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Il folklore, coscienza e scienza

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Academic year: 2021

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Introduzione

Il Carnevale è spazio e momento calendariale in cui si manifestano motivi, desideri e necessità della cultura popolare. Esso è una festa tradizionale, ed è di più, è forma piena e compiuta di quel

“carnevalesco” presente in ogni festa, incarnato in certi aspetti fondamentali quali, per citarne alcuni, il rovesciamento, il linguaggio particolare di piazza, l’ambivalenza e l’ambiguità delle immagini e dei motivi carnevaleschi, “l’abbassamento e la distruzione legati alla resurrezione e al rinnovamento”1 celebrati nel corso della festa.

Il Carnevale diviene così depositario e catalizzatore delle forme della festa popolare, “un agglomerato particolarmente importante di tali riti” [riti propri del tempo festivo], e “ogni festa un carnevale in miniatura, poichè attingeva al medesimo repertorio di forme tradizionali, come i cortei, le corse, le parodie di battaglie, di nozze e di esecuzioni capitali”2.

Il cerimoniale carnevalesco si inserisce all’interno del mondo della ritualità e delle tradizioni popolari. Ho ritenuto per questo che fosse necessario accennare, e lo farò nel Capitolo Primo, che cosa si intenda con

“cultura popolare”: avvicinarsi alla “scoperta del popolo”, alla nascita degli studi di folklore, e infine alle prospettive e alle problematiche che si sono aperte nel Novecento a causa soprattutto delle

“trasformazioni sul piano sociale e culturale su scala planetaria”, delle innovazioni tecnologiche e dei cambiamenti, in senso globale, concernenti la “produzione, la comunicazione e la fruizione dei fatti culturali”3, i quali hanno comportato la necessità di aggiornare l’epistemologia delle discipline che si preoccupano di studiare l’uomo e la cultura.

Affronteremo, nel Capitolo Secondo, il Carnevale nella sua valenza di complesso cerimoniale all’interno della ritualità popolare, i suoi caratteri, la sua fisionomia; il “carnevalesco” del Carnevale propriamente detto e delle feste popolari; le interpretazioni politiche che del Carnevale sono state date, come strumento di controllo sociale, come valvola di sfogo, di fuga controllata e canalizzata di energie potenzialmente pericolose e sovversive, da un lato, o come spazio e momento di reale contestazione sociale e ribellione - il legame, immaginario, simbolico, o reale, della festa con la rivolta. Infine, i motivi mitici del “mondo alla rovescia” e del Paese di Cuccagna, così presenti e diffusi nel tempo e nello spazio festivi (e non solo) e le loro corrispondenze con i valori profondi del Carnevale e con le concezioni, e le aspirazioni, popolari riguardo il mondo4.

1 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it.Torino, Einaudi, 1979 (ed.orig. 1965), p.238.

2 P. Burke, Popular Culture in Early Modern Europe, 1978; trad. it. Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori, 1980, p.194.

3 P. Clemente, F. Mugnaini, a cura di, Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001, pp. 20-21.

4 Per la trattazione del Carnevale ho utilizzato una bibliografia che presenta testi in prevalenza degli anni ’70-’80, periodo di grande produzione di letteratura antropologica e di interesse scientifico per cultura popolare e cerimoniali folklorici quali feste e Carnevale. La letteratura successiva è invece piuttosto frammentata e dispersa, in quanto il Carnevale ha cessato di costituire oggetto privilegiato dei dibattiti antropologici.

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Capitolo Primo.

LA SCOPERTA DEL POPOLO E LA SFIDA DELL’ANTROPOLOGIA

I.

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Il folklore, coscienza e scienza

Il folklore, come scienza o dottrina che studia le manifestazioni della vita popolare come essa si sviluppa nelle civiltà storicamente formate, i costumi e le tradizioni popolari, nasce primariamente, secondo Cocchiara5, come coscienza, per poi strutturarsi e completarsi in scienza, come disciplina autonoma e coerente.

Possiamo cogliere il germe di una nuova mentalità europea – un germe che avrebbe portato via via ad una visione sempre meno eurocentrica, e sempre meno convinta nella propria pretesa di assolutismo – nella critica e nella polemica politico-sociale che diverse personalità europee (intellettuali, letterati, rappresentanti delle classi superiori, missionari, viaggiatori, ecc.) rivolsero alle istituzioni, alla moralità, alle concezioni e ai dogmi che governavano la vecchia Europa, in seguito alla scoperta dell’America e al contatto, quindi, con popoli primitivi e “selvaggi”. Allo studio del mondo classico e antico, si aggiunge ora l’interesse per civiltà e popoli lontani, non solo quelli del Nuovo Mondo, ma anche quelli orientali: si sviluppa così il metodo comparativo che finisce per coinvolgere nel dubbio le consuetudini e l‘abitudinario svolgersi dell‘esistenza, attraverso il paragone del mondo europeo con gli “altri”.

Ciò che ne esce trasformato, e talvolta disorientato, è soprattutto la coscienza europea; l’Europa si muove inquieta alla ricerca di se stessa. Secondo Cocchiara, agli albori dell’età moderna, sono proprio la scoperta del Nuovo Mondo e il conseguente potenziamento del mezzo d’indagine della comparazione, ad aprire l’età dell’etnografia moderna, e con essa il folklore.

Si fa sempre più viva nella coscienza europea la lotta contro i vincoli e le eredità di una cultura che sembra politicamente e socialmente come la negazione dello spirito e dell‘originaria libertà. […]si viene sviluppando una letteratura etnografica, che se spazia nei confini dell‘esotico si insinua pure nella cultura europea come stimolo di ricerca.6

La sensazione di alterità inizia a non essere percepita esclusivamente nel confronto-scontro con le culture extra-europee, bensì al proprio interno, avvertita soprattutto nei confronti di certi atteggiamenti tradizionali, di quelle credenze popolari, quelle consuetudines non laudabiles concepite come “errori”, superstizioni, frutto dell’irrazionalità, della credulità e di un certo attardarsi della gente comune sull’arcaico, contro cui ora, tra XVI e XVIII secolo, la Chiesa Riformata, la Controriforma, il mondo della scienza e della cultura, soprattutto Illuminista, rivolgono scomuniche, invettive e repressioni. Tuttavia, mentre si condanna, occorre raccogliere

5 G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Torino, Boringhieri, 1971, p.29.

6 Ibid, pp.27-28.

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e documentare, e così religiosi, pensatori, scienziati, attraverso le rassegne sugli errori e le superstizioni popolari, vengono a richiamare l’attenzione sugli usi e costumi dei popoli, mentre accanto ad essi si vengono formando studiosi nell’ambito della nascente disciplina folklorica.

Oltre ai contributi di cui parla Cocchiara, occorre ricordare soprattutto quelli degli interessi antiquari sei-settecenteschi (eruditi dei secoli XVII e XVIII) e del popolarismo romantico (e risorgimentale): questi due indirizzi portarono, rispettivamente, il primo a preoccuparsi di assumere gli usi popolari come documenti e testimonianze storici, anche se solo per ritrovarvi l’origine e i “resti” delle “antichità” biblica, greco-romana e generalmente pagana, e quindi ad abbandonare l’atteggiamento di condanna e di polemica verso gli usi e i costumi popolari e accogliere quello di distacco scientifico e constatazione ; il secondo ad esaltare certi aspetti degli usi e dei prodotti della cultura del popolo, soprattutto la “spontaneità” e l’“autenticità” della poesia popolare di contro all’“artificiosità” di quella d’arte e individuando nel popolo, un popolo però spesso vago e mitizzato, l’“anima” e la “nazione”.

Dopo la sconfitta delle forze risorgimentali più democratiche nel 1848, il capovolgimento popolaristico rivela i propri limiti e contraddizioni, risolvendo in senso idillico (e conservatore) l’equivoco insito nell’idea di popolo-nazione: si esalta la bellezza della poesia popolare “antica”, del popolo delle origini (un’origine spesso ideale) e si respinge invece la tradizione orale contemporanea, apprezzata solo se corrisponde a modelli antichi7.

“L’importanza [di questi contributi] è ormai quasi soltanto retrospettiva.[…] , [tuttavia]si debbono [ad essi]i primi passi importanti verso quel superamento degli esclusivismi culturali che costituisce la condizione delle indagine demologiche. Quanto si era avuto in precedenza resta in genere al di qua anche di questi primi passi: consiste in qualche esaltazione idillica degli usi ‘popolari’ o

‘volgari’ e in numerosissime continue condanne degli ‘errori’ e delle ‘consuetudini non lodevoli’

del popolo. E’ dunque difficile parlare anche di ‘precorrimenti’, e sembra più corretto dire che in genere si tratta semplicemente di ‘fonti d’informazione’, per lo più involontarie e in genere polemiche e confutative8”.

É tuttavia per gli apporti di questo periodo (fine Settecento e, soprattutto, XIX secolo) che si può parlare di “scoperta del popolo”: l’interesse, da parte di intellettuali europei, per il popolo e il folklore. Di contro all’Illuminismo, infatti, si affermano nella storia del pensiero europeo alcune tendenze che si caricano di quelle forze che gli illuministi respingevano, e che ora ricercavano ed esaltavano gli aspetti più istintivi e primitivi in seno alla cultura popolare.

Diversi i neologismi del periodo, soprattutto su iniziativa di intellettuali tedeschi: Volkslied

7 A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo, 1973 (ed.orig. 1971), pp.40-42, 160-161.

8 Ibid, p.40.

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(canto popolare), Volkssage (fiaba popolare), Volkskunde (equivalente di “folklore”, coniato, quest’ultimo, nel 1846 da uno studioso inglese); diversi gli oggetti indagati: canti, poesie (famoso in questo campo il contributo di Herder), fiabe (raccolte, per esempio, dai fratelli Grimm), racconti, ballate (le raccolte di Percy), teatro popolare, e svariati generi della letteratura tradizionale, religiosità e feste popolari, carnevale (quello romano affascinò, ad esempio, Goethe); diversi, infine, i motivi: estetici (spontaneità e semplicità vs artificio, fascino del primitivo, dell‘esotico, del selvaggio e non classico), intellettuali (primitivismo culturale, istintività del popolo contro l’enfasi posta dall’Illuminismo sulla ragione), politici (spesso la scoperta del popolo fu strettamente legata al sorgere del nazionalismo, al movimento della ricerca della propria identità e di liberazione nazionale).

È in quest’atmosfera che si respira in Europa che si inizia a parlare di “cultura popolare”, una cultura che bisogna salvare dall’estinzione, una preoccupazione che traspare dalle parole di molti

“scopritori” e che spesso dà loro la sensazione di adempiere ad una missione incommensurabile.

II.

Cultura, cultura popolare e cultura comica popolare

I. Cultura.

Intorno al termine “cultura”, le definizioni e le concezioni sono state varie e numerose, la parola stessa si presta ad un utilizzo più o meno ampio e più o meno definito.

Diciamo qui che il termine sarà utilizzato, per dirla con Burke9, come “sistema di significati, atteggiamenti e valori condivisi, unitamente alle forme simboliche (azioni, manufatti) in cui essi si esprimono e traducono”, o, seguendo Cirese, come “il complesso delle attività e dei prodotti intellettuali e manuali dell’uomo in società, quali che ne siano le forme e i contenuti, l’orientamento e il grado di complessità o consapevolezza, e quale che ne sia la distanza dalle concezioni e dai comportamenti che nella nostra società vengono più o meno ufficialmente riconosciuti come veri, giusti, buoni, e più in genere ‘culturali’”10. Definizioni che dimostrano come sia acquisito il principio – fondamentale per chi si accinga a uno studio dell’uomo e delle sue culture, ma anche per chiunque voglia accrescere la propria consapevolezza storica e la capacità di scelta nella società contemporanea e ampliare i propri orizzonti mentali – che si apre ad una considerazione della molteplicità delle culture, e che rifiuta l’esclusivismo culturale e

9P. Burke, op. cit., p.1.

10 A. M. Cirese, op. cit., p.5.

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l’etnocentrismo11: un principio, insomma, che è quello denominato relativismo culturale, da riferirsi però più ad un atteggiamento mentale che ad un dogma, in quanto nel secondo caso si può rischiare di ritrovarsi imbrigliati in pesanti contraddizioni, fino, addirittura, ad un ritorno più o meno voluto all’etnocentrismo o alla rassegnata consapevolezza dell’incommensurabilità delle culture e, quindi, dell’inutilità degli studi in tal senso12. Importante è, nello studio delle culture, considerare il contesto storico, sociale, politico, economico, religioso, ecc. all’interno del quale è collocata quella cultura, i rapporti reali di potere, e cioè i rapporti di forza economico-politica, la disponibilità dei mezzi di conoscenza e trasformazione della natura, di controllo delle risorse; un quadro generale che non può essere eluso quando si vada a studiare una cultura, che proprio in quel quadro è nata, sviluppata, rafforzata, ripresa, trasformata, o abbandonata e morta.

Vorrei fornire un accenno riguardo le denominazioni diverse con cui i fatti popolari e le ricerche che li studiano sono stati indicati in relazione ai diversi indirizzi di studio e alle influenze dovute alla nazione di origine: il termine folklore venne impiegato per la prima volta in Inghilterra nel 1846, ad indicare il complesso delle popular antiquities o antiquitates vulgares (le

“sopravvivenze” degli antichi stadi evolutivi conservate nei volghi dei popoli civili, gli usi e i costumi dei vecchi tempi: fatti folklorici come “resti” di un passato più o meno lontano, antico, biblico, medievale, o mitico-ideale, così come li interpretarono gli eruditi-antiquari di XVII- XVIII secolo, la mitologia comparata e le scuole positivistico-evoluzioniste dell’800, e in un certo senso anche il popolarismo romantico); per l’influenza esercitata dalla scuola antropologica inglese e la sua volontà di ricostruzione della storia culturale di tutta l’umanità, il termine assunse poi significato più vasto, dilatandosi ai fatti culturali dei popoli primitivi ma limitandosi ai fatti “spirituali” veicolati dalla tradizione orale, in contrapposizione a quelli della cultura materiale. Questa accezione del termine è rimasta nei paesi europei ed extra-europei di lingua inglese, in molti di quelli dell’Europa settentrionale e orientale: lo studio delle tradizioni orali dei popoli civili e di quelli primitivi (folklore europeo e extra-europeo), e cioè di canti, fiabe, indovinelli, credenze, ecc.; mentre per designare lo studio dei fatti della cultura materiale si utilizza il termine “etnografia”, europea o extra-europea.

In Italia e altrove (ad esempio in Francia) il termine folklore viene impiegato con accezione

11 Per etnocentrismo intendiamo l’assunzione dei valori della propria cultura come metro di valutazione e di misura delle culture altrui, con il risultato che vengono respinti nel negativo, e cioè fuori dell’umanità, tutti quei valori e contenuti delle culture “altre” che non rientrano nei nostri quadri mentali. Questo in particolar modo si manifesta nei confronti delle culture “primitive”, per molti aspetti lontane e incomprensibili al nostro pensiero. Esiste anche una forma di etnocentrismo interno alle culture “superiori”, il cosiddetto esclusivismo culturale, che rivolge il proprio giudizio negativo a certi aspetti della cultura dei “subalterni”, non collimanti con quelli dei ceti “dominanti”.

12 “[attraverso]un’equiparazione indiscriminata di tutte le culture [si giunge alla] contraddittoria conseguenza che, visto che l’una vale l’altra, tanto vale chiudersi nella propria, in una rinnovata e peggiorata forma di etnocentrismo;

oppure con la conseguenza altrettanto contraddittoria che, visto che ogni cultura si misura dall’interno, e che noi siamo all’interno della nostra e non di quelle altrui, allora non c’è la possibilità di capire le culture “altre” (Cirese, op. cit., p.8).

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diversa, restringendo l’ambito storico-geografico agli strati popolari dei popoli civili (escludendo quindi quelli primitivi, di cui si occupa l’etnologia) e allargando l’ambito tematico fino ad includere anche i fatti della cultura materiale: folklore, o folclore, come studio delle tradizioni popolari o demologia (termine, quest’ultimo, generalmente preferito per evitare oggi le ambiguità dovute a certi significati, turistici e radio-televisivi, di “folklore” e quello svalutante di

“folkloristico”)13.

II. Cultura popolare

Alcuni basilari concetti intorno a cui gli studiosi di cultura popolare principalmente si sono mossi, sono quelli di “rappresentatività socio-culturale”, “dislivelli” (interni o esterni),

“circolazione sociale dei fatti culturali” (ascesa e discesa), “folklorizzazione”, “tradizione- innovazione”, “collettività-individualità”, “trasmissione”, “composizione-elaborazione”,

“variante”, “popolareggiante, popolare, popolarità”, “subculture”, “forma, genere, codice, fondo”..14.

Illustrando meglio tali termini possiamo entrare nel vivo della definizione di cultura popolare e accennare ad alcune problematiche che si presentano a tal proposito.

Nello studio delle culture si utilizza il concetto di “dislivello” per venire ad indicare le distanze culturali che intercorrono tra diverse società, tra una di tipo “superiore”, ad esempio, e una

“primitiva”, oppure all’interno di una stessa società, tra la cultura “ufficiale”, “dominante”, e quella degli strati subalterni o periferici: i dislivelli “interni” alle società “superiori” sono l’oggetto delle indagini demologiche, o di folklore, o di tradizioni popolari: canti, fiabe, leggende, tradizione orale, musica e danza, comportamenti cerimoniali, concezioni magico- religiose, usi giuridici, tecniche di lavoro, saperi naturalistici, ecc. In generale, i dislivelli culturali si trovano storicamente in rapporto con tre fattori:

 le difficoltà materiali delle comunicazioni, che fino a tempi recenti hanno provocato isolamenti delle zone periferiche rispetto a quelle più centrali, con conseguente differenza di ritmi e capacità di innovazione, accentuata dalla disparità delle rispettive forme economiche;

 la discriminazione culturale da parte dei ceti egemonici nei confronti di quelli subalterni, esclusi dalla produzione e dal godimento di certi beni culturali;

 la resistenza, infine, di questi stessi ceti periferici e subalterni alle imposizioni civilizzatrici dei ceti dominanti.

13 A. M. Cirese, op. cit., pp.60-63.

14 Ho estratto questi termini scorrendo le pagine di A. M. Cirese, op.cit.; P. Burke, op. cit.

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A parte le eccezioni e le attenuazioni dovute alla varietà delle situazioni concrete, vediamo con Gramsci (Osservazioni sul folclore, in Quaderni del carcere) che nelle società “superiori” le separazioni e le distinzioni sociali tra gruppi dotati di diverso potere politico-economico trovano riscontro in certe separazioni e distinzioni culturali; vi è un rapporto, detto connotazione, tra un fatto culturale e il gruppo sociale. Il folklore viene a configurarsi come una “concezione del mondo” propria di certi strati della società, e cioè del popolo inteso come “il complesso delle classi subalterne e strumentali”, che si contrappone alle concezioni del mondo “ufficiali”, proprie delle classi egemoniche. La nozione gramsciana stabilisce il legame tra fatti culturali e fatti sociali, dissolve le ambigue eredità della nozione romantica di “popolo-anima” e “popolo- nazione” e introduce una determinazione storico-sociale precisa, quella del “popolo-classi subalterne”, inteso come variabile storica, il che ha contribuito a sgombrare il campo da ogni possibilità di concepire idillicamente e armoniosamente il folklore.

Un certo fatto culturale popolarmente connotato esprime e documenta un certo orizzonte socio- culturale, e, meglio, viene a significare per la sua rappresentatività socio-culturale15.

La popolarità di un fenomeno non consiste nell’origine popolare di quel fenomeno, un’origine che può essere anche colta, bensì dal fatto che quel fenomeno sia presente esclusivamente o almeno in modo caratterizzante e prevalente, in un certo ambito sociale e non lo sia presso altri ambiti sociali che con quello coesistono; dipende dall’uso che si fa di un certo fenomeno, dalla sua relazione storica di differenza rispetto ad altri fatti culturali compresenti nella stessa società che siano, appunto, per contrapposizione a quello popolare, “non popolari”, “aristocratici”, ecc.

Vi è inoltre una terza zona che occupa una posizione intermedia e si avvicina più o meno all’una o l’altra polarità, ed è la zona di quei fenomeni che si distaccano meno di altri dai fatti d’élite, chiamandosi perciò popolareggianti o semi-culti, popolareschi, e simili.

Occorre poi ricordare che seppure la cultura popolare e quella dei gruppi dominanti siano ben distinte e opposte, esse sono legate tra loro da una fitta rete di scambi, prestiti e condizionamenti reciproci, tensioni e omogeneità: i fatti culturali, oltre ad essere caratterizzati dalla trasmissione nel tempo (o tradizione) e dalla propagazione nello spazio (o diffusione), subiscono anche uno spostamento nella dimensione sociale, vivono una circolazione sociale, si spostano e vengono adottati e assimilati, con un certo grado di adattamento e trasformazione, da uno o l’altro gruppo sociale indipendentemente dalla loro origine. Gli spostamenti dei fatti culturali possono avvenire tra gruppi di uno stesso livello (ad esempio contadini e pastori), oppure di livello gerarchico diverso (gruppi dominanti e gruppi dominati): in questo caso si parla di discesa di un fatto culturale quando il passaggio avviene “dall’alto”, da un gruppo di più forte potere ad uno

15 A. M. Cirese, op. cit., pp.10-14.

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subalterno o, viceversa, di ascesa di un fatto culturale quando il processo avviene “dal basso”. Il passaggio, inoltre, non è sempre spontaneo o voluto, può essere anzi imposto, coatto, forzato, e si parla perciò di acculturazione.

Nel caso di discesa di un fenomeno culturale, lo studio demologico si concentra sul processo di folklorizzazione, e cioè su quell’insieme di adattamenti, modificazioni e innovazioni con cui a livello popolare si interviene su un fatto culto per adottarlo nel proprio orizzonte culturale.

Popolarmente connotativi sono quindi la funzione del prestito, la scelta e la trasformazione- innovazione del fatto adottato, e non la sua origine; anzi, moltissimi fatti che si presentano come popolarmente connotati hanno in realtà antecedenti extra-folklorici, come canti, cerimonie, danze che precedentemente erano proprie o di tutta la società o delle classi egemoniche.

Occorre evitare, da un lato, di credere che il folklore sia totalmente autonomo nei confronti della cultura egemonica e, dall’altro, cercare di documentare una sua specificità, rifiutando l’idea che esso sia semplicemente accettazione passiva e degradazione, fraintendimento e impoverimento dei fatti culturali “alti”16. Proprio qui risiede un problema importante, il riuscire a individuare e documentare la relativa originalità della cultura bassa:

“è un compito difficile. Cultura dominante e cultura popolare giocano una partita ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione riflette i rapporti di forza tra le classi in una società data, le possibilità che la cultura popolare lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo era ancora così diffuso, erano molto ridotte”17.

Ogni formazione culturale nasce in un qualche luogo e in un certo momento, ad opera di qualcuno, vive nel tempo, da una generazione all’altra, si propaga nello spazio e dall’uno all’altro degli strati sociali subendo trasformazioni più o meno forti, e infine muore, viene cioè abbandonata dagli individui e dai gruppi. Questa vicenda temporale, spaziale e sociale viene chiamata dinamica culturale e processi i movimenti che la costituiscono.

Per quanto riguarda la nascita, essa avviene in un certo strato sociale, in un tempo e in un luogo, e attraverso l’azione di qualcuno, un individuo o una collettività: questioni, tutte, spesso complicate, soprattutto perché non si chiarisce se ci si riferisce all’origine degli antecedenti extra-folklorici culti o semi-culti, poi folklorizzati, o alla nascita di un fatto culturale all’interno del folklore, nel momento in cui quel fatto appare popolarmente connotato. Naturalmente le valutazioni degli elementi riferiti alla nascita cambiano se si considera il fenomeno come antecedente extra-folklorico o come fatto demologico: lo strato sociale sarà allora nel primo

16 Ibid, pp.15-23.

17 C. Ginzburg, introduzione a P. Burke, op. cit.

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caso, per definizione, uno strato non popolare e nel secondo, ancora per definizione, lo strato popolare. A ciò si lega poi la questione della circolazione sociale dei fatti culturali (ascesa, discesa, foklorizzazione, acculturazione, resistenza) e perciò anche quelle della trasformazione e innovazione apportate dal popolo ad un certo fatto.

Riguardo “in quale tempo” abbiamo posizioni diverse coincidenti con i punti di vista degli indirizzi di studio che si sono succeduti: per gli antiquari gli antecedenti extra-folklorici delle antiquitates vulgares sono collocati in un’antichità biblica o greco-romana, per il popolarismo romantico il folklore appartiene invece alle origini della nazione, per lo più medioevali, mentre l’indirizzo della mitologia comparata ne colloca gli albori nel mondo ario-indoeuropeo. Gli indirizzi evoluzionisti e diffusionisti ricercarono la nascita dei fatti demologici (ed etnologici) i primi nell’uno o nell’altro dei diversi stadi evolutivi obbligatori per ogni società, e i secondi nella specifica situazione storica di ogni società e popolo (indirizzi posteriori, quali i funzionalismi e altri basati su un metodo di analisi sincronico, hanno tralasciato le questioni più propriamente storiche e cronologiche). A tale questione si collega direttamente, inoltre, quella della trasmissione nel tempo con i suoi processi di tradizione, innovazione, varianti ed elaborazione (vedi oltre).

Circa la questione del luogo di nascita, anch’essa si pone in maniera diversa a seconda che si tratti un fatto come antecedente extra-folklorico o come demologico; forte contrapposizione si ha su questo aspetto tra evoluzionisti, a favore delle tesi della poligenesi (nascita plurima e indipendente dello stesso elemento culturale in tempi e luoghi diversi) e della convergenza (esiste un naturale convergere delle attività umane verso soluzioni identiche), e i diffusionisti, convinti invece della monogenesi di un fatto culturale e della propagazione e diffusione successiva di esso in diversi luoghi a partire da quello d’origine. Il tutto si collega quindi ai problemi delle tecniche storico-geografiche e di geografia folklorica di studio della distribuzione spaziale dei fenomeni ed estrazione di una cronologia relativa.

Infine, il problema più complesso del carattere individuale o collettivo della genesi dei fatti folklorici, di nuovo legato strettamente alla distinzione tra fatto extra-folklorico e fatto demologico: per gli antecedenti si può parlare generalmente di individualità, mentre per quanto riguarda il processo di folklorizzazione appare più corretto riferirsi ad un’azione di carattere sociale e collettivo (anche quest’aspetto verrà trattato in seguito).

Avviciniamoci di più alla questione della trasmissione nel tempo, presentatasi a proposito del momento di nascita di un fatto folklorico e legata strettamente alla vita di questo fatto nel tempo, alla sua sopravvivenza e trasformazione. Alcuni fenomeni vengono rapidamente abbandonati dagli usi del gruppo, come le cosiddette mode, altri invece, attraverso un processo di

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trasmissione nel tempo, permangono nella società di quel gruppo per anni, decenni e secoli e anche oltre. Se la trasmissione nel tempo avviene secondo un processo consapevole o inconsapevole che tramanda i fatti culturali da una generazione all’altra, all’interno di uno o più gruppi socio-culturalmente omogenei, si parla di tradizione e il fatto che attraverso di essa le nuove generazioni vengano integrate nei quadri culturali dei propri padri è chiamato inculturazione (integrazione nella cultura del gruppo: da un lato la pressione esercitata sui giovani sia a livello di semplice condizionamento inconsapevole e spontaneo sia a livello di procedimento educativo consapevole e organizzato, dall’altro la reazione delle nuove generazioni ai condizionamenti e agli insegnamenti, come ricezione passiva e inconsapevole o come appropriazione consapevole e attiva o volontà di innovazione; senza considerare inoltre la possibilità del rifiuto dei modelli esistenti e la ribellione ad essi).

Se il passaggio è tra gruppi non socio-culturalmente omogenei si presenta allora il fenomeno già descritto di circolazione sociale e acculturazione (spontanea, meccanica oppure intenzionale e coatta, come nel caso delle imposizioni “civilizzatrici” dei ceti egemoni su quelli subalterni) i cui prodotti possono essere, e spesso lo sono soprattutto in campo magico-religioso, dei sincretismi, elementi culturali in cui coesistono componenti che inizialmente erano tra loro contrastanti o inconciliabili.

Il processo di tradizione di per sé non è affatto popolarmente connotativo, può presentarsi infatti ad ogni livello, compreso quello dell’élite dominante. In certe condizioni storiche è popolarmente connotativo invece che la tradizione assuma forma orale, senza tramiti scritti.

Alla trasmissione, soprattutto orale, spesso si accompagnano modificazioni anche profonde della materia trasmessa, innovazioni e varianti del fatto culturale dipendenti anche dalla propagazione nello spazio e dalla circolazione nella dimensione sociale. In campo demologico l’innovazione viene messa comunque soprattutto in rapporto con la tradizione, e collegata a quel processo di conservazione-modificazione chiamato elaborazione popolare o comune.

Trattando dell’innovazione, ricordiamo che di solito la si distingue dall’invenzione, e in misura maggiore, dalla rivoluzione: innovazione e invenzione sono entrambe modificazioni della situazione esistente, ma la prima è piuttosto trasformazione parziale di dati preesistenti, mentre la seconda è introduzione di elementi completamente nuovi; al limite estremo di questa linea crescente di novità sta la rivoluzione, trasformazione radicale e strutturale della situazione esistente.

L’innovazione poi è modificazione accettata e riconosciuta dal gruppo, e ha quindi carattere collettivo e sociale, mentre l’invenzione è legata più precisamente all’individuazione di un soggetto che l’ha introdotta.

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Innovazione come prodotto-risultato e non come processo è per esempio costituito, nel campo della poesia popolare, dalla variante: abbiamo due redazioni di uno stesso testo, una delle quali presenta modificazioni parziali e differenze non decisive rispetto all’altra, ne è cioè una variante.

Alla base del processo di elaborazione popolare stanno essenzialmente due fatti, il carattere esclusivamente o prevalentemente orale della tradizione e l’atteggiamento di libera appropriazione con cui i testi vengono utilizzati, come sorta di proprietà comune che passa “di bocca in bocca” e di cui ciascuno può usufruire, adattandola come meglio crede. Infatti, è vero che i singoli interventi innovativi sono individuali, ma sono tutti culturalmente condizionati, si muovono cioè in un quadro di concezioni e valori che non sono solo individuali, e in più il fatto che le innovazioni, in quanto tali, vengano accettate e riconosciute dal gruppo o sottogruppo sociale fa sì che si parli di un’elaborazione comune e che questa sia popolarmente connotativa.

Infatti se un’innovazione non viene riconosciuta collettivamente, rimane un fatto privato e individuale, non entra a far parte della tradizione.

Il problema della individualità o della collettività dei processi di formazione e trasformazione dei fatti culturali è stato riproposto in termini nuovi sulla base dei concetti linguistici di langue e parole formulati da de Saussure18, applicati alla questione della letteratura orale da Bogatirëv e Jakobson: nel sistema intersoggettivo della langue il singolo parlante può introdurre modificazioni, ma esse divengono “fatti della langue” solo dopo che la comunità che ne è portatrice le ha accolte e riconosciute valide per tutti,e così, analogamente, per quanto concerne un fatto folklorico, esso diviene tale, nasce cioè, solo dal momento in cui viene accolto dalla comunità, e soltanto nella misura in cui questa comunità lo ha fatto proprio. Non soltanto la nascita, bensì anche le trasformazioni e le varianti di un fatto folklorico si pongono sul piano collettivo, intersoggettivo, sociale della langue, e non su quello individuale della parole: nella misura in cui queste innovazioni individuali del folklore rispondono alle esigenze della comunità – la quale esercita una sorta di censura preventiva – e anticipano l’evoluzione regolare del folklore, esse vengono socializzate e diventano elementi dell’opera folklorica.

In generale, oggi la questione della collettività dei fatti demologici è proposta come una serie di interventi di singoli che vengono però realizzati entro un quadro socio-culturale comune fortemente determinante19.

18Per Saussure la langue è l’insieme delle convenzioni e delle regole linguistiche che consentono agli individui di un gruppo di comunicare e comprendersi, è un sistema sociale e collettivo che fornisce gli strumenti per codificare e decodificare i messaggi, e ha valenza universale (per quel gruppo), mentre la parole è l’atto individuale con cui si utilizza il codice della langue per esprimere il proprio pensiero.

19 Per la trattazione della dinamica culturale ho utilizzato A. M. Cirese, op. cit., pp.86-109.

20 P. Burke, op. cit., p.32.

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Si parla spesso di cultura popolare al singolare, in realtà ci possiamo chiedere se sia più giusto scegliere l’espressione “culture popolari” o, meglio, “più tipi di cultura popolare”20.

Vi sono infatti importanti variazioni a seconda delle condizioni sociali e di quelle ambientali. La cultura dei contadini è diversa da quella dei pastori, dei minatori, ad esempio riguardo credenze, conoscenze della natura, atteggiamenti, danze e leggende, per non parlare delle differenze che riscontriamo confrontando la cultura dei ceti della campagna con quella degli strati popolari della città, come tessitori, artigiani in genere, calzolai, muratori, apprendisti, gruppi questi, consapevoli, solitamente, della propria identità, in grado di leggere e scrivere e organizzati in corporazioni o associazioni, il che aiutava queste categorie di lavoratori ad avere una cultura comune, differente da quella rurale, attraverso feste patronali, proprie tradizioni e propri riti apportati dal sistema delle corporazioni. E le differenze di ambiente geografico conducono a diversi sviluppi della cultura materiale, dei comportamenti e delle conoscenze, come nel caso della cultura della gente di montagna in relazione con quella della gente di pianura, o tra quella delle zone di costiera con quella dell’interno, fra regioni centrali e zone di frontiera.

Vi erano inoltre i gruppi professionali itineranti, di carattere più internazionale, quali i soldati, i marinai, i mendicanti, i ladri, i girovaghi, gli artisti, per i quali le condizioni ambientali, di lavoro, di riposo, di utilizzo del tempo libero e altri fattori significavano tutta una serie di comportamenti, credenze, espressioni linguistiche particolari, abbigliamento, usi, ecc.

Possiamo affermare che da un lato la cultura popolare è tutt’altro che omogenea, e presenta anzi stratificazioni culturali, tutta una serie di differenziazioni e una varietà di manifestazioni e di forme, e che dall’altro lato tutte quelle forme, comportamenti ed elementi si presentano autonomi solo in parte, distinti sì, ma non separati dal resto della cultura popolare: in definitiva può riuscire più utile parlare di “subculture”, regionali e occupazionali, interne alla cultura popolare, e di subcultura come sistema di significati condivisi da un gruppo di persone che partecipa inoltre alla cultura più ampiamente intesa, la quale rappresenta il “fondo comune, dei cui elementi sono composti i modelli locali”21.

Attraverso l’opera di Burke e la sua lettura basata su un criterio di tipo morfologico possiamo individuare i principali tipi di azioni e manufatti entro la cultura popolare europea, un inventario del fondo o repertorio delle forme tradizionali, ricercando il codice (culturale, che occorre per decifrare il significato dei messaggi) più che i singoli messaggi. Notiamo che si ha a che fare con combinazioni sui generis di elementi ricorrenti, con variazioni locali su temi europei. Alcuni generi individuati sono le danze, i canti, il teatro e le esibizioni di artisti (recite, spettacoli,

21 Ibid, pp.44, 57.

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narrazioni), i racconti e altre performances ed espressioni artistiche (parodie, finti sermoni, finti processi, finti testamenti, battaglie, nozze ed esequie per burla, rappresentati, descritti o illustrati in stampe popolari): le denominazioni sono tante e varie, collegate soprattutto al paese d’origine e al dialetto, le forme locali presentano differenze e varianti, ma sono tutte variazioni su pochi tipi fondamentali del genere di riferimento.

Vi sono formule e motivi ricorrenti e “regole” di combinazione degli elementi, che somigliano ad una sorta di vocabolario a disposizione dei portatori della tradizione: gli esecutori, narratori, cantori, attori, apprendevano questa “grammatica poetica” da giovani e sulla base di essa, imparavano “anche ad ampliare o abbellire la struttura di base e, in tal modo, [erano] in grado di improvvisare con relativa facilità”22. Il singolo individuo conservava la propria creatività, aveva un proprio stile, una propria espressività, sceglieva e combinava un motivo con un altro, quell’elemento piuttosto che un altro, ma dobbiamo riconoscere che lo spazio di azione individuale non era totalmente libero, si limitava alla selezione e alla combinazione, nonché alla capacità d’improvvisazione (la combinazione di formule e motivi e il loro adattamento ai contesti non era, infatti, un procedimento meccanico, bensì un atto creativo, quando l’improvvisazione era buona): la comunità e la tradizione avrebbero decretato la fortuna o l’abbandono dell’innovazione apportata dal singolo, perciò

“quando si ascolta un canto o un racconto tradizionale, quella che si sente non è tanto la voce del singolo, per quanto dotato, quanto quella della tradizione che per suo tramite si esprime”23.

III. Cultura comica popolare

Dall’ampio e vario spettro delle manifestazioni e delle forme interne alla “cultura popolare” in genere, vorrei parlare di quelle della cultura comica, del popolo che ride e della pubblica piazza.

Attraverso la bellissima opera di M. Bachtin possiamo almeno intuire che il significato e l’ampiezza della cultura comica popolare erano, nel Medioevo e nella prima età moderna, enormi, un mondo di forme e manifestazioni comiche che spaziavano da riti e spettacoli (feste, Carnevale, spettacoli di piazza, ecc.), a opere comiche orali e scritte (in latino o volgare, comprese le parodie), a generi differenti del discorso familiare e di piazza (ingiurie, imprecazioni, bestemmie, ecc.)24. Si tratta di forme organizzate sul principio del riso, che si contrapponevano al culto e alle cerimonie ufficiali, contraddistinte queste da un tono serio, della chiesa e dello stato feudale; rappresentavano una concezione del mondo diversa e opposta a

22 Ibid, p.138.

23 Ibid, p.143.

24 M. Bachtin, op. cit., p.6.

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quella ufficiale, un secondo mondo e una seconda vita che si esplicavano in occasioni e date particolari.

I divertimenti di tipo carnevalesco e i riti comici ad essi collegati erano liberi da ogni dogmatismo ecclesiastico, dal misticismo e dalla religione, avevano carattere concreto e giocoso, rappresentavano l’incarnazione di una vita diversa da quella quotidiana, una vita rappresentata in un’altra forma, libera e ideale, di festa; personaggi caratteristici della cultura comica popolare erano i buffoni e gli stolti, portatori permanenti all’interno della vita comune, ordinaria, del principio carnevalesco. Le festività vere e proprie, tradizionali, distinte da quelle ufficiali, portavano con sé un senso profondo di una concezione del mondo, un rapporto con il tempo, con il morire, il rinascere e il rinnovamento, attingevano alla sfera spirituale-ideologica, al mondo degli ideali, scopi superiori dell’esistenza umana: le festa diveniva così “la seconda vita del popolo che penetrava temporaneamente nel regno utopico dell’universalità, della libertà, dell’uguaglianza e dell’abbondanza”25. Il riso carnevalesco è universale, popolare, ambivalente, gioioso e allegro e beffardo e sarcastico, è un riso positivo, che deride e resuscita ed è diretto al mondo intero in divenire, in cui si trovano anche coloro che ridono.

Anche la letteratura comica, in latino e volgare, orale e scritta, è pervasa dal senso carnevalesco del mondo, dalle sue forme e immagini; in molti casi era legata alle feste, di cui costituiva la parte letteraria.

La letteratura latina parodistica investe, con il suo riso ambivalente, le sfere più alte del pensiero e del culto religioso: troviamo ad esempio parodie di liturgie, di testi evangelici, di preghiere, di epitaffi. Non meno ricca era la letteratura in lingua volgare, che, anzi, oltre ad interessare parodie sacre includeva anche parodie e travestimenti laici, derisioni del regime feudale e dello spirito cavalleresco del tempo.

Durante il Carnevale e le feste avveniva nella piazza l’eliminazione temporanea sia delle differenze e delle barriere gerarchiche tra le persone sia delle regole e dei tabù propri della vita quotidiana, venendo così a crearsi un tipo particolare di comunicazione tra la gente, impossibile in tempi normali: un contatto libero, familiare e di piazza, che portava con sé tutta una serie di fenomeni linguistici quali l’utilizzo di imprecazioni, bestemmie, spergiuri e volgarità di qualsiasi tipo, vietati ed eliminati dalla comunicazione verbale ufficiale, che qui, all’interno del senso festivo del mondo, acquisivano un tono comico e contribuivano alla creazione di un’atmosfera di libertà carnevalesca.

Quello che viene più volte sottolineato da Bachtin è che tutti questi elementi, eterogenei e vari, sono riconducibili ad un’unica cultura comica popolare, rappresentano i frammenti di un’unitaria

25 Ibid, p.12.

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visione del mondo, organica e profondamente originale, che è quella dell’imagerie comica propria della cultura popolare del Medioevo e della prima età moderna26.

Legata a tale visione del mondo è una particolare concezione estetica, un sistema di immagini della cultura comica popolare che l’autore denomina “realismo grottesco”27. Qui il principio materiale e corporeo della vita (immagini del corpo, del mangiare e del bere, dei bisogni naturali, della vita sessuale) viene presentato nel suo aspetto universale e festoso: l’elemento materiale e corporeo è proprio di tutto il popolo e ha carattere positivo e affermativo, è grandioso ed esagerato, rappresenta la fertilità, la crescita sovrabbondante, la gioia, l’allegria del banchetto, il principio della festa. Nel sistema del realismo grottesco, altro tratto fondamentale è l’abbassamento, il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale ed astratto, sul piano materiale e corporeo, il piano della terra e del corpo (del seno materno, del ventre, della tomba), il basso produttivo, con il suo principio dell’assorbimento, della nascita e della rinascita. Abbassando si seppellisce e insieme si semina, si fa morire per far rinascere meglio e di più, si distrugge e si rigenera, in un rafforzato principio dell’ambivalenza. Le immagini del realismo grottesco rappresentano il tempo in divenire, il corpo nel momento del cambiamento, della trasformazione, nel passaggio tra due età della vita, nell’indeterminatezza, nell’ambivalenza del ciclo vitale, tra morte e vita, giovinezza e vecchiaia: immagini di accoppiamento, gravidanza, parto, disgregazione e smembramento del corpo, nella loro materialità immediata e nella loro apertura al mondo, in cui vengono rivelati il superamento dei propri limiti e il principio di crescita; il corpo non è chiuso in se stesso, definito, compiuto, bensì incompleto, in divenire, in via di sviluppo, è aperto e penetra nel mondo attraverso le proprie protuberanze e ramificazioni (naso, seno, fallo, grosso ventre, gobba, ecc.) e il mondo penetra in esso passando per i suoi orifizi (bocca spalancata, organi genitali, ecc.): un corpo che per il punto di vista dell’estetica classica era mostruoso e deforme, ma che, all’interno dell’imagerie comica popolare veniva a rappresentare uno dei valori più importanti tra quelli propri del carnevalesco, e cioè quello dell’indeterminatezza, dell’incompiutezza, della metamorfosi, e quindi dell’apertura a possibilità di sviluppo diverse e ancora da definire, di contro alla pretesa di immobilità e assolutismo dei valori e delle concezioni propri dell’ordine esistente e della verità già data.

Riso, concezione estetica del realismo grottesco, abbassamento al principio materiale e corporeo:

26 Ibid, p.23.

27 Ibid, p.24. “Grottesco”, come verrà specificato nelle pagine seguenti dall’autore, si riferisce propriamente al termine introdotto in epoca rinascimentale in relazione alla scoperta di un tipo di pittura ornamentale, in occasione degli scavi nei sotterranei delle terme di Tito, chiamato appunto “la grottesca” da “grotta”. Questo tipo di ornamento presentava un gioco insolito e fantasioso di forme animali, vegetali e umane che quasi si fondevano e trasformavano le une nelle altre, non vi erano confini netti tra un regno della natura e l’altro, ma incompiutezza, apertura, metamorfosi. Il termine viene in senso più ampio ad indicare la possibilità di un mondo diversamente ordinato e strutturato e della varietà e mutabilità delle cose.

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attraverso il significato che incarnavano, di rinnovamento e di rinascita allegra del mondo, si trovavano profondamente collegati al senso carnevalesco della festa e al sistema di valori e immagini coinvolto all’interno delle manifestazioni della cultura comica popolare.

III.

La sfida dell’antropologia

La tradizione italiana di studi di folklore è stata rinnovata nei suoi presupposti conoscitivi da A.

M. Cirese nei primi anni Settanta, attraverso l’opera Cultura egemonica e culture subalterne, da trent’anni punto di riferimento della demologia italiana. Così afferma l’autore:

“Che senso ha, oggi, occuparsi ancora di demologia, di tradizioni popolari, di folklore? Nessuno, o quasi, almeno a mio parere, se gli oggetti e i modi dello studio non vengono risolutamente collocati, e intesi, nel quadro reale dei problemi del nostro tempo e delle tensioni che lo traversano a tutti i livelli. […] Come potrebbero dunque restare immobili, questi studi, e ostinatamente fissi ad una vecchia immagine di sé, quando nella realtà storica di oggi le forme culturali tradizionali risultano ormai erose, trasformate, addirittura sconvolte da profonde e non reversibili modificazioni sia delle condizioni oggettive (migrazioni, spopolamento delle campagne, sviluppo delle comunicazioni di massa, ecc.) sia degli atteggiamenti soggettivi del cosiddetto ۥpopoloۥ (passaggio dalla subordinazione passiva o dalla protesta spontanea alla prese di posizione attive, coscienti e organizzate)? [e immobili di fronte ai cambiamenti] ideologici, teorici, metodici e tecnici che parallelamente si vanno verificando nell’etnologia, nella linguistica, con la semiologia, nell’antropologia sociale e culturale, e insomma in tutto il vasto campo delle discipline che studiano in modo più o meno diretto i meccanismi della produzione e della comunicazione culturale ed i loro processi di dislocazione e di circolazione nella dimensione sociale?”28.

La necessità, da un lato, del confronto con la complessa realtà contemporanea e, dall’altro, di collegamenti interdisciplinari, veniva dunque avvertita da Cirese come l’appello ad un impegno improrogabile.

Fatto tesoro della lezione dell’autore, la stessa urgenza viene avvertita oggi da studiosi contemporanei di antropologia e cultura popolare, e viene riconosciuto il fatto che, se lo studio del folklore aspira a rimanere disciplina viva e collocata in una dimensione reale e storica, è necessario che rinnovi il proprio oggetto di studio e la propria metodologia. Infatti, se già nei Sessanta-Settanta Cirese e colleghi avevano individuato profondi cambiamenti, di vario genere, nella realtà coeva, tali da rimettere in discussione l’epistemologia delle discipline che si occupano dello studio della cultura, a maggior ragione oggi, al cospetto delle rapide e radicali

28 A. M. Cirese, op. cit., pp. VII-VIII.

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trasformazioni dei processi di produzione, comunicazione e fruizione dei fatti culturali che hanno investito la realtà dell’ultimo trentennio, e continuano a farlo tutt’oggi, è necessario un nuovo impegno nel presente, una volontà critica di ridefinizione e di nuova individuazione di concetti, lessico e metodi delle discipline antropologiche e demologiche.

Soprattutto, per quanto riguarda più specificamente la categoria delle seconde, si deve riconoscere che le mutazioni sul piano culturale e sociale in atto, su scala planetaria, agiscono inevitabilmente anche sulle comunità portatrici di “tradizione”, sull’oggetto, cioè, degli studi demologici. I ceti solitamente considerati portatori di cultura popolare tradizionale si stanno facendo “progressivamente marginali e residuali”: “difficile, se non impossibile, continuare a ricercare i ‘soliti oggetti’ nei ‘soliti luoghi’, con i metodi consueti”29. Occorre allora ricercare oggetti nuovi in luoghi soliti, o oggetti soliti in luoghi nuovi e tenere presente che la materia degli studi di folklore non è scomparsa con le trasformazioni socio-culturali o con le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto la produzione e l’accesso ai fatti culturali, bensì che vi sono ancora espressioni verbali e artistiche, istituti rituali, pratiche di sociabilità e comunicazione che continuano a veicolare concezioni del mondo diverse da quelle egemoniche (quelle ufficiali- elitarie oppure quelle diffuse e legittimate dai grandi mezzi di comunicazione) e che sono proprie delle soggettività collettive che compongono il sistema sociale, disposte in maniera diversa in relazione alla detenzione del potere e all’accesso alle risorse materiali e culturali30. L’attenzione dello studio non deve limitarsi al singolo testo, o istituto o oggetto, ma allargarsi fino a comprendere il processo che lo pone in essere, l’utilizzo che ne fanno i vari soggetti sociali, il contesto generale che lo vede nascere o adottare: “assunti nella loro natura di costruzioni sociali, i singoli temi oggetto di studio possono così essere indagati nella loro specificità di fenomeni attuali e contemporanei”31.

Oggi una questione centrale, quando si vuole studiare e parlare di cultura popolare, è quella del rapporto del folklore (cosiddetto tradizionale) e la cultura di massa: nonostante l’antropologia abbia cercato di mantenere separati i due aspetti, in nome della salvaguardia dell’autentica tradizione dalla tendenza omologante della cultura di massa, “oggi è necessario riconoscerne le relazioni e inserirle nel contesto di una teoria delle differenze culturali nella società

29 P. Clemente, F. Mugnaini, a cura di, op. cit., p.20.

26 Ibid, p.21.

27 Ibid, pp.21-22.

28 F. Dei, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi, 2002, quarta di copertina.

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contemporanea”32.

Il dibattito odierno sugli studi di cultura popolare dovrà affrontare quindi soprattutto le questioni del rapporto della teoria dei dislivelli interni con l’industria culturale di massa e della demarcazione della cultura popolare nel quadro della società contemporanea: il dibattito sulla natura e i confini della cultura del popolo ha conosciuto, come abbiamo visto, un momento di grande intensità alla fine dei Settanta, riassumendosi essenzialmente in due acquisizioni. “Una precisa caratterizzazione sociologica della nozione di ‘popolo’, identificata in un’ottica gramsciana con l’ambito delle classi subalterne - vale a dire, di quei gruppi sociali che non hanno accesso al potere politico ed economico e, di conseguenza, sono esclusi dai meccanismi di elaborazione e trasmissione dell’alta cultura”33, e in secondo luogo, una metodologia che focalizza il momento della produzione culturale rispetto a quello del consumo: è popolare ciò che è prodotto dal popolo, o che comunque viene rielaborato da esso attraverso un processo autonomo e creativo di riappropriazione. Centrale, in quest’enunciazione, è il carattere relazionale e storicista, il fatto che l’ambito del subalterno si posizioni di volta in volta rispetto a determinati contesti storico-sociali e che si definisca per differenza e contrasto in relazione alla compresenza di fenomeni “non popolari” all’interno di quella situazione sociale e storica34: questo rende i confini della definizione di popolare-folklorico aperti e dinamici e suscettibili di comprensione della progressiva evoluzione dei fatti culturali nella società contemporanea (“relativizzazione storico-sociale del concetto di cultura popolare”), contrariamente alla posizione essenzialista dei precedenti indirizzi di studio, romantici o naturalistici, che immobilizzavano il concetto di folklore. Anche la posizione moderna però, nella pratica, finisce per relegare la cultura popolare in un ambito residuale, periferico, arcaico, in contrapposizione alla modernità, come se proprio la natura del “folklore” fosse, in quanto tale, incompatibile con la modernità: la modernizzazione porta all’uscita dal folklore. Vi è dunque un’ambiguità, nella posizione gramsciano-ciresiana, che se da un lato riconosce un certo grado di valenza positiva nelle concezioni del mondo popolari, contrapposte a quelle egemoniche, dall’altro continua a individuare il folklore come insieme di elementi e forme pre-moderni e residuali35.

Come collocare nella società odierna queste posizioni? Si può continuare oggi a riconoscere, nella realtà contemporanea, un modello dualistico che veda contrapporsi in modo netto e opposto due culture che sono quella egemonica e quella popolare?

Sembra allora più realistico cominciare a parlare in altri termini, che tengano conto del fatto che

33 Ibid, p.66.

34 Vedi Cirese, op. cit., pp.15-16.

35 F. Dei, op. cit., pp.67-69.

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nelle società tardo-capitalistiche la stratificazione interna è “sempre più complessa ed eterogenea, caratterizzata da una proliferazione se non addirittura una cacofonia di voci e di interessi”, e del fatto che le differenze sociali si sono moltiplicate e frantumate, “producendo una rete irregolare e in continua trasformazione di identità collettive”36. In base a ciò il problema finisce per spostarsi dalla contrapposizione dicotomica egemonico-subalterno e dall’idea di una relazione tra differenze sociali e differenze culturali a una nuova considerazione della cultura popolare, necessaria per lo studio della contemporaneità, che tenga conto dei rapporti con il popular, la cultura di massa:

lo stallo in cui sembra bloccarsi il dibattito italiano sul folklore dopo gli anni Settanta è legato, appunto, al disconoscimento delle forme della cultura di massa, all’incapacità di collegarne l’analisi alla teoria dei dislivelli interni. L’industria culturale è la grande assente in Cultura egemonica e culture subalterne di Cirese così come, per lo più, è assente nell’intero dibattito sulla demarcazione del folklore. Si può anzi pensare che giustificare l‘esclusione dei prodotti mass- mediali e delle modalità del loro consumo dall’ambito della demologia sia stata una delle istanze che hanno mosso e orientato fin dall’inizio il dibattito stesso. È proprio rispetto all’invadenza e all’inautenticità dell’industria culturale e dei consumi culturali di massa che gli studiosi sentivano il bisogno di recintare un ambito del “vero” folklore37.

E questa è

“forse la maggiore aporia in cui si avvolge il dibattito di fine anni Settanta: la concezione sociologica e relazionale di cultura popolare non può essere praticata fino in fondo, poiché, applicata alla modernità, porterebbe a imbattersi nell’inautenticità dell’industria culturale”38, e nella sua caratteristica di espressione dell’ideologia dominante.

È vero che i prodotti della cultura di massa non possono essere considerati come fatti propri della cultura del popolo, poiché esso non partecipa né alla produzione né ad una riappropriazione di tali prodotti, ma è vero altresì che una produzione culturale autonoma e distinta proveniente dal basso non può esistere in quest’epoca di comunicazione generalizzata in cui non si trovano più le condizioni ciresiane di isolamento, e d’altra parte chiudersi rispetto all’industria culturale di massa significherebbe ritornare ad una concezione essenzialista e pre-gramsciana del folklore come “tradizione”.

Possibile soluzione all’aporia può essere quella di spostare l’attenzione dal momento della produzione a quello del consumo della cultura, cioè analizzando le modalità di ricezione e di risposta ai prodotti omologanti dei mass-media, senza abbandonare la teoria gramsciana dei

36 Ibid, pp.70-71.

37 Ibid, pp.71-72.

38 Ibid, p.72.

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