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La c.d. lista testimoniale nella procedura di ammissione della prova: funzione e criticità

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ

DI

P

ISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La c.d. lista testimoniale nella procedura di ammissione

della prova: funzione e criticità

Candidata:

Relatore:

Serena Lucente

Prof.ssa Valentina Bonini

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Indice

Introduzione……… Pag. 3 Capitolo 1. L’evoluzione storica del diritto alla prova.

1.1. Il principio di autorità per la definizione di un sistema……Pag. 6 1.2. Il giusto processo e il diritto alla prova nell’ordinamento: dalla Carta Costituzionale al codice………...Pag. 13 1.3. La c.d. lista testimoniale: genesi ed evoluzione………….Pag. 20 Capitolo 2. Gli atti preliminari al dibattimento penale di primo grado. Parte I

1. Il “diritto alla prova”……….Pag. 25 1.1. Caratteri generali del diritto alla prova………..Pag. 25 1.2. Il potere di integrazione probatoria del giudice………….Pag. 30 1.3. Ampiezza e autonomia del diritto alla prova……….Pag. 34 1.4. La struttura adversary della prova antagonista…………..Pag. 38 1.5. Formazione e traduzione della prova contraria nel codice di procedura penale………....Pag. 41 1.6. Prova contraria e discovery della prova testimoniale (cenni e rinvio)………Pag. 44 Parte II.

2. Il predibattimento………..Pag. 48 2.1. Il predibattimento : stato e fase del dibattimento………...Pag. 48 2.2. I limiti cronologici del predibattimento……….Pag. 52 2.3. Profili funzionali degli atti predibattimentali……….Pag. 57 Parte III

3. Il deposito delle liste testimoniali………..Pag. 63 3.1. Rivelazione predibattimentale delle prove……….Pag. 63 3.2. Contenuto della lista………...Pag. 69

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3.2.1. Le circostanze………..Pag. 69 3.2.2. Indicazione dei nominativi………..Pag. 76 3.3. Legittimati alla presentazione della lista………...Pag. 80 3.4. La lista testimoniale della persona offesa………..Pag. 82 3.5. Deposito della lista……….Pag. 88 3.6. L’autorizzazione alla citazione………...Pag. 92 3.7. Riduzione delle liste………...Pag. 95 3.8. Regime di rivelazione del vizio………..Pag. 96 3.9. Diritto alla controprova………Pag. 100 3.10. Richiesta di acquisizione i verbali di altro procedimento………...Pag. 103 Capitolo 3. Informatizzazione della notificazione.

1.1. Scopo e funzione della notificazione………Pag. 110 1.2. La notificazione nel codice di rito………Pag. 111 1.3. Gli organi della notificazione………...Pag. 116 1.4. Relazione di notificazione………Pag. 118 1.5. Le notificazioni al testimone………Pag. 121 1.6. Dalla PEC alle notificazioni per via telematica…………Pag. 126 1.7. Ambito applicativo e limiti oggettivi……...……….Pag. 134 1.8. Destinatari delle notificazioni penali telematiche e limiti soggettivi……….Pag. 136 1.9. Notificazioni penali telematiche e Sistema Notificazioni Telematiche (SNT)………..Pag. 138 1.10. Sistema informativo della cognizione penale (SICP)….Pag. 143 1.11. Vantaggi e limiti………..Pag. 145 Conclusione……….Pag. 148 Bibliografia………..Pag. 151

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Introduzione.

L’idea per il presente lavoro di tesi nasce a seguito di un periodo di tirocinio svolto presso la Procura della Repubblica di Pisa. Ho avuto modo di sbirciare dall’interno quella che è la realtà giuridica penale, con i suoi pregi e suoi difetti, riuscendo finalmente a rendere concreta, tangibile una porzione del mio modesto bagaglio cognitivo. Tra le numerose attività che si svolgono all’interno di una Procura, ho avuto modo di operare nell’Ufficio del Dibattimento, centro nevralgico del procedimento penale, di ciò che è il processo nell’immaginario collettivo: un accusato, una persona offesa, più avvocati, testimoni, il giudice terzo e imparziale che applica la legge condannando o assolvendo l’imputato.

Ma dietro al momento del contraddittorio vero e proprio si collocano una moltitudine di attività necessarie affinché tale principio, costituzionalmente garantito, venga rispettato.

Ed è tra queste attività che trova terreno fertile l’elaborato. Il punto di partenza è proprio l’evoluzione storica del diritto alla prova, legato a filo doppio con le vicende socio-politiche susseguitesi negli anni. Si analizza la sensibilità della legislazione processuale che si dimostra via via più ricettiva ai mutamenti dettati dal e nel tempo fino ad abbracciare i principi contenuti nella Carta Costituzionale, ergendo a difensori del giusto e leale processo tutte le garanzie che vanno dalla giurisdizionalità fino al riconoscimento del diritto di difesa, come diritto alla prova, pieno e incondizionato dalle scelte del giudice. I precetti costituzionali, dunque, oltre ad assicurare alle parti <<la parità delle armi e quindi la parità (anche) dei risultati astrattamente conseguibili nei processi di ogni tipo>>, determinano la piena

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estensione di tale uguaglianza: <<dall’azionabilità della pretesa, allo svolgimento di un processo leale, cioè poggiante su di un costante contraddittorio fra le parti viste in condizioni di parità, pubbliche o private che siano>>1.

Il Giudice delle leggi del resto ha dato un contributo decisivo alla riflessione dottrinale sul giusto processo, richiamandolo esplicitamente come parametro di costituzionalità della legge processuale. Garantire lo svolgimento di un giusto processo si eleva a compito fondamentale di una <<giurisdizione che non intenda abdicare alla primaria funzione di ius dicere di cui i diritti ad agire e di resistere in processo>>2 si dimostrano come veicoli necessari. La

formula del giusto processo esprime anche il bisogno di coordinare sistematicamente le diverse garanzie che afferiscono al processo, rendendo omogenee e interdipendenti le loro concretizzazioni applicative. A questo proposito interviene l’art. 111 Cost., il quale contiene una fondamentale indicazione di metodo: le garanzie costituzionali del processo necessitano di una interpretazione e ricostruzione che non si limiti ad analizzarle come entità a se stanti ma deve saperne cogliere il significato relazionale entro una serie di collegamenti e interdipendenze funzionali.

Completata l’analisi degli aspetti generali, definitori e costituzionali, l’attenzione si concentrerà sulle disposizioni contenute nel codice di rito, in particolare gli artt. 465-469 c.p.p., riuniti dalla sistematica del codice sotto la locuzione “atti preliminari al dibattimento”.

Il corpo centrale dell’elaborato si divide in tre parti. Nella prima si offre una definizione di diritto alla prova alla luce del principio del contraddittorio nella sua formazione. Si analizza poi il predibattimento partendo dalla precisa individuazione dei limiti

1 G. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, 1984, p. 287. 2 Corte Cost., sent. n. 137 del 4 maggio 1984, in Il foro it., vol. 107, No. 7/8

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cronologici, particolarmente dibattuta e all’attenzione del provvedimento Orlando di riforma del processo penale. Tali premesse di carattere classificatorio permettono di delineare i caratteri degli atti predibattimentali e la disciplina conseguentemente applicabile. Nella terza parte, in particolare, si analizza il tenore dell’art. 468 c.p.p. che permette di approfondire e rendere tangibile l’esercizio di un corretto, leale e gnoseologicamente fecondo esercizio del contraddittorio tra le parti. Il suo contenuto precettivo è deputato ad attuare la discovery in grado di evitare l’introduzione delle prove a sorpresa, consentendo la preparazione del controesame nonché la deduzione della prova contraria. Tutto questo è realizzato attraverso il deposito delle liste, richiesto dalla norma stessa alle parti, le quali si attiveranno nel corso del dibattimento presentando la lista dei soggetti da sottoporre al futuro esame dibattimentale con l’indicazione delle circostanze su cui dovranno rispondere.

Per circoscrivere e analizzare nel dettaglio il concetto di discovery, si procede chiarendo l’ambito del procedimento di rivelazione: a essere svelati sono la fonte, il mezzo e, quantomeno in via di prima approssimazione, l’oggetto della futura prova.

Affrontando analiticamente l’istituto delle liste si vedrà come la

discovery prevista dall’art. 468 c.p.p. non arriva al punto di elevarsi a

segmento imprescindibile della fase di acquisizione probatoria: il sistema ammette anche articolazioni differenti della fase introduttiva delle prove, purché forniscano un’effettiva e adeguata preconoscenza dell’oggetto e della fonte di prova da assumere.

Sfruttando una delle attività svolte in concreto nell’ufficio dibattimento, proseguo l’elaborato con l’ultimo capitolo riguardante la notificazione. La scelta è ancorata, da un lato, alle problematiche relative alle formalità della costituzione di parte civile in cancelleria, ovvero se possa essere notificata dal difensore prima del deposito, e

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dunque dopo l’avvenuta notifica, o debba essere depositata in cancelleria, estratta copia conforme e quindi notificata, dall’altro, alla notifica della citazione dei testi.

Dopo l’analisi dei profili generali, quali lo scopo e le funzioni, degli organi deputati alla notificazione, si affronta il tema delle notificazioni telematiche penali. A partire dal 15 dicembre 2014, infatti, le notificazioni penali, a persona diversa dall’imputato si effettuano per via telematica rendendo effettivo il ricordo al processo telematico anche in ambito penale, seppur limitato alle sole notificazioni. Partendo dalla regolamentazione della PEC, ci si sofferma sulle modifiche e sulle questioni giuridiche poste dalla normativa vigente, traendone un bilancio capace di evidenziare i pregi, i difetti, le criticità e le discrepanze tra la teoria e la prassi dell’applicativo adottato.

Capitolo 1.

1. L'evoluzione storica del diritto alla prova.

SOMMARIO: 1.1. Il principio di autorità per la definizione di un sistema. - 1.2. Il “giusto processo” e il diritto alla prova nell’ordinamento: dalla Carta costituzionale al codice. - 1.3. Le c.d. liste testimoniali: genesi ed evoluzione.

1.1. Il principio di autorità per la definizione di un sistema.

Accade nel diritto e in particolare nel processo che una decisione debba essere presa sulla base di fatti. La conoscenza di questi fatti

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condiziona e influenza la decisione, ne rappresenta in tutto o in parte il fondamento. Essi devono essere stabiliti in modo attendibile e veritiero, mediante l'impiego razionale delle conoscenze disponibili e con metodi validi e controllabili. Il contesto della decisione giudiziaria è però più specifico di altri. Un primo elemento di specificità è che nel processo occorre stabilire come si siano verificati i fatti che compongono una particolare situazione concreta, dalla quale deriva la controversia che il giudice deve decidere. Un altro importante elemento è la durata della ricerca e la raccolta dei dati conoscitivi che occorrono per stabilire i fatti: esigenze pratiche e giuridiche impongono limiti alla conoscenza giuridica, mentre quella scientifica può proseguire indefinitamente. Un terzo fattore rilevante di specificità è il modo con cui vengono individuati i fatti che nel processo debbono essere conosciuti. Per far ciò il giudice deve accertare i fatti sulla base di validi e adeguati elementi di conoscenza. Questi elementi vengono denominati, nel linguaggio giuridico ma per derivazione anche in altri linguaggi, prove. 3

La materia delle prove costituisce il cuore pulsante del processo, esse rappresentano il mezzo attraverso cui il processo raggiunge il suo scopo ma anche la modernità epistemologica di un sistema e dell'impianto dello statuto dei diritti all'interno di un ordinamento. Il primo nodo da sciogliere riguarda il significato del sintagma “verità processuale”.

In prima battuta si può affermare che il processo penale è finalizzato alla ricerca della verità in relazione ad un fatto del passato. A partire dalla descrizione del fatto e giungendo alla sua ricostruzione in base alle regole probatorie e di giudizio si approda alla verità in senso processuale. Essa è ben lontana dalla verità storica che, nel processo penale, rappresenta un'utopia. È un concetto-limite: si tratta del

3 M. Taruffo, Prova giuridica, in Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali, 1997.

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processo penale perfetto in cui vi è piena coincidenza tra svolgimento dei fatti e risultato a cui si giunge.

Individuata la verità storica come parametro dell'accertamento processuale, bisogna distinguere tra due questioni.

La prima riguarda i mezzi attraverso i quali un fatto storico può essere riprodotto all'interno del processo. Si allude al problema dell'ammissione delle prove e dei relativi limiti. La seconda questione è costituita dai contenuti dell'accertamento: la verità processuale è il risultato dei mezzi attraverso cui l'accertamento è stato condotto e dei contenuti della decisione del giudice. Nel sistema attuale la legge regola ex ante l'ingresso e la formazione delle prove nel processo, bilanciando l'interesse all'accertamento, la tutela dei diritti individuali e lo spazio riconosciuto all'iniziativa di parte. Sono proprio questi i canoni entro cui il giudice può motivare il proprio convincimento. Quando la ricostruzione non consente di raggiungere una certezza probatoria al di là di ogni ragionevole dubbio, la legge presta rimedio all'impasse conoscitivo attraverso la regola in dubio

pro reo ed impone il proscioglimento dell'imputato, trasformando il

dubbio in decisione.4

La normativa, che ha per oggetto la prova penale, risente della modalità con cui si è disciplinato il rapporto individuo-autorità, cristallizzandosi nei due fondamentali modelli processuali. Gli studiosi hanno individuato una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad un regime totalitario corrisponde un rito penale nel quale la difesa della società prevale su quella dell'imputato, e viceversa, ad un regime garantista corrisponde un rito che dà all'imputato una tutela prevalente rispetto alla difesa della società.

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La distinzione tra modello processuale inquisitorio e accusatorio assume la veste di criterio di scelta politica per valutare l'accettabilità delle norme che regolano il processo penale.

Provando a ripercorrere la stessa strada della sua evoluzione, già in epoca medievale troviamo la distinzione tra i due modelli. Veniva definito modello inquisitorio il sistema che attribuiva al giudice il potere di attivarsi d'ufficio per perseguire i reati ed acquisirne le prove. La nomenclatura derivava dall'organo che prendeva l'iniziativa, il giudice inquisitore.

Nello stesso periodo, era denominato accusatorio quel tipo di rito che riservava alle parti il potere di iniziativa. Il giudice poteva prendere decisioni su specifiche richieste di parte. Questa distinzione, nel corso della storia, non è mai stata netta, in realtà, si sono alternati sistemi misti che presentavano caratteristiche dell'uno o dell'altro, confermando che si tratta di modelli costruiti. L’origine logica della distinzione tra sistema inquisitorio ed accusatorio risiede nella fondamentale contrapposizione tra principio di autorità e principio dialettico. Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità, secondo il quale si può accertare la verità tanto più efficacemente quanto più potere è affidato al soggetto inquirente. In lui si cumulano tutte le funzioni processuali e il materiale sul quale si basa la decisione è costituito da atti scritti: <<quod non est in actis, non est

in hoc mundo>>. Ciò che conta è il risultato finale e non il metodo

utilizzato. Il sistema accusatorio, invece, è costruito in contrapposizione a quello precedente. Si basa sul principio dialettico in quanto si parte dal presupposto che la natura umana ha dei limiti intrinseci per cui, la verità si può accertare in maniera migliore se le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti portatori di interessi antagonisti5.

5 In questo senso, Montesquieu, Lo spirito della legge, Ginevra, 1748, Libro I, cap IV, trad. it. Milano, 1989. La separazione delle funzioni processuali

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Fondamentale per il nostro sistema è il periodo che va dal 1880 al 1930 in cui si fa spazio la teoria del processo basata preminentemente sulla fase inquisitoria del sistema e una figura del giudice rafforzata a danno del contraddittorio tra le parti. Il ruolo del giudice acquisisce forza processuale e diventa punto nevralgico del sistema: tutore dell’applicazione nonché dell’interpretazione legislativa, volto a garantire la società da eresie e delitti.

L'intera costruzione epistemologica del processo inquisitorio, che reca larghi segni delle antiche radici medievali, è attraversato da una logica sostanzialista: suppone una verità oggettiva che il giudice inquisitore deve ad ogni costo ricostruire, utilizzando un'indagine giudiziaria segreta, sottratta più a lungo possibile alle contestazioni dell'accusato, che la metterebbero a rischio. L'istruttoria offensiva condotta dal giudice inquisitore consente di acquisire frazioni di verità, che verranno esposte alle contraddizioni dell'accusato solo quando avranno raggiunto un alto grado di probabilità6.

<<Da spettatore impassibile, qual’era, il giudice diventa campione del sistema, estirpi eresie o scovi delitti. Mutano le tecniche: non esiste contraddittorio; avviene tutto segretamente; al centro sta, passivo, l'inquisito; colpevole o no, sa qualcosa ed è obbligato a dirlo; la tortura stimola flussi verbali coatti. Padrone della scacchiera, l'inquisitore elabora ipotesi di un quadro paranoide: nasce un'impura casistica delle confessioni contro i correi, talvolta ottenute con promesse d'impunità. De facto, è un sistema legalmente amorfo: il

adempie allo stesso compito della separazione dei poteri nello Stato proprio come delineato da Montesquieu: << è una esperienza esterna che qualunque uomo, che ha un determinato potere, è portato ad abusarne […]. perché non si possa abusare di un potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere>>.

6 A. Bargi, Procedimento probatorio e giusto processo, Jovene Editore, 1990, p. 108.

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segreto, quel metodo introspettivo e l'impegno ideologico degli operatori escludono vincoli, forme, termini; conta l'esito.>>7

In questa prospettiva l’imputato diviene un mero strumento con il quale soddisfare i fini repressivi dello Stato subendo in maniera passiva la conduzione del processo.

Il mutamento istituzionale dello Stato fascista in senso autoritario, con la conseguente riduzione degli spazi dei diritti soggettivi dell'individuo, agevola la modifica del processo in funzione della sicurezza e difesa sociale.

La difesa della collettività dalla commissione di delitti rappresenta il

leit motive dell’opera legislativa del 1930, nella quale viene

sacrificata la libertà individuale, intesa come proiezione della protezione dello Stato rivolta ai singoli in ragione di una inevitabile ed implicita subordinazione dell’interesse individuale a quello pubblico; così che risultano viziati anche gli aspetti salienti dell’accertamento, quali il contraddittorio, l’intervento delle parti, l’oralità, il diritto di difesa, corollari di un processo di tipo garantista. E così, se fine politico del processo è la difesa sociale, fine giuridico dello stesso è la ricerca del concreto accadimento storico: la verità materiale, intesa come ricerca della verità assoluta, che non lascia spazio alle supposizioni tipiche di improbabili accidenti processuali. La verità rappresenta il risultato, la meta da raggiungere a ogni costo e senza preoccuparsi del metodo con cui perseguirla. Qualsiasi modalità di ricerca è ammessa, sino anche alla tortura dell’imputato o addirittura del testimone, se l’inquisitore ritiene che sia reticente o dica il falso. Nel corso della storia il “sonno della ragione” ha generato ogni sorta di mostri. Lo scopo era quello di ottenere la confessione dell’imputato, considerata la “regina delle prove”8.

7 F. Cordero, Procedura penale, Nona edizione, 2012, Giuffrè Editore, p. 21. 8 P. Tonini, Manuale di procedura penale, 2016, Giuffrè Editore, p. 7.

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Si è anticipato che il modello in esame fonda le proprie radici nel principio di autorità, secondo il quale l’accertamento della verità è direttamente proporzionale al potere destinato al soggetto inquirente, sul quale devono accentrarsi tutte le funzioni processuali: nello stesso momento processuale e nei confronti dello stesso soggetto imputato deve operare come giudice, come accusatore e come difensore. Nel tentativo di giustificare il triplice ruolo del giudice inquirente, la giurisprudenza ricorre all’esigenza di assicurare il principio del libero convincimento, il quale però, in questa accezione, viene assimilato alla libertà di valutazione del giudice al di fuori e al di sopra di criteri legali della formazione e valutazione della prova. Infine, la razionalità della prova e la sua scientificità vengono corrotte acquistando un significato funzionale alla figura di un giudice inquisitore e ricercatore autonomo della prova e della verità assoluta, limitando e sacrificando l’iniziativa e il dialogo con e fra le parti, tipici dell’opposto sistema accusatorio9.

La caduta del fascismo si ripercuote sul tessuto sociale così profondamente da travolgere anche i valori penalmente tutelati. Con la progressiva rivalutazione dei diritti fondamentali della persona nelle dottrine giuridiche del Novecento, vengono messi in discussione i capisaldi che ancorano il diritto allo Stato: emerge via via la formula “Stato costituzionale”.

9 Il regime politico totalitario trova nel sistema processuale inquisitorio lo strumento di potere più efficace, con funzione di controllo sociale, trasmette un messaggio molto forte perché accompagnato da una sanzione penale. Viceversa, il processo di tipo accusatorio è connaturale ad un regime politico garantista. Solo al potere esecutivo spetta di indicare quale interesse bisogna perseguire; il processo deve svolgersi tutelando il diritto di difesa delle parti. La storia offre numerosi esempi della stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale. I modelli elaborati sono utili proprio per valutare quanto un ordinamento politico sia coerente con l’immagine che vuole diffondere. Gli studiosi, dunque, hanno formulato modelli teorici in grado di dare una valutazione non “di facciata” ma reale di un ordinamento processuale e, di conseguenza, del regime politico che lo ha adottato.

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1.2. Il “giusto processo” e il diritto alla prova nell’ordinamento: dalla Carta Costituzionale al codice.

I diritti fondamentali vengono sanciti nella Costituzione, posti al riparo da modifiche arbitrarie, limiti all'interpretazione del legislatore e del giudice nella realtà regolata dalla norma.

La legislazione processuale viene sottoposta ad una notevole revisione, si cerca di trovare un punto di incontro tra i principi sanciti nella Carta Costituzionale e il modello inquisitorio che stenta a perdere la propria validità anche per le numerose opere legislative emergenziali volte a regolamentare momenti di particolare tensione sociale. Bisogna dare spazio ed effettività alle garanzie processuali presenti nel modello designato dalla Costituzione, espressione dei valori emergenti della società.

La scienza processuale torna ad occuparsi del giudizio come momento centrale del processo e il suo scopo assume la veste dell’attuazione della giustizia. Si fa via via spazio ad una dogmatica che traduce la legge in concreta giustizia, <<nei termini espressi dalla norma costituzionale, sul presupposto che il fenomeno processuale vada riletto nella prospettiva unitaria dell’esperienza giuridica>>10.

Il sistema probatorio ormai sembra non poter più prescindere dal principio del contraddittorio, proprio nel rispetto dei principi di rango costituzionale, quali la terzietà del giudice, la motivazione delle decisioni, il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino alla sentenza definitiva di condanna.

Partendo dai primi principi sanciti nella Carta fondamentale, ricostruiamo il percorso che ci porta ad individuare le modifiche della Carta fondamentale e del modello processuale. Con una precisazione. I principi costituzionali percorrono le strade della concezione personalistica della tutela dei diritti fondamentali della

10 A. Bargi, Cultura del processo e concezione della prova, in La prova penale, A. Gaito, vol. I, UTET, 2008, p. 41.

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persona, diramandosi sia sul versante sociale che su quello particolare delle garanzie processuali nei confronti dell’autorità dello Stato.

L’art. 2 finalizza lo Stato alla massima tutela di tutti i singoli in ogni settore in cui svolgono la loro personalità, e l’art. 3 consacra il principio di eguaglianza e, in particolare, le due regole della parità sociale e parità giuridica fra gli uomini nonostante le differenti condizioni personali e sociali. Considerando anche altri principi, quali la libertà personale (art. 13), il diritto di azione e di difesa (art. 24) e ancora la presunzione di non colpevolezza (art. 27), vediamo che la Costituzione tende ad uno scopo fondamentale: assicurare il giusto e leale processo. Così è possibile rintracciare un preciso modello processuale, fondato su un sistema circolare di garanzie, che vanno dalla giurisdizionalità sino al riconoscimento del diritto di difesa, come diritto alla prova, pieno e non condizionato da scelte pregiudiziali del giudice.

L’art. 111 Cost. è di primaria importanza in relazione a tutta una serie di garanzie prima solo implicitamente racchiuse nella Carta Fondamentale, anche se già da tempo presenti negli atti internazionali a tutela dei diritti dell’uomo. Nella sua formulazione originaria constava di tre commi. Il 1° comma garantiva la motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali; il 2°comma, a sua volta, assicurava l'esperibilità del ricorso in Cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale; il 3° comma, infine, fissava i limiti del ricorso in Cassazione avverso le decisioni delle Supreme magistrature amministrative.

La nostra Carta Costituzionale, infatti, pur riconoscendo una serie di diritti fondamentali intrecciati con la dinamica processuale, fino alla recente formulazione dell’articolo 111 non conteneva alcun

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riferimento al metodo di formazione della prova, al principio del contraddittorio e, più in generale, ai principi del giusto processo. Il diritto alla prova e il principio del contraddittorio, aspetto peculiare del primo, venivano implicitamente riconosciuti e tutelati sulla base degli articoli 24 e 27 della Costituzione, che garantiscono l’inviolabilità della difesa e la presunzione di non colpevolezza. Prima, quindi, per individuare il perimetro del diritto ad un giusto processo si doveva ricorrere agli Atti internazionali a tutela dei diritti dell’Uomo ed all’analisi del contenuto dell’articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Tuttavia, le norme convenzionali, in sintonia con la Costituzione repubblicana, ribadivano con decisione, ma invano, che la tutela dei diritti dell’uomo, per divenire effettiva, deve superare la verifica del tipo di garanzia giudiziale approntata dall’ordinamento e cioè la tutela delle diverse situazioni soggettive ipotizzabili. Sicché a tale precisa direttiva doveva seguire il rinnovamento dell’ordinamento processuale e l’abbandono di una strettoia codicistica ormai superata dalla nuova cultura politica e giuridica.

Il diritto alla prova, come elemento significativo del procedimento probatorio, segna un criterio efficace di verifica dei modi di attuazione della garanzia costituzionale.

La sua disciplina determina i confini dei poteri di iniziativa probatoria e l’ambito della discrezionalità del giudice rispetto ai correlati diritti e facoltà delle parti private di incidere sul thema

decidendum e di sostenere le difese nella ricostruzione della vicenda

storica.

Questa operazione rappresenta il punto cruciale dell’accertamento quale premessa indispensabile della decisione: il diritto alla prova determina il grado di effettività del contraddittorio e della

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giurisdizionalità e svolge un compito di controllo circa il reale rispetto del principio di legalità per tutto l’arco delle sequenze processuali.

Il diritto al giusto processo si esplica nei modi di esercizio del diritto alla prova, rappresentando la cartina tornasole del sistema di garanzie predisposte nella Costituzione e, parallelamente, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nel Patto internazionale dei diritti civili e politici. In questo inedito panorama processuale si affaccia nella legge delega del 1987 l'enunciazione espressa, ad opera del legislatore del 1988, del “diritto alla prova” nella rubrica dell'art. 190 c.p.p. che sembra coronare quel percorso di elaborazione concettuale che da tempo era stato intrapreso dalla dottrina e che tale proposizione aveva eretto a “suggestivo emblema”11 di istanze garantistiche anche diverse.

Peraltro, la circostanza che il “codice Vassalli” sancisse esplicitamente tale diritto, non si dimostrò in grado di rispondere hic

et nunc agli interrogativi maturati in ordine al suo nucleo fondante;

anzi, contribuì in parte ad alimentarli.

All’insegna del “giusto processo”, la legge costituzionale 23 Novembre 1999, n. 2, ha operato la <<più profonda tra le riforme che la Carta fondamentale della Repubblica abbia fin qui conosciuto in materia di regole per la disciplina dei procedimenti giudiziari>>12.

Principi e regole già compresi nella Costituzione vengono per la prima volta raccolti in un corpus normativo unitario, considerato dalla dottrina il nucleo del concetto di “giusto processo” osservando come questa scelta evidenzi il significato relazionale delle garanzie processuali.13

11 G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1968, p. 3 ss.

12 M. Chiavario, Quando la <<scommessa>> sul giusto processo si gioca tutta nella valutazione delle prove, in Guida al diritto, 1999, p. 9 e ss.

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L'art. 111 Cost. si compone ora di otto commi, di cui il 3°, 4° e 5° si riferiscono esclusivamente al processo penale. Ad ogni processo si rivolgono i precetti dei due commi iniziali: la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge; ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale; si aggiunge poi, nel secondo periodo, la ragionevole durata del processo.

I tre comma seguenti sono dedicati interamente al processo penale. Le disposizioni del 3° comma contengono il catalogo delle garanzie essenziali della persona accusata di un reato, mentre quelle del 4° e 5° comma sono rivolte all'affermazione della regola cruciale del rispetto del contraddittorio nella formazione della prova, e allo stesso tema attiene l'individuazione degli ambiti nei quali è consentito e riservato dalla legge individuare casi di deroga alla regola.14

Ma alla legge di revisione costituzionale doveva seguire una normativa ordinaria di adeguamento delle disposizioni non compatibili con le nuove prescrizioni. A tale compito il legislatore ha provveduto con la l. 1 Marzo 2001, n. 63 che risulta aver operato lungo due direttrici: la realizzazione del contraddittorio nella formazione della prova15 e la riduzione dell'area del diritto al silenzio

dell'imputato in procedimento connesso o collegato con la situazione giuridica dell'imputato di quello stesso procedimento, chiamato a rilasciare dichiarazioni sul fatto altrui16.

13 N. Trocker, in M.G. Civinini, Il valore costituzionale del giusto processo, p. 36 ss.

14 T. Rafaraci, La prova contraria, Giappichelli Editore, 2004, p. 28.

15 P. Ferrua, La regola d’oro del processo accusatorio: l’irrilevanza probatoria delle contestazioni, in AA. VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. E. Kostoris, Giappichelli, Torino, 2002, p. 6.

16 In estrema sintesi si può dire che le principali novità normative riguardano l’istituto del “testimone assistito” e le restrizioni delle ipotesi di incompatibilità a testimoniare, quale risultato del combinato disposto degli artt. 64, 197 e 190 bis, comma 2 c.p.p.; la parziale modifica dell’art. 190 bis c.p.p., il quale attenua il potere discrezionale del giudice e, saldandosi con la disciplina del nuovo art. 238, comma 2 bis, c.p.p., ribadisce l’indefettibilità del pregresso contraddittorio, come presupposto di utilizzabilità dei verbali di

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Per molti aspetti, nella parte modificata, l'art. 111 Cost. si presenta come una parafrasi di disposizioni dell'art. 6 C.e.d.u. Il segno più evidente è quello della tutela dei diritti dell'accusato che si spinge ad un riequilibrio probatorio, fino alla facoltà di ottenere l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Si rafforza il diritto alla prova per la difesa che opera sullo sfondo della presunzione di non colpevolezza, capace di elevare per riflesso, il tono del diritto alla prova sul versante opposto dell'accusa.

Queste garanzie non sono strumentali soltanto all'effettività del contraddittorio difensivo nella formazione della prova, bensì anche a quella del contraddittorio difensivo che si attua mediante la prova contraria. È anche in quest'ottica, per tutelare la prova contraria, che il processo penale giusto ex art. 111 Cost. non tollera prove introdotte a sorpresa dall'accusa.

Il volto del processo ora è solcato dalla concezione dialettica della prova. Ne sono riprova due decisioni della Corte Costituzionale17 che

hanno ribadito la valenza garantista dell’art. 111, 4 comma, Cost., su cui sono fondati i nuovi canoni di formazione della prova, sottolineando che la disposizione costituzionale postula <<quale corollario il divieto di attribuire il valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi investigativi>> e <<l’impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti>>. Può ritenersi definizione condivisa e condivisibile quella di un diritto alla prova che rinviene il proprio fondamento nel “diritto delle parti

prova di altro procedimento penale; la reintroduzione del divieto di testimonianza nell’art. 195 c.p.p.; l’irrilevanza probatoria delle contestazioni

ex art. 500 c.p.p.; la volontaria e libera sottrazione al contraddittorio come

regola di esclusione di utilizzabilità della relativa prova dichiarativa ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato, sancita nell’art. 526 comma 1 bis c.p.p.; infine l’applicabilità dell’art. 192, 3 e 4 comma, c.p.p. nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273, comma 1 bis, c.p.p.

17 Corte Cost., 26.02.2002, n. 32, in Riv. it. dir. Proc. Pen, 2002, vol. 11, p. 1373 e Corte Cost., 26.02.2002., n. 36, in Guida al diritto, 2002, p. 76.

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all'ammissione e all'acquisizione della prova”18 e, correlativamente,

nel “limite ai poteri di esclusione delle prove in capo al giudice”. Era del resto precisa intenzione dei redattori del nuovo codice reimpostare “il problema del rapporto tra poteri del giudice e diritto delle parti in una prospettiva diversa da quella tradizionale”; si muove proprio in questa direzione la lettera dell'art. 190, comma 1, c.p.p. che configura il contenuto del diritto alla prova come il potere delle parti di provocare l'insorgere nel giudice di un dovere di ammettere tutti i mezzi di prova che non risultino vietati dalla legge manifestamente superflui o irrilevanti.

I redattori del codice del 1988 avevano realizzato che, solo se si fosse parlato di un vero e proprio dovere vincolato, si sarebbe potuto avere un diritto alla prova costituzionalmente tutelato 19.

Qualora allo ius postulandi delle parti avesse fatto da contraltare un immotivato potere giudiziale di negare o di limitare, in maniera più o meno arbitraria, l'introduzione dei meccanismi rappresentativi della conoscenza, il diritto alla prova sarebbe risultato compromesso. Per contro, l'aver ancorato l'ammissibilità della prova alla mancanza di un divieto di legge, alla non manifesta superfluità e alla non manifesta irrilevanza, ha spinto la verifica giurisdizionale sulla strada di una fattispecie normativa vincolata, priva cioè di elementi lasciati intenzionalmente in bianco dal legislatore e che non consente al

18 M. Chiavario, Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale, in Cass. Pen., 1996, p. 2009.

19 C. Valentini, I poteri del giudice dibattimentale nell'ammissione della prova, Padova, CEDAM, 2004 , p. 35 e 44. L’affermazione deriva dall’analisi di un dibattito ultradecennale sui rapporti tra diritto sostanziae e diritto d’azione. l’essenza stessa del diritto riduceva la gamma delle situazioni soggettive alle due fondamentali nozioni di potere e dovere. <<Così facendo, ogni dovere veniva letto quale qualifica superflua del dovere di attivazione del’organo pubblico, in presenza di una data fattispecie. Il diritto quindi era letto come potere di provocare l’insorgere di un dovere a carico del soggetto pubblico>>. Il diritto alla prova dunque è senz’altro dotato di tutela costituzionale e rivela una serie di sfumature proprie del fatto di considerarlo come potere di determinare una decisione doverosa da parte del giudice.

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giudice alcuna valutazione discrezionale se non quella in senso tecnico. La formulazione in negativo della disposizione e l'impiego, al suo interno, dell'avverbio <<manifestamente>>, hanno contribuito a disegnare i contorni di un vaglio giudiziale a maglie molto larghe, tale da indurre a parlare di presunzione iuris tantum di ammissibilità delle prove richieste. In questo tipo di presunzione hanno trovato la loro sintesi, da un lato, l'istanza di tutela del diritto alla prova delle parti e, dall'altro, la necessità di assicurare al processo penale uno sviluppo razionale ed efficiente. Mentre la prima, infatti, sarebbe compromessa da un potere di controllo giudiziale, che ad istruttoria dibattimentale per di più non ancora esperita, si fondasse su criteri eccessivamente restrittivi, la seconda verrebbe smentita in radice dalla possibilità di iniziative probatorie inutilmente ripetitive ed ispirate a puri fini dilatori.

1.3. La c.d. lista testimoniale: genesi ed evoluzione.

Anche l'introduzione della lista testimoniale negli atti preliminari al dibattimento è frutto di un lungo lavoro. Troviamo per la prima volta questa perifrasi nel codice del 1930, art. 415 rubricato “Liste testimoniali”.

Con il termine introduzione della prova si intende l'insieme delle attività poste in essere dalle parti e dal giudice affinché uno strumento probatorio possa essere inserito nel processo. Si puntualizza inoltre la fase in cui viene vagliata l'ammissibilità in senso stretto della prova, la sua legittimità, e la sua rilevanza, l'utilità ai fini dell'accertamento: il segmento degli atti predibattimentali20. La

necessità di un'assunzione probatoria è proporzionale al grado di

20 G.F. Bonetto, L'introduzione della prova testimoniale nella fase degli atti predibattimetali, Riv. it. dir. e proc. pen. 1962, p. 33 e ss.

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ipoteticità della cosa giudicata che è massimo agli inizi dell'indagine e tende ad assottigliarsi man mano che il processo avanza verso la decisione finale. Ciò vuol dire che la prova testimoniale può essere introdotta anche nel corso del dibattimento ma il relativo procedimento appare spoglio delle peculiari modalità connesse alla deduzione delle liste nella fase predibattimentale. Inoltre, tale introduzione ricopre un ruolo integrativo e supplementare.

Il legislatore del '30 realizza un postulato del sistema accusatorio, affida l'iniziativa alle parti e considera la presentazione della lista testimoniale come l'esplicazione di un onere. A ciascuna parte è data facoltà di contestare, in apertura di dibattimento, l'introduzione dei testi citati su richiesta delle altre parti. Se, nonostante la contestazione, l'introduzione fosse confermata, il collegio può rinunciare alla relativa assunzione. Questa facoltà non trova altro limite che la motivazione adeguata. All'attività di produzione fa riscontro il controllo del presidente del collegio che ha per oggetto una serie di requisiti: tempestività della presentazione della lista, assenza di cause di inammissibilità, rilevanza delle prove prodotte. Il 1°comma dell'art. 415 c.p.p. del 1930 parla di liste testimoniali da presentare in cancelleria <<in tempo sufficiente per le citazioni e almeno tre giorni prima del dibattimento>>. L'accertamento in ordine al << tempo sufficiente>> è una questione di fatto, non sottoposta ad alcun sindacato.

Poiché la lista dei testimoni è l'insieme di tante istanze quanti sono i testi da introdurre, in relazione ad ognuna si pone il problema di ammissibilità che trova concreta estrinsecazione nel potere-dovere del presidente di escludere le testimonianze inammissibili. Le cause di inammissibilità si riferiscono a requisiti formali dell'istanza o ad espliciti divieti di legge.

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La necessità che la prova sia rilevante risponde ad esigenze di economia processuale, la valutazione è effettuata a priori per evitare ogni spreco di attività processuale. Nel periodo predibattimentale l'iniziativa è affidata alle parti per cui si può dire che un certo grado di utilità è da presumersi se la parte attribuisce all'acquisizione della prova il successo della propria tesi difensiva o accusatoria.

Il pericolo sta nell'abuso o nel cattivo uso di questo potere. Tutti i criteri presentano una nota di negatività nel senso che deve accertarsi non l'utilità quanto la non inutilità: la testimonianza deve essere non sovrabbondante, non superflua, non priva di pertinenza.

Questa disciplina è stata riformata nel codice attuale il quale colloca la testimonianza nella disciplina dei singoli mezzi di prova. Questa scelta è da ricondurre all'incidenza che tali mezzi hanno sui meccanismi di formazione del convincimento del giudice: si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione. Si sottolinea così, anche a livello sistematico, come l'attenzione debba essere rivolta alle modalità di individuazione e di ingresso nel processo di elementi preesistenti rispetto allo svolgimento processuale.

Nell'attuale codice si nota immediatamente come manchi un articolo rubricato “liste testimoniali”. La disciplina è contenuta all'art. 468 c.p.p. rubricato“ Citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici”. La ratio è quella di garantire un efficace contraddittorio tra le parti, in quanto si limita l’introduzione a sorpresa: di qui la funzione di

discovery delle liste testimoniali.

La discovery così tratteggiata prevede che le parti, almeno sette giorni prima della data fissata per la prima udienza dibattimentale, depositino una lista recante le circostanze su cui verterà l'esame dei testimoni, periti o consulenti tecnici. È una previsione atta a garantire alla difesa di avere cognizione sia sui testi che sui fatti per esercitare

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il diritto alla controprova. Il termine stabilito dal giudice per la citazione dei testimoni è inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi dovuti a mera negligenza delle parti e ha natura perentoria21.

Nel codice del 1930 a difettare era proprio l’ordinanza dibattimentale di ammissione della prova, essendo la decisione del giudice sulle istanze di parte collocata nella fase degli atti preliminari al giudizio. Evidenti le ragioni della concentrazione dell’attività di introduzione della prova nella fase preliminare, ove dunque venivano scelte le prove da utilizzare, al di fuori di ogni contraddittorio sull’ammissione delle medesime: la conoscenza del giudice del materiale probatorio acquisito nel corso della fase istruttoria, convogliato in un unico fascicolo, rendeva superflua ogni attività dialettica, nella fase ammissiva come in quella successiva, destinata alla verifica delle prove già acquisite.

Ciò che rileva è la deviazione che, dal punto di vista formale, si è verificata con il passaggio al nuovo codice, il quale ha estromesso dall’ambito del procedimento probatorio e, in particolare, dalla fase ammissiva, proprio il deposito della lista testimoniale, che costituiva nel codice abrogato un suo momento espressivo. L’innovazione principale in materia di ammissione della prova, è la sua dislocazione all’interno del dibattimento. Alla citazione del testimone intesa quale espressione di volontà ammissiva del giudice, preliminare all’apertura del dibattimento, si è sostituito un semplice atto

21 Cass. Pen., Sez. II, 27 Febbraio 2013, n. 14439. Si legge, infatti, che <<In tema di citazione dei testimoni, il termine stabilito dal giudice ai sensi dell'art. 468, comma 2, c.p.p.- essendo inserito in una sequenza processuale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti, se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o forza maggiore - ha natura perentoria. Di conseguenza, ove la parte non effettui la citazione dei testi nel termine stabilito dal giudice, decade dal diritto di assumere i testi già ammessi (fattispecie in cui il tribunale aveva revocato l'ordinanza di ammissione dei testimoni poiché non citati e la corte d'appello aveva respinto la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale)>>.

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autorizzatorio (l'autorizzazione alla citazione), inteso a riscontrare la preventiva manifestazione di volontà della parte di voler utilizzare una determinata fonte di prova all’interno del processo, munendola di uno strumento di coercizione nei confronti del teste.

Alla lista testimoniale intesa come istanza rivolta all’ammissione della prova, si è sostituito un atto di indicazione che non implica l’obbligo per la parte di richiedere l’ammissione del teste indicato, ma dimostra soltanto la sua intenzione di avvalersi di quella determinata fonte di prova.

La lista testimoniale ha nel nuovo codice non più natura di istanza, ma di istanza solo eventuale, costituendo essa una mera comunicazione alle altre parti delle prove delle quali l’interessato intende avvalersi, senza implicare per il giudice alcun onere di decisione22. Il suo deposito è dunque funzionale esclusivamente a

garantire la conoscenza del suo contenuto al giudice e alle parti. Non è dunque necessario, al suo interno, né chiedere l’autorizzazione alla citazione dei testimoni, che è possibilità rimessa alla discrezionalità della parte, né tanto meno chiedere l’ammissione della relativa fonte probatoria, semplicemente perché le prove non vengono ammesse al di fuori del contraddittorio, ma solo dopo l'apertura del dibattimento e alla presenza del giudice.

22 Il Giudice, prima dell’apertura dell’udienza in cui procede all’ammissione delle prove, ha sulla lista testimoniale il solo potere di ridurre le liste, espungendo da esse quelle vietate e quelle sovrabbondanti nel caso in cui la lista contenga anche la richiesta di autorizzazione alla citazione.

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Capitolo 2.

SOMMARIO: PARTE I. 1. Il “diritto alla prova”. 1.1 Caratteri generali del diritto alla prova. - 1.2. Il potere di integrazione probatoria del giudice. - 1.3. Ampiezza e autonomia del diritto alla prova. - 1.4. La struttura adversary della prova antagonista. - 1.5. Formazione e traduzione della prova contraria nel codice di procedura penale.- 1.6. Prova contraria e discovery della prova testimoniale (cenni e rinvio). - PARTE II. 2. Il predibattimento. - 2.1. Il predibattimento: stato e fase del dibattimento. - 2.2. I limiti cronologici del predibattimento. - 2.3. Profili funzionali degli atti predibattimentali. - PARTE III. 3. Il deposito delle liste testimoniali. - 3.1. Rivelazione predibattimentale delle prove. - 3.2. Contenuto della lista. - 3.2.1. Le circostanze. - 3.2.2. Indicazione dei nominativi – 3.3. Legittimati alla presentazione della lista. - 3.4. La lista testimoniale della persona offesa. - 3.5. Deposito della lista. - 3.6. L’autorizzazione alla citazione. - 3.7. Riduzione delle liste. - 3.8. Regime di rilevazione del vizio. - 3.9. Diritto alla controprova. - 3.10. Richiesta di acquisizione di verbali di altro procedimento.

Parte I

1. Il “diritto alla prova”

1.1. Caratteri generali del diritto alla prova.

Il nostro sistema processual-penalistico si fonda, come ampiamente specificato, sul principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Si reputa che la verità possa essere accertata in maniera più efficace se le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti con interessi

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contrapposti che si confrontano, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale al quale spetti decidere soltanto sulla base delle prove ricercate dall’una o dall’altra delle parti.

Il fatto storico viene ricostruito mediante il contraddittorio tra soggetti mossi da interessi contrapposti.

Questi soggetti sono rappresentati da un lato dalla pubblica accusa, su cui incombe l’onere di provare la reità dell’imputato, dall’altro lato dalla difesa, a cui spetta il compito di insinuare il dubbio in chi giudica, circa la mancanza di credibilità delle fonti o l’inattendibilità delle prove a supporto dell’imputazione, ovvero l’esistenza di fatti favorevoli al proprio assistito.

Sotto il profilo probatorio, una scelta di questo calibro, sancisce un vero e proprio principio di legalità processuale che, negli anni Ottanta, ha dato luogo all’introduzione del libro terzo nel codice di procedura penale, interamente dedicato alle prove.

L’art. 190 c.p.p. riconosce il “diritto alla prova” che disegna i contorni del potere, in capo alle parti, di ricercare le fonti di prova, chiedere l’ammissione del relativo mezzo, partecipare alla sua assunzione, ottenere dal giudice una valutazione in ordine al valore di tale mezzo al momento della decisione.

È previsto al secondo comma dell’art. 190 c.p.p. un potere probatorio residuale del giudice, esercitabile d’ufficio, nei casi stabiliti dalla legge.

Le richieste formulate dall’accusa e dalla difesa sono valutate dal giudice in base ai medesimi criteri di pertinenza e rilevanza della prova.

Occorre stabilire quali siano gli elementi sui quali il giudice debba fondare il proprio giudizio di ammissibilità e quali siano gli aspetti sostanziali di tale potere.

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In quanto prerogativa delle parti, il diritto all’ammissione della prova risulta costituzionalmente tutelato come diritto alla “prova contraria”, ossia come diritto dell’imputato all’ammissione di tutte le prove a discarico.

È quanto stabilito al terzo comma dell’art. 111 Cost., come novellato dalla legge cost. n. 2 del 1999. Tale garanzia del “difendersi provando” emerge laddove si specifica che la persona accusata di un reato ha la facoltà, tra l’altro, <<di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore>>.

Se ne deduce la par condicio probatoria tra accusa e difesa, getta le basi della garanzia della prova contraria e assicura il diritto alla prova della difesa.

Considerando che il tenore di questa garanzia è individuabile per

relationem rispetto alle possibilità probatorie dell’accusa, è la facoltà

dell’imputato di ottenere <<l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore>> ad esplicitare l’elevato tasso di garanzia che accompagna il diritto a vedere ammesse e acquisite le prove a difesa. Senza questa garanzia il contraddittorio sarebbe leso e ne verrebbe minato il suo equilibrio.

Il diritto dell’imputato alla prova e alla controprova è connesso al principio di non colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost.: rappresenta una presunzione legale relativa da cui scaturisce la necessità, per l’accusa, di provare compiutamente la reità dell’imputato.

Ove l’accusa non assolva all’onere probatorio a suo carico <<al di là di ogni ragionevole dubbio>> non potrà che procedersi all’assoluzione dell’imputato ex art. 530, comma 2, c.p.p.

Ma la garanzia costituzionale è collegata anche alla regola dell’onere della prova a carico dell’accusa intesa come principio attivo della

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dinamica dell’accertamento processuale al quale non si potrebbe rinunciare neppure invocando l’adeguatezza di una par condicio fondata su criteri di ammissione della prova più restrittivi, tanto per l’accusa che per la difesa. Bisogna aggiungere che il fondamento costituzionale del diritto alla prova, in quest’ultima prospettiva, è ravvisabile nel principio di obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Cost. Il diritto alla prova ne rappresenterebbe un corollario dal momento in cui l’azione penale è efficacemente esercitata e sostenuta solo in quanto il pubblico ministero può contare sull’ammissione e sull’acquisizione delle prove offerte.

Si può affermare dunque che se vi è un preciso diritto delle parti alla prova, vi è un dovere giudiziale d’ammissione della stessa.

L’art. 190 c.p.p. dispone infatti che, a fronte della richiesta proveniente dalle parti, spetti al giudice provvedervi <<senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti>>.

L’inciso si pone come limite per il giudice che potrà escludere le prove richieste soltanto laddove esista un esplicito divieto in ordine al soggetto o all’oggetto della prova, ovvero risultino in concreto manifestamente superflue o irrilevanti.

In definitiva, il diritto alla prova agevola il conseguimento di un obiettivo più ampio: contenere gli spazi di discrezionalità del giudice nel selezionare il materiale probatorio. Inoltre, proprio perché pone questo obiettivo a salvaguardia dell’iniziativa delle parti, esprime forti significati di apertura dell’accertamento penale alla partecipazione piena delle parti.

La garanzia di vedere ammesse e acquisite le prove richieste non rappresenta un correttivo al potere del giudice, il quale può apparire distorto, unilaterale o discriminatorio, ma una libera facoltà di contribuire alle dinamiche dell’accertamento, promuovendo

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prospettive e temi di prova propri, finalizzati ad essere posti all’attenzione del giudice.

Si osserva come il diritto alla prova consolida il potere della parte di attivare il dovere del giudice alla relativa ammissione. Ma proprio questa legittimazione, contraddistinta dall’interesse della parte, attribuisce al diritto alla prova il carattere dell’unilateralità.

Si ha una polarizzazione delle dinamiche dell’accertamento che si basa su impulsi e allegazioni che provengono da una o dall’altra parte, accusa o difesa: le parti interpretano e svolgono le alternative poste dalla res iudicanda. Ne consegue che la condizione per l’equilibrio di questa attività, necessaria a tutelarla da possibili trend faziosi, è la “parità delle armi”23.

La formula esprime l’esigenza di disciplinare il conferimento e l’utilizzo delle “armi” secondo il criterio della reciprocità: può essere il garante del bilanciamento delle dinamiche dell’accertamento se sa tradursi in un dosaggio effettivo, sistematico, tecnicamente significativo, sia dell’entità dei poteri da conferire alla parte, sia della loro qualità e prontezza di possibile esercizio, sul parametro di quelle che caratterizzano i poteri dati alla parte antagonista24.

È attraverso questa strada che la parità di trattamento, da criterio moderatore della discrezionalità del giudice, tende a specificarsi nella parità delle armi, nella relazione di reciprocità in cui deve comporsi lo spettro delle facoltà probatorie a disposizione delle parti.

Tale nozione, non a caso, è stata elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, nell’applicare i propri principi di giusto processo e fair trial25 considera l’eguaglianza delle armi requisito

imprescindibile per il conseguimento della fairness processuale e intende quest’ultima in un’accezione volutamente aperta, alla luce

23 C. Faranda, La <<par condicio>> nel processo penale, Giuffrè, 1968, p.16. 24 T. Rafaraci, La prova contraria, cit., p. 50.

25 Così si intitola la rubrica, aggiunta dal Protocollo n. 11 del 1994, dell’art. 6 C.e.d.u., nel testo in lingua inglese.

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della quale i diritti previsti dall’art. 6 C.e.d.u. si presentano come sue esemplificazioni.

Lo sforzo ermeneutico della Corte risulta significativo: dal comma 1 dell’art. 6 C.e.d.u. è possibile ricavare altri caratteri del processo equo, esso non può che essere un processo adversarial.

Ciò vuol dire che, in un processo penale, tanto l’accusa quanto la difesa devono avere la possibilità di conoscere e interloquire sugli argomenti e sulle prove addotte dall’altra parte. Questo diritto emerge anche sulla base di un ulteriore fondamento: il contraddittorio in senso pieno.

La prospettiva del processo equo si arricchisce di molteplici caratteri generali, mescolando i diversi valori di fondo ad esso sottesi, andando anche al di là del punto in cui trovino diretta esplicitazione nella Convenzione.

1.2. Il potere di integrazione probatoria del giudice.

Il principio di partecipazione al processo attraverso il riconoscimento del diritto alla prova libero, ampio e reciproco, sarebbe incline a ridurre l’iniziativa probatoria del giudice.

Quest’ultima concorre con l’iniziativa delle parti ma quanto più esse addurranno materiali e temi probatori inerenti alle proprie ipotesi ricostruttive, tanto più il raggio d’azione del giudice risulta circoscritto ai temi e ai materiali probatori trascurati dalle parti. In questo contesto, l’esercizio pieno del diritto alla prova dovrebbe contribuire a spostare l’iniziativa del giudice dal piano dell’accertamento a quello della garanzia e del controllo della sua completezza ed effettività26.

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Sotto la vigenza del codice abrogato, questa dinamica non ha mai preso piede, il diritto alla prova era solo un’aspirazione del sistema, sopraffatta dalla sussidiarietà del ruolo delle parti nel procedimento probatorio.

A seguito della riforma, che ha portato al codice del 1988, invece, il diritto alla prova viene in auge parallelamente alla previsione di un contenuto specifico del diritto stesso, all’individuazione di criteri largamente garantiti di ammissione delle prova richiesta dalle parti. Il ruolo delle parti, la polarizzazione delle posizioni processuali, sono insite nella previsione che dichiara l’ammissibilità delle prove a richiesta di parte e che rimette alla legge di stabilire, in via di deroga, i casi in cui esse sono ammesse d’ufficio (art. 190 c.p.p.).

Il caso più importante, per il dibattimento, di potere di integrazione probatoria spettante al giudice, è rappresentato dall’art. 507 comma 1 c.p.p., secondo cui <<terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prove>>.

Nonostante i contrasti a livello interpretativo che configuravano all’iniziativa probatoria ex officio un ruolo e un peso diversi, si è approdati, a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite, ad una posizione stabile.

Secondo un primo orientamento maggiormente restrittivo, si affermava che il giudice non potesse disporre d’ufficio prove che le parti avrebbero potuto richiedere tempestivamente e non avevano richiesto; si aggiungeva poi l’ipotesi delle prove che avrebbero dovuto sopperire alla totale mancanza di iniziativa di parte27.

27 Cass. Pen. Sez. III, 3 Dicembre 1990, Ventura, in Cass. Pen., 1991, II, Ventura, p. 495, con annotazione di M. D’Andria. <<Nel caso in cui venga dichiarata inammissibile la richiesta - nella specie formulata dal p. m. solo nel dibattimento - di ammissione della prova testimoniale per omesso deposito della lista dei testi, ai sensi dell’art. 468 c.p.p., il giudice non può disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova, prevista dall'art. 507 stesso codice, poiché il relativo potere, di carattere eccezionale, è esercitabile solo al termine

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Secondo un indirizzo intermedio, il potere di integrazione probatoria, attribuito al giudice ex art. 507 c.p.p., non è vincolato da preclusioni o decadenze ma non può supplire alla totale inerzia delle parti, essendo esercitabile a condizione che qualche prova sia stata acquisita28. Infine, secondo un orientamento estensivo, il potere di

assunzione di nuove prove non è sottoposto ad alcun vincolo, a condizione, però, che vi sia l'assoluta necessità di acquisire la nuova prova29. Per porre fine al contrasto giurisprudenziale, sono

intervenute la Sezioni Unite che, accogliendo l'interpretazione maggiormente estensiva, hanno affermato il principio secondo cui il potere istruttorio del giudice dibattimentale può essere esercitato anche in rapporto a prove non tempestivamente dedotte dalle parti e anche quando sia mancata ogni altra acquisizione probatoria30. La

posizione della Corte si dimostra forte soprattutto in relazione all’impianto interpretativo a sostegno delle conclusioni formulate entro un sistema che risulta guidato dall’iniziativa probatoria di

della acquisizione delle prove richieste dalle parti e non quando nessuna prova sia stata richiesta nei termini di cui all'art. 468 cit.>>

28 Cass. Pen., sez. II, 23 ottobre 1991, in Mass. Cass. Pen., 1992 fascicolo 1, p. 12. <<Il potere del giudice di disporre anche di ufficio nuovi mezzi di prova non richiesti dalle parti è previsto, con carattere di eccezionalità (art. 507 c. p.p.) ove sia assolutamente necessario per integrare l'istruzione dibattimentale che, in relazione al potere dispositivo delle parti, potrebbe risultare incompleta e causare difficoltà al momento della valutazione della prova; ne consegue che l'intervento del giudice non può supplire alla totale inerzia delle parti, ma è esercitabile solo quando i temi proposti dalle stesse parti abbiano avuto riscontro in alcuni elementi probatori, che possono essere sia orali sia reali o documentali>>.

29 Cass. Pen., Sez. II, 10 Ottobre 1991, Paoloni, in Cass. Pen., 1992, p. 258. <<Nel caso in cui venga dichiarata inammissibile la richiesta formulata dal P.M. nell'istruttoria dibattimentale di ammissione della prova testimoniale per omesso deposito della lista dei testi, ai sensi dell'art. 468 nuovo cod. proc. pen., il giudice può disporre a norma dell'art. 507 stesso codice, l'assunzione di nuovi mezzi di prova purché siano assolutamente necessari per il perseguimento della finalità del processo penale, che è quella di pervenire alla verità e trarne le conseguenze, anche se tali mezzi di prova siano stati anteriormente ritenuti inammissibili o ininfluenti.>>

30 Cass. Pen. Sez. unite, 6 novembre 1992, in Cass. Pen., 1993, p. 280. <<Il giudice in base all'art. 507 c.p.p., qualora risulti assolutamente necessario, può assumere anche prove che le parti avrebbero potuto chiedere nel termine stabilito dall'art. 468 dello stesso codice e non hanno richiesto. >>

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parte. Le pronunce della Consulta hanno connotato i poteri istruttori del giudice in un’ottica di residualità, tali da sopravvenire solo in una fase n cui sia terminata l’assunzione delle prove richieste dalle parti o indicate dal giudice, laddove i nuovi mezzi di prova appaiono <<assolutamente necessari>>. Il giudice dibattimentale dunque è chiamato a svolgere una funzione di integrazione probatoria solo in relazione alle risultanze emerse e consacrate nello svolgimento dell’istruttoria dibattimentale. Proprio per questo, il potere integrativo di cui si parla deve collocarsi a conclusione della fase di formazione della prova, dovuta all’iniziativa dialettica delle parti e condotta sotto il costante controllo e l’indispensabile contraddittorio delle medesime davanti al giudice. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, la limitazione dei poteri del giudice ex art. 507 si porrebbe in contrasto con "la ricerca della verità", considerato il fine primario ed ineludibile del processo penale . Inoltre, prosegue la Consulta, «sarebbe contraddittorio, da un lato, garantire l'effettiva obbligatorietà dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione; e dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire analoghe condotte nella parte pubblica. L'attribuzione di tale potere ha, anzi, un fondamento maggiore, perché i principi di legalità ed uguaglianza esigono che il giudice sia messo in grado di porre rimedio anche alle negligenze ed inerzie del difensore».

Dunque, considerando il contesto e i limiti del potere giudiziale ex art. 507 c.p.p., il giudice partecipa alla dinamica probatoria da una posizione di garanzia dell’accertamento destinata ad operare in via di

extrema ratio e che non superi i confini di sistema a condizione che,

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correlazione e l’effettivo andamento impresso dalle loro iniziative all’istruzione dibattimentale.

La regola dell’iniziativa probatoria di parte si pone, inoltre, a presidio di un’altra esigenza: l’imparzialità del giudice.

In questo modo il diritto alla prova viene ad assumere la connotazione di condizione indispensabile alla concretizzazione della regola delle modalità di accertamento, il mezzo privilegiato della conoscenza processuale.

1.3. Ampiezza e autonomia del diritto alla prova.

In un processo basato su un sistema probatorio ad iniziativa di parte si ha la necessità che la parità delle parti si trasformi in parità delle armi.

Il giudice, per mantenere una posizione di equidistanza dalle parti, non dispone più di un regolare potere probatorio d’ufficio; le parti quindi devono mantenere in maniera salda il loro equilibrio.

Esso si traduce in una gamma di poteri la cui effettività va calcolata anche attraverso il grado di libertà e di tutela dell’attività di ricerca e raccolta delle fonti di prova di cui avvalersi nel processo.

La previsione di criteri di ammissione della prova chiaramente destinati ad accogliere il disegno avanzato dalle parti indica l’ampiezza del diritto alla prova, le reciproche facoltà delle parti, finalizzate alla ricerca e alla raccolta di fonti di prova individuano i contorni dell’effettiva autonomia entro i quali tale diritto può costruire le sue premesse.

Questi due parametri, ampiezza e autonomia del diritto alla prova, individuano altrettante esigenze: l’ampiezza individua il nucleo del diritto alla prova anche laddove convivano iniziativa di parte e impulso d’ufficio, l’autonomia invece esprime l’esigenza strumentale

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