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Introduzione al capitolo secondo

Il secondo capitolo si divide in due distinte sezioni, la prima delle

quali comprende i paragrafi da 1 a 7, la seconda i restanti 3. Una tale

bipartizione è data dalla volontà di passare in rassegna, sotto l’aspetto

del contenuto concettuale e della struttura linguistica e retorica, alcuni

testi esemplari appartenenti in prima istanza alla tradizione patristica

occidentale, in seconda battuta all’ambito delle lettere pagane, tutti

concentrati intorno al tema della questione vedovile. Lo scopo è

quello di evidenziare le interazioni reciproche che tali diversi contesti

culturali hanno prodotto, in modo particolare per quanto riguarda

l’influenza dei testi greco-latini medio e tardo imperiali sulla

produzione dei grandi pensatori cristiani attivi in ambito

Mediterraneo, in Italia e nel Nord Africa. La narrativa di ambito

romanzesco e milesio ha infatti nel personaggio della vedova una

risorsa preziosa per le possibilità che questo offre sul piano della

caratterizzazione e della dinamicità del ruolo: ella svolge la funzione

dell’antagonista opposta all’eroina votata alla castità e alla

realizzazione del patto nuziale nella conclusione della vicenda

raccontata, e si configura pertanto come una donna di età maggiore

rispetto a questa, di più grande esperienza e scaltrezza, e, soprattutto,

di robusti appetiti sessuali. Gli otto libri di Achille Tazio, che

espongono le peripezie di Leucippe e Clitofonte, offrono in questo

senso un esempio particolarmente interessante: nella figura della vidua

Melite si concentrano infatti elementi diversi e a volte conflittuali,

come la passione capace di sottomere il raziocinio e l’intelligenza per

mettere in atto i propri progetti, la gelosia nei confronti del giovane

amato e l’empatia nel favorire la sua storia d’amore, che ne rendono la

psicologia di fatto complessa ed insolita, non solo in relazione a

questo specifico romanzo, ma anche nei confronti degli altri quattro

sopravvissuti, dai quali esso si differenzia in modo marcato. La

raccolta di epoca sillana di Cornelio Sisenna rappresenta l’ascendente

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letterario da cui traggono ispirazione Fedro prima e Petronio poi. La

novella della vedova e del soldato ci offre, nelle due diverse redazioni,

fatte salve tutte le differenze stilistiche ed espressive legate al genere e

alla destinazione, lo stesso tipo di caratterizzazione: ancora una volta

ci troviamo di fronte ad un soggetto femminile sessualmente vorace,

che per soddisfare la propria libido arriva a compiere un crimine nei

confronti del marito da poco defunto, facendo sì che tutti gli attributi

elogiativi contenuti nella prima parte del testo si rovescino

ironicamente nel loro opposto, linguistico e concettuale. Questo tipo

di produzione non contiene un filtro di tipo moralistico: il fine

dell’evasione è in contrasto con qualsiasi conclusione moralmente

edificante che l’autore possa presentare, sebbene in tutti i casi citati

non manchi una cornice di sapore apertamente misogino che intriduca

la vicenda . Il sarcasmo divertito che si respira in queste pagine

diviene livore polemico o motivo di sdegno per i cristiani che

paragoneranno le loro vedove a quelle dei pagani, come ci

testimoniano i trattati di Tertulliano e, in determinati contesti, anche

parte delle lettere di Gerolamo. D’altronde, anche i cultori degli dei

conoscono esempi di morigeratezza e di continenza, che appartengono

non all’ambito delle lettere di invenzione bensì a quello molto più

sostanziale della vita reale delle province, come testimoniano i casi di

Elvia, madre di Seneca, e di Pudentilla, moglie di Apuleio. Dove sono

allora le differenze tra i pagani ed i cristiani, e a che cosa si possono

ridurre? La lettura dei testi patristici, che proprio per dimostrare la

validità delle conclusioni tratte e la trasversalità dei concetti espressi

sono di vario tipo, ci dimostra che di fronte ad uno stesso quadro di

mutata rilevanza sociale della donna in genere e della vedova in

particolare, la diversità della risposta data al problema della gestione

nella vita associata consta nell’adozione di una scala valoriale del tutto

differente nell’uno e nell’altro caso, ed in modo particolare nella

differente importanza data alla problematica della continenza e della

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castità. Una questione che per i pagani è solo morale e che per i

cristiani si arricchisce di contenuti strettamente teologici, ponendosi,

com’è evidente, con una maggiore urgenza. La nostra analisi porrà gli

accenti sugli aspetti censori che l’etica produce riguardo alle abitudini

delle orbatae viri, e si preoccuperà contemporaneamente di enucleare

con una certa dovizia quegli aspetti costruttivi e positivi che il

cristianesimo offre con notevole ampiezza di testimonianze, a partire

da Paolo e dall’esegesi delle sue epistole lungo tutto il corso del IV

secolo, il penultimo preso in considerazione. Verranno altresì

sottolineati gli aspetti ideologici che rimangono in sottofondo come

patrimonio comune e condiviso, e che, in modo solo apparentemente

sorprendente, si concentrano sull’aspetto del denaro posseduto dalle

vedove e dell’amministrazione di esso.

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2. La vidua tra paganesimo e cristianesimo: permanenze e variazioni concettuali e stilistiche attraverso il tardo antico.

2.1. I Trattati di Zenone Veronese: pudicizia e continenza nella comunità cristiana e la loro celebrazione nella liturgia.1

La raffigurazione della donna vedova offerta dalla letteratura biografica cristiana rompe quindi, come detto, con la tradizione pagana precedente per assumere aspetti diversi, precisamente definiti e concettualmente circostanziati. L’essenza di tale modalità rappresentativa, ben lungi dal configurarsi come un “semplice”

rovesciamento antifrastico dei modelli letterari esistenti, si sostanzia di precise coordinate narrative e, al tempo stesso, teologiche. Esiste, cioè, un codice di riferimento, un modello ideale cui gli autori delle opere a carattere biografico attingono direttamente o indirettamente, a seconda del livello della loro preparazione culturale. Le caratteristiche che la vidua estrinseca all’interno dei diversi racconti rientrano in un quadro normativo che trova la sua puntuale definizione nel patrimonio dei testi patristici prodotti in Occidente, in modo particolare tra III e IV secolo. Sia che il cronista sia uomo di cultura e di lettere, magari frequentante gli scriptoria dei monasteri, ed abbia quindi una conoscenza personale della questione, sia che egli abbia un vissuto

1 Per la bibliografia su Zenone cfr.: BHL 9001- 9013; A. Bigelmair, Zeno von Verona, Münster I. W. 1904; G. P. Marchi- A.Orlandi- M. Brenzoni, Il culto di san Zeno nel Veronese, Verona, 1972; K. Gamber, Der Zeno-Kult in Regensburg, in

«Beiträge zur Geschichte des Bistums Regensburg», 11, 1977, pp. 7-24; J. Ch.

Picard, Conscience urbaine et culte des saints. De Milan sous Liutprand à Verone sous Pépine Ier d’Italie, in Hagiographie, cultures et sociétés. IV-XII siècles, Paris, 1981; pp. 455- 467; F. Segala, Il culto di S. Zeno nella liturgia medievale fino al secolo XII, Verona, 1982; A. Vecchi, I luoghi comuni nell’agiografia. Saggio sulla leggenda veronese di S. Zeno, in «Augustinianum», XXIV, 1984, pp. 143- 166; P.

Golinelli, Il Cristianesimo nella «Venetia» altomedievale. Diffusione, istituzionalizzazione e forme di religiosità dalle origini al sec. X, in Il Veneto nel Medioevo. Dalla «Venetia» alla Marca Veronese, a cura di A. Castagnetti e G.M.

Varanini, Verona, 1989, pp. 237- 331; Id., La letteratura agiografica dell’Italia settentrionale (1130- 1220), in Hagiographies, I, a cura di G. Philippart, Turnhout, 1994, pp. 132- 1331; G. Sala, Il culto di san Zeno dal X al XII secolo, in «Annuario Storico Zenoniano», 1991, pp. 15- 23.

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scolastico più modesto e dipenda contenutisticamente da volgarizzazioni di vario tipo, magari anche da trasmissioni orali delle opere dei Padri, è per lui imprescindibile la conoscenza della questione dei costumi vedovili così per come essa viene rappresentata all’interno delle opere di Ambrogio, di Agostino e degli altri teologi.

Le Passioni a noi pervenute muovono da uno stesso sostrato culturale, che mette a fuoco i punti più “spinosi” del modo di vivere e di operare della donna rimasta priva del marito.

Il più antico testo patristico di Occidente a noi pervenuto che

menziona la categoria delle vedove come gruppo ben individuato

all’interno della comunità cristiana e che rivolge ad esso un

insegnamento specificamente dedicato è la silloge dei sermoni

pronunciati dal vescovo Zenone a Verona, centro della sua diocesi. Si

tratta della riscrittura, di poco posteriore all’estensione orale, che

l’autore stesso curò di alcune tra le omelie più incisive e celebri

concepite durante l’episcopato. Sebbene si tratti di documenti non

particolarmente significativi dal punto di vista letterario, essi

costituiscono una testimonianza di valore per quello che concerne

invece la vita spirituale delle comunità cristiane dell’Italia del Nord

nel IV secolo e l’esistenza di talune urgenze teologiche e pastorali

avvertite in seno a queste Chiese dopo la fine delle eresie cristologiche

e l’estendersi delle tesi conciliariste. La lettura dei sermoni ci offre il

quadro di una comunità cittadina vivace ma travagliata, attraversata da

dubbi di natura prevalentemente etica, a cui il vescovo dà risposte

precise, sorrette sempre da una robusta conoscenza delle Scritture,

talora con toni piuttosto paterni ed accorati, talaltra con accenti non

privi di uno sdegno assai vibrante. I 92 trattati- 62 fanno parte del

primo libro, i restanti 30 del secondo- testimoniano una molteplicità di

interessi e di temi di predicazione che spaziano da questioni relative

alla vera storia dei profeti veterotestamentari fino alla regalità del

Cristo, passando attraverso questioni squisitamente morali, le quali

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vertono perlopiù sulle regole della condotta sessuale e sull’opportunità della continenza. E’ in questo quadro che devono essere collocati anche i due sermoni che andremo ad analizzare, i quali,a differenza di quanto accade già con Ambrogio, non sono centrati completamente sulla questione della vedovanza, ma trattano incidentalmente di essa nell’affrontare il tema della castità e della pudicizia tout court. Ne è prova evidente il fatto che questi testi accomunano, sotto tale aspetto, le vergini e le orbatae viri, sentite in modo generico come donne di particolare devozione, bisognose, tuttavia, di una costante esortazione e di un sincero accompagnamento nella fede.

Secondo le notizie sulla vita di Zenone trasmesse dal Velo di Classe e dai Versi di Verona, il suo episcopato, l’ottavo della città veneta, si sarebbe prolungato dal 362 al 380, anni in cui la diocesi, non ancora indipendente, era suffraganea della metropoli di Milano

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.La situazione in cui il cristianesimo versava allora nella regio decima (che comprendeva tutta la parte orientale dell’Italia del Nord) non era delle più floride: le proposizioni nicene stentavano a diffondersi per la presenza di un imperatore- Costanzo- che era apertamente loro ostile.

Così, se nelle città il culto era possibile, le dottrine eterodosse si dimostravano particolarmente resistenti da sradicare nelle campagne, dove, peraltro, sopravvivevano anche tradizioni pagane

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. Zenone si trovò dunque ad operare in un clima difficile, come testimonia il fatto che fu costretto a più riprese ad intervenire sia sulle questioni cristologiche sia su quella della verginità perpetua di Maria.

Il ricordo della figura del vescovo svanì rapidamente, fatta salva la sua attività di trattatista. Egli peraltro non fu mai considerato- anche da Ambrogio- un letterato di professione, quanto piuttosto uno scrupoloso predicatore. In tale veste Zenone fu uomo e prelato

2 Verona entrò a far parte della regione ecclesiastica aquileiese solo nel 381.

3 Sulla difficoltà della penetrazione del cristianesimo nelle campagne e la sopravvivenza di retaggi pagani anche dopo la conversione delle popolazioni contadine, cfr. P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, Paris, 1907.

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affettuoso verso i fedeli e nello stesso tempo ricercatore d’eleganza nell’espressione. All’interno dei suoi sermoni egli si rivolge all’uditorio perlopiù con le formule fratres carissimi o dilectissimi, insistendo particolarmente nelle omelie sulla necessità della carità ed il rifiuto dell’avarizia, che, a quanto pare, doveva essere un problema urgente all’interno della diocesi. Per quanto egli affermi, nel I discorso del II libro, di essere “uomo senza cultura ed incapace di parlare”

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, nella sua predicazione il vescovo dimostra ovunque una robusta conoscenza dei profeti dell’AT (Isaia, Geremia, e Daniele su tutti), con una predilezione per Genesi ed Esodo. Riferimento preponderante è quello dei Salmi, che sono in genere utilizzati come ossatura probatoria delle proprie tesi, mentre meno frequente è il ricorso ai libri sapienziali. Per quanto riguarda l’utilizzo degli evangelisti, Zenone è accomunato ai Padri coevi dalla citazione continuata di Matteo e dalla quasi totale assenza di Marco. Contrariamente a quanto avviene per gli altri teologi occidentali, la letteratura paolina di cui fornisce l’esegesi è molto ristretta, limitandosi all’applicazione della lettera ai Romani e di I Corinzi. Sono più vasti i segni della cultura attinta dagli scrittori pagani: Apuleio, Cicerone, Virgilio, Catullo, Orazio, Ovidio, e Seneca su tutti. Gli autori cristiani che egli dimostra di conoscere sono soprattutto africani

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, fatto questo che contribuisce a rafforzare le poche informazioni tramandate dalle fonti sulle sue origini:

Tertulliano, Cipriano, Lattanzio, ma anche Ilario di Poitiers.

In generale è abbastanza difficile dare un’interpretazione unitaria dei trattati, che si distinguono proprio per la varietà dei contenuti.

Tuttavia, la dottrina trinitaria è un motivo in essi ricorrente, per il quadro storico cui si è già fatto cenno, e parimenti frequenti sono gli

4 “Homo imperitissimus et elinguis”. Per il testo dei sermoni si segue l’edizione di G. Banterle, riveduta e corretta da R. Ravazzolo e con introduzione di G. Fedalto, Roma, 2008.

5 Cfr. Y.M.Duval, L’influence des écrivains africains du III siècle sur les écrivains chrètiens de l’Italie du Nord dans la seconde moitiè du IV siècle, in Aquileia e l’Africa, «Antichità altoadriatiche», 5, 1974, pp. 191- 225.

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exempla relativi a personaggi ed eventi dell’ebraismo, di solito visti in chiave negativa. Il parlare di colpe e difetti degli ebrei spinge a pensare che costoro fossero numerosi a Verona, e che quindi abbondassero nella diocesi i catecumeni convertiti dal giudaismo. Ne è conferma ulteriore il discorso sulla circoncisione (I, 3) che, nel criticare la prosecuzione del rito all’interno della comunità dei cristiani, approfondisce il discorso sulla circoncisione spirituale del battezzato, realizzata mediante acqua e Spirito. Zenone, assediato da ebrei, ebrei neo- convertiti ed ariani, aveva fondati motivi per prendere particolarmente a cuore la questione della consustanzialità del Figlio con il Padre.

All’interno del primo libro solo sette sermoni sono dedicati a temi

morali (pudicizia I, 1; pazienza I, 4; avarizia I, 5 e I, 14; speranza,

fede e carità I, 36; segni zodiacali I, 38), mentre gli altri sono di

argomento scritturistico e vertono sull’esegesi di passi dell’AT oppure

sono legati alla liturgia, con una particolare incidenza dei discorsi per

la Pasqua. I più originali tra i trattati morali sono il trentottesimo,

un’insolita discussione sullo zodiaco letto in chiave cristiana e rivolto

ai neofiti, e quello sulla pudicizia, il primo, oggetto dell’analisi. La

particolarità di questo consiste nella sua piena attualità rispetto al

tempo in cui fu pronunciato: in tale breve discorso di etica sessuale

rivolto ai suoi fedeli, compresi quelli viventi al di fuori del

matrimonio, Zenone entra infatti all’interno della lacuna morale più

diffusa nell’ambito cristiano di quel periodo, particolarmente

pressante perchè relativa al settore esistenziale in cui il credente è

chiamato a distinguersi in modo netto dall’ambiente pagano. Il

sermone comprende sette capitoli di varia lunghezza ed è indirizzato

ai fratres carissimi. Il procedimento logico di Zenone tende a

dimostrare che la pudicizia, per quanto virtù non solamente cristiana,

deve necessariamente e tanto più appartenere al cristiano per i benefici

morali ad essa connessi e la santità di vita che consente di condurre. Il

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capitolo 1 ricorda, nel tipo di argomentazione ed in parte e nelle espressioni usate, l’inno paolino alla carità: il vescovo non definisce cosa sia la pudicizia, visto che non parla di materia eccessivamente astratta o ignota all’uditorio, ma descrive i frutti che derivano dalla sua applicazione in campo sociale. “Haec totius humani generis fondamenta confirmat, haec (…) parentum, coniugum, liberorumque sacra iura custodit”, scrive Zenone in incipit, precisando così che essa non è una virtù caratteristica solo del legame sponsale, bensì trasversalmente valida per tutte le categorie umane ed intrinseca ai legami familiari. Poi- ed è qui che occhieggia S. Paolo- egli parla della naturale ritrosia della pudicizia nel frequentare i piaceri e le lusinghe del mondo (“pestiferas blanditias carnis inimica et quidcquid ingesserit mundus voluptatis”), e della perseveranza che essa dimostra, restando salda sulle proprie posizioni senza curarsi dell’interesse e perseguendo solo l’onestà. Una notazione di rilievo rispetto alle altre è quella che ribadisce l’universalità di questa virtù riguardo al genere e all’età: i termini in cui ne parla il vescovo veronese sono quelli di una virtus “in utroque sexu conspicua” e “in omni aetate miranda”. E’ significativo che ciò venga ribadito all’inizio del discorso: si tratta di un monito rivolto all’uditorio perché non si distragga, perché non consideri le parole successive indirizzate solo alle donne giovani; la pudicizia è appannaggio di tutti. A seguire, Zenone dimostra piena padronanza dell’allegoria femminile applicata alla Chiesa. Egli sostiene infatti che, se la pudicizia è un bene manifestatosi anche tra i pagani, tanto più essa deve appartenere ai cristiani in quanto figli della pudica Sposa di Cristo, che ha trasmesso loro questa virtù. I frutti mistici del matrimonio celeste si trasferiscono sui fedeli, che devono coltivarli continuamente nella loro vita. Così essa compare nei “pueri”, negli “adulescentes”, nei “iuvenes”, e nei

“senes” come una combattente che lotta per spegnere gli incendi della

carne e della concupiscenza e riportare la palma della vittoria contro

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di essi (“carnalia exstinguere laborat incendia”, cap. 1, “cessat enim concupiscentiae pugna”, ibidem). Il linguaggio militare di solito usato dai Padri per descrivere i martiri ed il martirio compare qui per illustrare gli eroici effetti spirituali di una virtù che si insedia nell’animo umano solo dopo averne purificato gli istinti più primitivi.

Gli effetti dell’impudicizia sono descritti in modo drammatico: al cap.

2 la rivale (“aemula”) infatti precipita nella pazzia le menti, spingendole ad un’estenuante, ininterrotta ricerca di stimoli corporali, ad un desiderio continuato che brucia e sommerge, come una tempesta (“lubricas mentes libidinum fragranti bus stimulis praecipitat in furorem”, “semper enim caenosi gurgitis sui procella submergitur”).

E’ interessante notare come in tale contesto, a dei sostantivi consueti e

di uso tradizionale, come libido o turpitudo, corrispondano verbi

particolarmente icastici, che trasmettono un’immagine fisica, di forza,

come praecipitare e submergere. La prima espressione ricalca forse il

virgiliano “furor iraque mentem praecipitant”, mentre la seconda è

usata in relazione all’obnubilamento della virtù anche da Claudiano

(“virtus submersa tenebris”). Se la pudicizia è stata paragonata ad una

mulier virilis, il suo contrario è raffigurato invece come

un’adescatrice, lasciva con gli occhi, le orecchie e la bocca, avida di

scandalo e generatrice, tra le altre devianze, della sodomia. Sua

caratteristica è l’adattabilità, l’uso di una seduzione dall’aspetto

multiforme e camaleontico, che la rende non solo una prostituta, ma

una cortigiana imbellettata che si dipinge per ottenere la fornicazione

altrui. I suoi effetti però non si limitano ad indurre al lenocinio gli

uomini, poiché l’impudicizia è matrigna anche degli dei. Questo

concetto è diffuso, Zenone ribadisce che è stata la voluttà a creare

l’Olimpo pagano, per ordine del diavolo di cui è figlia: un

rafforzamento della contemporanea polemica contro la mitologia

classica e la letteratura greco- latina in un periodo di sbandamento

intellettuale in cui le radici sembrano interamente da dover rinnegare.

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A dimostrazione di ciò egli cita, oltre all’esempio di Giove schiavo dei suoi instancabili appetiti sessuali, quello di Ercole sopraffatto da Onfale e di Venere esposta nuda allo sguardo dei mortali. E’

interessante notare come, all’inizio del capitolo 4, il vescovo assegni il primato dell’impudicizia agli uomini. Si tratta di una notazione rapida, ma tutto sommato inconsueta nella letteratura patristica di tipo protrettico, non priva di una certa acutezza sociologica. Probabilmente esso deve intendersi come strettamente correlato all’accenno alla sodomia posto in coda al capitolo 2. Sono i mariti ad avventurarsi al di fuori del talamo nuziale contra Dei legem, per la maggiore libertà personale e d’iniziativa di cui godono, e le consorti cadono nel loro stesso errore perché ferite ed umiliate (“dolore compulsae”) e desiderose di vendetta. La differenza tra i due tradimenti sta nella diversa considerazione della propria colpa da parte dell’adultero, nella speranza di impunità nutrita. Zenone insiste nel sottolineare che ciò che non è consentito alla moglie non lo è

nemmeno al marito, che il peccato non è una questione di genere ma di anima. Da una parte dunque, la prosopopea dell’impudicizia raffigura questa come una donna illecitamente allettatrice, coerente con l’immagine dell’instrumentum diaboli, dall’altra esiste una sostanziale e non comune visione di parità tra vir ed uxor che attinge direttamente da S. Paolo

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, citato alla metà del capitolo 4, e radicata, ancora prima, nella dottrina dell’una caro di Genesi 2. Dal capitolo 5 inizia la citazione degli exempla biblici di pudicizia, a corollario di quanto fino a qui esposto. Il repertorio è in questo caso consueto e ben collaudato, ma ristretto a soli due personaggi, entrambi appartenenti all’AT : Giuseppe e Susanna, un uomo e una donna ma, soprattutto, un celibe ed una sposa, che ugualmente subiscono le smanie altrui, di una giovane e di due vecchi, a dimostrazione e conferma di quella

6 “Mulier corporis sui potestatem non habet, sed vir; similiter et vir sui corporis potestatem non habet, sed uxor”, 1 Cor. 7, 4.

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universalità di interesse e di coinvolgimento invocato da Zenone in incipit

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. E’ da notare che la regina bruciante di passione per il figlio di Giacobbe è rappresentata come divorata dal fuoco fino nelle midolla:

come Pudentilla, come Paola, come tutte le vedove che- per confermare o respingere la tentazione della carne- sempre sulle loro viscere si devono concentrare. L’avverbio medullitus è, tra l’altro, anche di uso apuleiano. Il capitolo sette, in modo coerente con il suo ruolo di appendice finale, è il più retoricamente sostenuto. Da un punto di vista tematico esso si riallaccia ad anello all’inizio del trattato, completando di fatto il motivo elogiativo della pudicizia. Se infatti in incipit Zenone ha magnificato il ruolo di questa elencando le situazioni scabrose da cui rifuggire, in questo caso egli ne definisce l’”habitat” ed i benefici spirituali prodotti, con parole che in effetti ricordano da vicino le due diverse laudes contenute negli omologhi trattati di Tertulliano (De Pudicitia 1, 1) e di Novaziano (De Pudicitia 3, 1). Di nuovo vengono citate le categorie umane che traggono beneficio dalla pudicizia: vergini, vedove, sposi, evidentemente menzionati secondo una scala decrescente di perfezione morale, per poi passare a coloro che vivono nel corpo senza essere del corpo, ricordati in questo caso in base ad un climax crescente di santità (sacerdoti, martiri, angeli). La distinzione operata tra i possessori della pudicizia non è ribadita solo sulla base della morale e della coscienza, ma anche per via sociale, grazie a quella universalità di intenti che deve riguardare tutti i redenti in Cristo, poveri e ricchi, poiché entrambi, tramite essa, diventano capaci di digiuni e di preghiere.

7 Le storie di Susanna e Giuseppe sono tratte, rispettivamente, dall’appendice greca del libro di Daniele (Dn 13) e da Genesi 39. Sull’applicazione dell’esempio nella letteratura patristica in senso generale, si veda H. Leclercq, Suzanne, in «DACL», 15, 2, 1953, coll. 1742- 1752; H. Schlosser, Die Daniel- Susanna Erzählung in bild und Literatur der Christlichen Frühzeit, «ROE», suppl. 30, 1965, pp. 243- 249, L.

Aynard, La Bible au féminin. De l’ancienne tradition à un christianisme hellénisé, Paris, 1990, pp. 151- 154. Inoltre alcune notazioni più specifiche sono in A.M.G.

Piredda, Susanna e il silenzio: L’interpretazione di Ambrogio, «Sandalion», 14, 1991, pp. 169- 92.

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Ecco dunque che questa virtù rende il corpo tempio dello Spirito e diviene sacrificio gradito a Dio. Nella forma, la lode finale della pudicizia diventa un’allocuzione diretta, svolta in seconda persona, alla virtù stessa. Frequentissime sono le epanalessi, le allitterazioni (“Tu…felix, (…) fortis, (…) fidelis/ solo bonae conscientiae ornamento contenta”) i poliptoti (de voluntate nasceris/ (…) quia voluntas fit voluptas postmodum tuo/ tu in pauperibus dives, in divitibus ditior”), mentre i periodi sono brevi, incisivi, contrariamente a quanto avviene nei capitoli precedenti, dove a prevalere è una serrata ipotassi, più densa laddove il tono probatorio ed argomentativo diventa più evidente, ad esempio durante l’esposizione dei fatti di Giuseppe e Susanna. Le citazioni bibliche contenute in questo sermone sono sia veterotestamentarie- derivano in toto dal libro del Genesi- sia tratte dal NT, con rimandi limitati a Matteo e 1 Corinzi, in assoluto i libri di questa parte della Bibbia più citati da Zenone. Nel complesso, però, i passi utilizzati non sono particolarmente numerosi e ammontano a sette, con prevalenza delle occorrenze di derivazione evangelica.

I sermoni di argomento morale contenuti nel secondo libro sono

cinque, inseriti tutti nella parte iniziale della silloge, dedicati

rispettivamente ai temi della giustizia (II, 1), del timore (II, 2), della

fede (II, 3), della dualità tra corpo e anima (II, 4), della continenza (II,

7), dell’umiltà (II, 9). Com’è evidente, essi si concentrano perlopiù

sulla disamina delle virtù cardinali, ed in genere lo fanno in modo

discorsivo, piano, chiaro, con un uso limitato del lessico teologico o

comunque specialistico ed uno spiccato carattere didattico. Il trattato

sulla continenza è più lungo di quello sulla pudicizia, constando di

nove capitoli, brevi i primi tre, di lunghezza omogenea e ed uniforme

gli altri. Anche in questo caso il vescovo si rivolge ai “fratelli”, ma lo

fa con accenno polemico fin dall’inizio, sottolinenando come la strada

della virtù cristiana differisca da quella percorsa dal mondo, che

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spesso critica chi si distingue dalla massa e giudica negativamente chiunque esorti gli altri a fare altrettanto. A differenza di quanto accade nel sermone sulla pudicizia, il destinatario ed insieme il referente ideale della trattazione non è più l’umanità intesa in senso lato, ovvero uomini e donne, sposi o celibi, ma centro d’interesse esclusivo divengono le feminae. Il nucleo probatorio del testo vuole stabilire, ancora una volta, il primato della verginità sulle nozze.

Schierato sulla linea più tollerante di Agostino, il vescovo di Verona non nega la liceità del matrimonio ma, citando le parole di Paolo, ribadisce la superiorità spirituale dell’illibatezza, adducendo l’esempio di Maria ed insistendo particolarmente sul dogma della sua perpetua integrità fisica. La moglie secondo la carne e la moglie secondo lo Spirito vengono accostate e messe a confronto al capitolo 2, dove particolare rilievo è dato, in modo abbastanza consueto per questo tipo di argomentazione, ai dolori del travaglio e del parto. Dal capitolo 4 invece, protagonista delle parole di Zenone diventa la categoria delle vedove, o meglio, la singola vidua, cui il vescovo si rivolge in seconda persona con una serrata serie di domande che occupano l’intero spazio. Lo scopo è dimostrare l’inutilità e la sconvenienza delle seconde nozze. Se si è avuto un buon marito, non è giusto tradirne la memoria, e se, al contrario, il coniuge è stato motivo di rimpianto e di pentimento, perché rischiare ancora una volta di trovarsi in una situazione simile? “Ardor me tenerae compellit aetatis”- obietta la giovane donna- ma la concupiscenza è un vizio che la sobrietà e la pazienza possono estinguere, così come l’acqua estingue il fuoco.

L’usanza paradossale di tollerare le seconde nozze di donne anche

anziane è poi, secondo Zenone, totalmente da condannare, e spinge il

vescovo ad un’amara considerazione: cosa potrebbe convincere un

pagano che osservi la comunità cristiana ad abbandonare la sua falsa

religione? Di fronte ai suoi occhi non si può fare vanto della verginità

di alcune fanciulle, perché anche presso i gentili esistono giovani

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consacrate, né tantomeno si può proporre la virtù della continenza dopo il lutto, perché le cristiane continuano dopo di esso a bramare nuove unioni. Questa tendenza all’intemperanza viene definita da Zenone “dedecus”, e le parole che egli pronuncia divengono particolarmente sconsolate. In ciò, oltre che nella restrizione del destinatario, consta la principale differenza tra il sermone sulla pudicizia e quello sulla continenza: mentre il primo è, nell’intonazione, affettuoso, esortativo in senso positivo e costruttivo, a tratti quasi poetico nel decantare i pregi della virtù, il secondo è caratterizzato invece da un tipo di sentimento e di espressione la cui cifra distintiva è l’amarezza, la disillusione, l’impotenza di fronte ad un popolo che rifiuta di compiere lo sforzo necessario per passare dalla porta stretta. L’esortazione dunque cede piuttosto spazio alla rampogna per chi lascia aperto il varco al diavolo, che ottiene la sua vittoria “sine pugna, sine ullo labore” (cap. 7). La donna che cede alle lusinghe del mondo viene apostrofata con parole che si collocano a metà strada tra compassione e intolleranza: “uxor infelix”, “misera”;

“vesana”. La situazione di pericolo per l’anima che ella crea è

ulteriormente aggravata dal fatto che le nuove nozze spesso pongono

in relazione tra loro mogli cristiane e mariti pagani; nel ritrarre questo

difficile mènage familiare, Zenone mostra anche questa volta una

certa acutezza: la donna, in virtù della posizione gerarchica

subordinata in cui si viene a trovare, sarà sicuramente ostacolata nella

professione della sua fede, forse picchiata, senza che nessuno intorno

a lei possa intervenire in modo legittimo. Questo la spingerà prima o

poi, per il desiderio di evitare ogni tribolazione, ad accettare la pratica

dei sacrifici animali, che il coniuge osserva con scrupolo, a consumare

lei stessa parte di quelle vittime impure. Per evitare tutto ciò,

soluzione efficace è quella di tenersi lontano dal secondo matrimonio

e dalla tentazione della concupiscenza. “Fugere” è il verbo usato da

Zenone, che sottolinea nella conclusione come non esista, a ben

(16)

guardare, nessuna excusatio per la vidua a giustificazione di una mossa che, se compiuta, la renderà “sacrilega”.

Letterariamente il sermone è assai opaco, appesantito dalla rigidità del contenuto e dalle reiterate sequenze di domande retoriche o di esclamazioni imperative.

2.2. Il De Viduis di Ambrogio: la morale cristiana nella veste dell’elegia negata8.

Dopo Zenone di Verona, il primo testo rivolto alla trattazione della quaestio vedovile è il De Viduis di Ambrogio, un trattato che fornisce importanti indicazioni sia in senso etico che nella scelta dell’orizzonte lessicale specificamente dedicato a questo particolare settore dell’universo femminile. Esso testimonia altresì, ancora una volta, l’urgenza sociale e politico-ecclesiale dell’argomento ed è databile ad un periodo di poco posteriore al 377

9

. Probabilmente nato in forma omiletica

10

, lo scritto viene suggerito al vescovo di Milano dall’esigenza di completare la riflessione sui costumi morali femminili

11

, ed in modo particolare sulla castità. Rispetto al Tractatus de pudicitia e al Tractatus de continentia concepiti da Zenone, Ambrogio segna con la sua opera un’importante novità, che consiste nel trattare vergini e vedove come categorie a sé, nettamente staccate dalla realtà coniugale, riservando loro un ruolo specifico all’interno della compagine ecclesiale

12

. Sulla scorta di Tertulliano

13

, Ambrogio

8Per le citazioni del testo si fa riferimento a: Ambrogio, De Viduis, a cura di F. Gori, in SAEMO 14/1, Milano- Roma 1989, pp. 243- 319.

9Sulla cronologia delle omelie ambrosiane cfr. A. Pastorino, Principalis virtus.

Saggio introduttivo alle omelie ambrosiane sulla verginità, Genova, 1978.

10 Orientano in tal senso i reiterati inviti a “prestare orecchie” a quanto si dice e gli incisi (“inquam”), frequenti soprattutto nella prima parte dell’opera (cfr. ad es.,

“sollicitas igitur aures praefatio facit”; 1, 4).

11 Su questo aspetto della costruzione del pensiero ambrosiano, cfr. C. Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Cinisello Balsamo, 1996.

12 Per una valutazione complessiva dell’importanza teologica del trattato si veda A.

V. Nazzaro, Il De Viduis di Ambrogio, «Vichiana», 13, 1984, pp. 274- 292; Id., Ambrosiana VI. Note sul testo del De Viduis, «Vichiana», 18, 1989, pp. 183- 191 (=

Studi di filologia classica in onore di Giusto Monaco, III, Palermo, 1991, pp. 1313-

(17)

identifica la verginità dalla nascita come condizione spiritualmente superiore a quella della continenza data dalla castità vedovile

14

, ragione per cui egli dedica ben quattro trattati di tipo parenetico alla verginità (De virginibus, De virginitate, Institutio virginis, Exhortatio virginitatis), pur riconoscendo che la vedovanza in cui si esercitino perfettamente le cure materne è pari all’integrità fisica ed alla sua perfezione. La vidua è infatti la sublimazione dell’istinto materno, che in lei diviene spirito di abnegazione e fervore educativo, purificato ed esaltato dalla decantazione di ogni istinto sensuale. Il De Viduis non ha una dedicataria e svolge argomentazioni a carattere generale, ma da alcuni passi è possibile trarre indicazioni sul tipo di pubblico che voleva raggiungere, poiché un aspetto su cui Ambrogio si sofferma è quello della disponibilità finanziaria da cui dipendono le eventuali elargizioni delle vedove. Una destinataria ideale del vescovo di Milano era, ed es., la già citata Giuliana, vedova di un religioso abitante a Firenze, che aveva convinto il figlio ad abbracciare il sacerdozio e le figlie a scegliere la verginità, e che invitò Ambrogio ad inaugurare la basilica da lei dedicata al martire Lorenzo. Nei suoi quindici capitoli, il trattato pone l’accento sui temi della forza e della resistenza morale, del dolore che forma, della difficoltà della vita che dà vigore allo spirito. Ma ciò che è interessante nel trattato, è l’esistenza, accanto alla pars construens, che mira a confutare gli argomenti dell’infirmitas sexus propagandata dal secolo corrotto, e parallelamente ad incentivare la domus cura e la liberorum

1321); Id., Sulla constitutio textus del De Viduis di Ambrogio «Atti del Convegno La trasmissione dei testi patristici latini: problemi e prospettive. Roma, 26- 28 ottobre 2009», in E. Colombi (ed.), «Instrumenta Patristica et Medievalia», 60, 2012, in via di pubblicazione; Id., Ambrosiana XI. Sulla praefatio del De Viduis, in G. Germano (a cura di), «Classicità, Medioevo e Umanesimo. Studi in onore di S. Monti», Napoli, 1996, pp. 279- 292; S. Marruzzino, Due note al De Viduis di Ambrogio,

«Augustinianum», 40, 2000, pp. 151- 154;

13 Cfr. Exh. Cast. 1,4.

14 Su questo aspetto specifico si veda P. Brown, Aula Pudoris: Ambrogio, in AA.VV., Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino, 1988, pp. 311- 333.

(18)

solllicitudo

15

, di una pars destruens meno soggetta ai luoghi comuni della tradizione patristica e più vivace nei toni e nella lingua, che fornisce esempio di ciò che una vidua dabbene non deve essere. E’ da notare che le immagini ed il lessico utilizzati in questo senso da Ambrogio sono molto più veementi ed icastici rispetto a quelli che, nell’economia generale del trattato, mirano a stigmatizzare le eventuali mancanze di tipo più propriamente “teologico”,

16

come atteggiamenti di disperazione o di scarsa carità verso il prossimo. In sintesi, potremmo affermare che le devianze sessuali sono rappresentate in modo più fosco e severo rispetto a quelle, spiritualmente più gravi, che riguardano l’essenza specifica del cristianesimo.

17

.

In via preliminare (cap. 2) l’autore sente il bisogno di precisare che le considerazioni espresse devono essere intese come rivolte alle vedove

“quae vere viduae sunt” (1Tim. 5, 3-4), quelle cui l’Apostolo mostra rispetto e gratitudine in più passi della Scrittura

18

. Non si tratta di una premessa fatta in sede introduttiva, bensì di un concetto che è alla base

15 Cfr. 2,7; 5, 31; 9, 53; 8, 50.

16 Sulle immagini utilizzate nel trattato e la loro formazione e provenienza, cfr. A. V.

Nazzaro, Metafore e immagini agricole nel De Viduis di Ambrogio, «Vetera Christianorum», 29, 1991, pp. 277-289, ora in M. Mann e M. Girardi (a cura di ), Retorica ed esegesi biblica. Il rilievo dei contenuti attraverso le forme, Bari, 1996, pp. 73- 85 ›; Id., Incidenza biblico- cristiana e classica nella coerenza delle immagini ambrosiane, in L.F. Pizzolato- M. Rizzi (edd.), «Nec timeo mori. Atti del Congresso Internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di Sant’Ambrogio. Milano 4-11 Aprile 1997», in «Studia Patristica Mediolanensia», 21, 1988, pp. 313- 319.

17 Si tratta di un rigorismo che è trasversalmente diffuso negli scritti patristici. La santità femminile è considerata più come l’opposizione al vizio sessuale che come la pratica positiva di alcune virtù. Cfr. al proposito anche le considerazioni tratte dal saggio di seguito indicato, di cui riporto una breve affermazione a mio parere significativamente rappresentativa: “Ritengo che la santità cristiana, originariamente, ebbe più a che fare con la sessualità, con la resistenza a qualcosa, con la critica di qualcosa, e con una posizione di contrasto nei confronti di un certo sistema di potere/ conoscenza riguardo al sesso, che con tutto il resto”. (D. Boyarin.

Morire per Dio. Il martirio e la formazione di Cristianesimo e Giudaismo, trad. it., Genova, 2008).

18 Sull’influenza dei passi paolini nel De Viduis cfr. A.V. Nazzaro, Ambrogio e Paolo (Ambr. Vid. 13, 79) in A. Roselli (a cura di ), «Filologia antica e moderna.

Due giornate di studio su tradizione e critica dei testi», Soveria Mannelli, 1997, pp.

79- 90.

(19)

dell’intera trattazione e che costituisce un prerequisito irrinunciabile.

La vidua cristiana deve avere quindi come prima caratteristica l’abstinentia corporis (cap. 2, 7), e Ambrogio lo sottolinea più volte,

“relegando” in seconda istanza la virtus in più ampio senso intesa- l’ospitalità, la preghiera, il digiuno, il consiglio alle giovani donne- che deve comunque essere elemento precipuo. Unius viri uxor (cap. 4, 22), la donna che si è affrancata dal controllo del coniuge per la morte di questi, fruendo della riconquistata libertas dovrà comunque rinunciare ai piaceri della carne per vivere solo per lo Sposo celeste, ed essere membro insigne della Chiesa. E’ particolarmente interessante notare che Ambrogio, pur specificando che la castità ed il rifiuto di nuove nozze sono consigliate da Paolo come fratello nella fede e non imposte con l’autorità dell’Apostolo,

19

utilizza per parlare del matrimonio termini di chiara connotazione negativa, creando una vera e propria censura linguistica. Colei che “intemeratum defuncti coniugis cubile custodit” (cap. 5, 31) non è schiava delle lusinghe del matrimonio; se è giovane frenerà il calore dell’adolescenza con la sua costanza, senza essere attratta, in virtù di essa, dall’aspetto gradevole di un altro uomo (“forma viri alicuius capta”, cap. 10, 62). Se la vidua dubita della sua fermezza e sospetta di poter cadere, deve pregare e presentare la sua fede al Signore, certa del soccorso che Egli le presterà (cap. 10, 63). Ambrogio usa il modo imperativo: “obsecra dominum, fidem defer”; aggiunge subito dopo “ubi adest oratio, adest verbum, fugatur cupiditas, libido discedit”. E’ così che si entra nel campo della negazione: una vedova cristiana non deve abbandonarsi alla debolezza del corpo. Per designare la tendenza ad assecondare i sensi, l’autore usa più termini: libido (cap. 1,1; 8, 51; 10, 63), cupiditas (cap. 1,1; 10, 62; 10, 63), oblectamenta (cap. 1,1), calor, ardor, voluptas (tutti presenti al cap. 2,9), aestus (cap. 2,12; 10, 64), fervor (cap. 2, 12), concupiscentia (cap. 13, 76), lascivia (cap. 8, 51),

19 Cfr., 1 Cor. 7, 26; 1 Cor. 7,7; 1 Cor. 7, 40.

(20)

languor (cap. 10, 65). L’opulenza lessicale evita che Ambrogio utilizzi due volte lo stesso sostantivo, e questo virtuosismo, questo uso seriale della variatio, ha un chiaro valore concettuale: ciascun dubbio viene fugato, le donne da ammaestrare sono sottratte a qualsiasi possibilità di fraintendimento attraverso l’impiego sistematico di ogni singolo vocabolo esistente. Una forma di eleganza stilistica dunque, ma anche il sintomo di una chiara sollecitudine didattica nell’espressione dei precetti basilari. L’impressione che si riceve dalla lettura è quella di trovarsi di fronte ad una sorta di “elegia al contrario”, nella quale non viene esaltata, come di consueto, la sensualità femminile, ma la capacità opposta di non cedere alla passione, attraverso il ricorso al medesimo repertorio verborum.

Tipici dell’immaginario erotico sono infatti libido, parola amata da Properzio ma già usata da Tertulliano nel senso di “sfrenatezza, lussuria”,

20

cupiditas e voluptas (termine quest’ultimo usato specificatamente nel senso di “piacere sessuale” anche nella lingua del romanzo), lascivia (nel Dialogus de Oratoribus usato in specifico riferimento ai poeti elegiaci). Più caratterizzato in senso cristiano è invece il termine concupiscentia, deverbale da concupisco. Il verbo, già noto in età classica, è usato più volte da Cicerone, ma il sostantivo compare per la prima volta in Tertulliano, ed è specificamente di uso ecclesiastico. Languor

21

rispetto agli altri nomi è senz’altro una scelta più raffinata, poiché nel senso qui datogli da Ambrogio non è nuovo ma sicuramente poco attestato: in generale infatti viene usato nel significato di “debolezza, fiacchezza” o “malattia”, e solo in ambito ristretto come “languore, struggimento d’amore”. In questa accezione

20 Cfr. Prop. 2, 16, 14; 2, 32,33. In senso sessuale il termine è usato in precedenza da Catullo, Lucrezio e sfruttato anche da Orazio e Ovidio. Nel senso di “impudicizia” è in Lact. Inst. 6, 19,6; Tert., Nat. 1, 16, 7; Cypr. Epist. 15, 26; Iren., 4, 37,4; Arnob.

Nat. 5,9.

21 In senso erotico il vocabolo è usato da Hor., Epod. 11,9 e Val. Fl. 7, 194. In senso erotico, con connotazione negativa, è usato da Tert., Praesc. 21,4; Aug. Civ. 15, 6;

Conf. 2, 7, 15; C. Pelag., 1, 11, 23; Pelag. I Cor 7, 3, p. 159.

(21)

lo impiega, ad esempio, Valerio Flacco

22

. Oblectamentum, che nel De Viduis ricorre sempre al plurale, è l’unico termine tra quelli indicanti la passione fisica ad essere usato da Ambrogio anche in altro contesto, e dunque in senso aspecifico. Infatti mentre in 1,1 l’autore usa l’espressione “coniugalia oblectamenta”, in 2.9 egli impiega lo stesso nome astratto in connessione ai figli (“liberorum oblectamenta”), dimostrando quindi di intenderlo come “desiderio” in senso ampio, sebbene già Plinio lo usasse in riferimento ai piaceri del corpo

23

. Più consueti sono, infine, gli altri termini che Ambrogio usa con valore metonimico, ovvero ardor (in questo senso già in Lucrezio, Orazio, Properzio

24

) aestus (amoris aestus in Catullo 68, 108, così anche in Virgilio

25

), calor fervor (calidi fervor amoris in Calp. Ecl. 5, 22).

Altrettanto variegato è l’uso verbale: la sottomissione alla carne viene indicata con fervesco, caleo, inflammor, aestuo, languesco, ovvero con i verbi corrispondenti ai sostantivi, in perfetta simmetria. L’unica eccezione è rappresentata da adligo, (1,1) in relazione ai coniugalia oblectamenta. La scelta di Ambrogio è interessante perché il verbo ha una precisa connotazione giuridica ed indica il vincolo, l’obbligo, la necessità, tanto da essere in rapporto quasi ossimorico con il sostantivo che lo accompagna; il concetto è dunque particolarmente pregnante, poiché l’idea che ne risulta è che i piaceri del talamo nuziale creino di necessità una sorta di “dipendenza” fisica ed emotiva. Per quanto riguarda la descrizione in positivo della vidua, il repertorio lessicale è più ristretto e meno ricco di variationes:

l’omogeneità del tessuto verbale è specchio di un pensiero più ordinato e tranquillo. Il peccato assilla e “costringe” a richiami reiterati alla disciplina morale, la strada del bene invece è delimitata in modo più chiaro da poche, importanti virtù. La vedova deve possedere

22 7, 194.

23 Cfr. Plin. Nat. 21, 68.

24 Cfr. Prop. 1, 10, 10; 1, 20, 6; Lucr. 4, 1086; Hor. Epod. 11, 27.

25 Cfr. Aen. 12, 486.

(22)

ed esercitare: virtus, pietas, abstinentia, continentia (tutti termini presenti al cap. 2,7), pudor (cap. 2,10), castitas (cap. 5, 30), pudicitia (cap. 5, 31). Tra questi vocaboli pudor, pudicitia, castitas sono sostanzialmente sinonimi e tutti ampiamente precristiani; abstinentia e continentia hanno significato affine e, nel latino classico, sono attestati più in correlazione con lo stomaco

26

e dunque con il digiuno dal cibo, che con l’esercizio della sessualità, anche se Livio parla espressamente di continentia libidinum

27

. Virtus e pietas sono termini già virgiliani che Ambrogio connota e contestualizza attraverso la citazione di alcuni esempi tratti dall’Antico Testamento e dal Vangelo.

Il repertorio di figure paradigmatiche è necessariamente consueto, e comprende al suo interno:

- la vedova di Sarepta (3 Reg. 17, 9) cui fu inviato il profeta Elia;

- Anna, la vedova del tempio che accoglie Gesù bambino e ne profetizza il ruolo messianico (Lc. 2, 36-37)

28

;

- la vedova Noemi, sostentata dalla nuora dopo la morte del figlio (Ruth 2, 2 ss.)

29

;

- la vedova combattente Giuditta (Iudith., 7, 24-28; 8, 4-6; 10, 3 ss.), che sconfisse Oloferne ed il suo esercito;

- Debora, la donna che assunse funzione di giudice (Iudic., 4, 4 ss.);

26 Continentia. “Continentia est per quam cupiditas consilii gubernatione regitur”

(Thesaurus Linguae Latinae). Come “pudicitia” presso i Cristiani cfr. Tert., Pudic.

1; Cypr. Testim. 3, 32; Hier. Epist. 100, 1; 22, 20; Aug. Civ. 1, 27. Abstinentia. Nel senso di moderazione dal cibo cfr. Cels. 1, 2; Sen. Dial. 3, 62; Petronio 111; Plin.

N.H. 26, 13; Tac. Ann. 4, 35; Apul. Met. 10, 34; Tert., Scorp. 5; Ieuiun. 9. Nel senso di astensione dal sesso cfr. Quint. 2, 2, 4; Plin. Epist. 1, 12, 5; Apul. Met. 11, 19;

Ireneo 1, 28, 1; Tert. Pudic. 20; Lact. Inst. 7, 11, 8; Aug. Quaest Hept. 4, 59; Isid.

Orig. 10, 33.

27 Cfr. Liv. 30, 14, 5.

28 Cfr. a tale proposito A.V. Nazzaro, Ambrosiana XII. Exemplum Annae (Vid. 4, 21- 26), in G. Luongo (a cura di), Munera parva. Studi in onore di B. Ulianich, I, Napoli, 1999, pp. 227- 46.

29 Cfr. a tale proposito A. V. Nazzaro, Ambrosiana X. Noemi e Rut (Vid. 6, 33-34),

“Auctores nostri”, 2, 2005, pp. 161- 176.

(23)

- la suocera di Simon Pietro, che guarita dalla febbre, si mette a servire Gesù e i discepoli (Lc. 4, 38-39);

- la vedova che getta due monete nel tesoro del tempio di Gerusalemme (Lc. 21, 3; Mc. 12,43).

Giuditta e Debora, essendo ricordate nelle Scritture come figure dedite

a mansioni tipicamente maschili, sono esempi del fatto che la

infirmitas sexus propria delle feminae può essere sconfitta se si

confida nel Signore e si è costanti nella preghiera. Noemi qualifica le

grandi doti umane delle vedove, piae erga parentes et erga filios,

ricompensate dalla comunità per la loro mansuetudine ed abnegazione

e per l’insegnamento trasmesso alle più giovani. E’ interessante notare

che nel citarla Ambrogio opera un rovesciamento gerarchico tra i

personaggi protagonisti della Scrittura, privilegiando il ruolo della

vedova anziana- Noemi - rispetto a quello della giovane, Ruth. Nelle

opere successive (il De fide del 378/79 e nel Commento a Luca di un

decennio più tardo) egli torna invece a rispettare l’ordine consueto,

mantenendosi in linea anche con la tradizione geronimiana, così per

come essa appare nell’epistola a Furia e nella laus a Paola. Il cambio

di prospettiva è con ogni probabilità dovuto al fatto che nel De viduis-

opera giovanile ed ancora “immatura” dal punto di vista dell’esegesi

biblica- Ambrogio non riesce a superare la difficoltà del secondo

matrimonio di Ruth con Booz, da cui- tra l’altro- nascerà Obed, nonno

di David. Ai suoi occhi la protagonista del libro perde l’importante

qualità di essere univira, oltretutto tramite l’uso di un gesto sensuale

che la porta a scoprire i piedi di Booz addormentatosi sull’aia e a

ricoprirsi con il suo stesso mantello. Nei testi successivi invece, egli

riesce ad inquadrare allegoricamente il secondo matrimonio, nel

quadro della legge giudaica del levirato (De fide) ed in chiave

cristologica (Commento a Luca). Sulla stessa linea si colloca anche la

citazione della vedova del tempio, che offrendo gli ultimi denari a sua

(24)

disposizione, si dimostra di fatto disponibile ad offrirsi interamente a Dio. Analogo esempio di generosità e di condivisione è offerto dalla vedova di Sarepta, che non esita a privarsi del poco cibo a disposizione sua e del figlio per ospitare in modo degno il profeta, pur essendo il periodo di carestia. Anna e Debora forniscono due esempi interessanti di manipolazione a scopo parenetico: per ammaestrare nel modo più opportuno il suo uditorio, Ambrogio si concede una pia fraus, omettendo alcuni particolari delle Scritture ad esse relativi. Per quanto concerne la donna giudice, di cui il vescovo vuole chiaramente mettere in luce la sapienza e l’intelligenza, viene detto in modo esplicito che ella non solo amministrò il popolo dei Giudici con saggezza superiore a quella di ogni uomo, ma anche che lei sola fu profeta, comprendendo nel gruppo tutti coloro nominati dopo Giosuè.

“Debbora proelii prophetavit eventum” dice Ambrogio, (cap. 47), sottolineando come la donna fosse talmente eccezionale da sopravanzare gli uomini non solo in sapientia, ma anche in gratia Dei.

In tutto ciò è compresa un’unica ma sostanziale inesattezza, tale da inficiare tutto il discorso esortativo di fondo: Debora non era vedova, e oltretutto Barac non era suo figlio. Girolamo, che nell’epistola 54 a Furia elenca gli stessi esempi fatti dal vescovo di Milano (Anna, vedova di Sarepta, Giuditta) rimprovera aspramente Ambrogio per l’arbitrio commesso

30

. Ciò che è curioso è che questi non sfrutta a pieno l’esempio profetico laddove esso si attagliava perfettamente all’argomentazione senza bisogno di alcuna forzatura: Anna è ricordata da Luca come vedova e profetessa, ma Ambrogio accenna in modo incidentale a questa sua qualità,

31

preferendo enfatizzare in tal senso la figura di Debora, benché effettivamente priva del primo

30 “Quidam imperite Debboram inter viduas numerant, ducemque Barac arbitrabantur Debborae filium, cum aliud scriptura commemoret” (Epist. 54, 17, 3, p. 39).

31 “Cum scierit Apostolus Annam illam …extitisse praenuntiam dominicorum operum, non puto…” (cap. 2, 12).

(25)

requisito. La caratteristica di Anna che più interessa all’autore è infatti la sua strenua castità, a proposito della quale si compie però una seconda fraus. Nel capitolo 2, 12 viene detto che la donna è stata vedova integerrima per ottant’anni, dopo aver sperimentato le gioie coniugali per sette; nel Vangelo, invece, gli ottantaquattro anni citati si riferiscono all’età di Anna e non alla durata del suo stato vedovile

32

. E’ evidente che ad interessare Ambrogio è proprio la dichiarazione di un numero di anni di fatto eccezionale e non reperibile altrove, per cui questa opportunità biografica appare al suo sguardo di catechista molto più appetibile della comprovata attitudine profetica, che poteva rientrare nel quadro con Debora. E’ pur vero che la portata delle due profezie è diversa, perché la donna giudice anticipa l’esito finale della guerra, un evento contingente e tutto sommato di importanza limitata, mentre Anna parla della divinità di Gesù “a quanti aspettano la redenzione di Gerusalemme”, ma in questa sede non interessa ad Ambrogio stabilire una gerarchia tra profezie, bensì ammettere in generale la possibilità di una donna di essere profeta

33

.

A fianco dei precetti morali fondati su esempi paradigmatici, compaiono nella pars construens alcune esortazioni di carattere eminentemente pratico, che donano all’argomentazione di Ambrogio una certa concretezza. In primis egli si preoccupa di richiamare le viduae alla sobrietà e all’astinenza dal vino, collegandosi alla lucidità dimostrata da Giuditta nel far ubriacare gli avversari e nel rimanere astemia ella stessa

34

. All’inizio del capitolo 7 si dice espressamente

“nocere mulieribus potest ebrietas”, per poi qualificare in modo più preciso l’affermazione: la sobrietà consente di esercitare il controllo

32 Ambrogio dà la stessa interpretazione anche in Exp. Luc. 2, 62 ed Epist. 14, 29:

“non otiose tamen annos LXXXIIII viduitatis eius expressit (CCL 14, p. 57); “Anna octaginta quattuor annos in viduitate sua (CSEL 82, 3, p. 251).

33 Cfr. E. Giannarelli, Profezia negata, cit.

34 Sul tema della sobrietà, che è elemento ricorrente in ogni esortazione alle vedove, cfr. A. V. Nazzaro, Il vino nella letteratura biblico- patristica, in AA.VV, L’uomo e il vino, Firenze, 1994, pp. 23- 51 (=«Vichiana», 1994, pp. 203- 224); M. Durry, Les femmes et le vin, «REL», 33, 1956, pp. 108- 113.

(26)

sul corpo, l’alterazione prodotta dal vino asseconda invece la disinibizione. “Esto, igitur, vidua temperans: casta primum a vino, ut possis casta esse ab adultero”(par. 40); Ambrogio usa l’imperativo e riporta la questione ancora una volta ai temi della morale sessuale. Si è casti anche astenendosi dal vino: la scelta lessicale riassume un processo logico di tipo transitivo, che bene emerge dal contesto.

Sembra evidente che il riferimento più immediato sia ancora a 1 Timoteo 13-14; a rafforzare quanto già detto dall’Apostolo, il vescovo vuole evitare che le vedove se ne stiano senza far niente girando per le case e ciarlando a sproposito. Forse la maggiore facilità dei contatti sociali, cui le viduae erano inclini come donne libere, aveva facilitato anche il loro accesso ad abitudini prettamente maschili, come l’uso del vino. Di chiara ascendenza paolina è la preoccupazione di Ambrogio per l’abbigliamento: sempre in 1 Timoteo si raccomanda (2, 9) alle donne di vestire in modo discreto ed ordinato, senza indulgere ad alcun ornamento prezioso né allo sfoggio di vesti sontuose. Ambrogio va oltre, ribadendo la necessità del lutto, per scopi del tutto pragmatici: il volto emaciato, gli occhi infossati ed arrossati dalle lacrime, l’abito nero privo di qualsiasi attrattiva sono elementi necessari a tenere la vedova, specie quella ancora giovane, lontano dagli sguardi “petulantium” (8, 51). In conclusione dunque, la monografia ribadisce che le caratteristiche precipue devono essere:

sapientia, castitas, iustitia, intellectus bonus (5, 30). La sapientia

viene concessa da Dio alla donna devota, la castitas richiede invece la

mortificazione della carne ed un cammino costante di

perfezionamento morale, alla base del quale si situa la necessità della

preghiera. In caso di tentazione e di debolezza, il Signore sanerà ciò

che è malato con l’intervento dello Spirito: come Egli ha guarito dalla

febbre del corpo la suocera di Pietro, così soccorrerà la vidua che

brucia per un’altra fiamma, toccando e guarendo le sue viscere.

(27)

“Tangat interiora tua Dei manus”, si augura Ambrogio nel capitolo 9 al paragrafo 62.

2.3. Agostino e il De Bono Viduitatis35

Dopo Ambrogio, un secondo caposaldo della letteratura patristica riguardante la questione vedovile è costituito dal De Bono Viduitatis di Agostino. Si tratta di uno scritto dedicato, ideato e redatto per una circostanza specifica, che, come il titolo lascia intuire, mira all’edificazione della vedova e a comunicare l’evidenza della positività della sua condizione. Il testo è un trattato in forma epistolare, scritto tra 413 e 414, la cui paternità è stabilita in modo indiretto: nelle Retractationes esso non viene infatti menzionato dall’autore e la certezza della provenienza agostiniana si ricava dal capitolo 7 dell’Indiculus di Possidio, oltre che da alcune citazioni di altri scritti morali e pastorali agostiniani contenute al cap. 15 (in cui si rimanda al De bono coniugali) e al cap. 23 (che fa riferimento all’epistola a Proba) del trattato stesso. La destinataria dello scritto è Anicia Giuliana, vedova del ricco Olibrio, il figlio minore di Anicia Faltonia Proba

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, cui è indirizzata la famosa, citata epistola 130. Le due donne, insieme a Demetriade, figlia di Giuliana, erano scampate al sacco di Roma del 410 e si erano in seguito rifugiate a Cartagine e qui stabilmente insediate. Esse avevano poi subito l’influenza dell’ascetismo e del moralismo pelagiano, che tanto aveva affascinato gli aristocratici di Roma e che Agostino mira a debellare con le sue pagine. Nel momento dello scambio delle missive, Proba, “vedova

35 Per le citazioni del testo l’edizione di riferimento è Agostino, De Bono viduitatis, PL 40, pp. 429-450.

36 Per notizie più specifiche su questa interessante figura di donna, cfr. A. V.

Nazzaro, Proba, s.v., «Nuovo Dizionario patristico e di antichità cristiane», Genova- Milano, 2008, III, coll. 4337- 4339.

(28)

dell’uomo più ricco dell’Impero”,

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aveva già fatto voto di castità e obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche.

Il testo viene presentato dall’autore come lettera di risposta ad una precedente scritta dalla donna per richiedere attenzione e benedizione da parte del vescovo in occasione di un duplice, importante evento spirituale riguardante la famiglia: nel 412 Giuliana ricevette infatti la consacrazione come vedova provvista di ministero, e l’anno seguente Demetriade fece voto di verginità. Pur concepito in relazione a due pronunciamenti spirituali solenni, lo scritto agostiniano si concentra nel definire e nel caldeggiare la vedovanza prima che come una funzione nell’ambito dell’attività ecclesiale, come un genere di vita, uno stato iscritto nel quadro della vita spirituale che il cristianesimo suscita e coltiva

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. Ecco perché, anche se indirizzato ad una destinataria specifica, il De bono Viduitatis si configura fin dall’inizio come una lettera pastorale rivolta alla Chiesa tutta, il cui carattere universale è esplicitato in incipit da Agostino stesso: egli infatti sottolinea come il frutto delle sue recenti fatiche sia da considerarsi un opuscolo morale atto alla divulgazione e non un dono a carattere strettamente privato per la vedova Giuliana

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Un ulteriore indice delle intenzioni universalistiche del testo è rappresentato dalla sua estensione: ben 23 capitoli facenti parte di un liber unus, all’interno dei quali la sezione teologico- dottrinale è sostanzialmente equivalente a quella di tenore precettistico e parenetico. In effetti è possibile distinguere in esso due parti ben individuate: la prima, che va dal capitolo 2 al capitolo 15, fornisce istruzioni sul modo di concepire e gestire lo stato di vedovanza, la seconda, dal capitolo 16 al 23, contiene l’insieme delle esortazioni morali ed è una sorta di sermone

37 P. Brown, Augustine of Hippo, Berkeley, 1967, trad. it., Torino, 1971 p. 340.

38 Cfr. a questo proposito V. Recchia, Lettera e profezia nell’esegesi di Gregorio Magno, Bari, 2003, Appendice, p. 121 ss.

39 Cfr. 1.1. “Istae quippe litterae quamvis ad te, non tamen tantum modo tibi scribendae fuerunt sed ut aliis quoque per te prodessent”.

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