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Discrimen » Strategie di contrasto a terrorismo e mafia. Fra giustizia penale e storia

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S

TRATEGIE DI CONTRASTO A TERRORISMO E

MAFIA

. F

RA GIUSTIZIA PENALE E STORIA *

Domenico Pulitanò

SOMMARIO 1.Dicitori e cercatori di verità. 2. Modelli normativi di contrasto. 3. Strategie di contrasto al terrorismo degli anni di piombo. 4. La storia nel processo. 5. La storia nei proces- si come oggetto di indagine storica.

1. Dicitori e cercatori di verità

In una riflessione su verità e politica, Hannah Arendt ha inserito l’imparzialità del giudice e l’imparzialità dello storico fra gli “importanti modi esistenziali di dire la verità”, accanto al filosofo, lo scienziato, l’artista, il testimone e il cronista e in gene- re chi indaga sui fatti. La vita della polis, e anche la politica in Stati con governo co- stituzionale, ha interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali la politica non ha potere. Istituzioni come una magistratura indipendente e imparziale, e anche la libera università, sono (dovrebbero essere) rifugi della verità, esposti a pericoli che derivano dal potere sociale e politico1.

I modi d’essere imparziali dello studioso e del giudice – ha scritto un grande storico – hanno nell’onesta sottomissione alla verità una radice comune. “Viene un momento, però, in cui le loro strade divergono. Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso. Al giudice tocca ancora emettere la sentenza”.

L’imparzialità dovuta dal giudice si risolve nel giudizio secondo legge. Non è l’imparzialità dello studioso, si riferisce a una tavola di valori che non deriva da al- cuna scienza positiva2.

Al giudice compete il giudizio, non la ricerca. Sul terreno della giustizia penale la ricerca di verità fattuali è effettuata da organi che sono ‘di parte’ – inquirenti e ac-

* Si tratta del testo, corredato di alcune essenziali note, della relazione al convegno su “Strategie di contrasto: terrorismo, mafia e storia d’Italia. Un dialogo tra giuristi e storici”, svoltosi a Palermo, il 25 e 26 maggio 2018, i cui atti, a cura di A. Blando e P. Maggio, sono in corso di pubblicazione nel nume- ro monografico della rivista storica Meridiana.

1 H.Arendt, Verità e politica, Einaudi, Torino, 2004, p. 72, 74.

2 M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1998, p. 104.

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cusatori – anche quando appartengono all’ordine giudiziario, come in Italia il PM3. L’inquisizione giudiziaria è istituzionalmente legata a interessi diversi dal puro e semplice interesse per la verità. La giustizia penale è l’ultimo anello della catena isti- tuzionale del contrasto alla criminalità inteso come repressione legale; l’ottica del contrasto concorre a definire le finalità del diritto e della giustizia penale, anche in un ordinamento liberale nel quale il principio di legalità e i principi del giusto pro- cesso hanno una funzione di garanzia di diritti di fronte all’autorità.

Per le istituzioni di giustizia penale, l’indagine su fatti e la decisione che valuta in diritto gli esiti dell’indagine sono esercizio di potere. I problemi di fondo della giurisdizione hanno a che fare con il suo carattere, ad un tempo, di istituzione di ga- ranzia e istituzione di potere.

La ricerca storica non è un’istituzione di potere. Si colloca nell’ambito della scienza, esercizio di libertà (art. 33 Cost.) sorretto da interessi di conoscenza. La sto- riografia può essere definita episteme in quanto impresa conoscitiva non finalizzata a uno scopo pragmatico4. Come qualsiasi impresa umana (compresa l’attività giudizia- ria) è a rischio d’essere condizionata da poteri esterni.

Dentro la grande storia può stare qualsiasi cosa, tra il micro e il macro. Ci sta anche la storia di organizzazioni e imprese criminali, e di istituzioni e attività istitu- zionali di qualsiasi natura, fra le quali la giustizia penale.

2. Modelli normativi di contrasto

Strategie di contrasto a fenomeni criminali non sono responsabilità specifica della magistratura. Rientrano nella responsabilità politica del legislatore, competente a effettuare scelte normative (anche di eventuale penalizzazione); nella responsabili- tà del governo per attività di polizia, finalizzate alla prevenzione e all’accertamento di reati, e in genere per le policies che influiscono sul benessere della società e le condizioni d’osservanza dei precetti legali. Hanno inoltre rilievo forme di vita, idee, orientamenti e comportamenti delle persone.

3 È accostabile più al PM che al giudice il giudice istruttore dei sistemi processuali precedenti alla riforma del 1989. Entrambi i ruoli sono stati da ricoperti da Gian Carlo Caselli, che da giudice istrut- tore a Torino si è occupato di terrorismo negli anni ’70-80, e poi, da Procuratore della Repubblica a Palermo negli anni ’90, si è occupato di mafia.

4 A. Heller, Teoria della storia, Castelvecchi, Roma, 2018, p. 105.

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I modelli normativi pensati e applicati nell’ordinamento italiano per il contra- sto al terrorismo e alla mafia presentano analogie strutturali di fondo. Carattere fon- damentale comune è l’accentuazione della severità di principio delle pene minaccia- te, combinata con la promessa di mitigazioni per chi collabori con l’autorità. Modello a forbice: bastone e carota.

La legislazione premiale italiana recente nasce con la c.d. ‘legge Cossiga’ (d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito in legge 6 febbraio 1980, n. 15) in un momento cruciale degli anni di piombo. Per i delitti con finalità di terrorismo o eversione è stata introdotta un’aggravante speciale, non bilanciabile con eventuali attenuanti, comportante un aumento di pena fino alla metà. Ed è stata prevista una forte dimi- nuzione di pena per il “concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evi- tare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concre- tamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti” (art. 4). La diminuzione di pena è molto forte (alla pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da 12 a 20 anni, e le al- tre pene sono diminuite da un terzo alla metà). Diminuzioni ancora più consistenti sono state previste dalla legge temporanea del 1982 per i terroristi pentiti che avesse- ro prestato una collaborazione utile entro un certo termine, fissato dalla legge; una diminuzione di pena particolarmente consistente, ed ulteriori benefici, erano previ- sti per il caso che la collaborazione avesse avuto un’eccezionale importanza.

Per i delitti di mafia, il pentitismo5 è entrato negli anni ’80 nelle indagini pa- lermitane di Falcone, e ha trovato riconoscimento normativo nell’art. 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203; una riforma di siste- ma è stata introdotta con legge 13 febbraio 2001, n. 45. Nelle indagini e nei processi di mafia le dichiarazioni di ‘collaboratori di giustizia’ hanno assunto un ruolo rile- vante, in positivo e in negativo.

Fra gli strumenti normativi applicabili (e di fatto applicati) sia sul fronte antiterrori- smo sia sul fronte antimafia, meritano menzione il trattamento penitenziario più rigoroso (art. 41-bis) e le condizioni – legate alla collaborazione – cui è stato subordinato l’accesso a misure alternative. Sono istituti di forte impatto, particolarmente problematici.

Il concorso esterno in reato associativo, divenuto strumento e problema crucia- le nel contrasto alla mafia, era già stato utilizzato negli anni ’70 nel contrasto al ter- rorismo, ma in quel campo è rimasto marginale.

5 Anche nella storia della mafia il pentitismo è un fenomeno ricorrente: S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 2004.

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Elemento caratterizzante e concretamente applicato della normativa antimafia è un sistema di misure di prevenzione che si è sviluppato nel tempo, a partire dalla legge antimafia del 1965, e che in epoca più recente si è orientato verso misure pa- trimoniali anche molto invasive. Nella normativa sul terrorismo, misure di preven- zione sono state introdotte dalla legge Reale del 1975. Sono istituti problematici6, che comportano un abbassamento degli standard sia della legalità formale (determi- natezza delle fattispecie) sia di accertamento probatorio. Quanto di positivo e/o di negativo vi sia nelle applicazioni, è un problema aperto, cui non dà adeguata risposta il mero fatto che applicazioni ci sono.

3. Strategie di contrasto al terrorismo degli anni di piombo

3.1. Sul contrasto al terrorismo degli anni di piombo (dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, fino ai primi anni ’80) propongo alcune riflessioni che muovono da come ho vissuto il problema. Erano problemi non solo di risposta istituzionale, ma di politica generale. Un impegno culturale e politico era parte es- senziale delle strategie di contrasto.

Nella cultura ‘di sinistra’ c’era un serio confronto fra linee più attente alla fun- zionalità repressiva, e linee più preoccupate della tenuta delle garanzie liberali.

C’erano anche posizioni estremiste molto spinte, non aliene dalla violenza, ambigue verso il terrorismo (emblematico lo slogan ‘né con lo Stato né con le BR’. Mi impe- gnai nelle discussioni dentro e fuori della magistratura, sostenendo l’esigenza di ri- connettere il momento giurisdizionale a una strategia generale di difesa e di consoli- damento dell’ordine democratico7, rientrante nella responsabilità non solo delle isti- tuzioni, ma anche delle forze politiche.

Come esempio della situazione spirituale degli anni ’70, ricordo un dibattito su Terrorismo e Stato nella crisi, organizzato nell’ottobre 1978 (pochi mesi dopo il se- questro e assassinio di Aldo Moro) dalla rivista La questione criminale8. Fra i presenti c’era Toni Negri, il professore padovano esponente di spicco di posizioni estremiste che teorizzavano la violenza; parlò dell’illegalità di massa come un processo necessa-

6 Cfr. il fascicolo n. 2/2017 della Riv. it. dir. proc. pen., contenente gli atti del V Convegno nazionale dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, “Delle pene senza delitto”, novembre 2016.

7 Alcuni miei interventi (segnati dal clima e dalle ideologie dell’epoca) in D. Pulitanò, Giudice ne- gli anni ’70, De Donato, Bari,1977.

8 È pubblicato nel fascicolo n. 1 del 1979 della rivista, fondata nel 1975 e diretta da Franco Bricola e Alessandro Baratta, che fu un punto d’incontro di diversi orientamenti culturali della sinistra.

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rio e prevedibile, e della violenza degli oppressi come momento aurorale di nuovi ordinamenti. Anche in quell’occasione posi il problema della connessione fra movi- menti illegali violenti e il fenomeno terroristico in senso stretto. Non molto dopo (7 aprile 1979) Toni Negri venne arrestato. Fu un momento di aspre discussioni; presi una posizione essenzialmente politica, che riteneva prioritario il contrasto all’estremismo politico e alla cultura sottostante, lasciando fra parentesi ogni que- stione sul merito (discutibile) del ‘processo 7 aprile’.

Il ciclo storico degli anni di piombo si è chiuso prima della metà degli anni ’80.

La strategia brigatista di impedire lo svolgimento dei processi con il rifiuto del difen- sore nominato d’ufficio9 venne bloccata col contributo della Corte costituzionale (sentenza n. 125/1979). La normativa premiale introdotta nel dicembre 1979 ha fun- zionato fin da subito, con le prime collaborazioni già nei primi tragici mesi del 1980, ancora segnati da una serie di omicidi.

Allo sradicamento del terrorismo hanno contribuito sia la repressione penale sia la tenuta morale della società e la coesione di forze politiche che pure erano divi- se sotto tanti aspetti. Ritengo vi abbia contribuito (pur con i suoi costi) la linea della fermezza, il rifiuto di principio della presa in considerazione, da parte delle istitu- zioni statuali, di richieste avanzate da gruppi eversivi quale condizione per il rilascio di persone prese in ostaggio10: il rifiuto di riconoscere al partito armato qualsiasi le- gittimazione politica e morale11.

3.2. Le sentenze di condanna non fanno parte delle strategie di contrasto: ne sono uno, non l’unico esito. La legislazione premiale condusse a trattamenti molto

9 Anche con l’assassinio: ne fu vittima l’avv. Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, che era nominato difensore d’ufficio nel primo importante processo contro appartenenti alle Brigate rosse.

10 L’alternativa fra la fermezza e il cedimento in nome della salvezza d’una vita umana acquistò una concreta dimensione giudiziaria in occasione del primo clamoroso sequestro “politico” effettuato dalle Brigate Rosse: il sequestro del magistrato Mario Sossi, nel 1974. Di fronte alla richiesta dei se- questratori di scambiare il rilascio dell’ostaggio con la liberazione di taluni detenuti in attesa di giudi- zio, la Corte d’assise d’appello di Genova concesse a questi ultimi la libertà provvisoria, motivata dal grave ed imminente pericolo per la vita dell’ostaggio, l’indilazionabile necessità di impedirne l’omicidio minacciato per le prossime ore. La scarcerazione era disposta “subordinatamente alla con- dizione che sia assicurata la incolumità personale e la liberazione del dott. Sossi”. Tale provvedimento non ebbe esecuzione per decisione del Procuratore generale dott. Coco, che due anni dopo venne uc- ciso dalle B.R. Altri magistrati furono uccisi da terroristi di destra o di sinistra negli anni successivi.

11 La questione venne particolarmente discussa, in sede politica, all’epoca del sequestro dell’on.

Moro (1978): A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna, 2005.

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differenziati fra terroristi c.d. irriducibili e c.d. pentiti. Autori di delitti gravi e gra- vissimi ne hanno tratto un beneficio che a molti è parso eccessivo12. Ma il paradigma premiale si è mostrato funzionale rispetto al fine di smantellamento delle bande ar- mate: non solo sul piano degli accertamenti processuali, anche come fattore di sfal- damento morale del terrorismo ideologicamente motivato.

Nella discussione dentro il mondo dei giuristi mi impegnai in difesa della legitti- mità e opportunità della legislazione premiale sui collaboratori di giustizia (i c.d. pentiti) confrontandomi con le critiche più serie, l’obiezione radicale che ravvisava nelle atte- nuanti premiali un “paradossale capovolgimento di un classico principio garantista:

quello della proporzionalità della pena alla gravità del reato e al grado di colpevolezza”13. Proprio questa obiezione opera un paradossale capovolgimento dell’invocata funzione garantista dell’idea della proporzione fra pena e colpa: che è ‘principio garantista’ in quanto si ponga come criterio od istanza di delimitazione verso l’alto della coercizione statuale, opponendosi a pene sproporzionate per eccesso. Nella polemica sul pentitismo è emersa invece una prospettiva opposta: il principio di proporzione è stato piegato a so- stegno di richieste di intransigente mantenimento di appropriati livelli di ‘retribuzione’

punitiva, contro prospettive di riduzione verso il basso.

Il principio di uguaglianza di per sé non si oppone all’adozione di tecniche premiali di incentivazione alla collaborazione processuale: il fatto della collaborazio- ne introduce fra la posizione del collaborante e quella di chi non collabora una diffe- renza non irragionevolmente valutabile dal punto di vista di interessi e criteri rile- vanti per il sistema penale. La legittimazione di tecniche premiali ‘spinte’ può essere ricercata nel contributo che la collaborazione processuale, incentivata dalla promessa d’un trattamento meno sfavorevole, può dare al funzionamento della giustizia pena- le, e mediatamente al raggiungimento di obiettivi di prevenzione di futuri delitti.

Una prospettiva, dunque, di prevenzione generale. L’area della criminalità organiz- zata è quella meglio che si candida come terreno di sperimentazione di tecniche premiali, sia per l’importanza della posta in gioco, sia per la particolare utilità di in- formazioni provenienti dall’interno delle organizzazioni criminali.

12 Negli anni ’80, vivaci polemiche sono seguite a sentenze di condanna ritenute eccessivamente miti, nei confronti di autori di omicidi di terrorismo, la cui collaborazione è stata ritenuta di eccezio- nale importanza per lo smantellamento della banda armata cui essi appartenevano, e premiata nella misura molto ampia consentita dalla legge speciale del 1982. Sul rapporto con i terroristi, più o meno pentiti, segnalo la riflessione di Benedetta Tobagi, Senti come mi batte forte il tuo cuore, Milano, 2009 (è la figlia di Walter Tobagi, giornalista ucciso nel maggio 1980, una delle ultime vittime degli anni di piombo).

13 L. FERRAJOLI, Ravvedimento processuale e inquisizione penale, in Questione giustizia, 1982, p. 217.

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3.3. A battaglia vinta, un trattamento più mite fu offerto ai ‘dissociati’ confessi ma non collaboranti, con la legge 18 febbraio 1987, n. 34. Fu una scelta politicamen- te sofferta: era sentita l’esigenza di non riconoscere il collettivo dei dissociati dal ter- rorismo come interlocutore politico14. C’era però un problema di destini individuali, di persone (anche autori di delitti gravissimi e ideologi di bande armate) che avevano ripensato l’esperienza passata e che era ragionevole non lasciare esposte all’accentuato rigore della legislazione speciale. Premiare la dissociazione senza col- laborazione fu una scelta di grande apertura, umanamente equilibrata.

Negli anni ’90 una battaglia per ottenere provvedimenti di clemenza (indulto) fu condotta dagli ‘irriducibili’, senza successo.

Sulla via italiana dell’uscita dagli anni di piombo sono state espresse valutazioni di segno diverso. Un discorso fortemente critico è stato svolto da Luigi Manconi: alla tragedia del terrorismo si sarebbe sommata una tragedia culturale, l’incapacità di comprenderlo e di pensarlo, la mancata soluzione politica. “Il ragionamento sulla ri- conciliazione deve partire dalla constatazione che, negli anni novanta, il problema del terrorismo viene come aggirato”. “La ricostruzione storica e l’attribuzione giudi- ziaria delle responsabilità non sono sufficienti a chiudere i conti”15.

La mia valutazione positiva è un giudizio politico d’insieme; anche di politica del diritto. Lascia ovviamente aperti i problemi di ricostruzione e valutazione di sin- goli punti. Negli anni ’80 avrei ritenuto (come ritengo oggi) ingiustificata e pericolo- sa una strada diversa dalla normale repressione penale dei delitti di terrorismo. Era stata posta sotto attacco, da alcuni gruppi armati, la vita delle persone e la legalità democratica. Non c’era stato un conflitto di massa che richiedesse una composizione di popolo, e perciò politica; non pertinente il modello sudafricano della Commissio- ne per la verità e la riconciliazione, pensato per una difficile transizione di regime.

La risposta istituzionale in Italia ha mantenuto fermezza di principio, non ricono- scendo alle scelte di lotta armata alcuna legittimazione politica, e ha aperto a una saggia flessibilità nel differenziare e graduare il trattamento dei singoli condannati.

3.4. Ho tratto elementi di riflessione retrospettiva sugli anni ’70 in un processo che ho vissuto negli anni ’80 come difensore, relativo a un fatto gravissimo della

14 Sulla dissociazione dal terrorismo e la discussione politica che portò alla legge del 1987, cfr. la ricostruzione storica di M. Galfré, La guerra è finita, Roma-Bari, 2014.

15 L. Manconi, Postfazione a Il libro dell’incontro, a cura di G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 411 s.

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primavera 1975, il delitto Ramelli: una violenza programmata come modica (qualche giorno di prognosi) contro un ragazzino, militante della gioventù fascista; il modo in cui venne esercitata (colpi sulla testa, con chiavi inglesi) fu cagione di morte dopo una lunga sofferenza. Quando, un decennio dopo, gli autori (studenti di medicina all’epoca del fatto) vennero identificati e arrestati, erano professionisti affermati;

confessi e pentiti della militanza in un estremismo violento.

Per una riflessione su giustizia penale e storia, il processo Ramelli offre tanti profili d’interesse. Del tutto marginale, per la grande storia, era ciò che costituì il tema centrale di quel processo: delitto preterintenzionale o doloso? La condanna de- finitiva fu per omicidio doloso (dolo eventuale per gli esecutori materiali, concorso ex art. 116 per altri). Per gli autori del delitto commesso nel 1975, dei quali il proces- so registrò un reale mutamento morale, le pene furono miti, per quanto possibile (le condanne per omicidio preterintenzionale, in primo grado, erano state più severe).

La grazia concessa per la pena accessoria interdittiva consentì di continuare a eserci- tare la professione.

D’interesse storico e politico, nel processo Ramelli, fu la messa in scena di un pezzo di storia degli anni ’70: lo scontro fra opposti estremismi, la miseria morale e politica di ideologie estremiste e di pratiche squadriste che si autodefinivano antifa- scismo militante (è un problema aperto ancora oggi). Ricordo l’imbarazzata e imba- razzante comparsa nell’aula d’udienza, come testimoni, di ex dirigenti di Avanguar- dia operaia che avevano poi avuto un’apprezzabile evoluzione politica e cursus ho- norum. Nella preparazione del processo ho avuto occasione di dare uno sguardo al giornale di quel gruppo: firme rispettabili accanto a cose terribili.

4. La storia nel processo

I processi sono luoghi di indagine, le sentenze penali sono scrittura di storie. Le carte processuali sono lo specchio di un lavoro ‘storico’, di ricerca e verifica, necessa- rio per il giudizio di fatto (e di qualificazione giuridica del fatto) su un’ipotesi d’accusa. Le sentenze raccontano storie, per lo più microstorie, cronaca nera. Ma an- che storie di vicende importanti; storie complesse in cui si intrecciano fatti di grande e grandissimo rilievo; storie di delitti d’importanza epocale, come il caso Moro, o che hanno a che fare con fenomeni di lunga durata, come la mafia siciliana.

4.1. Una rivendicazione d’importanza storica è avanzata nella sentenza della

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Corte d’assise di Palermo, del 201816, nel processo c.d. della trattativa stato-mafia:

“può con assoluta serenità affermarsi che l’istruttoria dibattimentale svolta nel pro- cesso … ha ricostruito la storia recente dell’organizzazione mafiosa ‘cosa nostra’”

(più specificamente, la fase che ha visto crescere l’influenza dei Corleonesi), e anche

“fotografato il declino e la sostanziale chiusura di quell’esperienza”: “sconfitta dallo Stato nonostante i comportamenti di molti esponenti istituzionali” (p. 65-66).

L’accusa ipotizzava, e i giudici di primo grado hanno ritenuto verificato, il concorso di uomini delle istituzioni in un delitto (minaccia a un corpo politico, art. 338 c.p.) realizzato da mafiosi.

Parlando di mafia sconfitta dallo Stato, la sentenza converge con critiche mosse in precedenza all’impostazione d’accusa17, e prende tacitamente le distanze da questa, come espressa nella memoria dei pubblici ministeri del novembre 2012. Secondo i costruttori dell’indagine, la vera posta in gioco di tutta la trattativa non erano gli obiettivi tattici indicati nel c.d. papello attribuito a Totò Riina, ma “assai più ambi- ziosamente un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla prima alla seconda Repubblica”.

Un’azione “sfociata nell’accordo politico-mafioso stipulato nel 1994, non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi”18.

In circa cinquemila pagine la sentenza racconta (anche riportando una grande mole di documenti e dichiarazioni) una storia che comprende molto più che i fatti oggetto d’accusa. Secondo l’accusa ritenuta in sentenza, la minaccia a un corpo poli- tico (il Governo italiano) comincia con l’omicidio Lima nel gennaio 199219. Sono sta- ti oggetto del processo, anche con l’audizione di uomini politici e di magistrati, fatti della vita istituzionale e politica dal 1992 al 1994: scelte relative alla formazione del governo e all’assegnazione di incarichi dirigenziali, attività di organi dello Stato.

Pezzi di storia delle istituzioni sono stati indagati e valutati nell’ottica del giudizio penale sull’ipotesi del concorso di uomini delle istituzioni nella strategia minatoria di

‘cosa nostra’. Particolare rilievo è stato dato alla mancata proroga di decreti applica- tivi dell’art. 41-bis per decisione del Ministro Conso, determinatosi a “lanciare un se- gnale, nel senso dell’attenuazione del rigore carcerario, che fosse percepibile da cosa nostra” (p. 2642). Un cedimento dello Stato, lo definisce la sentenza (p. 2842). Viene

16 Reperibile in Diritto penale contemporaneo, con presentazione di G. Amarelli in data 25 luglio 2018.

17La mafia non ha vinto: è il titolo dei saggi critici sul labirinto della trattativa, del giurista Gio- vanni Fiandaca e dello storico Salvatore Lupo, Roma-Bari, 2014.

18 La memoria dei PM è pubblicata come appendice in La mafia non ha vinto. Citazioni da p. 143 e 148.

19 Ancorché non esplicitata, né l’unica pensabile: G. Fiandaca, op. cit., p. 115 s.

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fatto riferimento a indirizzi politici, per es. alla vocazione garantista di Forza Italia, quale fondata ragione per ritenere che certe iniziative non siano state effetto diretto di una minaccia (p. 4403).

Dopo un quarto di secolo dai fatti, pesanti condanne sono state inflitte a mafio- si quali autori di minacce, e a uomini delle istituzioni per averle trasmesse. Senza di- scutere qui i pur discutibili profili giuridici, riprendo un interrogativo che era stato posto di fronte all’ipotesi d’accusa: se il processo penale possa, a prescindere dalla ri- levanza giuridica dei fatti accertati, svolgere una funzione utile nel contribuire a fare chiarezza sulla verità storica in sé considerata20. È un interrogativo che definirei epi- stemologico: relativo agli strumenti, alle culture e ai criteri dell’approccio del giudi- ce, di fronte ai problemi del giudizio di fatto e di sussunzione del fatto concreto nella fattispecie legale astratta.

4.2. Il giudizio di fatto non è questione di nomos e di nomofilachia. È però il quid proprium della giurisdizione nel modello illuministico che vorrebbe azzerare lo spazio dell’interpretazione giuridica21. È anche il profilo che avvicina il giudice allo storico, sia pure con un compito orientato a fini diversi dalla mera ricostruzione di fatti accaduti.

Nel processo e attorno al processo, sull’uno e/o sull’altro fronte, “c’è una mol- teplicità di soggetti ai quali il processo giova o nuoce, e che solo da un punto di vista formale non si possono chiamare parti. Quando il linguaggio comune, nella sua pro- fonda filosofia, dice che il giudice deve essere imparziale, cioè non deve essere parte, è a questo ampio concetto che si riferisce”22.

Del mondo variegato degli interessati al processo fanno parte persone offese o che si ritengono (o si dicono) tali. Di processi parlano molto (e pesano) i media e la politica. Nei processi hanno titolo a entrare enti esponenziali. Voci non disinteressa- te parlano anche dal banco dei testimoni (il processo ‘trattativa’ ne è un esempio vi- stoso). Nel processo entrano fonti di affidabilità incerta. Il contraddittorio processua- le, in difficile equilibrio fra strategie di parti contrapposte, non è un modello episte- mico herrschatsfrei, libero da poteri e interessi diversi dalla ricerca della verità.

Partendo dall’ipotesi d’accusa, nel processo si pongono problemi di accerta- mento di fatti specifici, e problemi che definirei di ermeneutica del fatto: ricognizio-

20 G. Fiandaca, op. cit., p. 131.

21 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, §. 4.

22 S. Satta, Il mistero del processo, in Riv. dir. proc., 1949, p. 237s.

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ne di profili ‘culturali’ e di connessioni fra fatti diversi, che ne determinano il signi- ficato anche giuridico. Per il giudizio di fatto servono saperi che non fanno parte né della cultura di base né della cultura specificamente giuridica. Un aspetto oggi ben riconosciuto e seriamente discusso è la prova scientifica. Assai meno esplorato il so- strato di concezioni culturali e normative indipendenti dal diritto che assumono ri- lievo sia per l’interpretazione giuridica (la ricognizione del significato della norma) sia per la ricognizione di profili non meramente materiali del fatto concreto.

Riguarda i saperi necessari per il giudizio di fatto la questione messa a fuoco da un acuto studioso americano nel capitolo intitolato a ‘diritto e fatti’ in un manuale sul ragionamento giuridico23. “Risolvere questioni di fatto costituisce una parte cru- ciale del ragionamento e dell’argomentazione degli operatori del diritto, a tutti i li- velli del sistema giuridico”. Il giudice fa perno, sebbene in modo non evidente, su fonti informative fattuali non filtrate nel contraddittorio processuale, talora (non sempre) formulate mediante la citazione di materiali non giuridici, valutate alla luce della cultura ed esperienza di cui il giudice dispone. Da qui il problema: come le proposizioni empiriche che necessariamente fanno parte della creazione giudiziale di diritto, e molte volte della sua applicazione, possano essere controllate – messe in dubbio, confermate, confutate – “piuttosto che essere semplicemente fatte passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono essere, non sempre corret- tamente, e non sempre indipendentemente dal loro retroterra culturale, la saggezza comune dell’umanità”.

Questi problemi sono collegati, nel processo, a problemi di qualificazione giuridi- ca, ed è plausibile ipotizzare che i giuristi li guardino attraverso le lenti della loro cultura giuridica e di pre-comprensioni normative (non solo giuridiche). Sono problemi nei quali si intrecciano – ma è bene non confondere – ermeneutiche giuridiche ed erme- neutiche del fatto; problemi tanto più delicati, quanto più vengano in rilievo valutazioni socioculturali, e/o il giudizio penale richieda un’ermeneutica di fatti complessi.

Negli anni ’60, in un clima culturale che metteva in discussione la cultura giu- ridica tradizionale, furono avviate indagini sui valori socioculturali nella giurispru- denza24. Paradossalmente, l’interesse crescente per il diritto giurisprudenziale, cen- trando l’attenzione sulle ermeneutiche giuridiche, non ha favorito un’attenzione mi-

23 F. Schauer, Thinking like a lawyer. A new Introduction to Legal reasoning, 2009. In traduzione italiana: Il ragionamento giuridico, Roma, 2016. Citazioni da p. 263 s.

24 Anche il sottoscritto ne è stato coinvolto: cfr. AA.VV., Valori socioculturali della giurispruden- za, Laterza, Bari, 1970.

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rata alle ermeneutiche del fatto e alle culture (o carenze culturali) sottostanti.

Sono problemi di ermeneutica del fatto, prima che di interpretazione giuridica, i problemi cruciali del processo sulla c.d. trattativa. Riguardano non il concetto di minaccia o la disciplina del concorso di persone, ma il carattere di minaccia (più pre- cisamente: di concorso in minaccia) di certe condotte in un certo contesto.

Riguarda l’ermeneutica del fatto l’interrogativo sulla idoneità del processo pe- nale in quanto tale a fungere da strumento di chiarificazione di vicende assai com- plesse, per es. quando l’ipotizzata dimensione delittuosa si intreccia con l’operato di attori politici e istituzionali25.

Lascio qui aperti tutti questi interrogativi, con lo scetticismo metodologico che essi sottendono.

5. La storia nei processi come oggetto di indagine storica

5.1. Lo storico può essere interessato, anche molto, alla storia di fatti delittuosi e di processi; anche la dimensione giuridica vi rientra. La produzione giudiziaria di storie (conoscenze, ipotesi, interpretazioni) è anch’essa oggetto di indagine e di ri- scrittura storiografica.

L’attività giudiziaria è parte di una storia più comprensiva, deposito di materia- li che possono essere di grande interesse, nell’ottica dello storico. La storia del caso Moro come momento della storia italiana è molto di più della storia raccontata (o che si sarebbe potuto raccontare) nella pur inusuale serie di processi; molto di più della storia degli autori dell’impresa criminale e delle loro finalità soggettive. Anche la storia della c.d. trattativa Stato/mafia, o delle coeve indagini Mani pulite, sono pezzi della storia italiana dei primi anni ’90: materia di indagini storiche da svolgere con gli strumenti critici disponibili.

L’indagine storica parte da interessi di conoscenza che orientano la stessa sele- zione dei problemi, dei fatti e dei contesti su cui indagare. Al di là dei problemi di ac- certamento di fatti specifici, la ricostruzione storica e la spiegazione storica pongono problemi di rapporto (collegamento?) fra una pluralità di fatti, di soggetti agenti, di contesti diversi, di tempi diversi. In ciò vi è corrispondenza con l’ottica giudiziaria.

Diversi sono gli interessi che orientano l’individuazione dell’oggetto d’indagine.

Porre buone domande è il punto di partenza per la ricerca di verità interes-

25 G. Fiandaca, op. cit., p. 134.

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santi. Lo storico che oggi si proponesse di studiare le vicende oggetto del processo

‘Trattativa’, quali domande si porrebbe? Sarebbe interessato a ricostruire il conte- sto, a partire dai problemi sollevati da delitti nei quali era leggibile una premoni- zione di delitti futuri, una obiettiva valenza minacciosa26. Per gli uomini delle isti- tuzioni quei delitti ponevano comunque problemi di strategie di risposta, non limi- tati al profilo giudiziario.

Indagare sui delitti è compito di organi inquirenti, della polizia (in senso lato) e della Procura della Repubblica. Strategie di risposta alla recrudescenza del problema mafia – al percepito rischio di ulteriori iniziative stragistiche – rientrano nella re- sponsabilità di altre istituzioni: responsabilità (anche) di previsione, di intelligence, di prevenzione di comportamenti criminali di altri; di valutazione prognostica dei possibili effetti (positivi o negativi) di comportamenti propri. Nello scenario post omicidio Lima si trattava di studiare, deliberare e porre in essere scelte d’azione in condizioni di incertezza, che richiedevano difficili assunzioni di responsabilità.

Lo storico esaminerebbe l’insieme delle attività politiche e istituzionali, su cui la sentenza palermitana si diffonde, come strategie di risposta (buone o cattive) a problemi obiettivamente sul tappeto, implicanti responsabilità anche politiche. Cer- cherebbe di ricostruire e inquadrare i comportamenti istituzionali e politici del pe- riodo storico esaminato, come momenti di strategie fra loro diverse.

Anche la formula della trattativa, che la sentenza dice essere stata utilizzata da protagonisti della vicenda, dovrebbe essere oggetto di analisi. Chi avrebbe trattato che cosa? Parlare di trattativa Stato/mafia è una formula retorica, non una individua- zione precisa dei soggetti della trattativa, né del suo contenuto. La sentenza della Corte palermitana ha tenuto a dire che oggetto del processo non è la trattativa, ma un’ipotesi di delitto nel quale uomini delle istituzioni sarebbero stati (in ipotesi d’accusa) concorrenti. La formula della trattativa Stato/mafia è di per sé una sovrain- terpretazione fuorviante di una vicenda storica complessa, che ricuce con concetti astratti l’operare di uomini in carne ed ossa.

Allo storico l’utilizzazione di quella formula – e più in genere il linguaggio an- che dei giuristi – può interessare come dato di fatto, da spiegare; non è una spiega- zione di ciò che è accaduto, nemmeno secondo la ricostruzione che i magistrati pa- lermitani hanno ritenuto verificata.

L’accusa e la sentenza palermitana hanno espresso su una certa strategia una valutazione di grave illiceità, tradotta in condanne a 12 anni di reclusione per uomi-

26 Ancorché non esplicitata, né l’unica pesabile: cfr. G. Fiandaca, op. cit., p. 115 s.

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ni delle istituzioni. Anche lo storico potrebbe porsi problemi di legittimità giuridica o di opportunità (tecnica e/o politica) di certi contatti. Anche interrogativi circa eventuali connivenze mafiose di uomini delle istituzioni. Anche riflessioni critiche sullo sguardo storico dei costruttori e dei giudici del processo, indipendentemente dai profili di stretto diritto, peraltro anch’essi legittimamente discutibili.

5.2. Lo storico cerca di capire come sono realmente andate le cose (wie es ein- gentlich gewesen, secondo la famosa formula di Ranke27) con la consapevolezza che

“non esiste una sola descrizione vera di come qualcosa si è effettivamente svolto, bensì molte”28. Soddisfacente, per lo storico, potrà essere una descrizione accurata, fondata su verifiche affidabili, idonea a spiegare i fatti accaduti sotto i profili d’interesse per l’indagine.

Lo storico non deve risolvere problemi di colpevolezza o di giudizio morale, per i quali vale lo standard dell’oltre il ragionevole dubbio. Cerca di ricostruire e spiegare fatti, per quanto possibile. Propone interpretazioni di dettaglio o d’insieme, su ambiti più o meno vasti, in ragione di specifici interessi di conoscenza e pro- grammi di ricerca. I risultati della ricerca sono, per definizione, rivedibili alla luce di elementi nuovi.

Die Weltgeschichte ist das Weltgericht, dice un famoso verso di Schiller. Può essere inteso in molti modi; vi leggo il riconoscimento della preminenza dei fatti (i fatti della Weltgeschichte, la verità storica) rispetto a qualsiasi giudizio secondo otti- che parziali (per es. quello di un Tribunale). La verità storica fa resistenza ai giudizi di una qualsiasi istituzione di potere.

Verificare ricostruzioni giudiziarie di vicende complesse, ed eventualmente sgonfiare errori e sovrainterpretazioni, rientra nella competenza del Tribunale della storia. Ovviamente il giudizio storico è anch’esso calato dentro la storia del mondo.

Rispetto al giudizio dei normali Tribunali, è un giudizio (quanto meno) più libero.

Nella situazione italiana di oggi, è un problema storico e politico la centralità politica assunta dal penale. I temi mutano nel tempo: terrorismo, mafie, malaffare politico-amministrativo. Le questioni riguardano gli equilibri fra gubernaculum e ju- risdictio in relazione a problemi del contrasto alla criminalità più pesante.

Su questi problemi il processo e la sentenza sulla c.d. ‘trattativa’ offrono mate- riali di grande interesse. Nel processo è entrata in scena – in documenti e dichiara-

27 M. Bloch, op. cit., p. 104.

28 A. Heller, op. cit., p. 157.

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zioni di testimoni e di imputati – l’attività di uomini politici o degli apparati dello Stato, anche di magistrati inseriti in organi ministeriali. L’accusa e la sentenza sono esempi significativi (comunque si valuti il merito) di un’ottica giudiziaria che pre- suppone la preminenza della giurisdizione penale.

L’ottica del contrasto alla mafia non è riducibile all’ottica del giudice. L’ottica penalistica è un’ottica parziale, una visuale ristretta. Dentro il quadro complessivo delle politiche di fronte al problema mafia, anche nel biennio 1992-94, le questioni di responsabilità personali di singoli, oggetto del processo palermitano, appaiono as- sai meno importanti di quanto l’accusa e la sentenza abbiano ritenuto.

Più significativo appare il convergere della sentenza della Corte d’assise, che ha ritenuto fondata l’accusa, con il giudizio storico dei critici dell’accusa: la mafia non ha vinto.

“La storia non ci insegna nulla. Siamo noi che, imparando da essa, insegniamo a noi stessi”29. Agnes Heller, che da un lato sottolinea la necessaria indipendenza della ricerca storica – come episteme – da finalità pragmatiche e giudizi morali, dall’altro lato suggerisce che l’intelligenza degli avvenimenti di ieri serve all’intelligenza degli avvenimenti di oggi. È un problema che ci riguarda tutti, se siamo interessati a inse- gnare a noi stessi.

29 A. Heller, op. cit., p. 227.

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