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Tagete n. 3-2006 Ed. Impronte

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VALUTAZIONE DIFFERENZIALE DELLE MENOMAZIONI IN TRAUMATOLOGIA DA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE

Dr. Cesare Lico*

Il mio è il primo intervento sulla responsabilità, ma siccome se ne sentirà parlare a iosa, io non parlerò di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, di onere della prova, di informazione e consenso, di responsabilità di equipe o delle più recenti linee della giurisprudenza dopo la pronunzia delle Sezioni Unite Franzese.

Certo è che ormai i medici dobbiamo dare per scontato che per noi la cose sono parecchio cambiate, al punto da far parlare qualcuno di una vera e propria rottura di un patto sociale tra paziente e medico.

Nei secoli la Medicina si è sempre posta il fine di preservare il bene più prezioso, la salute, per cui i medici hanno storicamente goduto di una certa benevolenza di giudizio nei confronti dei loro errori.

Se nel passato il Diritto chiedeva alla Medicina dati scientifici precisi che servissero a formulare le leggi, oggi, viceversa, è la Medicina, pressata dalle richieste sempre più esigenti dei pazienti, che chiede al Diritto certezze giuridiche che consentano agli operatori sanitari di esprimere la propria professionalità non più solo nell’interesse sia del malato, ma anche a difesa della dignità e qualità del loro ruolo professionale.

* Medico Legale, Consulente Centrale Società Cattolica di Assicurazione, Professore a c.

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Dal medico, per l'enorme credito di cui gode la scienza ed i traguardi raggiunti, ci si aspetta sempre qualcosa di più della semplice speranza di guarigione e si dà quasi per scontato che egli sia sempre capace di porre in essere un comportamento idoneo a raggiungere il risultato voluto o atteso (la salvezza, la guarigione senza postumi, il prolungamento della vita, ecc).

Talvolta, però si tratta di speranze obiettivamente ingiustificate o eccessive, non raramente alimentate proprio dal comportamento del medico il quale, se vuole evitare l’errore, deve mantenersi prima di tutto fedelmente aderente alla realtà dei dati obiettivi, non sopravvalutando le proprie capacità di intuito, la propria cultura tecnica od il proprio bagaglio di nozioni teoriche.

A tale proposito va puntualizzato che non esiste specialità più spietata dell’ortopedia ove l’esame radiografico, già nel post-operatorio, fornisce il più implacabile dei giudizi alla condotta chirurgica ed il risultato “ictu oculi” e funzionale dell’intervento rappresenta la più immediata valutazione sulle capacità tecniche dell’operatore, peraltro accessibile a chiunque.

D’altro canto in ortopedia (ed ancor di più in traumatologia) la serietà e la complicazione del quadro iniziale rappresentano la variabile che condiziona maggiormente il risultato andando ben oltre l’abilità del chirurgo e la capacità di guarigione del paziente.

Il mio è quindi un argomento un po’ particolare, di cui poco si è scritto, forse perché, almeno tra i medici legali, lo si dà un po’ per scontato: LA VALUTAZIONE

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DIFFERENZIALE DELLE MENOMAZIONI (e quindi del danno, o meglio, dovrei dire

“del maggior danno”) IN TRAUMATOLOGIA DA RESPONSABILITA PROFESSIONALE.

Cercando di approfondire il tema per dare al mio intervento un taglio in qualche modo organico, mi è sembrato un po’ di tornare indietro agli anni della specialità, perché qualsiasi fosse l'ottica dalla quale approcciare il problema, comunque poi ritornavo sempre allo stesso punto, all'argomento pilastro della medicina legale, croce e delizia della nostra disciplina, il nesso di causalità.

Nel diritto penale causalità e concausalità si equivalgono ai fini della disciplina del rapporto causale.

Il codice penale accoglie in sostanza il principio di equivalenza delle cause (anche detta teoria della “conditio sine qua non “ di Von Buri), non ammette differenza tra le cause né sulla base del loro carattere mediato o immediato né del loro rilievo quantitativo. Paradigmatica a questo riguardo è la previsione normativa dell'omicidio preterintenzionale: il classico esempio della morte di un individuo per rottura di un aneurisma a seguito di uno schiaffo ben esemplifica il rilievo che il diritto penale conferisce anche all'antecedente dotato di minima efficienza deterministica.

Per la giurisprudenza e la dottrina medicolegale, ad esempio, l’errore colposo del medico non è mai stato considerato come causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto causale rispetto al fatto illecito produttivo di lesioni personali evolute ad exitus, per quanto richiamabile dall’art. 41 cp.

La causa sopravvenuta, per escludere il rapporto di causalità, deve dunque possedere i requisiti di atipicità, eccezionalità, indipendenza dal fatto del colpevole, ed essere dunque “da sola sufficiente a determinare l’evento”. Tale causa (fatto

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atipico, proponendosi come causa autonoma e del tutto indipendente dall’evento dannoso iniziale, che degrada così a semplice occasione.

Almeno in passato in modo costante, tali requisiti non sono stati riconosciuti nella condotta colposa del medico, il cui errore si inserisce in qualità di concausa tra i fatti traumatici iniziali e le successive conseguenze dannose, non interrompendo il nesso di causa e non essendo ritenuto sufficiente da solo a determinare successivi e più gravi eventi.

In linea generale, per la giurisprudenza di merito e la Suprema Corte, almeno fino al recente passato, “perchè si verifichi l’interruzione del nesso causale, occorre che l’inesatta diagnosi o cura inadatta siano conseguenza di dolo o colpa grave del sanitario, il cui comportamento, quale causa autonoma e relativamente indipendente, assume funzione dominante nella produzione dell’evento… pertanto l’autore dell’azione lesiva risponde di tutti gli effetti, diretti ed indiretti, ad essa conseguenti”

( Cass. Pen, 1983).

Più recentemente, alcune pronunce giurisprudenziali hanno temperato questo principio, fino a qualche originale e singolare viraggio nella valutazione di magistrati di merito, che hanno considerato il ruolo della condotta omissiva del medico come

“causa unica sopravvenuta” tale da far richiedere l’archiviazione della posizione dell’

autore dell’azione lesiva, a testimonianza di quanto ancora oggi sia sofferto l’apprezzamento del rapporto causale in presenza di causa sopravvenuta di particolare idoneità.

Nel diritto civile italiano, il risarcimento é disciplinato fondamentalmente dall'art.

2043 c.c. che, affermando il principio generale del "neminem ledere", recita testualmente:

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"Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno".

Ne deriva pertanto che non tutti i casi che siano causa di danno obbligano al risarcimento ma solo quelli commessi con dolo (volontarietà sia dell'azione che dell'evento dannoso) o colpa ( mancanza delle giuste cure e cautele che ciascuno é tenuto ad adottare negli ordinari rapporti della vita) .

Una seconda considerazione che si trae dalla regola del neminem ledere é che tra la condotta del responsabile e l'evento e tra l'evento e il danno deve sussistere un collegamento di causa-effetto, ossia un rapporto di derivazione eziologica.

Una ulteriore condizione posta dall'art. 2043 c.c. per il sorgere dell'obbligo del risarcimento é che il danno si presenti come " ingiusto", cioè generato da un comportamento non conforme al diritto e che lede un interesse riconosciuto e tutelato dall'ordinamento giuridico.

In ambito civilistico, il rapporto causale è ancorato ai medesimi principi elaborati sulla base degli artt. 40 e 41 C.P.

Tale assunto può considerarsi consolidato da una giurisprudenza ormai di vecchia data (Cassazione, dal 1957 a tutt’oggi).

“Il principio della causalità materiale così come regolato dal vigente codice penale, trova applicazione anche nel campo civile, poiché comune ad entrambe le discipline è l’esistenza di un nesso eziologico tra l’azione o l’omissione e l’evento. Gli artt. 40 CP e 2043 CC hanno infatti, pur nell’apparente diversa formulazione di ciascuna norma, una sostanziale identità di contenuto” (Cass. Civ. 15.01.2003, n°488).

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Nel diritto civile il problema che ci si pone è quello di stabilire fino a qual punto si debba assoggettare il debitore inadempiente al risarcimento dei danni procurati dalla sua condotta. In tal senso, il Codice Civile limita il risarcimento del danno alle sole conseguenze immediate e dirette della condotta illecita (art. 1223), e ciò per il motivo evidente che in questo modo è più agevole collegare il danno obiettivato all'azione od omissione del debitore.

Ciò però non esclude che il nesso tra l'evento dannoso ed il fatto ingiusto possa dipendere da causalità indiretta o mediata. La giurisprudenza civilistica ammette infatti il rilievo giuridico del fatto commissivo od omissivo del debitore quando, pur non avendo prodotto le conseguenze dannose, esso abbia comunque posto in atto uno stato di cose senza il quale il danno non si sarebbe verificato.

Ugualmente è ammessa la rilevanza giuridica del concorso di cause, ad esempio il concorso colposo del danneggiato nella produzione del danno attenua l'entità del risarcimento.

Gli antecedenti concorsuali relativi allo stato della persona danneggiata hanno a loro volta incidenza in quanto influiscono sul valore originario della persona o hanno condizionato la maggiore o minore entità del danno.

Il definitiva, il sistema della causalità civile è molto più sofisticato poiché deve tener conto dei numerosi risvolti correlati alla prevalente struttura di danno-conseguenza dell'illecito civile.

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