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PROFILO STORICO

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Academic year: 2021

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PROFILO STORICO

Popolo del miracolo, miracolo economico, oh popolo magnifico, campion di libertà Di libertà di transito di libertà di canto, di canto e controcanto, di petto e in falsetto. Chi canta è un uomo libero Da qualsivoglia ragionamento, chi canta è già contento di quello che non ha. Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar mettiamoci a cantar. Facciam cantare gli orfani, le vedove che piangono e gli operai in sciopero lasciamoli cantar… Facciam cantare gli esuli quelli che passano le frontiere assieme agli emigranti che fanno i minator. Su cantiam, su cantiam,

ecc. ecc. Oh popolo musicomane che adori i dischi in plastica aspetti Canzonissima come Babbo Natale1 DARIO FO, Su cantiam

Via i comunisti dalle fabbriche

Agli inizi degli anni Cinquanta, in corrispondenza con la guerra di Corea e quindi con uno dei momenti più acuti della Guerra Fredda, l’azione anticomunista è uno degli imperativi dei governi democristiani. Probabilmente immemore di una dittatura terminata solo sette anni prima, nel 1952 De Gasperi spiega all’ambasciatore americano che tra fascisti e comunisti c’è una differenza fondamentale:

I fascisti senza dubbio combatterebbero dalla nostra parte in caso di guerra, mentre ciò non è vero per i comunisti2.

1 Questa canzone fu composta da Dario Fo come sigla musicale della trasmissione Canzonissima. L’esperienza

televisiva di Fo fu però presto interrotta per la censura esercitata dalla RAI, in particolare dopo un suo sketch sulla speculazione edilizia, proprio mentre nel Paese era in corso una dura lotta dei lavoratori del settore. Cfr CHICCO VITZIZZAI, op. cit., pp 213-214

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Nel 1953 Vittorio Valletta, dirigente della Fiat, sollecitato ad un maggiore impegno nella repressione dei comunisti da parte dell’ambasciatrice americana Claire Boothe Luce, promette di far diminuire il prestigio di antica data della Fiom3, con “una soluzione atta a scacciare gli attivisti comunisti dai posti di comando” che occupavano nei sindacati e, nello stesso tempo, a “valorizzare” Cisl e Uil.4

Per conseguire questo obiettivo, Valletta si serve sia dei premi di collaborazione concessi su richiesta a questi ultimi, sia di pressioni esercitate sugli operai che erano più attivi sul piano sindacale. Il fantomatico “pericolo rosso” conduce a forme nostrane di maccartismo, dentro e fuori dalla fabbrica: dai licenziamenti e ai confini degli operai nel reparto OSR (Officina Sussidiaria Ricambi), alle discriminazioni nei confronti di cooperative, artisti e intellettuali di sinistra, rese possibili soprattutto grazie alla perdurante attività del Casellario Politico Centrale, reliquia del regime fascista5.

Alla base di questa pratica del “non diritto” vi è la constatazione di Mario Scelba, più volte ministro dell’Interno e dal 1954 al 1955 Presidente del Consiglio, uno dei massimi esponenti della linea repressiva e celerina, precoce sostenitore dell’uso della violenza sin dalla sua collusione con Salvatore Giuliano nella strage di Portella della Ginestra6, secondo il quale

Il Partito Comunista opera contro la democrazia e lo stato democratico servendosi dell’appoggio di una potenza straniera. Se si accetta questa impostazione, ogni provvedimento diventa logico.”7

In questo quadro politico si coniuga l’iniziativa delle direzioni aziendali (e la Fiat, oggi come allora, è un esempio per tutti nella soppressione dei diritti): nelle fabbriche

2

Cfr CRAINZ, Storia del miracolo italiano, p.3

3 La federazione degli operai metallurgici e meccanici della CGIL 4 Cfr LEPRE, Storia della prima Repubblica, p.172

5

Sugli “anni duri” per gli operai di sinistra cfr anche GINSBORG, pp.250-259: “Questi furono anni in cui i padroni, a livello di fabbrica, riconquistarono potere e autorità. Ai membri delle commissioni interne era proibito spostarsi per la fabbrica durante le ore di lavoro, non ricevevano più permessi retribuiti per compiti sindacali, né era loro permesso dentro le fabbriche di affiggere avvisi o di avere una stanza in cui riunirsi.”, ivi, p.258; CRAINZ, 1996, pp.62-67; DAMIANO C., Un’esperienza sindacale, in NEPPI MODONA, op. cit., pp.99-111

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Il primo maggio 1947 circa duemila contadini si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, per manifestare contro il latifondismo e la vittoria del Blocco Popolare (PCI e PSI) nelle elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana. Sulla folla in festa partirono delle raffiche di mitra che provocarono undici morti e ventisette feriti; il mandante della strage fu identificato nel bandito Salvatore Giuliano. Sette anni dopo, nel 1954, viene misteriosamente avvelenato Gaspare Pisciotta, che precedentemente aveva rivelato di aver ucciso l’amico Giuliano d’accordo con la polizia, dalla quale aveva ricevuto in cambio la promessa dell’impunità, indicando come mandanti alcuni deputati democristiani e monarchici. La sua morte tempestiva imprime nell’opinione pubblica la convinzione che Pisciotta sapesse molte cose che, una volta rivelate, avrebbero coinvolto anche ambienti governativi. Cfr LEPRE, Storia

della prima Repubblica, p.161 7 Cfr CRAINZ, op. cit., p.6

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più che altrove si coglie il clima generale della “libertà congelata”, della discriminazione che prevale sull’uguaglianza. A farne le spese è soprattutto la Fiom-Cgil, che nel 1955 crolla al 36% (dal 63% dell’anno precedente) nelle elezioni delle commissioni interne alla Fiat, superata dalla Cisl. Non si tratta però di disaffezione al sindacato più intransigente e orientato a sinistra: è la politica del terrore dell’azienda, detto altrimenti fascismo di fabbrica, a portare gli operai a non votare per la Fiom, per evitare licenziamenti e riduzioni dei cicli produttivi.

Così, nello stesso 1955, Pietro Nenni denuncia i metodi della Fiat aprendo il 31° Congresso del Psi:

L’intimidazione, il ricatto, la rappresaglia sono armi quotidiane e sistematiche […] Gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi[…]; si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso della fabbrica[..]; gli agenti padronali sorvegliano gli operai oltre la cerchia della fabbrica[…], sono ammoniti fin nel seno della loro famiglia attraverso lettere minacciose; sono posti davanti all’alternativa o di votare come desidera l’azienda o di perdere il posto di lavoro.8

Dietro la produzione dell’automobile icona del boom economico, la Seicento (uscita proprio nel 1955), oggetto del desiderio dei nuovi italiani, si cela la faccia meno patinata del cosiddetto miracolo italiano: veri e proprio tribunali di fabbrica con verbali di udienza, per dare apparenza di legalità ai licenziamenti; reparti-confino come la Officina Sussidiaria Ricambi; un nutrito corpo di sorveglianza e un’ampia rete di informatori; un insieme di intimidazioni e di pressioni cui non disdegnano di partecipare anche gli altri sindacati. Oltre 200000 schede relative ai dipendenti Fiat sono redatte tra il 1949 e il 1966 dall’Ufficio Servizi Generali dell’azienda, grazie alla collaborazione di tutori della legge dello stato come funzionari di polizia, carabinieri, agenti del Sid, puntualmente e lautamente ricompensati. Denaro e donazioni servono a raccogliere una fitta massa di informazioni- spesso con l’aiuto di parroci- sulle opinioni politiche dei dipendenti o di chi presenta domanda d’assunzione, ma spesso si allargano con impietosa invadenza ad ogni sfera della vita privata, unendo fascismo di fabbrica e morale bigotta.

Con il 1958, anno della morte di papa Pio XII e della nascita del Mercato Comune Europeo, entriamo, secondo una datazione consolidata, nel quinquennio di acmè del

8 Cfr 31° Congresso Nazionale del Partito Socialista in CRAINZ, 1996., p.34

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miracolo economico italiano. Nel marzo dello stesso anno, alla vigilia delle elezioni di commissione interna alla Fiat, viene diffuso un opuscolo anonimo, che ammonisce: “Presentarsi candidato o scrutatore per la Fiom significa mettersi in lista di licenziamento.” Ma stavolta la Cisl reagisce, denuncia l’iniziativa della Fiat e dichiara che non si presenterà alle elezioni se non cessano le interferenze dell’azienda; ciò provoca la rottura con una parte della Fim stessa, che va a costituire un nuovo sindacato filo-padronale. Le lotte sindacali si succedono in questi anni a più riprese: se per alcuni l’assistenzialismo paternalistico concesso dall’azienda è un buon deterrente per astenersi dalla partecipazione agli scioperi, per altri la tutela dell’operaio-massa, dequalificato, di terzo livello, addetto alla linea di montaggio è l’imperativo categorico che nessun ricatto aziendale può piegare.

Mondi rurali, mondi industriali

Nel 1953 la società italiana è tutt’altro che una società opulenta: la maggior parte della famiglie ha un reddito molto inferiore a quello dei paesi industrializzati, un quarto delle case è ancora senza acqua, moltissime mancano di gas e del bagno. Per usare un’espressione di Ginsborg, a metà del decennio “L’Italia era ancora sotto molti aspetti un Paese sottosviluppato”9

.

Solo la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta segnano la piena trasformazione dell’Italia in società industriale, non solo per la produzione, ma anche per una diversa distribuzione dell’occupazione10

: in dieci anni, dal 1954 al 1964, gli occupati nel settore dell’agricoltura sono tre milioni in meno, soprattutto nelle aree più povere della collina e della montagna, e in Italia centrale per l’entrata in crisi della mezzadria, il patto agrario fondato sulla spartizione a metà dei proventi tra padrone e conduttore del podere. L’abbandono delle campagne porta con sé le gravi conseguenze di spopolamento ed invecchiamento, oltre che la lacerazione dei tessuti unitari delle comunità tradizionali. Al nord l’agricoltura conosce i maggiori crolli nelle regioni che erano rimaste più tenacemente e intensamente rurali, come il Veneto e l’Emilia. In particolare è il Polesine l’area in cui lo spopolamento assume dimensioni veramente elevate: la fuga non è soltanto dalla povertà della campagna, ma anche da una serie di

9 Cfr GINSORG, Storia d’Italia dal Dopoguerra a oggi, p.283 10 Cfr LEPRE, Storia della prima Repubblica, p.163

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disastri naturali iniziati con l’alluvione del 1951 e continuati poi con un susseguirsi di inondazioni per tutto il decennio11.

Gli spostamenti all’estero perdono il loro tradizionale rilievo a fronte delle colossali proporzioni delle migrazioni interne, che muovono in primo luogo dalle campagne povere dell’Italia settentrionale e centrale, e poi dal Mezzogiorno, verso il polo industriale Torino-Genova-Milano. Anche la direttrice dei flussi migratori che parte dal Sud12 porta con sè effetti dirompenti sui tessuti familiari e culturali e il solito spopolamento delle aree agricole e montane. Richiamati dalla possibilità di lavoro, gli immigrati meridionali affrontano condizioni tremende di disagio, emarginazione e povertà, affollando i cosiddetti quartieri-dormitorio senza mai integrarsi veramente con la popolazione locale, che spesso li guarda con sospetto, e accentuando quindi il familismo originario13. Si diffondono rapidamente le “Coree”- così chiamate perché i primi esemplari risalgono agli anni del conflitto in Asia orientale14-, agglomerati disordinati e fitti di cubicoli addossati l’uno all’altro, costruiti dall’oggi al domani dagli emigrati stessi. Fino al 1961 queste colossali migrazioni coesistono con la legislazione fascista volta a impedire l’urbanizzazione: sebbene non sia mai stata realmente applicata, essa vale a trasformare una parte cospicua degli immigrati in fuorilegge, in una sorta di clandestini del mercato del lavoro nella loro stessa patria. In questa situazione di precarietà prosperano forme di appalto e subappalto del mercato del lavoro; di qui l’aumento della estraneità e della diffidenza verso le strutture pubbliche e il rafforzamento di quelle reti di relazioni che innervavano il sistema extra-legale di reperimento degli impieghi. Governo e prefetti, inoltre, cinicamente pongono una qualche attenzione al fenomeno delle migrazioni interne solo quando i risultati elettorali sembrano indicare che la crescita delle sinistre nelle grandi città del Nord è dovuta appunto al voto degli immigrati.

Oltre ai grandi flussi migratori, ogni mattina si riversano nelle città industriali treni locali stracolmi di operai pendolari. Nel 1962 Giorgio Bocca ha viaggiato con loro, partendo dalla stazione di Palazzolo sull’Oglio, a settantadue chilometri da Milano:

Percorro le carrozze e guardo i miei compagni di viaggio: vanno nella città che accentra un sesto del reddito commerciale e industriale del paese, ma il fatto non gli toglie il sonno e il freddo. Noi siamo la prima ondata dei duecentocinquantamila che ogni giorno, tra le sette e le dieci, arriva a Milano. I primi a

11 Cfr CRAINZ, 1996, pp. 91-94 12

Sui flussi migratori nazionali cfr ancora CRAINZ, 1996, pp.103-108

13 Cfr LEPRE, op. cit., p.176 14 Cfr LANARO, op. cit. p.234

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muoversi sono stati quelli delle valli bergamasche, partenza alle quattro e ventotto da Piazza in val Brembana e, poco dopo, da Clusone in val Seriana. Adesso, con noi di Palazzolo, si muove tutta la cerchia esterna, ci sono treni scalcinati come questo che partono da Cremona, Voghera, Mortara, Varese, Como, Oggiono. Lo spostamento di seicento aziende nel nord milanese non è bastato a fermare l’esercito operaio che scende sulla città: il miracolo continua, il bisogno di manodopera anche15.

Nel 1963, secondo una definizione di Eugenio Scalfari16, l’Italia industriale non è più un triangolo, ma una cometa, con il suo centro stellare sempre localizzato tra Torino e la Lombardia, una lunga coda che investe ormai l’intera pianura padana e come punti terminali la zona di Porto Marghera all’estremità settentrionale e la zona Bologna-Ravenna in quella meridionale17. Questo è ciò che viene comunemente definito “miracolo economico”18

, inquadrato, secondo una datazione consolidata, tra il 1958 e il 1963, reso possibile da una serie di fattori, come la fine del protezionismo, la scoperta di metano e idrocarburi nella Pianura Padana (che, sotto la direzione imprenditoriale di Enrico Mattei trasformano l’Italia in una “potenza energetica”19), la creazione di una moderna industria siderurgica sotto l’egida dell’Iri.

Ma una crescita così rapida e repentina non avrebbe mai avuto luogo senza la sua componente più importante: il basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni Cinquanta, infatti, portano ad un eccesso di domanda rispetto all’offerta, con le prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari e dei diritti dei lavoratori, del resto costantemente sotto ricatto anche per motivi politici.

I settori trainanti fin dalla prima fase solo quelli dell’automobile e della chimica: da una parte le catene di montaggio della Fiat, quindi, ma anche dell’Alfa (che dal 1954 mette in produzione la “Giulietta”) e della Lancia; dall’altro le raffinerie e gli impianti petrolchimici lungo la costa adriatica, a Brindisi e in Sicilia, a Napoli e in seguito anche in Sardegna. Spesso nuovissime linee produttive si intrecciano a modelli di integrazione paternalistica: per gli operai sorgono appositi villaggi residenziali dotati dei principali

15 BOCCA, Miracolo all’italiana, p..84 16 Cit. in CRAINZ, 1996, p. 112 17 Cfr GINSBORG, op. cit., pp. 289-291

18 S. Lanaro mostra come in termini prettamente quantitativi (aumento del PIL, del reddito nazionale netto, del valore

aggiunto industriale) per il quinquennio 1958-1963 non si dovrebbe parlare di boom economico. A determinare questa definizione sono invece altri fenomeni, come il raggiungimento della piena occupazione, le grandi migrazioni dal Sud al Nord, l’intensificazione della lotta operaia, il mutamento della composizione merceologica dell’offerta a vantaggio dei mezzi di trasporto e degli elettrodomestici, la forte impennata dei consumi privati. Cfr LANARO, op. cit., pp.223-224

19

L’azione di Mattei si riassume in quello che A. Lepre ha definito “un miscuglio di pauperismo e nazionalismo”: egli certamente appoggia i movimenti di liberazione e decolonizzazione africani per combattere il predominio delle maggiori società petrolifere ed acquistare spazio sul mercato mondiale, ma la scelta di non trovare un accordo con le cosiddette “sette sorelle” è dovuta anche al suo particolare terzomodismo che trovava alimento nella volontà di sostenere i paesi poveri contro i ricchi, ottenendo così per l’Italia un ruolo di guida. Cfr LEPRE, Storia della prima

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servizi, così da legare azienda e lavoratori con un doppio filo di riconoscenza e convenienza. Molto importante a Ferrara la Montecatini, che grazie alle ricerche del premio Nobel Giulio Natta produce un tipo innovativo di plastica dura, il Moplen20.

D’altro canto, un nuovo settore, quello degli elettrodomestici cosiddetti “bianchi”, si afferma sulla scena industriale: Candy, Ignis, Merloni, Zanussi sono tutte aziende impiantate in zone prive di tradizioni sindacali e caratterizzate da piccole dimensioni, flessibilità, gestione paternalistica, basso costo del lavoro. Si tratta di soggetti imprenditoriali nuovi, privi di una solida esperienza produttiva, ma forti di un capitale umano caratterizzato da una notevole spinta all’innovazione industriale, buona progettualità e spesso concentrato all’interno di un’unica famiglia. Il paternalismo aziendale riesce a radicare nella manodopera sentimenti di corresponsabilità e identificazione coi destini dell’azienda, complice anche il fatto che, come per la Zanussi di Pordenone, il lavoro in fabbrica rappresenta per gli operai una delle poche concrete alternative all’emigrazione. Il ventennio di ritardo con cui questo settore dell’industria italiana prende avvio ne condiziona in modo vincente le caratteristiche e gli orientamenti: l’individuazione di un segmento medio-basso del mercato quale area su cui concentrare principalmente la produzione fa sì che negli anni Sessanta l’Italia diventi la prima produttrice europea di elettrodomestici21.

Per quanto riguarda il Sud, grandi imprese pubbliche (Iri ed Eni) e private (Montecatini, Sir) usufruiscono dei contributi statali per l’industrializzazione previsti dalla Cassa del Mezzogiorno ed investono in primo luogo nella produzione siderurgica (Taranto e Bagnoli) e petrochimiche (Brindisi, Gela, Augusta-Priolo..). Sono, questi, settori poco coerenti con il progetto dichiarato di costruire poli di sviluppo, di indurre effetti positivi nella base produttiva locale: molti insediamenti rimangono infatti delle “cattedrali nel deserto”. Un deserto solo industriale e non certo demografico, però, in quanto spesso queste strutture sono inserite in centri urbani densissimi, a dispetto delle caratteristiche inquinanti e di rischio ambientale della maggior parte di esse. Si tratta della cosiddetta “industrializzazione senza sviluppo”: le acciaierie Italsider di Taranto, la raffineria ANIC di Gela, le fabbriche Montecatini di Brindisi e le istallazioni petrolchimiche SINCAT a Siracusa si limitano a svolgere la propria attività produttiva senza dare alcun contributo alla vita sociale, culturale e politica delle regioni in cui si trovano dislocate.22

20

Cfr CRAINZ, 1996, p.114

21 Cfr ASQUER, La rivoluzione candida, pp. 13-15 22 Cfr LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, p.172

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Ovunque, al Nord come al Sud, l’industrializzazione e l’espansione delle città a macchia d’olio portano ad un’aggressione indiscriminata dell’ambiente e del paesaggio, complice la tolleranza verso la speculazione edilizia che in questi anni assume proporzioni enormi. A nulla servirà il disegno di legge sul “regime dei suoli” elaborato dal ministro Sullo nel 1962, che prevede l'esproprio da parte dei Comuni delle aree destinate all'edilizia residenziale, e la cessione del solo "diritto di superficie" alle società edilizie, dopo la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, rete elettrica, idrica e fognaria, ecc.). Questo provvedimento scatena la reazione –mediante una feroce campagna di stampa- di banche e costruttori, tanto che alla fine il Governo è costretto ad abbandonarlo23. È un avvenimento esemplare, che mostra come le ragioni del profitto calpestino da sempre la legge, la natura, la dignità della persona.

La distorsione dei consumi e la secolarizzazione dei costumi

Per “distorsione dei consumi” intendiamo lo scarto verificatosi negli anni del boom economico tra consumi pubblici e privati. In altri termini, la crescita economica italiana, tutta orientata all’esportazione, comporta un’enfasi eccessiva sui beni di consumo privati (e spesso su quelli di lusso), a scapito di un adeguato sviluppo dei consumi pubblici per quanto riguarda case, trasporti, scuole, ospedali. Alla base del problema vi è una dualità dello sviluppo economico italiano, diviso tra settori dinamici ad alto tasso di innovazione orientati quasi esclusivamente all’esportazione (industrie automobilistiche, chimiche e siderurgiche) e settori arretrati e tradizionali destinati a soddisfare la domanda interna (settore tessile, alimentare ed edile)24.

Lo stesso scarto si ha a livello individuale: da una parte la minore dinamicità di alcuni settori implica un maggiore costo dei beni primari rispetto a quelli secondari o di lusso, dall’altra si assiste ad un’emulazione nei confronti degli stati più ricchi e delle classi borghesi e cittadine da parte di una società ancora intimamente provinciale e rurale. Negli appartamenti compaiono le televisioni ma spesso continuano a mancare i servizi igienici; mentre l’auto diventa uno status symbol le ferrovie vengono abbandonate al loro destino; al vigore imprenditoriale della piccola e media impresa fa da contraltare l’inefficienza della pubblica amministrazione. Cambia anche la dieta della

23 Sul progetto Sullo cfr CRAINZ, 1996, p.129 e ss.

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famiglia media italiana25: i cereali “secondari” (orzo, segala, mais, avena) lasciano spazio al pane bianco e alla pasta (simbolo gastronomico della festività, come mostra uno degli spot pubblicitari più famosi dell’epoca, Con pasta Barilla è sempre

domenica); i legumi, considerate le “proteine dei poveri”, vengono recuperati come

piatto di contorno; la carne compare quasi quotidianamente sulle tavole.

In particolare, la singola famiglia, soprattutto quella dei ceti medi, cerca un’alternativa all’inefficacia dello stato assistenziale nella spesa e nei consumi privati, usando l’automobile per andare a lavoro, recandosi dai medici a pagamento, usufruendo di asili privati. È così che il miracolo, configurandosi come un fenomeno squisitamente privato, da godere nella stretta individualità26, non fa che affermare sempre più l’atomizzazione della persona, atomizzazione non solo nell’utilizzo di beni materiali, ma anche politica, sociale, culturale. L’avvento di beni alla porta di (quasi) tutti si configura teoricamente come un elemento di democrazia, ma genera spesso arroganza nei rapporti umani: il possesso di un certo modello di automobile o di elettrodomestico diventa segno di appartenenza ad un certo gruppo sociale, determinando minigerarchie, con esaltazioni ed opposte frustrazioni.27

L’oggetto superfluo che più diventa indispensabile per la vita degli italiani è la televisione28, veicolo di unificazione linguistica e strumento di svago dalla routine del lavoro, ma anche potente arma di propaganda in mano alla DC. L’italiano che guarda la televisione non deve pensare, oppure può farlo all’interno di precisi schemi preconfezionati (si pensi ai servizi giornalistici imbottiti di pregiudizi anticomunisti). Non tutte le reazioni all’avvento del televisore sono entusiastiche: alcuni intellettuali di sinistra esprimono una condanna senza appello verso questa novità, pericolosa stimolatrice di quel consumismo tipico del modello americano che essi rifiutano. Ad essere rigettata è soprattutto la formula del quiz, esemplificata dalla trasmissione condotta da Mike Bongiorno Lascia o raddoppia (“gioco crudele”, secondo un certo intellettualismo), che, trasponendo nella realtà italiana il mito americano del successo, promuove l’idea di un arricchimento facile, senza fatica.29

25 Per le nuove abitudini alimentari degli italiani cfr LANARO, op. cit., pp. 253-254

26 Talvolta l’individualità si presenta nel suo risvolto meno negativo: le famiglie percepiscono l’isolamento offerto loro

dalle nuove strutture urbane come una liberazione dalla soffocante atmosfera di forzata condivisione collettiva delle corti rurali. Ecco che il “privato”, nella sua interpretazione primaria e più tradizionale, si configura semplicemente come spazio della protezione e del rifugio dell’intimità familiare dalle interferenze esterne. Cfr ASQUER, La rivoluzione

candida, p.70 27

Cfr LEPRE, op. cit., p.186

28 Sull’avvento del televisore nella vita degli italiani cfr anche GINSOBORG, op. cit., pp.326-328 29 Cfr LEPRE, op. cit. pp.167-168

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D’altro canto, la Chiesa teme la diffusione di massa del televisore, applicandovi, come ad alcune opere letterarie e cinematografiche d’autore, la censura per motivi di moralismo formale e in difesa di codici arcaici e anacronistici. Il servizio pubblico propone o programmi di educazione religiosa o varietà senza impegno, musica leggera e quiz: nonostante l’indiscusso monopolio democristiano e quindi la gestione

“Vaticano-friendly” della Rai, le ostilità cattoliche verso tale strumento sono tangibili e talvolta

violente soprattutto sotto papa Pio XII, per il quale la televisione “a differenza del teatro e del cinematografo […] si rivolge soprattutto ai gruppi familiari, composti di persone di ogni età e sesso, di cultura e preparazione morale differente”. È un mezzo che, a differenza della radio, porta “in ogni casa e in ogni luogo, in qualsiasi ora, non solo i suoni e le parole, ma anche la concretezza e la mobilità delle immagini. Il che le conferisce maggiore capacità emotiva, soprattutto a riguardo dei giovani.”30

Il pontefice inorridisce al pensiero che, attraverso la televisione, possa “introdursi tra le stesse pareti domestiche quell’atmosfera avvelenata di materialismo, di fatuità ed edonismo, che troppo sovente si respirava in tante sale cinematografiche.”31

Critiche inutili, perché il modello edonistico e consumistico che si sta affermando con la televisione non contempla affatto la religione; anzi, sommato al fenomeno dell’esodo dalle campagne, comporta, soprattutto nelle città e nelle periferie, un forte declino della religiosità e un progressivo abbandono della pratica ecclesiale: tutto ciò che potremmo riassumere nel termine “secolarizzazione”32

. Il declino del cattolicesimo tradizionale è, per Lanaro, l’effetto più visibile del neo-materialismo inculcato dall’opulenza, e si presenta come “scristianizzazione passiva, inerziale, entropica, slacciata dall’avvento di nuove démarches di credenza collettiva”33

. La morale ufficiale è ancora imperante, ma iniziano a crearsi squarci di libertà ed emancipazione, in particolar modo per le donne, grazie alla loro immissione nel mondo del lavoro.

Laddove l’universo femminile raggiunge una propria autonomia economica, infatti, inizia ad incrinarsi la consolidata gerarchia maschilista della famiglia e la donna tenta di liberarsi dal giogo della sottomissione. Dagli spaccati di vita messi in luce da Bianca Guidetti Serra nel suo libro di interviste, Compagne, emerge il volto meno conosciuto di quelle donne italiane per le quali la scelta antifascista era stata ragione d’impegno prima della Resistenza, durante e, per quasi tutte, anche dopo”34

. È

30 Tratto da l’esortazione pontificia I rapidi progressi, cit. in CRAINZ 1996 31 Cfr LEPRE, op. cit., p.169

32

Sul declino della religiosità negli anni del “miracolo economico” cfr anche GINSBORG, op. cit., pp. 332-334

33 Cfr LANARO, op. cit., pp.259-260

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soprattutto il “dopo” ad interessarci in questa sede, ovvero l’esperienza di lotta di classe e l’antifascismo vecchio e nuovo che caratterizzano la loro partecipazione attiva in una città industriale come Torino (campione territoriale scelto dalla Guidetti Serra) negli anni Cinquanta-Sessanta. Molte fanno parte delle Commissioni interne di fabbrica e degli organismi di partecipazione diretta, nonostante il condizionamento sociale le costringa all’accettazione di regole di costume ataviche e maschiliste. Gli ostacoli rappresentati dalla posizione ancora subalterna rivestita nei rapporti personali (con il padre prima, con il marito poi35), dalla bassa scolarizzazione e dal doppio onere di lavoratrice e casalinga (nonché madre) costituiscono la straordinarietà di questo impegno al femminile. Tale emancipazione ovviamente non piace alla Chiesa, in quanto rappresenta uno dei tanti effetti conseguenti alla secolarizzazione: secondo le testimonianze di parroci e vescovi, dopo soli pochi mesi di fabbrica le donne cambierebbero moralmente, sarebbero infiacchite nella loro resistenza al male, più apatiche di fronte alla virtù, meno impegnate nella pratica religiosa.

Un’analoga sorte di liberazione colpisce anche le casalinghe, grazie all’avvento della lavatrice, di cui Enrica Asquer ha messo in luce la carica rivoluzionaria per la vita delle donne.36 Il nuovo elettrodomestico “bianco”, infatti, da una parte permette alla sua utilizzatrice di riconquistare un’intimità individuale, al riparo dai rituali costrittivi della famiglia, dall’altra è un fattore di liberazione dalla fatica. Si attua il passaggio, cioè, da una domesticità intrisa di fatica e condivisioni forzate ad una che, divenuta comoda ed intima, permette di costruire l’immagine della “libertà” e della “modernità” elettrodomestica attorno al mito della casa accogliente e dotata di tutti i comfort.37 La vicenda della lavatrice si intreccia quindi con le dinamiche della società dei consumi: sebbene essa accentui la privatizzazione del lavoro domestico, d’altro canto, velocizzando le faccende di casa, apre alla donna gli scenari nuovi di un tempo liberato, che può essere impiegato al di fuori dell’ambito familiare, oppure all’interno di una cornice pur sempre familiare, ma non necessariamente domestica. Inoltre, in un contesto in cui l’andamento del lavoro è fortemente penalizzante per l’occupazione femminile e le politiche sociali in termini di servizi alla famiglia sono altamente deficitarie, la casalinga a tempo pieno, finalmente liberata e devota unicamente alle esigenze familiari e domestiche, viene additata come modello per tutte le donne italiane. Sia le signore

35 Molte “compagne” militano nell’ombra, all’insaputa del padre o del marito, oppure, quando quest’ultimo è un

“compagno”, di riflesso, sulla scia di lui..”ignorando (forse) di dare, in realtà, una parte autonoma e consapevole di sé”, Premessa

36 Cfr ASQUER, La rivoluzione candida, Introduzione, pp- 1-9 37 Cfr ASQUER, La rivoluzione candida, p.143

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della borghesia agiata, abbandonati gli anacronistici pregiudizi sulla dignità del lavoro domestico, sia le lavoratrici, alle quali le riviste femminili e la pubblicità dispensano il sogno di una vita di comodità e di affetti “raccolti”, iniziano a considerare il ruolo della casalinga una valida alternativa ad altre forme di realizzazione ed emancipazione al di fuori delle mura di casa.38 Il significato della modernizzazione nell’esperienza delle donne italiane resta quindi, in fondo, prettamente domestico: l’immagine pubblicitaria stessa prospetta un arricchimento della casalinga soltanto in termini di benessere quotidiano e di inclusione nella vita di relazione della famiglia o, al più, in termini di opportunità di dedicarsi allo shopping e all’abbellimento personale.39 Quando avverrà, la vera liberazione della donna non si misurerà in lavatrici comprate, ma in diritti ottenuti.

Oltre alle donne, anche i giovani40, altra categoria rimasta da sempre nell’ombra, iniziano in questi anni un difficile percorso di presa d’identità, che li porta lentamente ad afferrare il senso delle proprie esigenze e dei propri diritti, per poi culminare con le proteste del Sessantotto. Nel momento stesso in cui i giovani compaiono sulla scena comunicano subito un disagio ed un disadattamento alle regole preconfezionate per loro, che si esprime spesso nel modo di vestirsi, nella preferenza per la compagnia dei propri simili, nella riluttanza a riconoscersi nella figure parentali, nel rifiuto degli stretti tabù sessuali. Mentre si precisano come generazione peculiarmente diversa rispetto a quella adulta, essi vanno incontro al miracolo economico con istinto confuso ma sicuro, senza riserve mentali, senza moralismi, in modo spontaneo e fiducioso, come se nell’irrompere della società del benessere essi intravedessero un segnale di liberazione. L’emancipazione passa, in effetti, anche attraverso manifestazioni esteriori, come l’abbigliamento trasandato o casuale, i famosi blue jeans (testimoni anche di una diffusa americanizzazione dei costumi) e i giubbotti di pelle41, o i progressivi margini di tempo libero fuori dal recinto familiare, seppur, soprattutto per le ragazze, ottenuti con fatica e spesso obtorto collo. Se tra genitori e figli si instaura un processo di autonomia –con i secondi che iniziano a progettare un percorso lavorativo diverso da quello dei primi- , le relazioni interpersonali tra i due sessi si modificano, si avvicinano e spesso si concretizzano nel rapporto amoroso (con relativo, ma ancora poco diffuso, uso di contraccettivi) che, in quanto prematrimoniale, è considerato illecito dal codice morale

38 Ivi, pp. 65-66 39

Ivi, p. 145

40 Cfr PICCONE STELLA, La prima generazione, pp- 9-13 41 Ivi, p.15

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cattolico. I giovani si fanno insomma interpreti di alcuni tratti salienti della civiltà del benessere (il consumismo, la ricerca del nuovo, il culto del successo), che costituiranno la testa d’ariete per una più diffusa liberazione, ma che almeno per il momento si configurano solo come trasgressioni e sfide praticate in solitudine. Manca, alla “prima generazione”, la capacità di rappresentarsi come un “noi” corale, organico e compatto, forse in parte a causa dell’individualismo imperante in questi anni, che verrà superato e solo con lo scontro frontale tra giovani ed adulti proprio del Sessantotto.

Sia per le donne che per i giovani, quindi, le novità apportate dal miracolo economico creano una piccola breccia verso l’emancipazione nel chiuso e patriarcale mondo italiano, ma non riescono a configurarsi come la spinta propulsiva per una vera liberazione dal maschio adulto, genitore, padre o marito che sia. Il carattere egoistico e atomistico intrinseco al boom agisce in questo caso da freno: se gli anni Sessanta si limitano a gettare le premesse, i Settanta le raccoglieranno e le porteranno in piazza attraverso i movimenti studenteschi, operai e femministi.

Reticenza e repressione

Nel suo libro Fascisti di celluloide, Maurizio Zinni mette in evidenza come la memoria e la rappresentazione del fascismo abbiano accompagnato l’evoluzione del sistema politico e della società italiana dalle devastazioni della guerra al nuovo millennio. Da questo punto di vista, gli anni della guerra fredda e quelli del boom economico, fino al Sessantotto e la contestazione studentesca, sono tutte tappe di un percorso che ha visto gli italiani guardare al passato fascista con occhi di volta in volta diversi, influenzati da fattori e situazioni che nel contesto politico e culturale del tempo hanno la loro prima ragion d’essere.42

Ad esempio, all’indomani delle elezioni politiche del 1948 negli anni dell’emergere della “cortina di ferro”,il tema del fascismo è uno degli argomenti centrali della battaglia ideologico-propagandistica che oppone la Democrazia Cristiana e i suoi alleati ai partiti di sinistra. Il fronte internazionale antifascista si è sfaldato, e con l’avvento della Guerra fredda anche nel primo partito italiano si registra un cambio di approccio nei confronti del passato recente, da cui si

42 Per la prospettiva con cui l’Italia ha affrontato il tema del fascismo dagli anni Cinquanta ai Sessanta cfr ZINNI, Fascisti di celluloide

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tenta di rimuovere gli aspetti più problematici, sostituendo, come elemento legittimante dell’agire politico, l’anticomunismo all’antifascismo. E mentre quest’ultimo, nella sua versione “rossa” inizia ad essere visto come patrimonio esclusivo della sinistra -che se ne riappropria fin troppo retoricamente-, il primo diventa valore supremo e fattore discriminante per inglobare o escludere i partiti dall’area di governo.43

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’allentarsi della situazione interna ed internazionale sembra produrre un’attenuazione dell’uso della delegittimazione antifascista ed una parziale riscoperta, da parte cattolica, di quegli aspetti meno politici della Resistenza. Tuttavia, a livello mediatico, fino alle elezioni del 1958 prosegue, anche se in maniera sempre meno forte, quella tendenza alla rimozione dell’istanza antifascista favorita a livello governativo da un’accurata politica di silenzio dei mass media.44

L’istanza antifascista riaffiora con tutta la sua forza repressa a partire dal 1960, come vedremo, con i moti popolari contro il governo Tambroni, quando l’antifascismo sembra (ri)emergere come un orientamento radicato nell’opinione pubblica indipendentemente dalle forze politiche, non più eredità esclusiva della sinistra, ma elemento di coesione anche per cattolici e centristi (senza che questo comporti, ovviamente, un abbandono dell’anticomunismo). Infatti, dopo aver depennato per anni lo studio dei fatti storici recenti dai programmi scolastici, soltanto dopo la caduta del governo Tambroni nel 1960 il nuovo ministro democristiano della Pubblica Istruzione, Giacinto Bosco, dispone che l’insegnamento della storia alle superiori non si arresti alla Prima Guerra Mondiale, ma sia portato fino alla Costituzione. Come prevedibile, questo provvedimento incontra resistenze burocratiche e politiche che ne limitano l’efficacia e la messa in atto, ma che per fortuna sortiscono anche un effetto opposto: stimolano involontariamente una forte domanda di sapere da parte dei giovani, che comporta un lento e difficile riaffiorare del paradigma antifascista dalla zona di oblio in cui era stato esiliato45. Anche in Rai, appendice mediatica della Dc, bisognerà aspettare il dissolvimento della memoria tambroniana per vedere le prime trasmissioni sulla Resistenza.46 43 Cfr ZINNI, pp. 43-45 44 Cfr ZINNI, pp. 71-73 e CRAINZ, pp.472-475 45 Cfr CRAINZ, 1996, p.177

46 Anzi, tra il 1961 e il 1965, come nota Crainz, si attua il passaggio dalla rimozione ad un’”ufficializzazione” della

Resistenza, che ne banalizza contenuti e ragioni, contraddizioni e lacerazioni. Si passa cioè, fin troppo

propagandisticamente, dall’oblio alla costruzione di una “memoria pubblica” astrattamente apologetica” e retorica, che ancora una volta non restituisce il vero significato di quell’esperienza. CRAINZ, 1996, pp.178-179.

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La politica culturale del governo democristiano, come abbiamo visto, agendo subdolamente sulla mentalità collettiva attraverso l’arma della reticenza e dell’oblio, rende l’idea dell’orientamento manicheo da una parte, strisciante dall’altra, assunto dallo Stato italiano negli anni del boom economico, ma sono due gli episodi che, tra tanti ma più di tutti, ne rivelano il carattere repressivo, autoritario e neofascista in senso lato.

Per il primo di essi47 torniamo al già citato Fernando Tambroni, che nel 1960 vara un governo monocolore democristiano, ma con l’appoggio fondamentale del Msi. Il pericolo della congiura comunista e della debolezza dello stato di fronte ad esso continua ad essere alimentato ad arte, coniugandosi ad una ricerca demagogica dei favori popolari attraverso misure ad hoc, come il ribasso dei prezzi di alcuni beni di prima necessità. E’ però la decisione del Msi di convocare il Sesto Congresso nazionale a Genova, città decorata con la medaglia d’oro della Resistenza e da cui era partita l’insurrezione del 25 aprile, decisione non in contrasto con la linea di Tambroni (da tempo alla ricerca di una prova di forza) a scatenare un vero e proprio rigurgito antifascista. La reazione della sinistra e delle associazioni non si fa attendere, l’ampiezza della protesta popolare è enorme, e in essa si intrecciano motivi diversi, dalla difesa dell’antifascismo alla rivendicazione operaia. Punto nevralgico è ovviamente la città di Genova, da cui si snodano immediatamente manifestazioni e scioperi; famoso e toccante è il comizio tenuto in quei giorni da Sandro Pertini:

Partigiani, Patrioti, uomini liberi della grande Genova! Le autorità di Roma e quelle di Genova vanno indagando per individuare chi sono gli organizzatori di questa spontanea manifestazione. Orbene, vi diciamo noi chi sono gli organizzatori. Eccoli qui! Sono i fucilati della Benedicta! Sono i martoriati della Casa dello Studente, che risuona ancora delle grida toccanti delle vittime e delle grida avide dei torturatori; sono i presenti lavoratori di questa manifestazione. […]48

Il Msi è costretto a rinunciare al congresso, ma gli scontri –e la linea dello scontro frontale appare dai documenti una deliberata scelta di Tambroni- si allargano ormai a tutto il Paese, intrecciandosi ad altri momenti di tensione e innestandosi alla ripresa delle lotte operaie. È il famoso luglio 1960, reazione popolare contro il fatto contingente (la convocazione del congresso), ma anche momento di sfogo contro l’autoritarismo e la repressione di uno Stato che –con il compiacimento di Vaticano e Stati Uniti- nell’intero decennio precedente ha creato spazi di “non diritto” in cui

47 Per i “fatti di luglio” del 1960 cfr LEPRE, op. cit., pp. 188-193 e CRAINZ, 1996, pp.163173 48 Cit. in CRAINZ 1996, pag. 168

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relegare gli oppositori, e che ora tenta di far rientrare i nostalgici del fascismo dalla porta di servizio.

Dopo Genova, la lotta si estende fino in Sicilia (è Licata, in provincia di Agrigento a registrare il primo morto, un operaio); a Roma, a Porta San Paolo, luogo-simbolo della resistenza romana, reparti di carabinieri a cavallo caricano la folla; a Reggio Emilia la polizia spara su un’affollatissima manifestazione antifascista uccidendo cinque persone. L’8 luglio la Cgil proclama lo sciopero generale in tutta Italia: la partecipazione è vastissima, ma le cariche della polizia provocano altre vittime. Sebbene Tambroni sostenga pubblicamente che gli “incidenti”sono frutto di un piano prestabilito all’interno del Cremlino” (ma forse confonde l’est con l’ovest), il 19 luglio dello stesso anno, incalzato da una parte della stessa Dc, è costretto a rassegnare le dimissioni. Il suo governo si conclude dopo poco più di quattro mesi, con un bilancio di diversi morti, innumerevoli feriti e con un conseguente inasprimento del clima nazionale.

L’altro episodio-chiave49

mostra quanto sia pericoloso, negli anni Sessanta, tentare di uscire dall’assetto tradizionale e conservatore in cui l’Italia è ormai congelata. Quattro anni più tardi, dietro l’apparente calma di un’apertura della Dc al centro-sinistra che vede il Psi nell’area del governo guidato da Aldo Moro, si agitano forze reazionarie e golpiste pronte ad una prova di forza. Il più scoperto protagonista è il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, che vanta nel suo curriculum un lungo periodo di direzione del Sifar, da cui ha tratto rapporti stretti con i servizi segreti americani. Nei primi mesi del 1964 egli mette a punto un piano che avrebbe permesso ai carabinieri (e solo a loro, da qui il nome del progetto, “piano Solo”) di assumere il controllo dell’ordine pubblico con l’occupazione delle prefetture, della Rai, di istituti civili e militari, di sedi dei partiti, e con l’arresto e il trasferimento in Sardegna di un certo numero di oppositori.

Il piano Solo non entra in azione, viene scoperto e indagato solo alcuni anni dopo; tuttavia riesce nel suo scopo primario: intimidire- e quindi boicottare- l’azione riformatrice del Centro-Sinistra, minaccia per l’assetto profondamente conservatore dell’Italia, un assetto in gran parte mutuato dal fascismo. Con la rinuncia da parte del Psi di alcune proposte ritenute primarie, nonché con la rinuncia in toto ad un tentativo di cambiamento dell’Italia, la crisi rientra e nessun carabiniere si muove. Presentato come

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piano anti insurrezionale (viene cioè riciclata l’ormai logora storia della democrazia in pericolo), è esso stesso fortemente sovversivo.

La commissione parlamentare istituita alcuni anni dopo rovescia ogni responsabilità sul solo De Lorenzo, anche se indubbiamente egli aveva potuto contare sul sostegno o almeno sull’acquiescenza di settori significativi delle forze armate ed aveva avuto referenti nel mondo politico, in primis il Presidente della Repubblica Segni, che lo aveva convocato- fatto anomalo- nello stesso 1964. Il governo oppone insistentemente il segreto di stato alle richieste di informazioni da parte delle numerose inchieste, e la commissione d’inchiesta non riesce a trovare un solo indizio per cui si possa parlare di un tentativo di golpe. Probabilmente le prove si celano dietro quegli

omissis apportati dal solerte uomo di Stato Francesco Cossiga, allora sottosegretario alla

Difesa. E sebbene il “Piano Solo” vada ad inaugurare la fitta serie di segreti che il Presidente emerito della Repubblica si è portato gelosamente nella tomba, per quel poco che ci è dato sapere esso rimane una delle maggiori distorsioni- per fortuna senza attuazione- della democrazia in questa Italia miracolata.

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