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Dipartimento di Civiltà e forme del Sapere Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

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Dipartimento di Civiltà e forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in

Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

Malafede e menzogna Jean Paul Sartre e Hannah Arend

t

Candidato:

Relatore:

Anna Grazia Napoletano

Prof. Giovanni Paoletti

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Indice

Introduzione 3-10

Capitolo I

1.1 Qualunque cosa valeva più di tutta quanta l’Europa 11 1.2 I saggi del XVI Arrondissement 16 1.3 Una psicologia della libertà 19

1.4 L’inizio della malafede 23

Capitolo II

2.1 La strana guerra: dallo stoicismo all’autenticità 39 2.2 La coscienza preriflessa e riflessa: l’esistenza prima dell’essenza 53 2.3 L’essere: l’in sé e il per sé 58 Capitolo III

3.1 La malafede: l’inferno sono gli altri 59 3.2 La malafede e il gioco della sincerità 82 3.3 Sartre e l’impossibilità dell’inconscio freudiano 89 Capitolo IV

4.1 Hannah Arendt: una “pariah” del novecento 95 4.2 Rahel Varnhagen: l’assimilazione attraverso la menzogna 105 Capitolo V

5.1La libertà dell’imprevedibilità individuale nella sfera pubblica 118 5.2 Il regime totalitario: L’inganno della logica e l’autoinganno della

volontà di potenza 124

Capitolo VI

6.1 La nuova menzogna in politica e la distruzione delle verità di fatto 142 6.2 La menzogna contemporanea e il problema degli arcana imperii 151

Conclusione 155

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Introduzione

La presente analisi si propone di indagare due particolari tipologie di ambiguità incarnate rispettivamente nei concetti di “malafede” e “menzogna” all’interno dell’opera di due fondamentali figure del panorama filosofico novecentesco: Jean-Paul Sartre e Hannah Arendt. Partendo dall’opera del francese Sartre tracceremo le linee di percorso che hanno condotto il filosofo, sin dalla giovinezza, ad interessarsi ai comportamenti ambigui tenendo conto dello sfondo socio-culturale che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, nel quale egli è “costretto” a vivere e all’interno del quale muove i primi passi filosofici. Non a caso abbiamo utilizzato il termine “costretto” in vista del fatto che la generazione di intellettuali francesi, di cui Jean-Paul Sartre fa parte, tenterà di staccarsi in diversi modi, sia in campo culturale che politico, da ciò che la tradizione intellettuale e sociale, seguita alla Grande guerra, aveva lasciato loro in eredità: «Dove si è cacciato l’uomo? Noi asfissiamo! Ci vanno mutilando dall’infanzia: non ci sono che mostri!»1. La personale lotta di Sartre per trovare l’uomo o

re-«inventarlo»2 si compirà all’interno del pensiero filosofico e del mestiere di scrittore,

giornalista e drammaturgo. Sebbene in un primo momento egli avesse abbracciato in ambito accademico l’idealismo critico, in seguito se ne distaccherà in quanto non sufficiente, secondo le sue aspettative a “comprendere”3 l’uomo e il carattere contingente che contraddistingue la

sua vita. La vera svolta di pensiero per Sartre arriverà nel 1932, quando grazie all’amico Raymond Aron decide di dedicarsi allo studio del pensiero di Edmund Husserl e successivamente di Martin Heidegger: grazie alla ricezione del loro modus operandi il filosofo francese potrà mettere a frutto la propria intenzione di analizzare l’uomo “sinteticamente”, cioè nella sua interezza, potendo così andare oltre le correnti filosofiche che attribuiscono un’importanza primaria alla sola coscienza isolata dal mondo o, viceversa, al ruolo di quest’ultimo su di essa. Inoltre grazie all’ausilio della fenomenologia tedesca Sartre può dedicarsi più esaustivamente allo studio dei comportamenti ambigui dell’uomo che, stando alla testimonianza della filosofa Simone de Beauvoir4, lo affascinano quotidianamente:

1 Jean-Paul Sartre, prefazione ad Aden Arabia di Paul Nizan, Savelli, Roma, 1978 p.5. 2 Simone de Beauvoir, L’età forte, Einaudi, Torino,1961, p.122.

3 «Ciò che l’interessava soprattutto era la gente. Alla psicologia analitica e polverosa che s’insegnava alla

Sorbona egli intendeva opporre una comprensione concreta, e quindi sintetica, degli individui. Questa nozione l’aveva incontrata in Jaspers...» Ibidem, p. 37.

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Sartre forgiò la nozione di malafede, che spiegava, secondo lui, tutti i fenomeni che gli altri riferiscono all’inconscio. Ci applicavamo a snidarla sotto tutti i suoi aspetti: i trabocchetti del linguaggio, le menzogne della memoria, evasioni, compensazioni, sublimazioni.5

Prendendo atto di questo interesse per la psicologia da parte del filosofo6 unitamente

all’entusiasmo che egli dimostra per la fenomenologia tedesca di Husserl e di Heidegger, siamo stati in grado di comprendere lo spirito con il quale negli anni ’30 egli scrive saggi7 poi

rivelatisi fondamentali per lo sviluppo delle sue concezioni intorno alla natura non sostanziale della coscienza e alla conseguente inesistenza di una sua vita interiore: «Essere è esplodere nel mondo, è partire da un nulla di mondo e di coscienza per palesarsi d’improvviso coscienza-nel-mondo»8. Attraverso la lettura di questi saggi abbiamo avuto modo infatti, di

comprendere come un’analisi sintetico-trascendentale, in campo sia psicologico che filosofico, sia di ausilio a Sartre per comprendere la natura intenzionale e trascendentale della coscienza umana :non vi è nulla di casuale nella maniera in cui la coscienza vive il mondo, essa si “autodetermina” continuamente in relazione ad esso, e la maniera in cui l’immaginazione (così come le condotte emotive) si rende possibile nell’individuo ne dà continuamente prova. Tra le opere sartriane degli anni ’30 non potevano tralasciare quelle letterarie nelle quali il suo pensiero trova diretta esplicazione. Nello specifico ci siamo focalizzati sul suo più celebre romanzo, La nausea, nel quale è riscontrabile, a nostro avviso, una chiara ed esaustiva esplicazione della condizione umana sartriana che, ponendo l’uomo tra la propria ingiustificata fattità e la propria incondizionata libertà ad agire, costringe gli individui «a mentire a se stessi»9. Ripercorrendo il percorso intellettuale che Sartre compie

prima di trattare direttamente della malafede ne L’essere e il nulla del 1943, non abbiamo potuto ignorare la sua esperienza di soldato al fronte durante la seconda guerra mondiale. Di questo periodo il filosofo dà testimonianza nei Taccuini della strana guerra, i quali oltre a registrare i suoi continui stati d’animo fungono anche da appunti preparatori per L’essere e il

5 Simone de Beauvoir, op.cit., p.110.

6 In verità attestabile sin dai suoi primi tentativi letterari negli anni ’20 in novelle quali La disfatta.

7 La trascendenza dell’Ego, L’immaginazione, Disegno di una teoria delle emozioni, L’immaginario, Un’idea

fondamentale di Husserl: l’intenzionalità.

8 Jean-Paul Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, Milano, 1963, 280.

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nulla. Se, arrivati a questo punto del nostro percorso, abbiamo potuto indicare la malafede nella menzogna che l’individuo attua nei confronti di se stesso per placare quel senso di angoscia che lo affligge per la mancanza di una vera giustificazione alla propria esistenza, allora la condizione del soldato in guerra concorre ad arricchire di esempi l’argomentazione in merito a questo particolare bisogno di menzogna. La malafede indotta dallo stato di guerra è distinguibile e per certi versi nettamente diversa da quella indotta in tempo di pace dalla società borghese, anzi, è possibile affermare che la prima concorre a smascherare la seconda. Ancora più importante di ciò che la guerra offre a Sartre come materiale di riflessione intorno all’ambiguità autoindotta, è ciò che essa suscita nel filosofo nei riguardi di se stesso e dell’atteggiamento “stoico” che sino a quel momento aveva scelto di adottare nei confronti del mondo: «Per essere autentico-in-questa guerra, dovrei abbandonare il mio ottimismo difensivo»10. Inoltre, tra le argomentazioni proposte nei Taccuini, oltre alle riflessioni in

merito alla condizione d’inautenticità tipiche della vita militare, abbiamo scelto di sottolineare due specifiche situazioni dettate dal bisogno di giustificazione esistenziale e contraddistinte dall’ambiguità: l’amore e il principio di diritto naturale. Giunti a questo punto abbiamo potuto rivolgerci direttamente alle argomentazioni de L’essere e il nulla credendo fosse opportuno, prima di passare direttamente all’analisi del capitolo sulla malafede, introdurre quei concetti fondamentali dell’ontologia sartriana, necessari per comprendere a pieno la possibilità di esplicazione di tale condotta la quale, a sua volta, servirà a dimostrare il carattere fondamentalmente duale dell’uomo. In tal senso il filosofo ribadirà la natura intenzionale della coscienza verso il mondo, distinguendo tra stadio “irriflesso” e “riflesso” di essa nei confronti di quest’ultimo, ponendo in tale costitutiva distinzione la precedenza che l’esistenza detiene sull’essenza. Il carattere necessariamente intenzionale della coscienza è reso dalla peculiare capacità di quest’ultima di trascendersi continuamente, distaccandosi dall’essere “in sé” che circonda l’uomo: in questa maniera l’individuo introduce al mondo il “nulla”, attraverso un atto nullificatore del mondo. Solo l’ “essere per sé” della coscienza umana che sa trascendersi e autodeterminarsi, può “immaginare” e porre in essere il cambiamento di ciò che vede e vive: in tal senso a darne prova è l’esempio dell’interrogazione e del dubbio11

individuale nei confronti del mondo. Il nulla è dunque un momento fondamentale della trascendenza che la coscienza umana continuamente compie nei confronti del mondo. Ma

10 Jean-Paul Sartre, Taccuini della strana guerra, vol.1, Acquaviva, Acquaviva della fonti, 2002, p.70.

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perché la coscienza possa distaccarsi da quest’ultimo per immaginarlo e porlo diversamente rispetto alla condizione di azione iniziale, è necessario che essa sia fondamentalmente libera: «l’uomo non è affatto prima, per essere libero dopo, non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo essere-libero»12. L’esperienza della propria libertà, che rende l’individuo libero di

agire e scegliere autonomamente il proprio futuro, pone lo stesso in stato di “angoscia” nei confronti dei “possibili” che gli si parano dinanzi: «l’uomo ha orrore di questa indeterminatezza»13. Agli occhi di Sartre sarà proprio questa condizione di angoscia

esistenziale a indurre molti comportamenti della malafede: per pararsi da questa inquietudine l’uomo ha escogitato diversi modi per dare senso al mondo che lo circonda, dimenticando poi che essi non rappresentano altro che schemi e categorie che egli si è dato autonomamente. Sostanzialmente ciò che a Sartre preme evidenziare ancor prima di trattare direttamente dei comportamenti della malafede, è la continua necessità da parte dell’individuo di fuggire a se stesso e alla propria condizione priva di un senso esterno che la giustifichi: per tale ragione egli è indotto a cercare di porsi alla maniera dell’essere in sé, dissimulando la propria natura di ente ingiustificato, ma libero. Giunti a questo punto ci siamo rivolti direttamente alla trattazione della malafede la quale è finalizzata, come abbiamo poc’anzi affermato, a rendere un’ulteriore prova del carattere duale dell’uomo tra fattità e libertà. Non è possibile infatti che la coscienza umana possa nascondere a se stessa la propria angoscia, in quanto priva di una vita interiore e sempre necessariamente consapevole di tutto ciò che la riguardi.

L’essere umano non è solo l’essere per mezzo del quale compaiono al mondo delle negatività, è anche l’essere che può prendere atteggiamenti negativi nei confronti di se stesso.14

La differenza sostanziale tra mentire a se stessi (malafede) e la semplice menzogna consiste nel fatto che nella prima, diversamente dalla seconda, il ruolo dell’ingannatore e dell’ingannato coincidono in un’unica coscienza “istantanea”: alla base della possibilità di una tale condotta, per molti versi abituale nella vita quotidiana, sussiste il ruolo di una “fede” poco convinta di sé, tale per cui ogni credenza non è realmente adottata come incontrovertibile. Analizzando gli esempi che lo stesso Sartre ci propone all’interno del

12 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op.cit., p. 60.

13 Sergio Moravia, Introduzione a Sartre, Editori Laterza, Bari,1990, p.45. 14 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op.cit., p. 83.

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capitolo siamo inoltre giunti a comprendere come la malafede si manifesti in primo luogo attraverso il passaggio che l’individuo compie saltando dalla propria sostanzialità alla propria trascendenza e viceversa, secondariamente attraverso il tentativo di cogliere se stessi e gli altri alla maniera dell’essere in sé. A tal proposito ci siamo inoltre soffermati ad analizzare la particolare condizione che pone il soggetto come “oggetto” (alla maniera dell’essere in sé) agli occhi degli “altri” e sotto il cui sguardo prendono forma sentimenti quali la vergogna e l’orgoglio. Una delle vie in cui la malafede si esplica è proprio l’atteggiamento che vede il soggetto impegnarsi per sopperire alla mancanza di una giustificazione ultima al suo essere, e che lo induce continuamente a tentare di coincidere con un sé che non potrà mai possedere in quanto la natura della coscienza umana è proprio quella di sfuggire a questa identificazione. In tal senso anche il concetto di sincerità non è concretamente possibile senza incorrere in un atteggiamento di inautenticità. In ultima battuta la nostra analisi su Sartre si è concentrata sulla critica che egli pone nei confronti della psicanalisi e della nozione d’inconscio freudiana: il filosofo rifiuta totalmente l’idea di una coscienza suddivisa in scomparti tra i quali opererebbe una censura che, pur non essendo consapevole quale parte attiva della coscienza del soggetto, sa esattamente quali contenuti scomodi filtrare e quali no. Tutto ciò che le teorie psicanalitiche hanno fatto per spiegare gli atteggiamenti che Sartre pone sotto il nome di malafede è stato creare una coscienza nella coscienza «autonoma e in malafede»15.

Giunti a questo punto della nostra analisi abbiamo potuto spostare l’attenzione sull’opera della filosofa ebrea-tedesca Hannah Arendt e sul ruolo che la menzogna ha rivestito all’interno del suo pensiero. Parallelamente a quanto fatto per Sartre abbiamo delineato lo sfondo culturale e sociale entro il quale il pensiero giovanile della Arendt si sviluppa, trattando in particolare dell’importanza di due filosofi di cui essa fu discepola al tempo dell’università: Martin Heidegger e Karl Jaspers. Di seguito, tenendo conto del fatto che la Arendt fosse una tedesca di origini ebraiche all’interno di uno stato fondamentalmente antisemita e prossimo all’ascesa dei partito nazista al governo, abbiamo posto l’accento sul rapporto che essa intrattenne con la propria condizione di origine e che fu alla base di molte importanti riflessioni intorno all’ambiguità e all’autoinganno. La Arendt , insieme ad altri ebrei, che come lei dopo il 1933 furono costretti a lasciare la Germania, prende nel tempo consapevolezza della propria condizione di pariah novecentesca:

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la società ha scoperto che la discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue.16

Grazie all’incontro con il capo dell’allora movimento sionista Kurt Blumenfeld, la Arendt da una parte si lascerà coinvolgere nella causa sionista e dall’altra inizierà la propria riflessione in merito all’atteggiamento assimilazionista del popolo ebraico. Sarà proprio a partire da quest’ultimo, che si svilupperà il primo degli argomenti che abbiamo deciso di trattare in merito al ruolo che la menzogna detiene nel pensiero arendtiano, e che trova all’interno della nostra analisi una diretta esplicazione nelle argomentazioni che proponiamo intorno allo scritto Rahel Varnhagen: Storia di un’ebrea17. La Arendt sceglie di trattare della vicenda di

questa ebrea prussiana vissuta a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo come dimostrazione del fatto che l’assimilazionismo, perpetuato attraverso la continua e incessante dissimulazione di sé da parte dell’individuo che vuole essere accettato dalla collettività, è inesorabilmente destinato a fallire:

Non c’è assimilazione, se ci si limita a rifiutare solo il proprio passato, e si ignora quello degli altri. In una società, quasi interamente antisemita - e questo vale, nel nostro secolo, per tutti i paesi in cui vivono gli ebrei - ci si può assimilare solo se ci si assimila all’antisemitismo.18

Abbiamo sottolineato in particolare l’atteggiamento difensivo che in giovinezza Rahel assume nei confronti del mondo ostile che la circonda e che la vede ritrarsi da esso in un proprio spazio interiore ,estraneo al resto alla realtà: ad esso la Arendt accosta la critica di Lessing del “pensare da sé”. Accanto a questo “pensare da sé” estraneo al mondo ma necessario a Rahel che vuole mimetizzarsi nella società abbiamo posto l’atteggiamento “ottimista” descritto dalla Arendt nello scritto Noi Profughi (1943), necessario ai profughi ebrei e apolidi scampati dalla persecuzione nazista che devono autoimporsi l’assimilazione e si fasciano di illusioni per poter riprendere contatto con la società e continuare a vivere serenamente in essa. Queste prime considerazioni intorno alla menzogna perpetuata dall’ebreo come apolide sociale (Rahel Varnaghen) e giuridico (profughi di guerra) ci sono state utili per introdurre il pensiero arendtiano intorno all’importanza dello spazio pubblico, ispirato al modello di polis greca,

16 Hannah Arendt, Noi profughi, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 47. 17 Iniziato negli anni ’30 verrà pubblicato solo nel 1957.

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come necessario per sviluppare il senso vero di umanità fra gli uomini: «Ma gli uomini nella pluralità , cioè gli uomini in quanto vivono, si muovono e agiscono in questo mondo, possono fare esperienze significative solo quando possono parlare e attribuire reciprocamente un senso alle loro parole»19. Per spiegare in che senso lo spazio pubblico sia di fondamentale

importanza per l’individuo, sia a livello collettivo che individuale, abbiamo analizzato alcuni principi fondamentali presenti in Vita activa. Ogni individuo, venendo al mondo, dà vita ad nuova “imprevedibilità” e a un nuovo sguardo sulla realtà che solamente nell’azione tra gli uomini può trovare la propria esplicazione: la presenza degli altri è necessaria per poter riconoscere e arricchire di significato la valenza di questa azione e la presenza al mondo del suo autore, che altrimenti cadrebbe nell’oblio. Solamente all’interno di questo spazio pubblico inteso quale “intreccio delle relazioni umane” può in definitiva trovare spazio la libertà umana ad esprimere la propria unicità mediante l’azione. Ricorrere alle analisi presenti in Vita activa è servito per attestare ciò che di fatto viene a mancare con i regimi totalitari, il cui meccanismo è analizzato ne Le origini del totalitarismo: la dittatura è per sua natura ben più temibile della tirannia, la quale perlomeno lascia intatto lo spazio interiore dell’individuo. All’interno del regime totalitario lo spazio pubblico, con il suo gioco di reciproco scambio tra imprevedibilità, viene annientato per far posto alla rigidità del pensiero ideologico e al “terrore totale” che di fatto azzerano qualsiasi diversità: nessun intreccio di relazioni umane sommato a nessun “senso comune” al quale appoggiarsi nella possibilità di un ultimo dialogo a sé, uguale estraniamento totale dal mondo reale e totale accettazione delle menzogne sistematiche ma coerenti che il regime impone alla massa. A tanti inizi se ne sostituisce uno solo, quello dell’ideologia dittatoriale che nei suoi adepti spersonalizzati, induce la totale abnegazione, annientandone la capacità di pensiero e di giudizio politico, così come accade nel gerarca Adolf Eichmann. Ci siamo infatti avvalsi anche dell’opera La banalità del male per supportare la tesi arendtiana secondo la quale, alla base delle motivazioni che spingono molti funzionari del partito a macchiarsi di crimini orrendi, ci fosse una sostanziale incapacità a pensare e a giudicare il mondo aldilà dell’ideologia. Giunti alla fine della nostra analisi de Le origini del totalitarismo supportata da La banalità del male (e da diversi altri saggi compresi fra gli anni 30-48) siamo stati in grado di comprendere e definire, grazie ai suggerimenti che la Arendt stessa indica in tal senso, una distinzione tra individui ingannati (es. Eichmann) e individui che ingannano e nello stesso tempo si autoingannano (es. Hitler).

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In ultima battuta la nostra analisi sul ruolo della menzogna nel pensiero di Hannah Arendt si è focalizzato sullo scritto Verità e politica e La menzogna in politica . All’interno del primo la filosofa si preoccupa di definire la natura di un tipo di menzogna del tutto particolare e figlia della modernità, soprattutto in relazione alle esperienze dittatoriali accadute nel novecento: tale menzogna ha a che fare non con il nascondere a pochi individui, ma con il distruggere dati di fatto ad intere collettività. Paradossalmente per quanto il passato non dovrebbe essere passibile di mutamento alcuno, è possibile invece dimostrare la natura estremamente fragile della realtà fattuale (così come la Arendt fa all’interno del saggio) soprattutto in assenza di una “pluralità” di individui che, dando vita ad uno spazio pubblico, si facciano custodi della memoria. La lettura di Verità e politica ci ha dato inoltre la possibilità d’imbatterci ancora una volta nella figura di colui che per ingannare è costretto ad ingannarsi: la distruzione delle verità di fatto, comporta che l’autore arrivi ad assimilarsi alla condizione di coloro che ha ingannato onde evitare di rappresentare con la propria vita un’ultima pericolosa testimonianza a sfavore del suo inganno. In conclusione ci siamo occupati del particolare caso descritto dalla Arendt ne La menzogna in politica e incentrato sullo scandalo americano dei Pentagon Papers come esempio esplicativo del tentativo da parte dei problem-solvers di ignorare la realtà dei fatti inerenti all’inutilità della guerra in Vietnam per non danneggiare l’immagine dell’America come superpotenza dominante nel panorama internazionale.

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