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Criteri Per La Costruzione Di Mappe Di Pericolosità Sismica Di Liquefazione Per Le Grandi Aree

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Academic year: 2021

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Keywords: liquefazione, pericolosità, zonazione, GIS ABSTRACT

Negli ultimi anni, in Italia, autorità governative, sia locali che nazionali, hanno mostrato un interesse e una sensibilità crescente verso gli effetti indotti dalla liquefazione sismica sull’ambiente costruito ed hanno conseguentemente promosso una raccolta sistematica di dati geologici, sismici e geotecnici su vasta scala finalizzata anche alla definizione di mappe di pericolosità nei confronti della liquefazione da utilizzare nella pianificazione territoriale e nelle operazioni di mitigazione del rischio sismico. In particolare, per la stima del potenziale di liquefazione nelle grandi aree, sono in genere adottati metodi semplificati che operano sulla base di criteri geologici di suscettibilità alla liquefazione e che in genere prescindono dall’azione sismica (analisi di primo livello). Un’analisi di maggior dettaglio, basata sulla stima del potenziale di liquefazione ottenuto come rapporto tra resistenza alla liquefazione e domanda sismica, può essere eseguita anche su vasta scala, applicando ad esempio metodi di secondo livello basati sui risultati di prove in sito e sfruttando le potenzialità dei sistemi GIS per la gestione di grandi banche-dati e l’elaborazione dei dati in esse contenuti. I risultati di tali analisi possono poi essere restituiti sotto forma di mappe che consentano una zonazione il più possibile affidabile dell’area investigata e che possano essere utilizzate come strumento per il governo del territorio e per la progettazione antisisimica. Nel presente lavoro, con riferimento ad una specifica applicazione relativa ad un ampio database costituito da più di 1300 prove CPT distribuite su una vasta area della costa Adriatica Emiliano-Romagnola, vengono forniti i risultati della stima del potenziale di liquefazione, sia in forma deterministica che probabilistica, ed illustrati alcuni criteri per la costruzione di mappe di pericolosità di liquefazione. In particolare viene confrontato un criterio di zonazione basato sulla interpolazione deterministica dei valori calcolati del potenziale di liquefazione con un criterio basato sulla delimitazione di aree litologicamente e sismicamente omogenee, a cui sono attribuiti, sulla base della distribuzione statistica dei dati, valori caratteristici del potenziale di liquefazione o della probabilità di liquefazione.

1 CONSIDERAZIONI GENERALI

Negli ultimi anni, anche in seguito alle più recenti disposizioni normative introdotte per le costruzioni in zona sismica sia a livello nazionale (D.M. 14.01.2008) che europeo (EN-1998-5 2002), si è sviluppato in Italia un interesse crescente verso gli effetti indotti dalla liquefazione sismica sull’ambiente costruito.

Conseguentemente si sono moltiplicati gli studi e le ricerche finalizzate alla zonazione del territorio nei confronti della pericolosità di liquefazione, specie su vasta scala, a livello di comune o di provincia o anche su scale più grandi. Alcune di queste ricerche hanno interessato la piana di

Gioia Tauro (Facciorusso e Vannucchi 2003), l’area urbana di Catania (Crespellani et al. 2000), il centro di Nocera Scalo (Crespellani e Madiai, 2002) e la costa adriatica romagnola (Crespellani et al. 2003).

2 ANALISI DELLA PERICOLOSITÀ DI LIQUEFAZIONE A GRANDE SCALA In generale, le analisi di microzonazione sismica del territorio, quando investono ampie superfici, richiedono metodi semplificati di analisi, spesso di natura empirica, che si adeguano alle dimensioni della scala (1:50.000 o superiori) e all’ampiezza dell’area considerata (spesso delimitata da confini comunali,

Criteri Per La Costruzione Di Mappe Di Pericolosità Sismica Di Liquefazione Per Le Grandi Aree

Johann Facciorusso

DICeA. Università degli Studi di Firenze. Via di Santa Marta, n.3 50139 Firenze.

ANIDIS2009BOLOGNA

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provinciali o addirittura regionali). Nel caso specifico, i metodi tradizionalmente impiegati per stimare, a questo livello di dettaglio, il potenziale di liquefazione, ovvero il rischio di attivazione del fenomeno della liquefazione una volta che si sia verificato l’evento sismico atteso, mostrano evidentemente alcuni limiti legati alla natura empirica del metodo ed al fatto di prescindere in genere dall’azione sismica (analisi di primo livello, TC4 1999), ma risultano comunque di grande utilità per individuare le zone di interesse su cui approfondire l’analisi ad una scala di maggior dettaglio.

La tendenza sempre più diffusa a costituire banche-dati geotecnici regionali, il moltiplicarsi e l’affinamento di studi sulla pericolosità sismica e la disponibilità di strumenti informatici adeguati per l’interpretazione e l’elaborazione di un elevato numero di dati, consentono di applicare, anche su larga scala, analisi di secondo livello, ovvero basate su metodi che permettono di stimare, ad esempio a partire dai risultati di prove in sito, la resistenza alla liquefazione dei singoli strati di un deposito e di confrontarla con la domanda sismica, desunta da analisi di pericolosità sismica di base. Tali metodi, ben più complessi di quelli semi-empirici (sia in termini di parametri richiesti che di impegno di calcolo) consentono di quantificare il potenziale di liquefazione di un deposito sia in direzione orizzontale che al variare della profondità.

3 I METODI DI SECONDO LIVELLO BASATI SULLE PROVE IN SITO:

APPROCCIO DETERMINISTICO E PROBABILISTICO

I metodi di secondo livello, basati sulle prove in sito, consistono nell’applicazione di correlazioni empiriche tra osservazioni di casi reali di liquefazione (e non liquefazione) effettuate in seguito ai terremoti più forti e recenti (di cui si hanno sistematiche e dettagliate osservazioni) e i corrispondenti parametri del terreno misurati con le prove geotecniche in sito correnti (quali il numero di colpi NSPT, la resistenza alla punta qc, l’attrito laterale fs o la velocità delle onde S, Vs), che sono in qualche misura rappresentativi della resistenza del terreno alla liquefazione sismica. Infatti, esprimendo come rapporto di tensione ciclica (CSR) la domanda sismica corrispondente agli eventi sismici considerati e discriminando i casi di liquefazione osservati da quelli non osservati, è possibile costruire una curva di resistenza alla liquefazione (o curva di stato limite) che esprime

la resistenza del terreno, in termini di rapporto di tensione ciclica (CRR) in funzione del parametro misurato (con le opportune correzioni e normalizzazioni). Sebbene le correlazioni utilizzate siano di natura empirica e perciò legate alla territorialità dei dati utilizzati e alla loro rappresentatività statistica, negli ultimi 15 anni esse sono state ulteriormente affinate, grazie ad una più qualificata ed estesa base-dati disponibile, e all’utilizzo di criteri statistici più raffinati, che hanno consentito di sviluppare tali correlazioni anche in forma probabilistica. Vale la pena di ricordare, però, che i metodi in questione introducono una semplificazione nelle condizioni al contorno (analisi monodimensionale, piano di campagna orizzontale e assenza di sovraccarichi o edifici nelle aree circostanti), che ne limita l’uso a condizioni di “campo libero”, e che comunque può essere ritenuta accettabile considerata la scala di indagine e il fatto che le stime ottenute della pericolosità di liquefazione sono in genere cautelative.

Secondo l’approccio più tradizionale, e scientificamente consolidato (approccio deterministico), viene determinata in primo luogo la curva di resistenza alla liquefazione utilizzando, per separare i casi di liquefazione osservati da quelli di non liquefazione, un criterio

“visuale” (nei primi metodi) o procedendo (nei metodi più recenti) ad una regressione statistica dei dati, senza alcun trattamento probabilistico delle variabili che concorrono a determinare la resistenza alla liquefazione CRR. In secondo luogo, il verificarsi o meno della liquefazione viene predetto calcolando il fattore di sicurezza FSL, inteso come rapporto tra la resistenza alla liquefazione del terreno (CRR) e la domanda sismica corrispondente al terremoto atteso di progetto, anch’essa espressa come rapporto di tensione ciclica (CSR), e valutando se esso sia minore di uno (liquefazione) o maggiore di uno (non liquefazione). In tal caso il potenziale di liquefazione è espresso come 1-FSL, quando FSL

< 1, ed è nullo per FSL >1.

Nell’approccio probabilistico si considera simultaneamente l’influenza di più variabili (ciascuna trattata come grandezza aleatoria) in grado di contribuire alla liquefazione e, tramite modelli probabilistici più o meno complessi, vengono ottenute infinite curve di resistenza alla liquefazione, ciascuna corrispondente a una differente probabilità di inizio liquefazione. In tal caso il potenziale di liquefazione di uno strato di terreno, sempre in relazione a un evento sismico prefissato, può essere descritto in termini di probabilità di inizio di liquefazione, PL. A fronte della maggiore semplicità e facilità di

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applicazione delle formule proposte dai metodi deterministici e dell’ampio consenso raccolto nell’ambito della comunità scientifica, l’approccio probabilistico da un lato risulta sicuramente più adeguato nel trattare un problema intrinsecamente incerto come quello della liquefazione, in quanto considera simultaneamente il contributo di più variabili in grado di concorrere alla liquefazione, trattandole, coerentemente con la loro natura, come grandezze aleatorie, dall’altro richiede per la previsione del fenomeno modelli probabilistici più o meno complessi, nei quali occorre quantificare le incertezze legate alla misura dei parametri di ingresso e, in alcuni casi, le incertezze inerenti il modello utilizzato. Inoltre i metodi probabilistici, fornendo il risultato in termini di probabilità di inizio di liquefazione PL, si prestano a una migliore e più utile applicazione ingegneristica, in quanto consentono di esprimere il potenziale di liquefazione in un dato sito (ad una data profondità) con una quantità probabilistica, legata a un livello di incertezza e di assumere decisioni basate su un prefissato livello di salvaguardia.

4 LE MAPPE DI PERICOLOSITÀ DI LIQUEFAZIONE: INTERPOLAZIONE DETERMINISTICA E CLASSIFICAZIONE LITOLOGICO-SISMICA BASATA SU CRITERI STATISTICI

Per una zonazione sismica del territorio, finalizzata alla valutazione della pericolosità di liquefazione, occorre fornire, per ciascuna delle verticali investigate, una misura integrale del potenziale di liquefazione stimato con i metodi sopra citati. Tale misura deve estendersi fino ad una profondità entro la quale si ritengano significativi gli effetti della liquefazione (zcr = 20 m), ed allo stesso tempo attribuire un peso progressivamente crescente agli strati più superficiali. L’espressione di tale grandezza (indice del potenziale di liquefazione, LPI) è stata fornita da Iwasaki et al. (1982) in termini di fattore di sicurezza, FSL, e, sulla base delle osservazioni delle differenti tipologie di manifestazioni di liquefazione e della gravità dei loro effetti, è stato associata a specifiche classe di pericolosità. La stessa espressione può essere formalmente applicata (Facciorusso, 2008) anche in termini di probabilità di liquefazione, PL, l’indice così ottenuto (indice di probabilità di liquefazione, LPbI), a differenza del corrispondente indice deterministico LPI, non rappresenta un semplice formalismo appositamente introdotto per quantificare la

pericolosità di liquefazione, ma rappresenta esso stesso una probabilità di inizio di liquefazione mediata e pesata sull’intera verticale esplorata.

Per la restituzione finale dei risultati dell’analisi, nella forma di mappe di pericolosità sismica di liquefazione o di probabilità di inizio di liquefazione, occorre procedere ad una interpolazione dei valori calcolati puntualmente, sfruttando anche le potenzialità offerte dai sistemi GIS. L’affidabilità dei risultati dell’interpolazione, sia che venga condotta secondo metodi deterministici che geostatistici, dipende strettamente dalla densità e dalla distribuzione areale dei dati e comunque, trattandosi di semplici processi matematici o statistici, la delimitazione delle e aree a differente pericolosità prescinde dalla geologia superficiale e dalla sismicità locale, specie per le aree coperte da un numero limitato di prove o dove le prove sono del tutto assenti. Un’alternativa può essere fornita da una zonazione preliminare del territorio sulla base delle sole caratteristiche litologiche degli strati più superficiali e della pericolosità sismica locale, seguita da un’analisi statistica dei valori del potenziale di liquefazione calcolati all’interno di ciascuna zona con lo scopo di definire un valore statisticamente rappresentativo dell’indice del potenziale di liquefazione o una probabilità di liquefazione.

5 IL CASO DI STUDIO: LA COSTA

ADRIATICA EMILIANO-ROMAGNOLA

5.1 Inquadramento geologico, litologico e sismologico dell’area di studio

Il caso di studio riguarda la costa romagnola, che è stata oggetto, negli anni passati, di numerose ricerche sul rischio di liquefazione promosse dalla Regione Emilia-Romagna (Crespellani et al., 2003). Tali ricerche hanno dimostrato come nell’area esistano le condizioni sismiche e geotecniche affinché possa verificarsi il fenomeno della liquefazione sismica, le cui manifestazioni sono, tra l’altro, documentate nelle cronache storiche relative ai terremoti che hanno interessato l’area in passato (Galli e Meloni, 1993). L’area delimitata per la ricerca ha un’estensione di circa 1300 km2, comprende tutti i Comuni della fascia costiera romagnola (da Milano Marittima a Misano Adriatico) ed è situata tra la costa adriatica ed il margine appenninico-padano: nel settore meridionale sono presenti i primi rilievi appenninici, mentre la maggior parte del territorio, nella parte centrale e settentrionale dell’area di studio, è in pianura. La

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fascia costiera costituita da depositi marini litorali e da dune eoliche, fortemente urbanizzata, ha un’ampiezza piuttosto ridotta (circa 800-1000 m).

Per il calcolo della resistenza a liquefazione CRR, secondo i metodi precedentemente descritti, è stato utilizzato un database di prove CPT che si compone di 1325 prove CPT, di cui 1082 CPT meccaniche (CPTM), 243 tra prove col piezocono (CPTU), elettriche (CPTE), e col cono sismico (SCPT). Le prove, ubicate nella mappa di Figura 1, coprono in modo abbastanza uniforme l’intera area di studio (con una densità media di circa 1.1 CPT/km2), ad eccezione di una zona ben delineata nella parte settentrionale (corrispondente alle Valli di Comacchio) per la quale non risultano verticali indagate, e con una maggiore concentrazione (densità media di circa 15 CPT/km2), in corrispondenza di una ristretta fascia costiera (a meno di un km dalla linea di costa). Tutte le prove hanno una profondità maggiore di 15 m e tra queste, quelle che raggiungono la profondità di 30 m sono 330 (25.4% del totale), mentre quelle di cui si dispone della misura della posizione della falda sono 797 (58.3% del totale), per le altre è stata assunta una profondità ricavata mediante interpolazione sulla base delle misure effettuate nei sondaggi vicini (comunque sempre variabile in media tra 1.5 e 2 m dal piano campagna).

Da un punto di vista litologico (Figura 1), si distinguono zone con differenti litologie affioranti procedendo dalla costa verso l’interno:

una ristretta fascia costiera che, nella parte centrale e meridionale, è costituita prevalentemente da sabbie medie, fini e finissime, ben selezionate, di ambiente litorale (spiaggia e dune eoliche), per uno spessore massimo variabile da 8 a 12 metri, e nella parte settentrionale da argille sabbiose di piana costiera; segue poi una fascia intermedia immediatamente più interna costituita, nella parte settentrionale (che si spinge molto verso l’interno), da limi argilloso-torbosi di piana deltizia e da limi argilloso-sabbiosi di piana alluvionale, nella parte meridionale. Si tratta di depositi fluviali intravallivi e di piana alluvionale, risalenti al Pleistocene Medio-Olocene, con intercalazioni di sabbie litorali, il cui spessore aumenta, procedendo progressivamente dal margine appenninico verso il mare, fino a 20-25 metri, con spessori più esigui (che non superano i 10 m) nella parte centrale e settentrionale. Infine vi è una fascia interna, di scarso interesse ai fini della liquefazione, costituita da affioramenti rocciosi nella parte meridionale, e da argille limose e sabbie limoso-argillose di piana alluvionale nella parte centrale. I terreni più

antichi che si trovano al di sotto dei depositi più superficiali sono invece costituiti da un’alternanza ciclica di argille organiche, limi, sabbie e ghiaie di ambiente alluvionale e, limitatamente al settore costiero, con intercalazioni di sabbie litorali.

Per il calcolo della domanda sismica, CSR, occorre prima definire l’evento sismico atteso, con un assegnato periodo di ritorno,TR, attraverso l’accelerazione massima orizzontale al suolo, amax, e la magnitudo momento, Mw.

L’accelerazione amax può essere calcolata come:

amax = ag x SS x S T (1)

dove ag è l’accelerazione orizzontale massima attesa in condizioni di campo libero su sito di riferimento rigido con superficie topografica orizzontale, SS il fattore di amplificazione stratigrafica del deposito e ST il fattore di amplificazione topografica. Per la stima di ag e Mw occorre disporre dei risultati di un’analisi di pericolosità sismica locale per l’area oggetto di indagine, mentre per il calcolo dei fattori SS e ST

occorre far riferimento alle capacità amplificative dei depositi interessati, sia dovute alla stratigrafia sia dovute alla morfologia superficiale.

Figura 1. Carta litologica dell’area di studio e ubicazione delle prove CPT.

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L’analisi della pericolosità sismica di base dell’area di studio è stata effettuata con riferimento alla normativa nazionale vigente in materia antisismica (D.M. 14.01.2008), che ha fornito, per un periodo di ritorno TR = 475 anni (corrispondente ad una verifica allo Stato Limite di Salvaguardia della Vita su strutture ordinarie), i valori di ag per ciascuna verticale investigata.

Tali valori sono risultati in genere abbastanza uniformi, compresi tra un minimo di 0.07 g e un massimo di 0.19 g, con i valori più bassi ottenuti per la parte settentrionale dell’area di studio e i valori più alti nella parte centro-meridionale.

Il fattore di amplificazione topografica, ST, è stato assunto pari a uno, essendo prevalenti, nell’area investigata, condizioni di pianura. Il fattore di amplificazione stratigrafica, SS

specifico del sito è stato stimato, secondo le indicazioni fornite dalla normativa, in funzione dei valori desunti dall’analisi di pericolosità sismica di base e della categoria del terreno, definita in base alle caratteristiche stratigrafiche del deposito e al valore della velocità media equivalente delle onde S nei primi 30 m di deposito, VS,30. Quest’ultima è stata stimata adottando specifiche correlazioni regionali tra la velocità delle onde S e gli indici della prova CPT (Giretti et al. 2007). Per le verticali per le quali non è stato possibile calcolare o stimare VS,30

(cioè che non raggiungono i 30 m di profondità), è stato assunto cautelativamente come profilo di terreno, quello peggiore (tipo D). I valori così ottenuti del fattore di amplificazione stratigrafica SS oscillano tra 1.7 e 1.8, con prevalenza dei valori più alti, che risultano piuttosto diffusi su tutto il territorio, ad eccezione della parte centrale (sia interna che costiera), ove sono di poco più bassi e con ampie zone non coperte da prove e che quindi necessitano di ulteriori indagini.

I valori così calcolati (Eq.1) dell’accelerazione massima orizzontale attesa in superficie, amax, sono risultati compresi fra 0.127 g e 0.335g, con i valori più elevati nella parte meridionale dell’area investigata e progressivamente decrescenti procedendo verso nord.

Per quanto riguarda la stima della magnitudo momento attesa, Mw, col prefissato periodo di ritorno di 475 anni, essa è stata definita come valore massimo tra quelli ottenuti secondo due differenti procedure: una basata sulla ricerca dell’

evento di massima intensità verificatosi, in un intervallo di anni pari al periodo di ritorno, all’interno della zona sismogenetica nella quale il sito ricade ed una basata sulla deaggregazione dei dati di pericolosità sismica, precedentemente utilizzati. In particolare, è risultato un valore atteso della magnitudo momento di 5.88 per la

parte centrale dell’area studiata (che ricade nella zona sismogenetica ZS9) e 5.94 per la parte meridionale (che rientra nella zona ZS12) e compreso tra 5.0 e 5.3 nella parte settentrionale (non coperta da alcuna zona sismogenetica).

5.2 Calcolo del potenziale di liquefazione Per il calcolo del potenziale di liquefazione, in termini deterministici, ovvero in funzione del fattore di sicurezza FSL, tra i metodi basati sulle prove CPT, è stato scelto, nell’ambito del presente studio, quello senza dubbio di più ampia diffusione, specie nella pratica ingegneristica, e di più lunga sperimentazione, ovvero il metodo proposto da Robertson e Wride, che, nel caso specifico, è stato applicato nella sua forma più aggiornata (Youd et al., 2001), apportando, sulla base delle più recenti ricerche condotte sull’argomento, alcune modifiche sia nella formulazione del fattore di sicurezza FSL nei confronti della liquefazione, sia nell’utilizzo di quest’ultimo per il calcolo del potenziale di liquefazione.

Tradizionalmente, nell’applicare il metodo di Robertson e Wride (così come altri metodi di natura deterministica), il valore di FSL discriminante tra liquefazione e non liquefazione, che dovrebbe tenere in conto tutte le incertezze introdotte sia nei parametri utilizzati sia nel modello adottato, è assunto pari a uno.

Nell’ambito della presente ricerca, per le ragioni che saranno di seguito esposte, si è assunto come valore discriminate 1.4. La funzione F(z), che esprime il potenziale di liquefazione per ciascun strato e che compare nell’espressione dell’indice del potenziale di liquefazione introdotta da Iwasaki (1982), è stata così modificata, secondo la forma suggerita da Sonmez (2003):

( )

<

>

=

95 . 0 1

4 . 1 95

. 0 10

2

4 . 1 0

427 . 18 6

FSL per FSL

FSL per

e FSL per z

F FSL (2)

Anche la suddivisione delle classi di pericolosità tradizionalmente adottata, è stata modificata, come mostrato in Tabella 1.

Come già detto, il potenziale di liquefazione di ciascun strato investigato, espresso dalla funzione F(z), e quindi l’indice cumulativo corrispondente, può anche essere determinato in forma probabilistica, ovvero come probabilità di inizio di liquefazione, PL = F(z), ricorrendo ad uno dei numerosi metodi formulati in letteratura negli ultimi anni.

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Tabella 1. Classi di pericolosità di liquefazione (Sonmez, 2003).

Indice del potenziale di

liquefazione, LPI Pericolosità di liquefazione

LPI = 0 Nulla

0 < LPI≤ 2 Bassa

2 < LPI≤ 5 Moderata

5 < LPI≤ 15 Alta

LPI > 15 Molto alta

Nell’ambito di questo studio, considerate le differenze che tali metodi probabilistici possono presentare tra loro ad esempio in termini di normalizzazione delle grandezze misurate in sito, o nel calcolo della domanda sismica e della resistenza alla liquefazione (dovute al differente modello probabilistico adottato per descrivere le grandezze contenute nel data-base), e tutte le incertezze legate alla loro sperimentazione ancora poco consolidata, si è preferito applicare un adattamento probabilistico del metodo di Robertson e Wride, che offre il vantaggio di essere formulato e tarato sulla stessa base di dati e in funzione delle stesse grandezze. La formulazione adottata rientra nei metodi basati sull’ “approccio bayesiano” (“First Order Reliability Method”), ed è stata messa a punto da Juang et al. (2002). Gli Autori, per facilitare l’applicazione del metodo, hanno anche ricostruito una legge di corrispondenza tra il valore di probabilità di inizio liquefazione, PL, ottenuto con la procedura appena descritta e il valore del fattore di sicurezza FSL, ottenuto in modo deterministico, sempre utilizzando il metodo di Robertson e Wride, (“Bayesian mapping function”):

L B

A FSL P

+

= 1

1 (3)

con A = 1.0 e B=3.3.

Dall’applicazione di tale procedura risulta che il metodo di Robertson e Wride (quanto meno se riferito alla banca-dati su cui è stato definito e secondo l’analisi di affidabilità svolta) non è affatto conservativo; per tale motivo, nel definire il valore discriminante per il fattore di sicurezza FSL tra casi di liquefazione e non liquefazione, è opportuno assumere un valore maggiore di 1 che tenga in conto tutte le incertezze introdotte sia nei parametri utilizzati che nel modello adottato, in modo da assumere delle scelte più conservative basate sul rischio (“risk based design”) che tengano conto anche delle strutture da salvaguardare. A tale proposito è stata introdotta una carta di classificazione della probabilità di liquefazione (Chen e Juang, 2000) riportata in

Tabella 2, in base alla quale, ad esempio, il Building Seismic Safety Council (1994) raccomanda la classe 1 per le strutture strategiche e la classe 2 per quelle ordinarie. Ciò significa che il livello di salvaguardia da garantire corrisponde, ad esempio, per le strutture ordinarie (ovvero quelle più diffuse nell’area di studio) una probabilità di inizio di liquefazione compresa tra il 15% e il 35% (liquefazione improbabile). Ad esempio, con riferimento al valore medio dell’intervallo (25%), il valore del fattore di sicurezza da assumere come discriminante tra liquefazione e non, se si applica il metodo di Robertson e Wride, risulta secondo l’equazione (3) di 1.4, ovvero il valore assunto nell’equazione (2).

Tabella 2. Classi di probabilità di liquefazione (Chen e Juang, 2000).

Classe Probabilità di liquefazione, PL

Giudizio di pericolosità 5 PL ≥ 0.85 Liquefazione quasi certa 4 0.65 ≤ PL <0.85 Liquefazione molto probabile 3 0.35 ≤ PL <0.65 Liquefazione e non

liquefazione ugualmente probabili

2 0.15 ≤ PL <0.35 Liquefazione improbabile 1 PL < 0.15 Non liquefazione quasi certa

6 MAPPE DI PERICOLOSITÀ E DI PROBABILITÀ DI LIQUEFAZIONE

6.1 Interpolazione deterministica

Nelle Figure 2 e 3 sono riportate rispettivamente la mappa di pericolosità di liquefazione deterministica, in funzione di LPI, e probabilistica, in termini di LPbI. Le aree a differente pericolosità sono state classificate secondo le indicazioni fornite rispettivamente nelle Tabelle 1 e 2 e delineate attraverso una procedura matematica di interpolazione basata sul metodo della distanza inversa pesata, che attribuisce ai punti vicini un peso pari all’inverso della distanza (con una potenza arbitraria). Tale metodo è stato impostato in modo tale che venissero inclusi nel calcolo solo i punti ricadenti entro un raggio di influenza prestabilito (che è stato assunto pari a 3500 m), per evitare che anche siti poco compatibili da un punto di vista litologico o sismico potessero concorrere alla stima del valore interpolato. In questo modo, non viene restituito alcun risultato dell’interpolazione per quelle aree caratterizzate da una totale assenza di prove (evidenziate nelle mappe in bianco).

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Figura 2. Mappa di pericolosità di liquefazione ottenuta mediante interpolazione dei valori calcolati di LPI.

Le stesse mappe, specie se sovrapposte all’ubicazione delle prove utilizzate per costruirle, evidenziano come esista una vasta area, specie nella fascia interna centrale, coperta da poche prove ed in cui solo pochi valori concorrono alla definizione del valore interpolato del potenziale di liquefazione, rendendo quindi poco affidabile la conseguente classificazione.

Un’alternativa può essere escludere anche queste zone dalla classificazione (riducendo il raggio di influenza nel criterio di interpolazione adottato), in modo da stabilire una sorta di soglia minima di densità delle prove disponibili. Le mappe così ottenute, sebbene poco omogenee e incomplete, si possono ritenere più affidabili, in quanto non si limitano a disegnare le aree a differente pericolosità, ma evidenziano anche le aree non sufficientemente coperte dalle prove che necessitano quindi, di ulteriori approfondimenti.

Quando le prove disponibili non sono omogeneamente distribuite, si può anche ricorrere alla geostatistica per migliorare da un lato il criterio di interpolazione adottato (definito sulla base di modelli probabilistici spaziali che tengono conto della distribuzione eterogenea e asimmetrica dei dati nell’area di studio) e dall’altro per associare un parametro di

affidabilità ai valori così ottenuti dall’interpolazione.

In ogni caso, specie se la mappa ottenuta risulta frammentata e incompleta, essa può essere integrata con le informazioni derivanti dalla litologia superficiale, dalle stratigrafie disponibili e dall’analisi di suscettibilità di primo livello, per ottenere una distribuzione più continua ed omogenea del potenziale di liquefazione e per disegnare in maniera più razionale le linee che separano le aree a differente pericolosità.

6.2 Classificazione litologica e sismica dei valori del potenziale basata su criteri statistici

Allo scopo di superare parte dei limiti appena esposti per le mappe ottenute mediante interpolazione dei valori del potenziale, viene suggerito in questa sede una procedura alternativa di classificazione delle aree a differente pericolosità. In primo luogo sono state ricercate le aree che si potessero ritenere omogenee, nei confronti della liquefazione, da un punto di vista litologico (fattore predisponente) e sismico (fattore scatenante).

Figura 3. Mappa di probabilità di liquefazione ottenuta mediante interpolazione dei valori calcolati di LPbI.

LPbI < 15%

15% < LPbI< 35%

35% < LPbI< 65%

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In questa zonazione preliminare, anche assumendo che il terreno non mostri sensibili variazioni in direzione verticale (limitatamente alla profondità di interesse ai fini della liquefazione, ovvero i primi 15-20m) e orizzonta- le (all’interno della stessa unità litologica), occorre comunque ricercare un compromesso tra due opposte esigenze. Da un lato il rispetto di tutte le differenze basate non solo sulla natura litologica degli strati affioranti, ma anche sulla origine geologica e sulla storia deposizionale, dall’altro la necessità di produrre una mappa il più possibile omogenea, non troppo frammentata, di facile utilizzo e consultazione (considerati la scala di indagine e gli utilizzi previsti nel campo ad esempio della pianificazione urbanistica).

Nel presente studio, la carta litologica è stata quindi semplificata (Figura 4) accorpando per affinità le litologie riportate in Figura 1 (L1=argille, L2 = ghiaie, L3 = limi e L4 = sabbie) nel tentativo di verificare a posteriori una eventuale omogeneità nella risposta al fenomeno della liquefazione, all’interno di ciascuna zona.

Tali zone, come mostrato in Figura 4, sono state poi ulteriormente suddivise sulla base del valore atteso della magnitudo Mw in tre sottozone (1:

4.98<Mw<5.26; 2 : Mw =5.88; 3: Mw =5.94), verificando che all’interno di ciascuna di esse la variabilità del PGA atteso in superficie fosse contenuta (i valori della deviazione standard sono risultati compresi tra 0.02 e 0.18).

Gli istogrammi delle frequenze dei valori calcolati dell’indice del potenziale di liquefazione, LPI, relativi a ciascuna delle 11 sottozone così individuate, sono riportati in Figura 5 insieme ad alcuni parametri statistici significativi. Si osserva come in tutti i casi la distribuzione sia fortemente asimmetrica, probabilmente modellabile con una legge di probabilità di tipo esponenziale, e come, in alcuni casi, il coefficiente di variazione, specie se rapportato con la numerosità dei dati, sia piuttosto elevato (suggerendo una ulteriore suddivisione della zona litologica, come nel caso della zona L42). Il valore medio del potenziale sembra comunque essere più elevato per le sabbie rispetto a quello determinato per le argille, e all’interno della stessa litologia, come era lecito attendersi, lievemente maggiore per le zone a cui compete una magnitudo attesa superiore.

In Figura 6 è riportato il complemento a uno della frequenza cumulata sperimentale ricavata per ciascuna delle 11 zone e che è stato utilizzato per stimare la probabilità di superamento di una certa soglia del potenziale di liquefazione. Tale

soglia è stata assunta pari a 5 (Toprak e Holzer, 2006) e in via più cautelativa, uguale a 2, sulla base della nuova classificazione proposta in Tabella 1. I valori medi dell’indice del potenziale di liquefazione, i relativi campi di variazione e le corrispondenti classi di pericolosità per ciascuna delle zone individuate, sono riportati in Tabella 3.

Nella stessa tabella sono riportate le probabilità di liquefazione, intese come probabilità di superamento delle soglie prescelte. La mappa che alla fine è stata ottenuta (Figura 4), ha il vantaggio, rispetto alle mappe ottenute per interpolazione, di avere un numero limitato di zone che coprono l’intera area di studio e i cui confini sono comunque giustificati da considerazioni litologiche e sismiche. Inoltre tale mappa, se utilizzata insieme ai dati forniti in Tabella 3, consente di attribuire a ciascuna delle zone individuate, una valore medio di LPI, e quindi una classe di pericolosità di liquefazione, oppure un range di variabilità (attraverso la deviazione standard). Se, invece, si preferisce una rappresentazione probabilistica, allora è possibile assegnare a ciascuna zona una probabilità di liquefazione una volta scelta la soglia per LPI che si considera critica ai fini degli effetti della liquefazione.

Figura 4. Identificazione delle zone litologicamente e sismicamente omogenee

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Figura 5. Istogrammi delle frequenze dei valori di LPI per ciascuna delle 11 zone (L1=argilla; L2=ghiaia; L3=limo;

L4=sabbia;1 : 4.98<Mw<5.26; 2: Mw=5.88; 3: Mw = 5.94).

Naturalmente l’affidabilità dei parametri riportati in Tabella 3 ed ottenuti sulla base di considerazioni puramente statistiche, è fortemente influenzata dalla numerosità dei dati utilizzati e, laddove il numero dei dati lo consente, è preferibile ricalcolare tali parametri dopo avere adattato una legge di distribuzione probabilistica (ad esempio esponenziale) agli istogrammi e alle curve cumulate sperimentali. Anche le zone, inizialmente identificate, possono essere ridefinite, specie in quei casi in cui la variabilità del potenziale calcolato è risultata elevata (ad es.

la zona L42). Tale variabilità, infatti, suggerisce che sono stati messe insieme zone litologiche, anche se affini, con una differente risposta alla liquefazione, oppure è indicativa di una variabilità delle proprietà geotecniche del terreno sia in direzione verticale che orizzontale. In quest’ultimo caso, è opportuno verificare la fondatezza della suddivisione attraverso una più attenta analisi delle stratigrafie dei sondaggi disponibili o ricorrendo a una rappresentazione, magari statistica, degli indici di classificazione del terreno desunti dai risultati delle prove CPT utilizzate.

7 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Nel presente lavoro, con riferimento ad un caso di studio relativo ad una vasta area (di circa 1300 km2) della costa Adriatica Emiliano- Romagnola, vengono forniti i risultati di una zonazione della pericolosità sismica di liquefazione effettuata con metodi di secondo livello, basati sui risultati di prove CPT. La stima del potenziale di liquefazione è stata effettuata sia

in forma deterministica che probabilistica e rappresentata con un indice cumulativo per ciascuna delle verticali esplorate. Quindi sono stati illustrati alcuni criteri per la costruzione di mappe di pericolosità di liquefazione. In particolare sono stati analizzati i limiti e le potenzialità dei criteri basati sulla interpolazione deterministica e confrontati con un criterio basato sulla delimitazione di aree litologicamente e sismicamente omogenee, a cui sono attribuiti, sulla base della distribuzione statistica dei dati in esse contenuti, valori caratteristici del potenziale di liquefazione o della probabilità di liquefazione.

È interessante osservare come, indipendentemente dal criterio di rappresentazione adottato, le aree più critiche, a cui competono i valori maggiori dell’indice del potenziale o della probabilità di liquefazione, corrispondano al cordone litorale costiero e limitatamente alla parte centrale e meridionale, mentre esista una vasta area a pericolosità bassa o nulla (e con probabilità di liquefazione PL<15%).

Tabella 3. Valori medi di LPI e probabilità di superamento (espresse in %) delle soglie LPI=2, PL2, e LPI=5, PL5.

Zona LPI (media ± dev.st.) PL2 PL5

L11 0.0±0.6 (bassa) 0 0

L12 1.2±1.5 (bassa) 21.2 3

L13 0.7±1.3 (bassa) 7.4 1.9

L22 0.3±0.5 (bassa) 0 0

L23 2.1±2.1 (moderata) 18.5 5.5

L31 0.1±0.6 (bassa) 1.3 0

L32 1.1±1.9 (bassa/moderata) 15.2 2.4 L33 1.1±1.6 (bassa/moderata) 20.3 3.1

L41 0.0±0.0 (nulla) 0 0

L42 1.1±1.9 (bassa/moderata) 16.2 4 L43 3.0±3.5 (moderata/alta) 49.7 19.1

(10)

Figura 6. Curva cumulata delle frequenze complementare per ciascuna delle 11 zone individuate.

In particolare, la carta ottenuta secondo la procedura di classificazione litologica e sismica dei valori calcolati del potenziale, consente una zonazione estesa all’intero territorio in esame con una distribuzione più uniforme e continua dei valori del potenziale, che, trattandosi di valori medi, sono risultati in genere più bassi di quelli riportati nelle mappe ottenute per interpolazione (ad esempio scompaiono le zone a elevata pericolosità, magari determinate dalla presenza di poche prove).

RINGRAZIAMENTI

Si ringrazia la Regione Emilia-Romagna che ha finanziato lo svolgimento della ricerca, il Sevizio Geologico, Sismico e dei Suoli della Regione Emilia-Romagna che ha messo a disposizione i dati e l’Ing. Catia Nassini che ha collaborato alla gestione ed elaborazione dei dati.

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