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La jeune fille au pair

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione...…... 2

1. Biografia di Joseph Joffo... 5

2. La jeune fille au pair... 7

3. Il problema di raccontare la Shoah... 15

4. La jeune fille au pair: un'opera della memoria... 19

4.1 Un'opera della memoria dell'autore... 19

4.2 Un'opera della memoria storica e collettiva... 26

4.2.1 La retata del Vélodrome d'Hiver... 26

4.2.2 Il campo di concentramento di Drancy... 29

4.2.3 Il processo di Norimberga... 31

5. Commento alla traduzione... 35

5.1 Criteri di trascrizione... 37

5.2 Criteri di traduzione... 39

5.2.1 Avvertenza e capitolo primo... 39

5.2.2 Capitolo secondo... 44

5.2.3 Capitolo terzo... 49

5.2.4 Capitolo quarto... 52

5.2.5 Capitolo quinto... 57

5.2.6 Capitolo sesto... 61

5.2.7 Capitolo settimo... 64

5.2.8 Capitolo ottavo... 66

5.2.9 Capitolo nono... 68

5.2.10 Capitolo decimo... 72

5.2.11 Capitolo undicesimo ed epilogo... 73

6. Traduzione del romanzo La ragazza alla pari (La jeune fille au pair) con testo a fronte... 77

Conclusione... 233

Bibliografia e sitografia... 236

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Introduzione

La volontà di conoscere il destino degli ebrei nel periodo della dominazione nazista è emersa solo negli ultimi anni, quando i testimoni hanno raggiunto un'età matura e hanno iniziato a manifestare il desiderio di raccontare le loro storie. Prima di allora non c'era un vero interesse, non esisteva un giorno della memoria1 e la Shoah era vista più come un crimine di guerra; non veniva considerato lo studio a tavolino che aveva preceduto la costruzione dei lager e soprattutto la natura razziale del crimine.

Inoltre era sottovalutata l'importanza dei testimoni diretti, gli unici ad aver vissuto la persecuzione e ad aver visto con i propri occhi gli orrori del nazismo.

Col tempo però si sono moltiplicate le testimonianze, i documentari e gli scritti sulla Shoah e si è iniziato a capirne l'importanza storica, a vedere la specificità del crimine. Pian piano è iniziato a circolare il prezioso messaggio dei superstiti, ovvero il monito a non dimenticare, perché tali barbarie possono ripresentarsi, ogni volta che ci sarà qualcuno che pretenderà di addossare tutte le colpe di una nazione ai capri espiatori di turno, in genere obiettivi deboli e quindi facilmente attaccabili.

La missione dei testimoni tuttavia non è ancora terminata, poiché in un periodo in cui tutto viene messo in discussione, in cui si grida al complotto e alla cospirazione sono ancora tanti coloro che negano la veridicità di tali testimonianze. I numerosi racconti, le foto e i filmati non hanno fermato del tutto il negazionismo e nemmeno le minimizzazioni, spesso infatti c'è la tendenza a credere che le cifre riportate dei morti nei campi di sterminio siano un'esagerazione e che la somma totale delle vittime sia stata in realtà molto inferiore, come se qualche migliaio in meno rendesse il crimine meno condannabile. Negazionismo significa anche attribuire ogni responsabilità solo alla Germania, non riconoscendo l'enorme contributo che alcuni paesi come la Francia o l'Italia hanno apportato nella persecuzione degli ebrei, prima con provvedimenti per

“preservare la razza” e in seguito con il loro sostegno nelle operazioni di deportazione.

1 Il giorno della memoria è stato istituito a livello internazionale nel novembre del 2005 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre in Italia viene commemorato dal 20 luglio del 2000 grazie all'emanazione della legge n. 211. Tale ricorrenza viene celebrata ogni anno il 27 gennaio, ricordando la data in cui le truppe dell'Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz nel 1945.

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Raramente è stato riconosciuto il collaborazionismo da parte di nazioni che sentono di avere la coscienza a posto poiché hanno sempre addossato ogni colpa al paese vinto, fingendo di non aver mai preso parte alla persecuzione o di non aver mai sentito parlare dello sterminio degli ebrei nei lager.

È evidente che la storia non sempre diventa maestra di vita, visto che non riesce a cambiare alcune idee radicate nemmeno dopo avvenimenti sconvolgenti, spesso infatti, alla luce di tali eventi, si sente dire che gli ebrei si sono in qualche modo meritati un simile destino, spesso le ideologie che hanno portato alle leggi razziali vengono rivalutate e osannate, spesso le minoranze etniche o religiose suscitano, ancora oggi, paura, diffidenza o addirittura ostilità. Il contributo dei testimoni diretti, il cui numero diminuisce sempre di più col passare degli anni, è quindi più che mai fondamentale, occorre ascoltare la loro parola e, quando tutti saranno scomparsi, raccogliere il messaggio diventando noi tutti testimoni virtuali della Shoah.

Per questo ho deciso di affrontare l'argomento prendendo in esame un'opera di Joseph Joffo, autore ebreo francese e testimone diretto della Shoah ancora in vita.

Conosciuto principalmente per il romanzo Un sac de billes2 e altre opere di tipo autobiografico, Joffo ha vissuto la persecuzione nella Francia occupata dai nazisti riuscendo a scampare miracolosamente alla deportazione, ma perdendo il padre, che venne arrestato e assassinato ad Auschwitz. L'opera alla quale ho dedicato il mio elaborato, La jeune fille au pair3, non è un romanzo autobiografico, tuttavia è da considerarsi una delle numerose opere consacrate alla memoria di questo crimine contro l'umanità, soprattutto per il messaggio in essa contenuto.

Nella prima parte dell'elaborato verrà approfondita la biografia dell'autore, fondamentale per poter inquadrare la sua produzione letteraria e per comprendere la sua vocazione nel testimoniare quanto vissuto in prima persona, in seguito sarà oggetto di analisi la trama dell'opera, con particolare attenzione per la protagonista Wanda, giovane donna che dopo la guerra decide di partire dalla Svizzera alla volta di Parigi. La ragazza si presenta dai Finkelstein, famiglia ebrea miracolosamente sopravvissuta allo sterminio, e inizia a lavorare per loro come ragazza alla pari, occupandosi dei piccoli 2 J. Joffo, Un sac de billes, Paris, Jean-Claude Lattès, 1973.

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David e Benjamin. In casa Finkelstein, nonostante tutti cerchino di tornare alla normalità, si percepisce ancora la tensione e il peso di un passato che continua a opprimere, ciò turba la già delicata psiche della ragazza, che sembra anch'essa tormentata da un passato difficile. Spetterà all'amato Richard e soprattutto ai Finkelstein curare le ferite della sua anima, scoprendo il vero significato del concetto di fratellanza e convivenza. È proprio questo il messaggio trasmesso dalla Jeune fille au pair ed è ciò che la rende un'opera di riconciliazione, oltre che un'opera della memoria.

In un secondo momento verrà preso in esame il difficile percorso interiore dei superstiti della Shoah e il lungo silenzio che ha preceduto la decisione di testimoniare.

Emergeranno le problematiche che comporta la testimonianza di avvenimenti tanto inconcepibili e la conseguente forzata rimozione, vinta solo dalla responsabilità che sente di avere nei confronti delle nuove generazioni chi, come Joffo, è riuscito a sopravvivere. Pur essendo una storia di invenzione, per Joffo La jeune fille au pair è ugualmente un'opera della memoria, sia personale, sia storica, nata dalla sua volontà di trasmettere un insegnamento ai posteri. A sostegno di questa tesi, nei capitoli successivi verranno prima illustrate le analogie con la vicenda personale di Joffo, poi i riferimenti storici all'interno del romanzo che si intrecciano con le vicissitudini dei personaggi, permettendo all'autore di presentare fatti storici spesso dimenticati e richiamare l'attenzione del lettore sul ricordo di avvenimenti talvolta disonorevoli per la nazione francese.

L'ultima parte dell'elaborato sarà dedicata alla traduzione del romanzo e al commento della stessa, in cui saranno presentate le principali difficoltà riscontrate nel riportare il testo dal francese alla lingua italiana. Sarà analizzata la traduzione capitolo per capitolo, illustrando le strategie traduttive adottate, i cambiamenti che ho dovuto apportare e le parti in cui mi sono discostata di più dal significato letterale. Come emergerà dall'analisi, le difficoltà risulteranno essere non solo linguistiche e sintattiche, ma soprattutto culturali, in quanto si tratta di un romanzo in cui convergono più nazioni, più tradizioni e più culture; quest'ultime in particolare devono essere approfondite per comprendere il testo fino in fondo, prima di poter passare alla traduzione.

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1. Biografia di Joseph Joffo

Joseph Joffo nacque nel 1931 a Parigi da una famiglia di ebrei russi rifugiati in Francia. Crebbe nel XVIII arrondissement, dove suo padre gestiva assieme ai fratelli maggiori di Joseph un salone di parrucchieri.

Con l'avvento della guerra e l'occupazione di Parigi da parte dei nazisti arrivarono i primi provvedimenti contro gli ebrei, come l'obbligo di indossare la stella di David o l'affissione di cartelli indicanti i negozi ebraici. Di conseguenza il signor Joffo decise di disperdere la famiglia per sfuggire alle persecuzioni, proprio come aveva fatto suo padre molti anni prima in Russia, raccomandò quindi al piccolo Joseph e a suo fratello Maurice di rifugiarsi nella zona libera a sud della Francia. Ne seguirono lunghe peripezie per sfuggire alla Gestapo, l'arresto a Nizza e numerosi salvataggi in extremis raccontati nella sua opera più famosa: Un sac de billes.

Quando la Francia venne liberata Joffo ritrovò tutti i membri della famiglia, eccetto il padre, che fu arrestato e non fece mai ritorno dal campo di sterminio di Auschwitz. Nel 1945 ottenne il certificat d'études e successivamente si dedicò all'attività di parrucchiere nel negozio di famiglia.

Dopo un lungo silenzio durato quasi trent'anni, Joffo scoprì la sua vocazione letteraria in seguito a un incidente sugli sci, che lo immobilizzò a letto permettendogli di redigere i suoi drammatici ricordi di infanzia sotto forma di un romanzo (Un sac de billes), pubblicato nel 1973. Questa prima opera divenne un best-seller, spesso inserito nei programmi scolastici francesi e tradotto in diciotto lingue, ricevette il Prix Broquette-Gonin de l'Académie française e ispirò ben due film: il primo realizzato nel 1975 (regia di Jacques Doillon) e il più recente uscito il 18 gennaio 2017, diretto da Christian Duguay. Seguirono altre opere: Anna et son orchestre4, che racconta il viaggio della madre dalla Russia alla Francia per sfuggire ai pogrom e che ricevette il Prix RTL Grand Public, il romanzo Baby-foot5, seguito di Un sac de billes, che narra la vita quotidiana dell'autore nella Parigi del dopoguerra, La vieille dame de Djerba6, La jeune 4 J. Joffo, Anna et son orchestre, Paris, Jean-Claude Lattès, 1975.

5 J. Joffo, Baby-foot, Paris, Jean-Claude Lattès, 1977.

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fille au pair, Agates et calots7, romanzo autobiografico sulla vita prima della guerra e alcuni racconti per bambini, come Le Fruit aux milles Saveurs8.

La maggior parte di queste opere sono autobiografiche e mirano a documentare la persecuzione subita dal popolo ebraico. Joseph Joffo è un testimone instancabile della Shoah e incontra spesso i giovani, ai quali dedica messaggi di pace e tolleranza. Il suo impegno nell'educare le nuove generazioni continua tutt'oggi; durante un incontro organizzato il 7 febbraio 2017 dall'associazione Alliance Sorbonne, della quale è diventato poi padrino, ha infatti dichiarato:

Si parmi vous il y a quelque professeur de français, d'histoire, je tiens à les remercier particulièrement, parce que... on vous confie nos enfants, vous avez une énorme responsabilité selon ce que vous offrez. Je dois dire que les nazis l'avaient tellement bien compris qu'ils ont créé la Jeunesse hitlérienne, ça n'était pas le fait du hasard, car dans la tête d'un jeune on peut mettre le pire ou on peut mettre le meilleur, donc le travail de mémoire n'est pas suffisant, il y a un travail d'éducation qu'il faut faire.9

7 J. Joffo, Agates et calots, Paris, Ramsay, 1997.

8 J. Joffo, Le Fruit aux milles Saveurs, Paris, Garnier frères, 1980.

9 Incontro con Joseph Joffo organizzato dall'associazione Alliance Sorbonne, 7/02/2017,“Un Sac de Billesplus qu'un film: le témoignage de Joseph JOFFO:

<https://www.youtube.com/watch?v=wz-zBRP30mw> (05/07/2017).

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2. La jeune fille au pair

La jeune fille au pair è uno dei pochi romanzi non autobiografici di Joseph Joffo, anche se, come sarà evidenziato in seguito, vi troviamo alcuni elementi comuni con la vicenda personale dell'autore che ne riflettono il tragico vissuto e la volontà di continuare, stavolta con un racconto di finzione, la sua opera di testimonianza.

Pubblicato nel 1993 dall'editore Jean-Claude Lattès e ispirato a un fatto riferito, come afferma lo stesso autore nell'avvertenza: «À son origine se rencontre une confidence faite à demi-mot un soir, au cours d'un dîner, par l'une de mes amies.

“Voyez-vous, il fallait bien du courage en 1953 pour employer une jeune Allemande.

Alors que nous sortions d'un camp, mon mari et moi!”»10, il romanzo si ripropone di cambiare punto di vista, adottando non quello di una vittima della persecuzione nazista, ma lo sguardo di una giovane tedesca, educata sin dall'infanzia all'odio verso il popolo ebraico: «Et j'ai rêvé, trois ans durant, au destin de cette femme, son installation et sa vie dans cette famille, l'apprentissage qu'elle y fit de l'amour et la découverte de ce peuple que les siens avaient considéré comme moins qu'humain»11. La narrazione è infatti condotta seguendo il percorso della protagonista Wanda Schomberg, da principio presentata come una giovane svizzera rimasta orfana e approdata a Parigi in cerca di fortuna.

Trascurata dagli zii che inizialmente l'avevano accolta a Zurigo, dopo la guerra Wanda decide di costruirsi una nuova vita in Francia. Appena arrivata alla stazione cerca subito un lavoro tra le colonnine degli annunci e un nome in particolare attira la sua attenzione: Finkelstein. Nonostante le obiezioni di Richard, giovane medico appena conosciuto al punto di ristoro della stazione, Wanda si presenta a casa Finkelstein come ragazza alla pari per i due piccoli David e Benjamin; quello che trova è una famiglia cordiale e accogliente, tuttavia ancora segnata dal dramma vissuto durante la guerra: il padre, Samuel Finkelstein, è un ebreo superstite di Auschwitz, mentre la moglie e i figli sono miracolosamente sfuggiti alla deportazione. Wanda capisce subito che non si tratta di una famiglia come tante altre:

10 JFP, p. 7.

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David et Benjamin ne sont pas seulement des gamins turbulents. Ils sont spéciaux. […] On ne peut vraiment pas dire que la petite enfance de David et Benjamin a été normale! […] Vous qui venez de la paix et de la prospérité, eux qui ne connaissent pas de repas de famille sans que l'on parle des morts et des camps, saurez-vous vous entendre?12

La ferita dei Finkelstein è ancora aperta e dentro di sé Wanda sente che un tragico destino li accomuna.

La nuova ragazza alla pari deve fin da subito far fronte alla diffidenza di David e Benjamin. I due piccoli Finkelstein hanno subito un trauma che li rende sospettosi nei riguardi di chiunque possa anche solo ricordare loro i nazisti e credono che nessun male, nemmeno la morte dei genitori di Wanda a causa di un incidente stradale, possa essere paragonabile a quanto vissuto dal loro popolo: «Un accident de voiture, ce n'est quand même pas la même chose qu'Auschwitz, fit Benjamin avec entêtement. Ça n'a rien de spécialement juif. Ça arrive à tout le monde!»13. Hanno perso la fiducia nell'umanità, tanto da frequentare solo altri ebrei, le uniche persone che possono capirli: «Vous ne voulez pas jouer avec les petits garçons pas non-juifs? - De temps en temps, d'accord.

Mais on préfère rester entre nous. Les autres, c'est pas pareil. Ils peuvent pas comprendre»14.

Così Wanda Schomberg inizia una nuova vita in una famiglia ebrea, ma fin da subito le tornano alla mente i ricordi del passato, ricordi vaghi di una casa confortevole, di una famiglia unita, di una tata affettuosa e di una vita agiata. Nonostante i suoi flashback la tengano ancorata al passato, Wanda entra pian piano nel mondo delle tradizioni ebraiche, partecipa alle feste religiose, condivide con i Finkelstein i pasti cucinati dalla madre Hélène, che ripropone le ricette tradizionali della Polonia, il loro paese di origine, e conosce il Razen, anch'egli sopravvissuto ad Auschwitz. Uomo di fede e ottimista, il Razen, con i suoi saggi racconti, diventa ben presto un punto di riferimento per Wanda.

Parallelamente alla vicenda di Wanda, l'autore presenta tramite cambi di scena improvvisi un uomo misterioso, detenuto in una prigione lontana e isolata, tormentato dall'ingiustizia della propria sorte e preoccupato per il destino di sua figlia.

12 Ivi, pp. 25-26.

13 Ivi, p. 32.

14 Ivi, p. 31.

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Nel corso del romanzo notiamo che la serenità della protagonista è solo apparente: qualcosa la tormenta e basta un'uscita con Richard per provocare un'inspiegabile crisi di panico. Ciò avviene in seguito a una passeggiata nel vecchio quartiere ebraico assieme al giovane medico, il quale constata la sua crescente angoscia senza riuscire a capirne la ragione.

Dopo questo episodio Wanda sparisce, destando perplessità e preoccupazione e ricomparendo dopo qualche giorno senza dare spiegazioni. Richard e Hélène iniziano a pensare che la ragazza alla pari possa essere un'ebrea scampata alla deportazione e che la vista del quartiere ebraico abbia risvegliato vecchi traumi. Così Samuel prova a strapparle una confessione, ma la ragazza, seppur visibilmente scossa e portatrice di un enorme segreto, nega questa ipotesi.

La vita dai Finkelstein prosegue, con le loro feste religiose e le loro frequentazioni esclusivamente ebraiche, come i Rosenfeld, altra famiglia che ha subito la persecuzione nazista e che ne porta visibilmente i segni: «De l'autre côté de la table, elle pouvait entendre la voix de Paula et, sous l'étoffe transparente de son chemisier blanc, la fille au pair pouvait discerner le reflet d'un chiffre tatoué»15. Con loro i discorsi a tavola vertono sempre sulle stragi, sui campi di sterminio e sui familiari persi, per questo la ragazza alla pari si sente sopraffare dall'agitazione durante le cene con i Rosenfeld, dopo le quali sparisce sistematicamente.

La condizione di Wanda spinge Richard a consultare un amico psichiatra affinché la ragazza, che ormai è diventata più di un'amica, intraprenda un percorso curativo. I suoi ricordi infatti stanno prendendo il sopravvento: appaiono flashback della Berlino che si prepara alla sconfitta, di compagni di scuola spinti al suicidio per la fine di un apparato che aveva fatto loro il lavaggio del cervello e della madre morta sotto i bombardamenti. Non solo, ma il passato si ripresenta con la visita di Herbert, ex dignitario nazista e collaboratore di suo padre, il terribile Hans Schomberg, da anni detenuto nella prigione di Spandau. Si scopre quindi che Wanda è in realtà la figlia di un crudele nazista condannato all'ergastolo e che i suoi malori sono provocati dal senso di colpa e dal peso di questa terribile consapevolezza. Herbert ha corso il rischio di presentarsi a Parigi per consegnare a Wanda il bottino accumulato da Schomberg

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durante la guerra, quando aveva preso parte allo sterminio degli ebrei e alla depredazione di tutti i loro beni. Questo tesoro maledetto le provoca ulteriore tormento e le ricorda il dolore che aveva provato nel vedere il padre al processo di Norimberga:

Dans la salle, il y avait une adolescente [...] qui écoutait, affolée, témoin après témoin, parler de l'horreur. Treblinka, Majdanek, Sobibor, Auschwitz, Dachau... Elle ne se bouchait pas les oreilles. Elle écoutait de toute son âme sans quitter des yeux les hommes, là-bas, impassibles dans leur box, sûrs de leur bon droit.16

Figlia di un mostro, Wanda non riesce a darsi pace per il male da lui commesso, così come per la sorte della madre e del fratello, mandato a morire sul fronte russo.

Il percorso con il dottor Appelbaum la aiuta a tirare fuori i demoni del suo passato e a lui riesce a confessare tutto: la vera storia della sua famiglia, il processo di Norimberga, le fughe misteriose per andare a trovare il padre in prigione e l'accoglienza in Svizzera da parte della famiglia del banchiere di suo padre, che aveva poi finito per derubarla del suo denaro. Da lì il desiderio di trasferirsi altrove per ricominciare una nuova vita presso una famiglia ebrea, per conoscere veramente coloro che avrebbe dovuto, secondo la sua educazione, odiare e considerare esseri inferiori.

Dopo la confessione col dottor Appelbaum, Wanda riesce ad aprirsi anche con Richard, suo futuro sposo, e in seguito anche con i Finkelstein che, seppur inizialmente scioccati, la sostengono e decidono insieme a lei di utilizzare il bottino maledetto per creare una fondazione dedicata agli orfani ebrei.

Superati questi ostacoli, non le resta che affrontare il più difficile: parlare con Hans Schomberg. Si reca a Spandau e apre finalmente il suo cuore, gli racconta della fondazione e dell'affetto che la lega ai Finkelstein. La prima reazione di Schomberg non può che essere furiosa: «Que veux-tu que je te dise exactement? Que je suis enchanté de ton entreprise? Qu'Hans Schomberg est content que sa fortune aille à des sous- hommes?»17, ma pian piano prevalgono lo sconforto e la rassegnazione e l'ex dignitario nazista sembra iniziare ad accettare ciò che la figlia ha raccontato: «Le monde bouge, change, se transforme, murmura-t-il pensivement. Les alliances se renversent. Oui,

16 Ivi, p. 143.

17 Ivi, p. 216.

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Wanda, il m'arrive parfois de douter […] Les hommes s'imaginent maîtres de leur destin. Ils ne sont que les esclaves de leur temps. J'ai été l'objet du mien»18. Per la prima volta le convinzioni di quell'uomo così fiero e sicuro di sé sembrano vacillare e per sua figlia inizia a farsi largo la speranza di vedere un suo pentimento.

Tuttavia, qualche giorno dopo la visita a Spandau, il notiziario alla radio annuncia che il prigioniero Hans Schomberg si è impiccato nella sua cella. Crollano tutte le illusioni di Wanda, che si sente in qualche modo responsabile, finché tra gli oggetti personali del padre non trova un biglietto: «“Wanda, le monde change, les hommes aussi...” En dessous, inespéré, en caractères d'imprimerie, il avait encore tracé:

“Pardon”»19, prova tangibile del suo rimorso in punto di morte: «Pardon. Pardon à Wanda, aux hommes, aux juifs, au monde. Et sur ce dernier mot, Hans Schomberg s'était pendu»20.

La scena finale del romanzo è ambientata in Israele e si vede Wanda in mezzo alla folla durante un momento di raccoglimento per le vittime della Shoah. La ragazza si è trasferita in questa terra che considera miracolosa, per dedicare la sua vita al ricordo e per espiare tutto il male commesso dal suo popolo, ma soprattutto da suo padre: «elle avait tant à se faire pardonner et à pardonner, toutes les actions de son peuple et celles de son père»21.

Il romanzo ruota attorno alla figura di Wanda e alla sua misteriosa storia, a poco a poco svelata tramite flashback e allusioni della protagonista stessa. Nonostante la ragazza si presenti sotto falsa identità, le sue vere origini non possono essere taciute a lungo, poiché sintomi psicosomatici rivelano un disagio interiore non risolto. Il peso della sua eredità la schiaccia, così come i suoi terribili ricordi.

È interessante come Joseph Joffo, vittima della Shoah, decida di mettersi nei panni di una giovane tedesca, di raccontare la difficoltà di convivere con un nome maledetto e soprattutto di presentare anche i figli dei carnefici come vittime. Non sminuisce infatti il dramma di Wanda, la cui vicenda familiare è un susseguirsi di

18 Ivi, p. 217.

19 Ivi, p. 235.

20 Ibidem.

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sventure pur nascendo in una famiglia apparentemente perfetta e molto ricca, come si legge alla fine del primo capitolo, quando i suoi ricordi evocano le sfarzose cene a casa Schomberg e la lunga preparazione della madre davanti allo specchio per scegliere i gioielli adatti. La protagonista vive dunque la sua infanzia in un contesto protetto, ma solo all'apparenza privilegiato.

Di fatto i flashback suggeriscono che l'armonia familiare si sgretola quando il padre aderisce sempre di più all'ideologia nazista e inizia a porre dei divieti in casa:

«Tout avait commencé à aller mal le jour où Papa avait cassé le disque de Rhapsody in Blue, de Gershwin. Après cela, Maman n'avait plus jamais été aussi joyeuse»22. Gershwin, pur essendo un compositore tanto amato dalla moglie, è un ebreo e la sua musica non può entrare nella casa di un nazista, il quale non tollera niente che non sia prettamente germanico: «elle restait seule avec sa mère et son frère, devant la cheminée, pour écouter de sombres symphoníes de Beethoven. Papa autorisait bien Mozart ou de légères valses de Strauss mais visiblement, Maman n'y avait guère le cœur et son grand frère non plus»23. La madre invece è presentata quasi come una martire, anch'essa vittima di un'ideologia mai sostenuta che la porta a scontrarsi col marito: «Dans la maison de pierre meulière, résonnaient des voix en colère. Ses parents se disputaient. Le soir, son père s'enfermait dans son bureau en prétextant d'urgents travaux à terminer»24. I divieti del padre in nome di quelle folli teorie colpiscono anche la tata, persona alla quale la piccola Wanda è molto legata:

Mais Mademoiselle n'était plus là pour coucher Wanda après le départ de ses parents. Elle avait été remplacée par une solide paysanne [...] qui la soulevait comme une plume pour la jeter dans son lit malgré ses protestations, ne parlait qu'allemand et ne connaissait aucune des jolies histoires que Mademoiselle avait coutume de raconter.25

Qui l'autore probabilmente suggerisce che la tata, essendo ebrea, sia stata cacciata per assumere al suo posto una vera rappresentante della razza ariana, dai modi tuttavia brutali.

22 Ivi, p. 86.

23 Ibidem.

24 Ibidem.

25 Ibidem.

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Il mondo della piccola Wanda diventa popolato di spaventosi individui in uniforme che le fanno visita a casa e di bombardamenti che durante la guerra distruggono Berlino e uccidono sua madre. Anche suo fratello Dieter viene portato via dalla guerra voluta da Hitler, è infatti mandato sul fronte russo, dal quale non tornerà più: «En revenait bientôt un cercueil enrobé, hommage à Herr Schomberg, du drapeau frappé d'une croix gammée qu'il avait tant haïe et d'une croix de fer que son père avait posée en bonne place dans son bureau»26.

Quando quel terribile apparato inizia a crollare con l'arrivo degli Alleati a Berlino, Wanda assiste al suicidio dei suoi compagni, altro trauma che porterà dentro per sempre, così come il processo di Norimberga, durante il quale scopre tutta la verità sul “lavoro” del padre. Ascolta testimone dopo testimone raccontare gli orrori di fronte agli ex carnefici e osserva il volto impassibile di suo padre, così fiero di aver fatto transitare i treni della morte.

Ottenuta la nazionalità svizzera si rifugia dallo “zio” Otto, in realtà banchiere del padre e suo collaboratore, che in seguito non esiterà a incoraggiarla a partire per la Francia, considerando la sua una presenza scomoda. Nasce quindi l'aspirazione a entrare a far parte di una famiglia ebrea, per conoscere personalmente quelli che suo padre aveva considerato pericolosi nemici. Con sua sorpresa, i Finkelstein diventano più di un datore di lavoro per la giovane, la loro calorosa accoglienza la fa sentire amata e protetta come una di famiglia e con loro cade ogni pregiudizio, a partire dall'immagine fisica degli ebrei che anni di propaganda le avevano trasmesso; Wanda infatti all'inizio si stupisce che i capelli di Samuel siano biondi e che Hélène abbia un naso piccolo:

«J'avais des idées toutes faites sur les juifs. J'avais vu des images... Par exemple, M.

Finkelstein est aussi blond que moi, sa femme a un nez tout menu, les enfants sont pareils à n'importe quels autres enfants»27.

Wanda entra pian piano nel mondo delle tradizioni ebraiche, impara i rituali e partecipa alle feste, ma più si sente parte integrante del loro mondo, più aumenta il senso di colpa per il male subito da quelle persone innocenti, alle quali lei stessa sta mentendo. Il suo dolore non può restare inespresso troppo a lungo e la verità viene a galla, ma in questo Wanda riesce a trovare il suo riscatto, restituendo tramite la

26 Ivi, p. 145.

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fondazione da lei creata i beni sottratti dai nazisti. È una redenzione quella di Wanda Schomberg, personaggio tormentato da un'eredità più grande di lei, che riesce però a superare grazie alla conoscenza e all'amore dei Finkelstein, i quali la guidano con pazienza in un mondo diverso, ma non così lontano.

Tramite il personaggio di Wanda, Joseph Joffo vuole trasmettere la convinzione che l'odio e la violenza derivino dall'ignoranza e dalla paura di ciò che non si conosce, ma anche la speranza che dal male possa nascere il bene. Come afferma Hélène Finkelstein: «Une Wanda peut succéder à un Hans Schomberg»28; secondo l'autore occorre dunque avere fiducia nelle generazioni a venire, che non ripeteranno gli errori dei propri padri, se sapranno riconoscere il male. Joffo nutre quindi speranza nella nuova Germania: «L'Allemagne redevenait la grande démocratie qu'elle n'aurait jamais dû cesser d'être. Ses habitants étaient dégoûtés des guerres pour des générations. Il y aurait une nouvelle Europe et elle ne serait pas celle dont avaient rêvé Hitler, ses affidés, y compris Hans Schomberg»29 e il suo è un messaggio di pace, in contrasto con l'insensatezza dell'odio cieco nei confronti dell'intero popolo tedesco, il quale, nella sua ottica, può redimersi e imparare dal passato.

Attraverso un personaggio di fantasia Joffo parla del dramma che hanno veramente vissuto alcuni parenti di ex capi nazisti, basti pensare ad esempio a Niklas Frank, figlio di Hans Frank, lo spietato governatore della Polonia impiccato in seguito al processo di Norimberga. Il figlio ha sempre condannato duramente i crimini del padre, anche attraverso pubblicazioni e interviste, nelle quali ha preso le distanze dal turpe legame di parentela e dalla sua stessa nazione. Ciò che sorprende è che sia un autore ebreo scampato alla deportazione a trattare un tale argomento, ma soprattutto che un autore ebreo riesca a mettere da parte la sua vicenda personale per ascoltare il dramma di chi era, suo malgrado, vicino ai carnefici, trattandoli come suoi pari, vittime anche loro di un'insensata e crudele ideologia.

28 Ivi, p. 213.

29 Ivi, pp. 220-221.

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3. Il problema di raccontare la Shoah

Per i testimoni della Shoah raccontare la persecuzione significa rivivere il dolore di una ferita ancora aperta e impossibile da rimarginare, è un dramma che hanno tentato di archiviare nella memoria e che, nonostante tutto, continua a ripresentarsi. Poiché non è possibile mettere a tacere il ricordo, l'unica liberazione sembra essere la parola, ossia raccontare quanto vissuto. Tuttavia, se per il testimone è difficile anche solo aprirsi con i propri cari, mettere per iscritto tragedie inenarrabili pare un'impresa che va al di là delle sue forze. La quasi impossibilità di fare letteratura sulla Shoah si basa su molteplici fattori, in primo luogo sulla natura stessa di tale crimine: il totale annientamento di un intero popolo.

Nel folle piano di Hitler di preservare la razza ariana vi era come primo obiettivo la scomparsa degli ebrei dalla faccia della terra, attuata tramite uno sterminio programmato e segreto, «Da ciò la cura, da parte nazista, che ogni testimonianza dello sterminio fosse cancellata»30. La presenza degli ebrei doveva essere non solo estirpata per generazioni, ma di questa presenza non doveva rimanere alcuna traccia, «per il nazista il mondo doveva non tanto dimenticare quanto “ignorare tout court” che l'ebreo fosse mai esistito»31. Questo comportava la cancellazione sia fisica, sia identitaria del popolo ebraico, poiché «l'ebreo doveva sparire per sempre, è chiaro che, con la sua sparizione, sarebbe sparita, da parte dell'ebreo, ogni memoria di sé»32.

Tutto ciò ha indubbiamente ostacolato ogni testimonianza, inoltre vi era la consapevolezza del fatto che in futuro tali atrocità sarebbero state negate e che le vittime difficilmente sarebbero state credute. «Non bastava annientare, era necessario anche negare che ci fosse stato annientamento, il crimine non sarebbe tale se non fosse seguito dalla sua negazione»33 e di fatto, come avevano previsto i carnefici, il negazionismo ha preso piede una volta scoperti e diffusi gli orrori del nazismo.

Il testimone sa di portare dentro di sé verità difficili da concepire per chi non le 30 A. Lecco, Il cantore muto. Sono stati gli ebrei liberi di raccontare se stessi?, Milano, Spirali

Vel Edizioni, 1989, p. 63.

31 Ivi, p. 64.

32 Ibidem.

33 B. Moroncini, La testimonianza fra memoria e storia. In che consiste la verità dello

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ha vissute e si pone il problema di come raccontare l'indicibile. Le parole sembrano vuote e insufficienti, come superare, quindi, l'ostacolo dell'ineffabilità del male? «la parole elle-même se voit invalidée, remise en question dans le procès qui est fait au langage et aux mots, à cause de leur faiblesse, de leur opacité ou de leur banalité»34. La difficoltà sta nella portata di ciò che viene raccontato, è un fatto senza eguali, una crudeltà inimmaginabile, tanto che «il testimone […] sa bene, anche quando non lo sa formulare in modo chiaro, che la verità di cui reca testimonianza è una verità singolare e unica, […] un evento che difficilmente sopporta paragoni, che solo con fatica può essere comparato ad altri eventi simili»35. Se dunque il fatto non ha paragoni, cresce nel testimone il timore di non essere creduto dai posteri.

Nel periodo della Shoah molte vittime avevano nutrito l'illusione di trovare, dopo la liberazione, qualcuno disposto ad ascoltare, a comprendere la loro esperienza, spinte dal desiderio di riacquisire quella legittimità di parola che i nazisti avevano loro tolto; chi aveva sperato tutto questo è rimasto sicuramente deluso36. Dopo il trauma della guerra nessuno era disposto ad ascoltare nuovi orrori, il passato doveva essere lasciato alle spalle per poter ricostruire un futuro. Tutti avevano sofferto, ma gli ebrei erano portatori di un ulteriore dramma e all'isolamento avvenuto prima della guerra ne è seguito un altro: quello del mancato ascolto e dell'indifferenza. I racconti di un testimone della Shoah erano minimizzati, se non addirittura poco creduti, «la sua stessa sopravvivenza che gli permette ora e qui di portare la sua testimonianza è la prova che mente: se fosse vera la tesi che il programma dei nazisti era la soluzione finale, ossia lo sterminio di tutta la nazione ebraica, egli non dovrebbe essere lì, dovrebbe essere morto»37.

Il testimone si è a lungo posto il problema della legittimità di riportare i propri ricordi in un'opera letteraria, chiedendosi se l'orrore possa essere raccontato attraverso la letteratura, la quale per definizione mira alla bellezza estetica. Inoltre, come afferma Nathalie Heinich, l'opera letteraria tende a instaurare una certa distanza dalla realtà, in 34 A. D. Rosenman, Entendre la voix du témoin, «Mots», 1998, (LVI), p. 5.

35 B. Moroncini, La testimonianza fra memoria e storia. In che consiste la verità dello sterminio?, cit., p. 387.

36 G. Hartman, M. Caminade, Témoignage, art et traumatisme de l'Holocauste, «Mots», 1998, (LVI), p. 52.

37 B. Moroncini, La testimonianza fra memoria e storia. In che consiste la verità dello sterminio?, cit., p. 385.

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quanto è sospesa la questione della veridicità di ciò che si legge, che per il pubblico non è né vero né falso, ma possibile; tale sospensione non è ammissibile quando si trattano avvenimenti di questa portata e può essere considerata un insulto alla sofferenza reale di chi testimonia38. A questo proposito Geoffrey Hartman e Monique Caminade citano la famosa formula di Adorno, secondo il quale fare poesia dopo Auschwitz è un segno di barbarie. All'arte si nega dunque ogni funzione, persino come processo di elaborazione del lutto, poiché così facendo si potrebbe far credere che un destino tanto inconcepibile possa avere avuto un senso39.

Di conseguenza i testimoni hanno scelto per anni il silenzio, chiudendosi in loro stessi nell'impossibilità di esternare il proprio dolore: «Supplice muet. Ils ont porté leur chagrin en silence, sur le mode du secret. Non le silence de l'oubli, mais celui d'une douleur indicible et toujours présente, enracinée jusqu'au plus profond de leur être»40.

Il silenzio tuttavia non aiuta a dimenticare, al contrario inasprisce un malessere che divora la vittima da dentro, tenendola ancorata al passato. Tanti sono i sentimenti che tormentano un superstite della Shoah: «fixation au passé, impossibilité de vivre le présent […], sentiment de culpabilité, poids d'une dette insupportable»41 e la sua è una lotta quotidiana con un passato impossibile da dimenticare, ma taciuto forzatamente.

Come sostiene Nathan Wachtel, per i testimoni che hanno perso i propri cari nei campi di sterminio si tratta di un rifiuto del lutto. Tale rifiuto si basa su varie motivazioni: non si tratta di una morte “naturale”, ma pianificata e studiata a tavolino e a questo si aggiunge l'assenza di prove di tali delitti, in quanto non ci sono mai stati né funerali, né tombe da visitare, ossia quei riti di passaggio che nella tradizione sono segnale di lutto42. I superstiti non riescono quindi ad accettare un destino tanto assurdo e non accettandolo viene meno il processo di elaborazione del lutto.

Anche per Joseph Joffo si sono verificati tali fenomeni, basti pensare al lungo silenzio, durato più di trent'anni, nel quale ha vissuto prima di cominciare a scrivere il suo celebre romanzo di testimonianza. A questo proposito colpisce il fatto che nell'opera 38 N. Heinich, Le témoignage, entre autobiographie et roman: la place de la fiction dans les

récits de déportation, «Mots», 1998, (LVI), pp. 34-35.

39 G. Hartman, M. Caminade, Témoignage, art et traumatisme de l'Holocauste, cit., p. 58.

40 N. Wachtel, Le temps du souvenir, «Annales», 1980, (I), p. 146.

41 Ivi, p. 147.

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Baby-foot, nella quale racconta la sua vita subito dopo la liberazione, vi siano pochissimi accenni a quanto avvenuto durante la guerra e soprattutto alla morte del padre. La sofferenza traspare nelle parole dell'autore, ma è relegata in rare e brevi allusioni:

Elle est jeune, ma mère: cinquante à peine. Pourtant, ses cheveux sont blancs. Cela date à la guerre. Avant, on le voit bien sur les photos, elle était très brune […] Elle a la bouche triste aussi, les coins descendent […] moi je sais que si papa était revenu elle serait brune comme avant... C'est l'attente qui lui a fait ça, la peur et le chagrin...43

È quasi come se si trattasse di un argomento scomodo, da dimenticare per ricominciare una vita normale.

Tuttavia la maggior parte dei superstiti finisce per rompere il silenzio e, com'è stato per Joseph Joffo, dopo tanti anni vengono alla luce le testimonianze. Questo accade perché, come afferma Anny Dayan Rosenman, il superstite considera il silenzio complice del processo di oblio e di annientamento perpetuato dai carnefici, mentre la parola è l'unico mezzo per arrestare il negazionismo. Testimoniare è quindi una forma di resistenza e di reazione al folle progetto nazista, una reazione che passa attraverso il linguaggio44. Ecco che per i superstiti il dramma passato diventa una missione di vita.

Finalmente hanno capito per cosa sono sopravvissuti: per testimoniare ciò che è stato, per impedire che vengano nuovamente commessi gli stessi crimini.

Come riporta Wachtel, gli autori figli dei caduti (anche Joseph Joffo) iniziano a scrivere quando raggiungono l'età che avevano i genitori durante la guerra e i figli l'età che avevano loro stessi all'epoca: si tratta di un doppio processo di identificazione, che spinge a trasmettere la propria testimonianza alle generazioni future45. Il racconto diventa quindi un mezzo per lenire, seppur in piccola parte, il trauma della persecuzione e per trovare, se così si può dire, un senso a una vicenda così tragica: «c'est maintenant seulement que peut commencer, pour eux, le processus de deuil, et que s'ouvre (peut- être) la voie de l'apaisement»46.

43 J. Joffo, Baby-foot, cit., p. 42.

44 A. D. Rosenman, Entendre la voix du témoin, cit., pp. 9-10.

45 N. Wachtel, Le temps du souvenir, cit., p. 148.

46 Ivi, p. 147.

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4. La jeune fille au pair: un'opera della memoria

Può un romanzo non autobiografico essere definito un'opera della memoria? È quanto si prefigge di realizzare Joseph Joffo con La jeune fille au pair, nella cui avvertenza afferma: «Ce livre n'est pas le fait d'un historien, tout juste est-il celui d'un homme qui se voudrait témoin de son temps»47, presentando dunque la sua storia di invenzione come il prodotto di un testimone dell'epoca. Vedremo infatti come vi siano numerose similitudini tra l'opera e la biografia dell'autore, dalla quale Joffo ha probabilmente tratto ispirazione per approfondire temi a lui cari. Per realizzare questo confronto sarà preso in esame Un sac de billes, romanzo autobiografico che tratta della persecuzione vissuta dalla famiglia Joffo durante la guerra. Ciò permetterà di sottolineare le analogie tra i ricordi dell'autore e i ricordi dei personaggi di un'opera che, pur essendo di fantasia, ha un importante valore memorialistico.

In seguito l'analisi proseguirà con l'osservazione dei riferimenti storici all'interno della Jeune fille au pair, i quali mirano a testimoniare l'orrore perpetuato dai nazisti (ma anche dai francesi, Joffo suggerisce con allusioni non tanto velate le responsabilità di questi ultimi), rendendo il romanzo un'opera della memoria non solo personale, ma anche storica e collettiva.

4.1 Un'opera della memoria dell'autore

Nella Jeune fille au pair i Finkelstein rappresentano la positività e l'amore di un nido familiare che, nonostante la sorte sia stata avversa, sa accogliere con generosità e senza pregiudizi chi ha bisogno di aiuto. Joffo ne dà un'immagine idealizzata, presentandoli dal punto di vista della protagonista Wanda che vede in loro un riparo e un appoggio, nonostante le sue incompatibili origini: «elle les aimait, oui, une famille juive l'avait, sans savoir rien sur elle, sans aucune méfiance, accueillie et choyée et elle devait leur taire ses origines»48.

47 JFP, p. 7.

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Dopo aver letto Un sac de billes è immediato il parallelismo tra la perfetta famiglia Finkelstein e la famiglia dell'autore, a partire dalla loro condizione di ebrei emigrati che hanno scelto la Francia come paese sicuro in cui vivere. Nel romanzo autobiografico viene riferito che i Joffo provengono dalla Russia, il padre infatti era fuggito dai rastrellamenti dello zar e la madre aveva lasciato il paese in seguito ai pogrom, persecuzioni che, tra l'altro, subirà anche nella nuova nazione, a distanza di qualche anno: «Il faut avoir tout cela en tête pour comprendre sa réaction, plus tard, dans ce même Paris occupé, où il devient de plus en plus évident que les juifs vont de nouveau subir la persécution»49. I due futuri sposi si conoscono a Parigi, dove iniziano una nuova vita, convinti che in un paese democratico come la Francia potranno vivere in pace:

Sur la maison la plus grande, il y avait une inscription: “Liberté – Égalité – Fraternité”. […] - Tu sais ce que ça veut dire, ces mots-là? J'ai su vite lire, à cinq ans je lui annonçais les trois mots. - C'est ça, Joseph, c'est ça. Et tant qu'ils sont écrits là-haut, ça veut dire qu'on est tranquilles ici.50

I Finkelstein invece sono originari della Polonia e si incontrano a Parigi in occasione di un ballo organizzato dalla comunità polacca. Anche loro inizialmente nutrono speranze nel paese di accoglienza: «Bien sûr, nous secourions de notre mieux ceux qui déjà affluaient d'Allemagne avec des récits d'horreurs. […] À ces prophètes de malheur, nous ne prêtions qu'une vague oreille»51, speranze che saranno presto disattese.

Entrambe grandi lavoratrici, le due famiglie hanno un'attività che portano avanti con sacrifici: i Joffo possiedono un salone di parrucchieri nel quale lavorano il padre e i due fratelli maggiori, mentre i Finkelstein hanno un negozio di abbigliamento molto particolare, dove regna una strana euforia che attira i clienti e la stessa Wanda.

Entrambe le attività vengono ostacolate dalle leggi razziali, in Un sac de billes l'autore racconta del cartello “Yiddish Geschäft” posto sul vetro del negozio e nel romanzo La jeune fille au pair vi è un breve accenno di Hélène al recupero della casa e del negozio nel dopoguerra, in seguito a un periodo di forzato abbandono.

49 J. Joffo, Un sac de billes, cit., p. 234.

50 Ivi, p. 19.

51 JFP, p. 88.

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In ambedue i romanzi le famiglie abitano e hanno le attività nel XVIII arrondissement, una zona di Parigi che l'autore descrive come un angolo in cui si ritrovano tutti i fuggitivi dell'est (russi, rumeni, cechi, persone vicine a Trockij, intellettuali, artigiani). Dalle parole di Richard nella Jeune fille au pair capiamo che il XVIII non è proprio considerato il più elegante arrondissement della città: «Fille au pair, dans le dix-huitième arrondissement... Les candidates ne doivent pas se bousculer au portillon chez M. Finkelstein»52, probabilmente in quanto è una zona in cui si riuniscono gli esuli e i reietti. Tuttavia l'autore ne dà un'immagine tutto sommato positiva in entrambi i romanzi, dovuta anche all'atmosfera armoniosa che si respira all'interno delle due famiglie.

Quest'armonia viene però rovinata dalla crescente minaccia dei nazisti, che costringe la famiglia Joffo a separarsi per evitare la cattura. Un sac de billes è incentrato sull'avventurosa fuga di Joseph e Maurice Joffo, coppia di fratelli che ricorda gli altri due fratelli, David e Benjamin Finkelstein, pur con qualche differenza. I Joffo infatti all'epoca della persecuzione hanno più di dieci anni e vivono tale tragedia con la piena consapevolezza, imparando a crescere prima del tempo, a cavarsela con le proprie forze e a mentire per salvarsi la vita. I due fratelli Finkelstein invece sono troppo piccoli per vivere direttamente il dramma della fuga e il pericolo dell'arresto, eppure, come afferma la madre, psicologicamente risentono dell'angoscia dei genitori: «Quand même, j'avais beau dissimuler mon angoisse, les bébés la ressentaient. On ne peut vraiment pas dire que la petite enfance de David et Benjamin a été normale!»53. Le due coppie di fratelli sono accomunate dall'unione nella tragedia e dalla consapevolezza di non essere come tutti gli altri. È il loro essere inseparabili che li aiuta ad andare avanti, nonostante il peso di un tragico passato che li segnerà per sempre.

Un altro personaggio che rispecchia la vicenda personale dell'autore è sicuramente Samuel Finkelstein, perfetto padre di famiglia, marito affettuoso e lavoratore instancabile. Il passaggio nel secondo capitolo della Jeune fille au pair, quando Joffo parla dell'abitudine dei bambini di chiedere al padre una storia prima di addormentarsi: «D'autres gamins s'endormaient peut-être avec des contes, pas les siens.

Eux réclamaient la suite et encore la suite et, loin de s'assoupir, tout excités, se 52 Ivi, p. 17.

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réveillaient de plus en plus»54, richiama i ricordi d'infanzia dell'autore sui racconti del padre, narrati in Un sac de billes: «Papà est là. […] - Suite de l'histoire, annonce-t-il.

[…] Certains soirs, il entrait, s'asseyait sur mon lit ou sur celui de Maurice et commençait les récits de grand-père. Les enfants aiment les histoires, on leur en lit, on leur en invente, mais pour moi ce fut différent. Le héros en était mon grand-père»55.

Entrambi i capifamiglia sono descritti come padri affettuosi e premurosi, che trasmettono ai figli preziosi insegnamenti. Traspare affetto nella descrizione di Samuel Finkelstein, uomo dai sani principi, pronto ad accogliere chi si presenta alla sua porta in cerca di aiuto. Esattamente come il padre dell'autore, è l'unico membro della famiglia a essere deportato ad Auschwitz, ma a differenza del signor Joffo riesce a sopravvivere e a tornare a casa. Il personaggio di Samuel nella Jeune fille au pair è forse la rappresentazione immaginata dall'autore di un'eventuale sopravvivenza del padre dopo il lager: un uomo provato, segnato dall'esperienza di Auschwitz, come si vede quando Wanda rivela la sua identità, tuttavia ancora generoso e affettuoso verso la moglie e i figli, ma soprattutto pronto a ricostruirsi una vita e a ricominciare la sua attività.

Potrebbe essere questo il diverso destino immaginato da Joffo, il sogno di rivedere la famiglia riunita dopo la guerra, sogno che, a differenza della sua storia di invenzione, non si è avverato.

Nella Jeune fille au pair notiamo un altro personaggio che richiama due figure molto importanti per l'autore, citate nel romanzo Un sac de billes. Si tratta del prete che salva Hélène e i suoi figli in seguito alle suppliche della donna, la quale, dopo aver partorito e fatto battezzare Benjamin, dovrebbe tornare al campo di concentramento di Drancy: «Alors, après avoir donné un simulacre de bénédiction à Benjamin, il avait profité d'un moment d'inattention des deux gendarmes, pour lui indiquer une porte dérobée, à gauche de la sacristie»56. L'uomo, commosso dalla loro storia, decide dunque di aiutare la madre e i bambini a fuggire, mettendo a rischio la propria vita.

In Un sac de billes l'autore ricorda due preti senza i quali non sarebbe riuscito a scampare alla deportazione, due veri cristiani che non hanno esitato a correre rischi per stare dalla parte dei perseguitati. Il primo prete lo incontra in treno mentre cerca di 54 Ivi, pp. 61-62.

55 J. Joffo, Un sac de billes, cit., p. 17.

56 JFP, p. 90.

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raggiungere la zona libera insieme al fratello, quando le SS stanno portando via tutti coloro che non hanno i documenti in regola. L'uomo, vedendo i due bambini in difficoltà, non esita a prenderli con sé e a dichiarare agli aguzzini che i piccoli viaggiano con lui:

Je me rends compte alors que la main du prêtre repose sur mon épaule, qu'elle y a toujours été depuis le début. […] - Monsieur le Curé, nous n'avons pas de papiers. […] - Si tu as l'air aussi effrayé, les Allemands vont s'en apercevoir sans que tu le leur dises. Mettez-vous près de moi.57

Il secondo prete salva i due fratelli quando questi sono prigionieri all'hotel Excelsior a Nizza, fornendo loro il certificato di battesimo necessario per dimostrare di non essere ebrei. Poiché il falso certificato non convince gli aguzzini, il coraggioso prete si reca di persona all'hotel per aiutare i bambini, affrontando l'interrogatorio della Gestapo.

Aiutato da una lettera scritta dall'arcivescovo in persona, il curato riesce a liberare Joseph e Maurice grazie alla sua fermezza e alla sua tenacia: «Nous étions tombés sur le curé le plus têtu, le plus humoriste et le plus acharné à arracher des Juifs des griffes des Allemands, qu'il y avait dans le département des Alpes-Maritimes»58.

Il personaggio descritto nel romanzo La jeune fille au pair ricorda molto questi due preti coraggiosi incontrati durante il suo cammino, anch'egli non esita ad accogliere qualsiasi richiesta di aiuto: «Hélène, qui était restée en relation avec ce prêtre providentiel et courageux, devait découvrir, un peu à ses dépens, que ce qu'il avait fait pour elle durant la guerre, il le faisait également pour des hommes soupçonnés de collaboration à la Libération»59 e, soprattutto, di fronte alle ingiustizie è pronto a rischiare la vita per stare accanto ai più deboli. La figura di questo prete è forse un omaggio ai due uomini virtuosi che l'hanno salvato e a tutti quegli uomini di chiesa che, di fronte all'orrore del nazismo, non si sono voltati dall'altra parte.

Gli orrori e i soprusi perpetuati contro gli ebrei spingono l'autore a interrogarsi sull'origine di tanta ostilità, su cosa li renda diversi agli occhi degli altri, ma in particolare Joffo si chiede cos'è che fa di lui un ebreo: «et tout d'un coup on me colle 57 J. Joffo, Un sac de billes, cit., p. 43.

58 Ivi, p. 180.

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quelques centimètres carrés de tissu et je deviens juif. Juif. Qu'est-ce que ça veut dire d'abord? C'est quoi, un Juif?»60. Dal suo punto di vista di bambino non esistono differenze, non capisce quindi perché, tutt'a un tratto, manifesti razzisti appesi in città mettano in guardia i francesi da persone come lui, rappresentandolo come un mostro:

Ça nous faisait ni chaud ni froid, c'était pas nous ce monstre! On n'était pas des araignées et on n'avait pas une tête pareille, Dieu merci; j'était blondinet, moi, avec les yeux bleus et un pif comme tout le monde. Alors c'était simple: le Juif c'était pas moi.61

È un interrogativo che lo perseguita, poiché mai riuscirà a darsi una risposta. Nemmeno il padre sa fornirgli una spiegazione («- Je voudrais te demander: qu'est-ce que c'est qu'un Juif? […] - Eh bien, ça m'embête un peu de te le dire, Joseph, mais au fond, je ne sais pas très bien»)62 e lo lascerà con questo pensiero a tormentarlo.

La domada “Qu'est-ce que c'est qu'un Juif?” la ritroviamo anche nel romanzo La jeune fille au pair, benché posta da un altro punto di vista. Anche Wanda, dopo anni di propaganda e di lavaggio del cervello da parte del padre, non riesce a darsi una risposta.

Non vuole credere ciecamente a ciò che le è stato imposto e decide di vedere con i propri occhi e di capire chi sono questi ebrei, questi nemici pericolosi che suo padre voleva eliminare dalla faccia della terra: «elle allait enfin pouvoir vérifier si les juifs étaient tels qu'on les lui avait décrits. Ou, plutôt que vérifier, car elle était venue à Paris, justement parce qu'elle ne voulait pas croire ce qu'on lui avait enseigné, elle allait pouvoir enfin voir et comprendre»63. Joffo pone quindi lo stesso interrogativo in due modi diversi: da parte della vittima che non comprende perché viene perseguitata e da parte di una persona vicina ai carnefici, che, grazie alla conoscenza diretta, riesce ad aprire gli occhi e a capire che non esiste una riposta poiché non esistono nemmeno differenze.

Quello che Joffo vuole affrontare nei due romanzi è anche una questione spesso tralasciata quando si parla della Shoah, ovvero l'infanzia perduta delle vittime. È emblematico un passaggio all'interno di Un sac de billes:

60 J. Joffo, Un sac de billes, cit., p. 23.

61 Ivi, p. 24.

62 Ivi, p. 34.

63 JFP, p. 20.

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je me rends compte au poignet de mes chemises et au bas de mon pantalon que j'ai grandi. Grandi, durci, changé... Peut-être est-il devenu incapable d'éprouver un chagrin profond... L'enfant que j'étais il y a dix-huit mois, ce garçon perdu dans le métro, dans le train qui l'emmenait vers Dax, je sais qu'il n'est plus le même que celui d'aujourd'hui, qu'il s'est perdu à jamais […] il s'est effrité un peu plus chaque jour de notre fuite... […] je me demande si je suis encore un enfant...64

nel quale l'autore riporta il dramma di una generazione che ha perso l'innocenza, che è dovuta invecchiare prima del tempo, vedendo con i propri occhi scene inimmaginabili.

È un ulteriore trauma per questi bambini, ai quali viene strappata la spensieratezza.

Imparano fin da piccoli a mentire sulla propria identità e a non avere fiducia nel prossimo, la loro è una ferita invisibile, incurabile e spesso sottovalutata. Come afferma l'autore, la guerra può prendersi la vita delle persone, ma può fare di peggio, ossia distruggere il bambino e creare, al suo posto, un essere cinico, incapace di provare alcun sentimento:

Peut-être ai-je cru jusqu'à présent me sortir indemne de cette guerre, mais c'est peut-être cela l'erreur. Ils ne m'ont pas pris ma vie, ils ont peut-être fait pire, ils me volent mon enfance, ils ont tué en moi l'enfant que je pouvais être... Peut-être suis-je déjà trop dur, trop méchant, quand ils ont arrêté papa, je n'ai même pas pleuré...65

È lo stesso meccanismo che riscontriamo nei due piccoli David e Benjamin, che non hanno conosciuto la serenità durante l'infanzia e persino nel dopoguerra, in quanto continuano a essere perseguitati da incubi ricorrenti:

Le lit de David est placé dans un renfoncement. Son cauchemar familier, c'est de se réveiller tandis que des policiers surgiraient tout à coup de derrière le mur pour l'emmener “là-bas”. Benjamin, lui, rêve qu'il aurait découvert un mot magique, le mot magique qui ferait qu'au lieu d'avoir poussé son père dans l'escalier, les gendarmes se seraient inclinés très bas devant lui et s'en seraient allés en s'excusant poliment.66

64 J. Joffo, Un sac de billes, cit., p. 198.

65 Ivi, p. 199.

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