del terzo passo, nel quale troviamo un modo di dire proverbiale - “va te faire voir chez les Grecs” - che è una maniera un po’ colorita (vista l’allusione alla fama di sodomiti che è da sempre attribuita ai Greci) di mandare al diavolo qualcuno. Ora, considerato che la vittima di questo motteggio è niente meno che un Greco – almeno di origini – come si può tradurre questa espressione in italiano, dove c’è una penuria di battute e/o espressioni idiomatiche “ellenofobe”? Inizialmente, avevo pensato di accentuare la volgarità dell’espressione, sfruttando un elemento semi-greco che si presta a facili battute mordaci: Troia. Così, una prima soluzione sarebbe stata: “Ehi, Georges, sei un Greco o un figlio di Troia?”. Poi, ricordandomi che a parlare sono dei dodicenni, ho pensato che una battuta oscena sulla guerra di Troia sarebbe risultata non solo molto più forte rispetto all’originale, ma anche leggermente inverosimile. Allo stesso tempo, una traduzione del tipo “va’ al diavolo” avrebbe sì espresso il senso dell’espressione francese

28

Ricordiamo che ha appena investito (e ucciso?) un ragazzo e teme che la polizia possa essere sulle sue tracce. L’associazione spontanea tra café e cafeter – che riflette la dinamica del pensiero del protagonista - ha come effetto quello di suggerire il panico e l’angoscia crescente di questo personaggio.

29

Haute pression, p. 121. 30

Alcuni esempi dell’uso di coup: “boire un coup” (bere qualcosa), “tenir le coup” (resistere), espressioni del tipo “coup de X” (“coup de cœur”, “coup de tête”, “coup de fatigue”, etc.), più numerose rispetto all’italiano, così come tutte le espressioni avverbiali (“du coup”, “sur le coup”, “après coup”, etc.).

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“va te faire voir chez les Grecs”, ma ignorando completamente il pretesto che dà a luogo a questo motteggio, e cioè l’origine greca del protagonista.

Di conseguenza, ho optato per un semplice riferimento all’immagine cliché della Grecia come terra di pastori, insieme più credibile e vicino all’originale. Così, ecco la mia soluzione definitiva:«ehi Georges, perché non te ne torni in Grecia dai tuoi pastori?», che rende efficacemente sia la beffa nei confronti di Georges e del suo paese di origine, sia il senso di rifiuto (anche se più mitigato) che è insito in un qualsiasi “va’ al diavolo”.

Dopo questo panorama generale delle mie scelte traduttive, resta ora da esaminare un racconto che per la sua complessità linguistica merita una trattazione a parte: si tratta, come prevedibile, di Bruxelles insurrection.

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2. Bruxelles insurrection e il problema della lingua

All’interno di questa raccolta di novelle, quella che pone più problemi ad un ipotetico traduttore è senza dubbio la quarta, Bruxelles insurrection, il racconto che, come abbiamo già accennato, rappresenta meglio degli altri quella condizione che nell’Introduzione abbiamo definito come belgitude. Allora, forse non stupirà sapere che questi due fenomeni – la belgitude da una parte e la complessità linguistica dall’altra - sono strettamente inter-dipendenti. Procedendo con ordine, esaminiamo quindi alcune delle caratteristiche di questo racconto.

In quanto confronto diretto tra l’”ortodossia” della cultura accademica parigina e l’”eterodossia” belga – così come ci viene presentata dai due rapitori – Bruxelles insurrection è disseminata di riferimenti diretti e indiretti ai due paesi, tanto alla loro cultura, “alta” e “bassa” (uomini di lettere, produzione letteraria, etc.), quanto alla realtà sociale (immigrazione, vita nelle cités, etc.) Ecco quindi una prima difficoltà: come tradurre un gran numero di nomi, marche, prodotti e concetti stessi che non hanno nessun significato al di fuori di una realtà franco-belga?

Sappiamo poi che si tratta di un rapimento sui generis, che vede come rapitori due giovani terroristi “culturali” che rivendicano la libertà di forme d’espressione più popolari – e regionali - rispetto a quelle vecchie e “ingessate” che sono riconosciute come legittime dal mondo dell’Accademia francese. La lingua è quindi uno dei protagonisti di questa novella, che a tratti dimostra un approccio nettamente metalinguistico. Ecco quindi la difficoltà maggiore: in Bruxelles insurrection, Nicolas Ancion si serve della lingua per riflettere…sulla lingua. Di conseguenza il rapporto tra significanti, significati e contesto socio-culturale si fa sempre più stretto e restio alla traduzione.

Detto ciò, iniziamo con il passare in rassegna le realtà e i fenomeni franco-belgi più interessanti che connotano questa novella. Prima di tutto, la “cornice” del surrealismo: ricordiamo che il vecchio accademico si è recato a Bruxelles per partecipare ad una «journée de débats sur le surréalisme en France et en Belgique»31. Questa informazione, diffusa per radio dopo il rapimento dell’accademico, sembra indignare i suoi rapitori:

«Surréalisme mon cul. C’est pas à Bruxelles, à moins de cinq cents mètres de la Fleur en Papier Doré qu’on nous fera avaler celle-là. Tous ces costardeux du Palais des Cacadémies, ils ne l’ont jamais vu le surréalisme. Ils ont lu ce que d’autres en ont dit, peut-être, et encore, du bout des lunettes et avec des gants de cuisine pour ne pas se salir les doigts »32.

Quello che i due giovani ribelli non accettano è che il surrealismo – un «mouvement», una «époque» - sia deteriorato e alterato nel suo spirito da un gruppo di vecchi accademici conservatori, i quali, ben lungi dal poter rivivere la passione che animava i circoli surrealisti dell’epoca (come quello de “La Fleur en Papier Doré”), si limiterebbero a ripetere, in modo grottescamente scolastico, l’esperimento della scrittura automatica e del “cadavre exquis”:

31

Bruxelles insurrection, p. 60. 32

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«Alors, ils vont nous raconter comment ils ont plié leurs petits papiers, dans cet exercice subtil que les jeunes collégiens aiment tant, comment ils ont osé, une fois, laisser leur stylo Mont Blanc pondre deux phrases sans véritable arrière-pensée»33.

Così, di fronte alla vitalità e alla passione della storia si oppone il pedantismo senza sorprese degli accademici. Tra l’altro, non nuoce osservare che le pratiche citate – cioè la scrittura automatica e il “cadavre exquis” – sono quelle (più note e imitate) del surrealismo francese, mentre il surrealismo belga non aveva fatto suo il principio dell’automatismo. Ma da questo terreno di confronto culturale franco-belga si passa velocemente ad un vero e proprio scontro, che vede da una parte i due giovani belgi, che vogliono liberare la lingua e la cultura da ogni costrizione normativa, e dall’altra colui che di queste costrizioni è l’emblema, l’illustre accademico francese. Si tratta di uno scontro tra due mondi opposti, che parlano (quasi) due lingue diverse, a tal punto che la mutua comprensione non è sempre assicurata.

Lo scarto è in primo luogo uno scarto generazionale, a causa del quale le due parti usano un linguaggio fortemente démodé, da una parte, e altrettanto giovanile, dall’altra. Così, a volte sono proprio le scelte lessicali che chiariscono al lettore quale sia il punto di vista di un determinato passo del racconto. Ecco un esempio, tratto dalle prime pagine, quando uno dei giovani rapitori si accinge a fotografare l’accademico:

«Le plus petit des deux, un jeune aux cheveux gras et bouclés, fait un pas en avant. Il tient à la main un appareil photographique, un de ces gros appareils modernes de la taille d’un poste de TSF»34.

Non c’è dubbio che il punto di vista sia quello del vecchio, come dimostrano almeno due elementi: 1) la dicitura “appareil photographique”, che i giovani avrebbero di sicuro abbreviato in “appareil photo””, 2) il paragone tra la macchina fotografica in questione e un “poste TSF” (cioè un vecchio modello di radio), che indica tanto una familiarità nei confronti della vecchia tecnologia, quanto un’estraneità nei confronti di quella più recente. Altrettanto significativo è l’uso di espressioni démodées come “pantalons en jeans”, “malfrats”35, “voyou”36 e di nuovo “voyous”37, che ho tradotto rispettivamente con “pantaloni di jeans”, “farabutti”, “mascalzone” e “delinquenti”.

Allo stesso modo, sappiamo perfettamente quando a parlare (o a pensare) sono i due giovani, perché anche lì gli indizi non mancano. Ecco qualche esempio di questo stile giovanile, espressivo e (volutamente) sgrammaticato:

1) […] Pierre a freiné un bon coup et j’ai chargé le ventripotent sur mon dos. Il pesait son poids en connerie, c’est indiscutable. Faut croire qu’on les fourre au foie gras et à l’andouillette, les

retraités de la plume38. 33 Ivi, pp. 60-61. 34 Ivi, p. 39. 35 Ivi, p. 38. 36 Ivi, p. 42. 37 Ivi, p. 49. 38 Ivi, p. 46.

(16)

2) Quant à l’avocat qui l’accompagnait […] il lui faudrait d’abord convaincre les autorités ferroviaires qu’il n’était pas complètement louf avant de pouvoir déclarer la perte de son académicien39.

Alla scelta di un lessico colloquiale e molto espressivo (“ventripotent”, “fourrer”, etc.40), si unisce la scelta di formulazioni tipiche di un linguaggio informale, come l’ellissi di “il” nelle espressioni impersonali (“faut croire”) e l’anticipazione enfatica del pronome personale rispetto al nome a cui questo si riferisce (on les […], les retraités […]). Infine (esempio 2), vediamo, nel bel mezzo di una sintassi perfettamente corretta e impeccabile, l’emergere di un termine di carattere nettamente familiare / popolare: “louf”41.

Appurato che i due poli “marcano” il campo con le loro rispettive abitudini linguistiche42, vediamo ora qual è la “posta in palio”. Da una parte ci sono la Francia, Parigi e il mondo monolinguistico e accentratore dell’Accademia (almeno secondo il punto di vista dei due rapitori), dall’altra il Belgio, Bruxelles, e l’apertura su un’Europa multilinguistica e multiculturale.

Che Bruxelles sia centrale lo indica già il titolo - così ellittico - Bruxelles insurrection. È Bruxelles il luogo naturale di questa insurrezione, perché Bruxelles rappresenta allo stesso tempo la capitale di una nazione (parzialmente) francofona – e da sempre vista in relazione/contrapposizione alla Francia - e una città simbolo dell’Europa. Una città stanca e lenta, passiva, che rappresenta un’Europa non meno passiva: «Bruxelles est bien à l’image de l’Europe, elle ne bouge que quand les autres la secouent»43. Questa stanchezza di Bruxelles è proprio il risultato diretto delle condizioni molto particolari in cui versa il Belgio, che tra il 1970 e il 1993 si è trasformato in uno stato federale, diviso in tre regioni (Fiandre, Bruxelles-Capitale e Vallonia) e altrettante comunità linguistiche (francese, fiamminga e germanofona). Conciliare il potere federale con quello delle diverse regioni si rivela un’ardua impresa, e in più non mancano le tensioni politiche e linguistiche tra la comunità fiamminga – separatista - e quella francofona. Simbolo di questo scontro è ancora una volta la città di Bruxelles, una regione a sé stante, bilingue franco-fiamminga, situata nel bel mezzo della regione fiamminga. Ecco perché Bruxelles, «le chien au milieu du jeu des quilles, capitale d’un pays minuscule qui se déchire en douce, le point d’affrontement de trois régions, de deux communautés et puis, surtout, le point de

39

Ivi, p. 44. 40

Tradotti rispettivamente con “trippone” e “rimpinzare”. 41

Equivalente popolare di “fou”, che ho tradotto come “matto completo”. 42

Preciso che i passi citati non costituiscono un caso isolato all’interno della raccolta, dove non mancano i rappresentati di quello stile “spontaneo” che rivendicano i rapitori di Bruxelles insurrection.

Al di fuori di questa novella, lo scontro tra due “mondi” linguistici diversi si coglie per esempio in Haute pression, nella breve conversazione tra Yvon e Fabian, il giovane che Yvon ha appena investito. Infatti, mentre Yvon si esprime in un francese standard, privo di termini colloquiali o popolari, non si può dire lo stesso di Fabian, che usa “foutre” al posto di “faire”, “pioncer”, “pieuter” e “roupiller” invece di “dormir”, etc., in uno sfoggio di termini popolari che farebbe impallidire l’accademico parigino di Bruxelles insurrection.

Ecco un campione della loro conversazione (p. 132):

- Meeerrde! Je suis super à la bourre. J’y vais, je fonce.

- Vous voulez que je vous conduise quelque part? Ça me ferait vraiment plaisir. Après tout, c’est de ma faute si vous êtes en retard.

La distanza tra i due registri linguistici balza agli occhi: mentre Yvon parla un francese standard e senza sbavature, la breve battuta di Fabian contiene la bellezza di un termine volgare e due termini colloquiali e/o popolari come “foncer” e “être à la bourre” - il secondo dei quali viene ripreso da Yvon, ma nella sua forma standard “être en retard”.

43

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ralliement de tous les manifestants un peu ambitieux à travers l’Europe»44 è lo scenario ideale per lo scontro linguistico e identitario di Bruxelles insurrection.

Uno scontro che si combatte prima di tutto tra una Francia detentrice della norma e un Belgio francofono in cui la popolazione è vittima da sempre di un’“insicurezza linguistica” nei confronti del francese “ufficiale”, quello di Parigi - un fenomeno che colpisce ugualmente i parlanti di altri francesi “periferici” (Svizzera romanda, Québec, etc.). Questa insicurezza, ben studiata dai sociolinguisti – sulla scia dei lavori di Labov – colpisce tutti i parlanti che sono consapevoli di non rispettare la norma linguistica e le regole (grammaticali, sintattiche, lessicali, fonetiche, etc.) del buon linguaggio. E una vittima esemplare di questo fenomeno è il Belga francofono, che avverte costantemente il peso del confronto con il francese di Francia e si sente un parlante meno abile e disinvolto di fronte al “Francese medio”.

Ma in realtà, come rivelano alcuni studi45, la contrapposizione avvertita dal Belga francofono non è tanto quella tra francese di Francia e francese del Belgio, quanto quella tra varianti legittime (francesi e belghe insieme) e varianti popolari (francesi e belghe insieme). Così, molti tra i Belgi sembrano condannare come belghe e illegittime le espressioni popolari e/o gergali (francesi e belghe insieme), salvando invece e considerando propri del francese standard i belgicismi più borghesi e in uso tra le classi alte. Sembra, cioè, che questi parlanti periferici, mentre pensano di distinguere tra francese belga e francese di Francia, stiano invece distinguendo piuttosto tra varianti basse da una parte e varianti alte dall’altra.

Si tratta, in un certo qual modo, di quanto avviene anche in Bruxelles insurrection: i nostri due terroristi linguistici, che hanno dichiarato guerra al mondo dell’accademia parigina, rivendicano sì l’uso di un francese libero e personale, ma – a ben vedere – questo francese non ha particolari connotazioni belghe. L’obiettivo non è tanto quello di introdurre e fare accettare gli elementi caratteristici del francese belga, bensì quello di approfittare di uno stato di coscienza che è particolarmente vivo tra i Belgi francofoni – lo stato, cioè, dell’insicurezza linguistica – per combattere una battaglia comune, a nome di tutti i francofoni che si sentono emarginati46. All’identità (o mancanza di un’identità) nazionale si è sovrapposta un’identità linguistica e sociale.

Con questa battaglia, condotta a colpi di azioni fortemente (e ridicolamente) mediatiche47, si reclama la libertà della lingua – libera da qualsivoglia regola della grammatica prescrittiva – e il riconoscimento che « la langue française appartient en propre à chacun de ses usagers et qu’il est de notre devoir à tous de la rendre la plus vivante possible »48. Così, ognuno dovrebbe essere libero di usare la lingua come desidera e di innovarla a suo piacimento, senza che le autorità in questione – studiosi conservatori, dizionari normativi, etc. – possano condannare un certo uso linguistico considerandolo “scorretto”. Non solo, i dizionari dovrebbero avere un carattere puramente descrittivo

44

Ivi, p. 59. 45

Vedi Moreau, Brichard et Dupal, Les Belges et la norme. 46

«Si on avait été un peu plus organisés, on aurait bien recruté des collègues frondeurs de Lausanne, de Lomé, de Moncton ou de Guernesey. Ce ne sont pas les volontaires qui manquent […]» (p. 62)

47

Ricordiamo che la dentiera dell’accademico viene inviata alla stampa, insieme ad un comunicato semiserio contenente le rivendicazioni dei rapitori. Infine, il vecchio viene appeso come un salame al Palais de Justice.

48

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e limitarsi a svolgere il ruolo di guida nei confronti del parlante che vuole conoscere meglio la propria lingua. Insomma, si reclama un cambiamento radicale rispetto all’era dei famosi grammatici belgi, come Grevisse e tutti gli altri che hanno studiato e catalogato la lingua francese49.

Non ci sono più errori da correggere e ogni strappo alla regola è il benvenuto, allo scopo di rinnovare e ravvivare una lingua che gli accademici hanno “imbalsamato”. Così, tra le misure proposte dai due rapitori, c’è quella di far precedere qualsiasi forma di comunicazione, orale o scritta che sia, da questo avvertimento:

«Attention! Il est probable que le texte qui suit contienne des fautes d’ortographe, des entorses à la grammaire, des mots inventés, des anglicismes, des vulgarités et des libertés de tout ordre et de tout poil. Sachez que nous le faisons exprès et de manière délibérée, afin de rendre notre langue amusante pour tout le monde. Merci de votre collaboration50».

Lungi dall’essere la dichiarazione innocua di un pazzo, questo “avvertimento” è una “dichiarazione di poetica”: la “poetica” dei due rapitori, desiderosi di fare della lingua un bene comune, ma anche la “poetica” dell’autore, che cerca di dare a ogni personaggio il “suo” idioma, prediligendo poi per lo più un registro di lingua colloquiale. Così, nella lingua di Ancion – e dei suoi personaggi – sono ben presenti tutti i fenomeni descritti sopra: errori di ortografia (sebbene rari e sempre attribuibili ai personaggi), errori grammaticali, neologismi, anglicismi e termini volgari. Vediamo alcuni esempi.

Gli errori grammaticali diffusi nei libri di Ancion sono in realtà delle forme irregolari, che riproducono le abitudini del francese parlato e poco sorvegliato: così, possiamo vedere l’ellissi di ne nelle frasi negative (più che normale all’orale), l’ellissi di il nelle espressioni impersonali, qui pronome relativo soggetto eliso in qu’ davanti a vocale, l’uso di ça al posto dei pronomi personali, etc. Accanto a queste irregolarità grammaticali, si possono citare gli errori ortografici e grammaticali attribuiti ai parlanti più deboli, quelli che – come i due rapitori – soffrono di un complesso di “insicurezza linguistica”. Così, c’è chi scrive fusi al posto di fusil o fame al posto di femme, facendosi etichettare come stupido e ignorante dagli esperti della lingua51, o chi, come Ugur, il protagonista di L’album de foot, si fa sbeffeggiare dai bulli della scuola perché confonde ses con ces e c’est con s’est52.

Un altro tratto della prosa dell’autore sono poi i neologismi (“s’entabouretter”53, il già menzionato “cafeter”54, etc) e gli anglicismi (dal più innocuo e pienamente accettato “parking” – che

49

Tra l’altro, è stato notato che il Belgio francofono ha dato alla lingua francese un gran numero di studiosi, il più celebre dei quali fu appunto Grevisse, autore de Le Bon Usage. A monte di questa tradizione, vecchia di vari secoli, c’è forse quel sentimento di “insicurezza linguistica” di cui abbiamo già parlato, che avrebbe incoraggiato degli autorevoli studiosi a indagare e classificare una lingua che giudicavano in un certo qual modo estranea al loro Paese e temevano forse – più o meno consciamente - di non padroneggiare alla perfezione. V. a proposito André Bénit, La tradition grammaticale belge au XXe siècle.

50

Bruxelles insurrection, p. 53. 51

«Esr-ce qu’ils ont des scrupules, lui et ses copains, à considérer que c’est une faute et une preuve d’imbécilité d’oublier le «l» à la fin de fusil ou d’écrire femme avec un «a» et un seul «m»? Aucun scrupule» (p. 55).

52

«Vincent, c’est un sale type. Et des sales types comme lui, il y en a plein à l’école. Toujours prêts à rire parce que […] je fais toujours la faute avec les ses et les ces, ou celle avec les c’est et les s’est. C’est pas ma faute si mon père parle à peine le français et si le coran c’est le seul gros livre qu’il y a à la maison», Les ours n’ont pas de problème de parking, L’album de foot, p. 21.

53

Haute pression, p. 121: «La zone de dépression reprit le dessus dès qu’il fut entabouretté au coin du bar». 54

(19)

però dà tanto fastidio all’insigne accademico – a “speech”55, “sweat”56, etc.). Non mancano neppure i termini volgari, che sono anzi al centro delle rivendicazioni dei due rapitori: così, si reclama la presenza nei dizionari di termini come “foufoune”, che il vecchio accademico non conosce nemmeno. E d’altronde, come abbiamo già visto, i termini colloquiali, gergali e persino volgari sono ricorrenti nella scrittura di Nicolas Ancion.

Ora passiamo ad analizzare alcuni problemi di traduzione.

Per prima cosa, devo precisare che, in considerazione del carattere fortemente belga e metalinguistico di Bruxelles insurrection, ho deciso di conservare alcuni elementi del testo originale. Così, ho stilato un “vocabolarietto” di termini importanti, accompagnati da una spiegazione e – ove possibile - una proposta di traduzione. Ecco qualche esempio:

[…] les Série Noire de toutes les époques […]57

1) Serie di romanzi polizieschi e gialli fondata nel 1945 da Marcel Duhamel e pubblicata da Gallimard.

2) I Classici del Giallo di ogni epoca?

“Harlequin”58 1) Casa editrice specializzata nella

pubblicazione di romanzi rosa. 2) “Harmony”? √

[…] le vieux qui se roule les Historia serrés dans les toilettes pour assouvir ses rêves érotiques inspirés par les moustaches de Bellemarre.59

1) Historia è una rivista storica di divulgazione creata nel 1909, mentre Pierre Bellemare è uno scrittore e presentatore televisivo francese che si occupa soprattutto di eventi sensazionali e fatti di cronaca nera.

Pivot60 Bernard Pivot è un giornalista e

presentatore di programmi culturali riguardanti la letteratura, ad esempio Apostrophes. Pivot è anche conosciuto per la sua dedizione alla lingua francese, che si manifesta tra l’altro nell’organizzazione dei suoi famosi Dettati.

Prix Goncourt61 Dal 1903, il premio letterario francese più

prestigioso.

Bibliothèque de la Pléiade62 Una delle collezioni più prestigiose

dell’editoria francese, pubblicata da Gallimard.

Fleur en Papier Doré63 Luogo di ritrovo dei surrealisti di

Bruxelles, come Magritte, Nougé, Soutenaire, etc.

Zévaco64 Michel Zévaco (1860-1918), autore di

55

Bruxelles insurrection, p. 43: « je trouve ça vexant, cette confrérie de ronfleurs qui s’éveillent péniblement à la fin des speechs pour applaudir ou tousser leur dentier».

56

Ivi, p. 59: «[…] il a gerbé ferme sur le sweat de Pierre et a aspergé les baskets au passage». 57 Ivi, p. 45. 58 Ibid. 59 Ibid. 60 Ivi, p. 58. 61 Ibid. 62 Ibid. 63 Ivi, p. 60. 64 Ivi, p. 62.

(20)

romanzi popolari, conosciuto principalmente per la serie di cappa e spada Les Pardaillan.

Fantômas65 Feuilleton popolare creato negli anni ’10

del ‘900 e in seguito adattato anche al cinema, che vede come protagonista un bandito mascherato.

HLM66 1) “Habitation à Loyer Modéré”, cioè

una struttura abitativa che beneficia di finanziamenti pubblici. In quanto alloggi per i meno abbienti, spesso collocati in periferia, gli “HLM” sono spesso associati ai problemi sociali e all’immagine delle cités – ghetto. 2) Case popolari? √

«qu’est-ce qu’une foufoune? […] La foufoune, en Europe, c’est le sexe de la femme […]. Au Québec, une foufoune, c’est une fesse. Pas très éloignées l’une de l’autre, les foufounes!»67

1) Come spiega il rapitore, foufoune è un termine (volgare) che indica il sesso femminile.

2) Cos’è una figa? […] La figa è il sesso della donna […] Ma figa è anche una bella ragazza. Non sono poi così distanti l’una dall’altra, le fighe, eh? X

Paul - Popaul 1) Popaul è un diminutivo di Paul,

tanto più ridicolo e deformante in quanto “popaul” è anche un nomignolo per indicare il sesso maschile.

2) Luigino? X «Va lui dire à la caissière qu’elle se

trompe quand elle te dit que t’es grand assez pour emballer toi-même ta bouteille de pinard!»68

1) “Pinard” è uno dei tanti termini popolari che indicano il vino, generalmente un vino di qualità non eccelsa. È anche il nome che designa il vino scadente che i soldati francesi bevevano durante la Prima Guerra Mondiale. L’ equivalente italiano più vicino è forse “vinello”.

Dopo una lunga indecisione, sono arrivata alla conclusione che avrei conservato una buona parte delle diciture dell’originale sopra citate, riservando la spiegazione dei termini più importanti a un “vocabolarietto” finale, e questo per non tradire il carattere belga (o franco-belga) di Bruxelles

insurrection e di una parte degli altri racconti. Questa scelta si impone per tutte quelle realtà –

linguistiche e culturali – che non hanno un parallelo “credibile” in italiano.

Vediamo un caso particolare, quello dell’ultimo esempio. “Pinard” è un termine gergale che indica un vino qualunque, specialmente di scarsa qualità. È un vocabolo che ha una storia, essendo associato al vino che i soldati francesi consumavano durante la Prima Guerra Mondiale69, ma è anche – e soprattutto – un vocabolo dalla forte connotazione popolare. Allora, come tradurre questo termine – 65 Ibid. 66 Ivi, p. 58. 67 Ivi, p. 49. 68 Ivi, p. 52. 69

Il Trésor de la Langue Française dà due definizioni: 1) Pop. Vin de qualité inférieure ou de consommation courante, généralement chargé en couleur et en tanin; 2) P. ext. Vin de toute qualité. Per un approfondimento sulla storia di “pinard” v. ¶ pinard : définition avec Bob, dictionnaire d'argot, l'autre trésor de la langue ;). Data dell’ultima consultazione : 19/04/2013.

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