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ITALIA

Superficie (in migliaia di km2) 301 Popolazione (in milioni di abitanti) 60

Densità (abitanti/km2) 199

Forma di governo Repubblica

Capitale Roma

Lingua (ufficiale) Italiano

Religione cattolica

Speranza di vita (maschi/femmine) 79/84

PIL/abitante (in $ USA) 38.996

L’Italia si trova nella parte meridionale dell’Europa, al centro del Mediterraneo.

È separata dal resto del continente dalla catena delle Alpi e costituisce, con la sua inconfondibile forma a stivale, una delle quattro grandi penisole europee (con quella iberica, balcanica e scandinava).

Coste e isole

Il Paese ha uno sviluppo di coste di 7.456 km e la loro presenza riveste un ruolo fondamentale. La maggior parte della popolazione si concentra infatti lungo i litorali, nelle aree pianeggianti vicino al mare dove sorgono le città più importanti. Inoltre la catena appenninica rende difficile l’insediamento e i collegamenti nelle regioni interne e, infine, le coste sono di notevole valore dal punto di vista economico (per le attività portuali e turistiche). D’altra parte, nel corso della storia quelli costieri si sono rivelati confini difficili da difendere da attacchi nemici, dal contrabbando e dall’immigrazione clandestina.

Dal punto di vista morfologico il litorale italiano presenta caratteristiche molto varie. Sul versante tirrenico, nei punti in cui le Alpi Liguri e gli Appennini arrivano fino al mare, le coste sono alte e rocciose, con falesie a picco sull’acqua; dove invece sono presenti le pianure costiere, i litorali sono bassi e sabbiosi, inframmezzati in alcuni punti da promontori rocciosi, come in Toscana con l’Argentario e Piombino. Sul versante adriatico dominano invece le coste basse e sabbiose, a eccezione del Gargano (in Puglia) la cui natura calcarea causa friabilità della roccia e favorisce la formazione di falesie, archi e grotte.

Le coste di Sicilia e Sardegna sono in prevalenza rocciose, in alcuni punti inframmezzate da baie sabbiose di piccole dimensioni.

I monti

In Italia sono presenti due importanti catene montuose, le Alpi e gli Appennini, formate entrambe durante l’orogenesi alpina. Nonostante siano rilievi geologicamente giovani e nati nella stessa era geologica (quella terziaria), presentano caratteri differenti. Le prime raggiungono altitudini elevate e hanno versanti ripidi e cime aguzze. Spicca fra tutte il Monte Bianco che raggiunge i 4.810 m. Gli Appennini, invece, costituiti da rocce sedimentarie tenere e friabili, sono meno elevati e più arrotondati per effetto del modellamento svolto dagli agenti esogeni. La cima più alta è il Gran Sasso che arriva a 2.912 m.

Le montagne italiane sono ancora in fase di formazione perché la zolla africana continua a spostarsi lentamente verso la nostra penisola che, a sua volta, tende a ruotare in senso antiorario e ad avvicinarsi a quella balcanica.

Questa situazione fa dell’Italia una regione instabile, caratterizzata da fenomeni sismici e vulcanici.

Pianure e colline

Le pianure costituiscono solo un quarto del territorio e hanno in comune l’origine alluvionale. La più estesa (46.000 km² circa) è la Padana, formata, come suggerisce il nome, in seguito all’azione di deposito svolta dal fiume Po (“Padus” in latino). Le altre sono piccole e si trovano prevalentemente lungo le coste.

Le colline, invece, costituiscono una caratteristica importante del paesaggio italiano, ricoprendo addirittura il 40% del territorio nazionale. La loro origine è molto varia. La maggior parte è composta da rocce sedimentarie, ma molte sono quelle moreniche (come le rocce ai piedi delle Alpi), formate cioè dai detriti trasportati dai ghiacciai, e quelle vulcaniche (come i Colli Euganei e i Monti Berici in Veneto, e parte delle colline toscane, laziali e campane).

I fiumi

I fiumi più lunghi si trovano a nord, dove la morfologia del territorio permette ai corsi d’acqua di percorrere lunghi tratti prima di gettarsi nel Mediterraneo.

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Il maggior fiume del nostro Paese è il Po che nasce dal Monviso e, dopo aver percorso 652 km, sfocia

nell’Adriatico. Altri corsi d’acqua importanti sono (in ordine di lunghezza decrescente) l’Adige (410 km), il Tevere (405), l’Adda (313), l’Oglio (280), il Tanaro (276), il Ticino (248) e l’Arno (241). I fiumi appenninici che scorrono nell’Italia centro-meridionale sono invece asciutti per gran parte dell’anno e diventano impetuosi con l’arrivo delle piogge. Per l’estrema irregolarità del loro regime sono detti fiumare.

I laghi

In Italia si trovano laghi molto differenti tra loro per origine e ampiezza. Nella parte settentrionale della penisola sono presenti diverse tipologie. I più ampi sono quelli di origine glaciale che, dal Piemonte al Veneto,

costituiscono uno dei tratti salienti del territorio. I principali della regione pedemontana sono il lago d’Orta, il lago Maggiore, quello di Como, d’Iseo e il Garda che, con 370 km², è il più esteso del Paese. Questi bacini lacustri sono molto importanti in quanto, grazie alla loro ampiezza, esercitano un influsso mitigatore sul clima e rivestono un ruolo rilevante per l’agricoltura e il turismo. Sono inoltre presenti i laghi artificiali nati in seguito alla costruzione di una diga (come il lago di Resia), quelli che si sono formati nelle aree scavate dalle frane (come il lago di Alleghe sulle Dolomiti) e quelli di origine morenica, nati per lo sbarramento di corsi d’acqua causato dai detriti depositati da un ghiacciaio (come il lago di Viverone in Piemonte).

Nella parte peninsulare esistono due fondamentali tipologie di laghi: quelli vulcanici originati dal riempimento di antichi crateri (come il lago di Vico, di Bracciano e quello di Bolsena - il più grande lago vulcanico d’Europa – nel Lazio) e i laghi costieri formati dove lingue di terra hanno racchiuso piccoli tratti di mare (come i laghi di Lesina e di Varano in Puglia). L’unico di origine tettonica, cioè creato dallo sprofondamento della crosta terrestre, è il Trasimeno in Umbria. Anche nell’Italia del centro e del sud sono presenti laghi artificiali che svolgono

l’importante funzione di riserva idrica.

Gli italiani dall’Unità a oggi

Dall’Unità a oggi, la popolazione italiana ha più che raddoppiato la propria consistenza numerica passando dai 26 milioni del 1861 ai 57 milioni del censimento del 2001.

Una crescita rapidissima si è avuta tra il 1861 e il 1971, grazie soprattutto a un elevato tasso di natalità che alla fine del XIX secolo superava il 35‰ e nel 1965 era ancora del 20‰. Importantissimo è stato anche il calo della mortalità, in particolare di quella infantile, che nel 1861 era addirittura del 226‰, mentre oggi è del 7‰, determinato dai progressi raggiunti dalle scienze mediche, da un’alimentazione più ricca e varia e da abitazioni più confortevoli, dotate di acqua corrente, servizi igienici, impianti elettrici e riscaldamento. Si è anche allungata l’aspettativa di vita, passando dai circa 30 anni nel 1861 agli attuali 81 (84 per le donne e 78 per gli uomini).

L’incremento della popolazione italiana ha iniziato a rallentare verso il 1965 perché è vistosamente calato il tasso di natalità, tanto che dal 1993 il saldo naturale è negativo. Due sono le cause principali di questa modificazione dei costumi demografici in Italia:

• è cambiato il ruolo sociale delle donne, che ora lavorano fuori casa e hanno quindi meno tempo da dedicare ai figli;

• la prole, nella società odierna, è un costo (e non più la manodopera necessaria per il lavoro nei campi), soprattutto con l’estensione dell’età minima necessaria per poter abbandonare gli studi.

Tuttavia il numero delle persone che vivono nel nostro Paese non è diminuito a causa della crescente immigrazione. Ciò comporta un cambiamento della composizione etnica della popolazione italiana, in cui la percentuale delle minoranze è in netto aumento.

Il flusso migratorio

A partire dalla sua unificazione, l’Italia ha quindi assistito a una veloce crescita demografica. Allora, però, il nostro era ancora un Paese povero ed economicamente arretrato nel quale non era semplice trovare un lavoro.

Per sfuggire alla miseria gli italiani cominciarono a emigrare. Le prime mete furono i vicini Stati europei già industrializzati, come la Francia e la Germania, ma in quel caso non si trattò di un fenomeno di massa e di trasferimenti definitivi. Successivamente, verso la fine del XIX secolo i nostri connazionali si diressero verso le Americhe (soprattutto negli USA, in Canada, in Venezuela e in Argentina). Fu un vero e proprio fenomeno di massa: entro il 1915 9 milioni di persone lasciarono l’Italia, di cui 4 milioni si diressero negli USA dove attualmente vivono circa 30 milioni di statunitensi di origine italiana.

Gran parte di questa emigrazione fu definitiva perché i lavoratori partivano con l’intenzione di insediarsi stabilmente nei Paesi d’oltreoceano. Gli emigranti provenivano dalle aree più povere dell’Italia, inizialmente dal Veneto e dal Friuli, poi soprattutto dalle regioni meridionali.

Gli italiani smisero di lasciare il nostro Paese tra le due guerre mondiali, quando il governo fascista avviò una politica popolazionista, favorendo le nascite e vietando le emigrazioni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il flusso riprese, ma questa volta verso la Francia, la Germania, il Belgio e la Svizzera. Nella maggior parte dei casi partivano i soli uomini, per poi tornare dopo qualche anno di lavoro.

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Tra la metà degli anni Cinquanta e il 1970 in Italia si verificò il cosiddetto “miracolo economico”, uno

straordinario sviluppo industriale il cui impulso è venuto dall’area compresa tra Milano, Torino e Genova, che prende il nome di “triangolo industriale”.

È così nato un flusso migratorio interno con 3 direzioni fondamentali:

• dalle campagne alle città;

• dalle montagne alle pianure e alle zone costiere;

• dal sud al nord.

Il flusso da sud a nord è stato numericamente il più rilevante e ha creato anche problemi alle città

settentrionali, impreparate ad accogliere una così cospicua quantità di immigrati. Per questo nelle periferie sono sorti molti “quartieri dormitorio” per gli operai. Ne è derivata una sorta di ghettizzazione che ha limitato

fortemente l’integrazione dei nuovi arrivati nella compagine sociale preesistente.

Dagli anni Ottanta l’Italia è diventata uno Stato di forte immigrazione, soprattutto da Paesi poveri ed

economicamente poco sviluppati. Si tratta in gran parte di trasferimenti definitivi, molti dei quali però iniziano in modo clandestino, creando grosse difficoltà di inserimento, sia sociale che amministrativo. Gli stranieri presenti in Italia (e regolarmente registrati) sono circa 3 milioni e il nostro è ormai diventato uno Stato multietnico: già nel censimento del 1991 risultavano presenti sul territorio italiano più di 200 popoli diversi.

Le lingue parlate in Italia

La lingua ufficiale del nostro Stato è l’italiano. La sua ufficialità, però, è stata riconosciuta sono nel dicembre del 1999. L’italiano è una lingua romanza, deriva cioè dal latino, come il francese e lo spagnolo. La discendenza non è stata, però, diretta: dal latino sono nati vari dialetti locali, tra i quali si è progressivamente imposto il

fiorentino che è stato adottato da tutta la nazione. La fortuna di questo idioma è iniziata nel 1300, con l’opera di tre grandi autori (Dante, Petrarca e Boccaccio) ed è proseguita nel XV e XVI secolo, quando questi letterati furono presi come modelli dagli scrittori della penisola. Di quest’epoca è, infatti, la prima grammatica della nostra lingua, scritta da Leon Battista Alberti.

L’italiano nacque, dunque, come lingua letteraria che serviva per scrivere ma che pochissimi parlavano: nelle varie regioni dello “stivale”, infatti, la popolazione continuò a usare il dialetto e la divisione politica della penisola non giovò certo all’unità linguistica. Anche quando nel 1861 nacque il Regno d’Italia, su 26 milioni di italiani solo 600.000 sapevano parlare la lingua nazionale (circa il 2,3%); tutti gli altri conoscevano solo il proprio dialetto.

Nell’arco di 100 anni, però, quasi tutti nel nostro Paese hanno imparato l’italiano.

I motivi principali di questo successo sono i seguenti:

• il nuovo Stato si dotò di un’amministrazione unitaria che utilizzava la lingua nazionale e, di conseguenza, tutti i cittadini furono costretti a usare l’italiano, almeno negli atti ufficiali;

• dal 1876 i primi due anni di scuola sono obbligatori e già dalle elementari veniva insegnato l’italiano;

• i giornali nazionali hanno contribuito a questa causa;

• il servizio militare obbligatorio ha fatto sì che uomini di regioni diverse si conoscessero e dovessero utilizzare una lingua comune per intendersi;

• le migrazioni interne hanno svolto lo stesso ruolo;

• i mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio e televisione) hanno reso familiare a tutti la lingua parlata.

Una grande importanza hanno avuto soprattutto le trasmissioni televisive: iniziate nel nostro Paese nel 1954 (quando solo il 19% della popolazione conosceva l’italiano), in breve ne hanno diffuso la padronanza su tutto il territorio statale.

Si parla italiano anche fuori dai confini dell’Italia, in particolare negli Stati limitrofi o nelle enclave (San Marino e il Vaticano), ma anche nei Paesi stranieri in cui vivono importanti comunità di immigrati (USA, Canada, Australia e Argentina).

Sempre nel dicembre 1999, in concomitanza con la dichiarata ufficialità della lingua nazionale, la legge italiana ha riconosciuto l’importanza delle minoranze linguistiche e ha stabilito che gli enti locali (regioni, province, comuni ecc.) possono, a loro discrezione, promuoverle anche con un finanziamento pubblico, purché la maggioranza della popolazione del luogo voti approvando tale decisione.

In Italia 3 milioni di persone (il 5% della popolazione) appartengono a minoranze linguistiche. Molte di loro parlano anche l’italiano (sono bilingui). Le principali minoranze sono le seguenti:

• tedesca, presente in Alto Adige e costituita da 300.000 individui; si tratta di un’etnia che è diventata italiana nel 1918, dopo la disgregazione dell’Impero Austro-Ungarico alla fine della Prima Guerra Mondiale;

• greca, in alcune zone della Puglia e della Calabria, risultato di antiche migrazioni e numericamente esigua;

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• albanese, che vive in alcune regioni centrali e meridionali e in Sicilia ed è in Italia da molti secoli, numericamente esigua;

• serbo-croata, che abita tre comuni del Molise, dove si è trasferita nell’antichità, numericamente esigua;

• catalana, presente ad Alghero (in Sardegna) da secoli e costituita da 15.000 persone;

• provenzale (od occitana), che occupa alcune valli piemontesi al confine con la Francia e Guardia Piemontese, un paese della Calabria tirrenica, numericamente esigua;

• francofona, in Val d’Aosta, dove sono bilingui quasi tutti i 120.000 abitanti;

• slovena, che in Friuli Venezia Giulia conta circa 50.000 individui;

• ladina, in alcune valli delle Dolomiti, di circa 40.000 parlanti;

• friulana (o ladina orientale), in Friuli, che conta ben 700.000 persone;

• sarda, in Sardegna, il cui idioma locale non è considerato un dialetto, ma una vera e propria lingua con caratteristiche particolari (dovute all’isolamento in cui è rimasta la regione per secoli) che la

differenziano dall’italiano; gli abitanti dell’isola sono quasi 1 milione e 700.000.

Le minoranze linguistiche sono un prodotto della storia e una ricchezza culturale di un Paese e per questo motivo è importante tutelarle. Le lingue minori vengono ora insegnate nelle scuole e utilizzate negli uffici pubblici. Anche la segnaletica stradale e i toponimi delle aree interessate sono bilingui e, inoltre, la RAI trasmette programmi in televisione e alla radio in queste lingue.

Le religioni in Italia

Nel 1929 i Patti Lateranensi tra il Vaticano e lo Stato Italiano hanno dichiarato “religione di Stato” il

cristianesimo cattolico. Nel 1984 è avvenuta una revisione di questi trattati e si è stabilito che l’Italia è un Paese laico e che non ha alcuna religione di Stato. L’85% dei nostri connazionali si dichiara comunque cattolico, anche se la percentuale dei praticanti è decisamente inferiore.

Anche per quanto riguarda la religione, in Italia esistono molte minoranze:

• musulmana, che è la più numerosa, grazie soprattutto alla recente immigrazione da Paesi islamici, e conta circa un milione di fedeli;

• cristiana protestante, che ha più di 400.000 seguaci ed è divisa in varie chiese (valdese-metodista, luterana, battista, avventista, evangelica ecc.); la comunità più numerosa nel nostro Stato è quella valdese con 30.000 aderenti;

• cristiana ortodossa, che con le recenti immigrazioni dalla penisola balcanica ha superato anch’essa i 400.000 fedeli;

• dei Testimoni di Geova, che ha conosciuto una grande diffusione negli ultimi 50 anni e che oggi ha 230.000 sostenitori;

• ebraica, i cui 30.000 fedeli sono riuniti nell’Unione delle Comunità Ebraiche.

Infine, il 10% della popolazione afferma di non aderire ad alcuna religione e un terzo di questi si definisce ateo.

La distribuzione della popolazione italiana

In Italia attualmente vivono più di 59 milioni di persone, per una densità media di 195 ab./km². La distribuzione della popolazione sul territorio non è omogenea: sono densamente abitate le fasce pedemontane della Pianura Padana (soprattutto nell’area milanese), quelle costiere (con punte massime intorno a Roma e a Napoli) e alcune aree collinari; poco popolate sono la catena alpina e quella appenninica.

L’Italia vanta, inoltre, un lunga tradizione urbana che, fino dall’antichità, ha spinto la popolazione a concentrarsi in città come Bologna, Ferrara, Firenze, Milano, Napoli, Pavia, Ravenna, Roma ecc. Ma il più consistente

fenomeno di inurbamento si è avuto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’Italia ha conosciuto un intenso sviluppo industriale: nel 1951, infatti, il tasso di urbanizzazione era del 52%, mentre nel 2004 era salito al 67%.

L’economia

Il settore primario

L’Italia è stata caratterizzata, fino alla metà del XX secolo, da un alto numero di impiegati nell’agricoltura, ma la produttività di questo settore è sempre stata piuttosto bassa (in alcune regioni per la presenza dei rilievi o di un clima non adatto, in altre per la mancanza di investimenti volti alla modernizzazione). Un’eccezione è costituita dalla Pianura Padana nella quale i campi sono coltivati in modo intensivo e si hanno buone produzioni di mais, riso, barbabietola da zucchero e soia. Si tratta di un’attività fortemente meccanizzata, strettamente connessa all’industria agroalimentare e che fa uso di concimi chimici per garantire un’alta resa per ettaro. Al censimento del 2001 risultava che le aziende agricole presenti sul territorio statale erano ancora due milioni e mezzo, mentre gli impiegati a tempo pieno non superavano le 300.000 unità. Questo divario è spiegabile con la forte meccanizzazione della produzione agricola nelle terre settentrionali, ma anche (e soprattutto) con la presenza di un gran numero di lavoratori part-time. Si tratta di individui che svolgono altre attività e che integrano i propri

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guadagni coltivando piccoli appezzamenti di terreno, spesso facendo riferimento ad aziende contoterziste, cioè a imprese che possiedono i macchinari necessari per le coltivazioni, e lavorando in alcuni momenti dell’anno su richiesta dei proprietari terrieri. Vengono così sbrigati i procedimenti di aratura, mietitura, trebbiatura e raccolta, sgravando il contadino di molto lavoro. Per questo solo un decimo delle aziende richiede un impiego a tempo pieno. L’agricoltura italiana non riesce a soddisfare le esigenze alimentari della popolazione e importa più di quanto esporta. L’unico settore che vende molti prodotti all’estero è quello ortofrutticolo che si distingue per le produzioni di ortaggi, agrumi e vino.

Anche l’allevamento è molto diffuso nel nostro Paese, ma non consente l’autosufficienza. Sulle Alpi e sugli Appennini permangono forme di allevamento seminomade, con l’alpeggio nel primo caso e la transumanza nel secondo. Questo tipo di attività, condotta in modo tradizionale, destina i suoi prodotti prevalentemente ai mercati locali. L’allevamento stallivo, che fa uso di modernissimi macchinari, caratterizza invece le regioni centro-settentrionali e lavora in contatto con l’industria alimentare alla quale fornisce discreti quantitativi di carne, latte e uova.

La pesca è un’attività economica che ha un’antica tradizione sulle coste italiane, anche se i mari che le bagnano non sono molto pescosi. Viene praticata sia sul Tirreno che sull’Adriatico, dove è maggiormente produttiva perché le acque sono più fresche e meno salate. Nonostante il recente sviluppo dell’acquicoltura, il pescato non copre più della metà della domanda interna e l’Italia è costretta all’importazione da altri Paesi del Mediterraneo.

Anche per le risorse energetiche l’Italia è fortemente dipendente dall’estero: le importazioni coprono l’80% del fabbisogno nazionale. Pochi sono i minerali metallici, mentre cospicue le dotazioni di quelli non metallici e la produzione di pietre da taglio, come i pregiati marmi di Carrara.

Il settore secondario

L’Italia non ha giacimenti carboniferi e cospicue risorse minerarie. Per questo ha avviato il proprio processo di industrializzazione solo nel secondo dopoguerra, con un certo ritardo rispetto a Gran Bretagna e Germania. La nascita dell’industria, inoltre, non ha caratterizzato in modo omogeneo e contemporaneamente tutto il territorio:

inizialmente ha riguardato solo la regione nord-occidentale (Lombardia e Piemonte) che, con il passare del tempo, si è trasformata in un catalizzatore di forza lavoro attraendo molti immigrati, soprattutto dal Sud. Solo intorno agli anni Settanta si sono sviluppate aree industriali nelle regioni costiere, in corrispondenza dei principali porti.

Oggi nell’industria lavora circa il 30% della popolazione attiva, impiegato soprattutto in imprese piccole o medie.

Il 95% delle aziende, infatti, ha meno di 10 dipendenti e solo lo 0,5% ne ha più di 50. Inoltre, anche tra le grandi imprese italiane molte sono di carattere familiare, gestite cioè dai membri di una sola famiglia: è il caso, per esempio, della FIAT degli Agnelli, della Luxottica dei Del Vecchio o della Benetton, della Marzotto e della Costa delle omonime casate.

In Lombardia e Piemonte la ricerca e gli investimenti privati hanno permesso l’affermazione della grande industria, matura e tecnologicamente avanzata (soprattutto nel campo della robotica e dell’elettronica), che sostiene la concorrenza con importanti colossi di altri Paesi europei. Il Veneto e l’Emilia Romagna hanno un fitto tessuto di imprese medio-piccole, ma molto vitali e dinamiche. Il Mezzogiorno e le isole, invece, non hanno un’industria sviluppata e in grado di soddisfare le esigenze di occupazione delle aree in cui sono localizzate.

Nel Sud, nonostante gli incentivi statali e i finanziamenti elargiti da alcune grandi imprese del Nord, lo sviluppo auspicato non è mai stato raggiunto. Si è anzi generato il cosiddetto fenomeno delle “cattedrali nel deserto”, grandi industrie che non sono state in grado di creare economie di agglomerazione e sono rimaste isolate e in molti casi anche abbandonate. Restano nel Mezzogiorno alcune imprese piccole o piccolissime, molto vicine all’artigianato, volte essenzialmente a soddisfare la domanda locale.

Oggi, poi, numerose ditte trasferiscono parte della propria produzione in Stati in cui il costo della manodopera e degli immobili è nettamente inferiore. In questo modo riescono a ridurre le spese e a proporre sul mercato prodotti concorrenziali con quelli stranieri.

Il settore terziario

Lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra ha aumentato notevolmente il bisogno di servizi da parte dell’industria, ma anche da parte di una popolazione il cui tenore di vita è cresciuto tantissimo. Ne deriva che oggi il 65% dei lavoratori italiani è impiegato nel settore terziario a cui si deve oltre il 70% del PIL del Paese.

Nel tradizionale ambito dei trasporti sono grandi le differenze tra le regioni settentrionali servite ottimamente e le carenti strutture di quelle meridionali. Anche gli altri servizi tendono a localizzarsi prevalentemente al Nord, dove Milano accentra quasi tutti quelli più avanzati, soprattutto i settori delle telecomunicazioni e quelli bancari e finanziari.

Un comparto in cui l’Italia si trova agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati è quello della ricerca scientifica nella quale il nostro Stato investe molto poco, penalizzando gli studiosi e inducendoli a trasferirsi all’estero. In questo

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modo si limita il progresso culturale ed economico e si vanificano gli investimenti fatti nell’istruzione: le conoscenze e le competenze acquisite in Italia vengono, infatti, trasferite in altri Stati.

Il turismo è una delle risorse più importanti, che dà lavoro a circa un milione di persone e attira circa 50 milioni di visitatori stranieri ogni anno, nonostante gli elevati costi delle nostre strutture ricettive. L’Italia è, infatti, il quinto Stato più visitato del mondo.

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Siti interessanti

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• www.italia.gov.it/

• www.regione.abruzzo.it/

• www.regione.basilicata.it/

• www.regione.calabria.it/

• www.sito.regione.campania.it/

• www.regione.emilia-romagna.it/

• www.regione.fvg.it/

• www.regione.lazio.it/

• www.regione.liguria.it/

• www.regione.lombardia.it/

• www.regione.marche.it/

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• www.regione.piemonte.it/

• www.regione.puglia.it/quiregione/start.php

• www.regione.sardegna.it/

• www.regione.sicilia.it/

• www.regione.toscana.it/

• www.regione.taa.it/

• www.regione.veneto.it/

• www.aostavalley.com/REGIONE/index.html

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