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Il New Public Management e la libertà di scelta A partire dalle riforme del Servizio sanitario italiano e inglese

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE

Dottorato in Teoria e ricerca educativa e sociale

Sezione di Servizio sociale

Ciclo XXVIII

Il

New Public Management

e la libertà

di scelta

A partire dalle riforme del Servizio sanitario

italiano e inglese

TUTOR

Prof. Vittorio Cotesta

DOTTORANDA

Manuela Mariotti

COORDINATORE

(2)
(3)

3

Indice

Introduzione

9

I

Vie di uscita dalla crisi: il New Public Management

17

1.1 Breve storia delle politiche di solidarietà

17

1.1.1. I modelli di welfare state

22

1.1.2. Crisi del welfare ed exit strategy

26

1.2 Il New Public Management nel dibattito internazionale

32

1.2.1. Una trasformazione radicale e guidata dall’alto

41

1.3 Le origini teoriche del NPM

43

1.3.1. Bentham, individualismo metodologico e teoria della scelta

pubblica

44

1.3.2. Hayek, libertà e pianificazione

48

1.3.3. Nozick, libertà e stato minimo

52

1.3.4. Friedman, libertà di scelta

55

II Libertà di scelta

59

2.1 I classici

60

2.1.1. Thomas Hobbes e John Locke

60

2.1.2. Jean-Jacques Rousseau

63

2.1.3. Immanuel Kant

66

2.1.4. Georg Wilhelm Friedrich Hegel

68

(4)

4

2.1.6. Benjamin Constant

74

2.1.7. Alexis de Tocqueville

77

2.1.8. John Stuart Mill

80

2.1.9. Karl Marx

82

2.2 I contemporanei

85

2.2.1. John Rawls

85

2.2.2. Amartya Sen

88

2.2.3. Jürgen Habermas

91

III I sistemi sanitari inglese e italiano

96

3.1 La storia del Servizio sanitario inglese

97

3.1.1. Le origini

97

3.1.2. Il National Health Service

99

3.2 Le trasformazioni recenti

104

3.2.1. Il “quasi mercato della Thatcher

104

3.2.2. Le riforme del New Labour

106

3.2.3. L’ “Abdication Act” di Cameron

113

3.3 La storia del Servizio sanitario italiano

118

3.3.1. Le origini

118

3.3.2. L’istituzione del Servizio sanitario nazionale

122

3.4 I cambiamenti recenti

126

3.4.1. L’aziendalizzazione del 1992-93

126

3.4.2. La “riforma Bindi” del 1999

129

3.4.3. La riforma del Titolo V della Costituzione e i provvedimenti

successivi

134

3.4.4. I modelli sanitari regionali: un breve quadro di riferimento

136

(5)

5

IV Libertà di scelta e criticità nelle riforme dei sistemi sanitari

139

4.1 Elementi di comparabilità tra il sistema sanitario inglese e italiano

140

4.2 Una precisazione: la libertà di scelta nei sistemi sanitari 145

4.3 Il database del Cocops

148

4.3.1. Il database sulla sanità in Italia e in Inghilterra: evidenze e

criticità

150

4.3.2. Gli studi sulla libertà di scelta nel database del Cocops 161

4.4 Altri studi sulla libertà di scelta

166

V Crisi del capitalismo e mercato della salute

184

5.1 Il capitalismo contemporaneo

185

5.1.1.

Stuart Hall, un’interpretazione a partire da Gramsci

185

5.1.2. David Harvey, la crisi della modernità

189

5.1.3. Ulrich Beck, il rischio

194

5.1.4. Thomas Piketty, disuguaglianza e ricchezza

197

5.1.5. Colin Crouch, keynesismo privatizzato

202

5.2. Il mercato della salute

207

5.2.1. Il mercato della salute in Inghilterra

207

5.2.2. Il mercato della salute in Italia

215

VI Riflessioni conclusive

227

6.1 La cittadinanza sociale: Thomas H. Marshall e Antony Giddens

230

6.2 Claus Offe, welfare e solidarietà

235

6.3 Gøsta Esping-Andersen, welfare come demercificazione

239

6.4 L’avvento del regno della libertà o la fine del welfare state? 248

(6)
(7)

7

“The availability of good medical care tends to vary inversely with the need for the population served. This inverse care law operates more completely where medical care is most exposed to market forces, and less so where such exposure is reduced. The market distribution of medical care is a primitive and historically outdated social form, and any return to it would further exaggerate the maldistribution of medical resources.”

(8)

8

Il

New Public Management

e la libertà

di scelta

A partire dalle riforme del Servizio sanitario

italiano e inglese

(9)

9

Introduzione

L’analisi del New Public Management come modalità di risposta alla crisi finanziaria e di legittimazione che i sistemi di welfare europei conoscono negli anni Novanta e poi come quadro orientativo della ricalibratura delle odierne politiche sociali costituisce l’oggetto del lavoro svolto in questi anni. La ricerca ha coinvolto i concreti percorsi di riforma; i discorsi - intesi sia come proclami politici che come riferimenti teorici - che ne hanno definito priorità e scopi e i risultati attesi e non. Tra questi tre elementi sono emerse molte incongruenze, alcune comuni a più paesi e altre nelle quali è riconoscibile l’influenza delle storie nazionali. Più in generale, esse possono essere attribuite sia a difficoltà nell’applicabilità di soluzioni di mercato ai beni pubblici che a manifeste incapacità dell’attore pubblico che, infine, alla presenza di interessi non esplicitamente dichiarati. Si può allora ipotizzare che i cambiamenti posti in essere, pur nascendo da un’oggettiva necessità di rispondere a nuovi bisogni sociali e di superare alcune sclerosi dei sistemi di sicurezza sociale, si propongano anche di ridisegnare equilibri economici e politici. Vi sarebbe cioè su alcune questioni uno scollamento tra le ragioni ufficiali offerte al dibattito pubblico e i movimenti sotterranei che indirizzano le scelte.

I moderni sistemi di welfare hanno origine negli ultimi decenni dell’Ottocento e il loro percorso di sviluppo è segnato da lunghe lotte e difficili compromessi. Nella loro odierna configurazione, in particolare, sono il prodotto delle politiche di solidarietà che nei Trent’anni gloriosi giungono alla piena realizzazione di quella che Marshall ha definito la “cittadinanza sociale”. Tra gli anni Quaranta e i primi anni Settanta del Novecento, quando alla congiuntura economica positiva corrisponde una fase di “espansione” dei sistemi di sicurezza sociale e i

(10)

10

diritti sociali divengono un elemento imprescindibile delle democrazie moderne, le società occidentali definiscono, infatti, modelli di stato sociale nei quali la maggior parte dei cittadini beneficia un’ampia protezione. La crisi dei primi anni Settanta, che interrompe il ciclo economico espansivo e determina un periodo di stagflazione, si traduce però anche in una crisi del welfare, che farà sentire i suoi effetti determinando quella che nella letteratura di settore è stata definita come una fase di “rallentamento” (Borzaga, Fazzi) o “ricalibratura” (Ferrera). Negli anni successivi, quindi, il convergere di fattori economici, sociali ed endogeni, cioè relativi all’organizzazione stessa delle politiche sociali, rende ineludibile l’esigenza di una riconfigurazione complessiva dei sistemi di sicurezza sociale in termini funzionali, distributivi e normativi (Ferrera).

E’ in questa fase di riconfigurazione delle politiche sociali che il New Public

Management emerge come una delle risposte, o meglio, come la risposta

egemonica - seppure condizionata dai contesti nazionali e al di là della speranza diffusa in alcuni ambienti in una trasformazione partecipativa e democratica del

welfare – alla crisi. Tale affermazione si realizza dapprima e principalmente nel

Regno Unito, negli Usa, in Nuova Zelanda e in Australia, ma successivamente si estende anche negli altri paesi occidentali soprattutto grazie all’influenza che le agenzie di consulenza hanno ormai sui governi, a istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse e alla forte pressione delle grandi multinazionali. L’esito di questo processo è che nel dibattito pubblico stato sociale e managerialismo sono oggi concetti sempre più spesso associati.

Questo lavoro è costruito attorno a tre linee direttrici e la prima è costituita proprio dal New Public Management, considerato, appunto, quale principale indirizzo di riforma delle politiche di solidarietà dalla fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. L’analisi del fenomeno, sia nella sua configurazione teorica sia nelle sue manifestazioni pratiche, ha da subito evidenziato nella libertà di scelta uno dei suoi temi più ricorrenti, tale da poter essere utilizzato come elemento chiave per una lettura critica dello stesso, delle motivazioni che hanno determinato il successo e dei limiti di una teoria che sembra porsi in contrasto con i fondamenti stessi del “modello sociale europeo”.

(11)

11

La seconda linea direttrice, dunque, è rappresentata dalla libertà di scelta, in nome della quale sono state portate avanti riforme che si muovono nella direzione di un’apertura dei sistemi di welfare al libero mercato, dell’introduzione di logiche di management aziendale, di privatizzazione, di separazione tra committenti e fornitori dei servizi pubblici, di decentramento, di esternalizzazione, di misurazione delle performance e di incentivazione per il personale. Il senso di questa operazione diviene più comprensibile se si considera che il concetto di libertà rappresenta un terreno particolarmente fecondo e si offre come un luogo di osservazione privilegiato per comprendere queste trasformazioni, ma anche e soprattutto perché consente di allargare lo sguardo sulle conseguenze, intenzionali o meno, delle riforme. La libertà, infatti, ha da sempre costituito un elemento determinante nella definizione non solo dei sistemi di sicurezza sociale, ma più in generale del “contratto sociale” che regola i rapporti tra i cittadini e lo stato. La declinazione del concetto di libertà utilizzata dai riformatori rappresenta solo uno dei tanti possibili significati che lo stesso può assumere, la cui scelta evidentemente non può essere considerata casuale o irrilevante.

Le possibilità di indagine di questo lavoro non lasciavano, però, spazio sufficiente per un’analisi approfondita dell’intero ambito delle politiche sociali e si è preferito lavorare su un aspetto specifico, cioè sulle politiche sanitarie, che risultano particolarmente interessanti ai nostri fini. Da un lato, infatti, i sistemi sanitari sono oggetto di numerosi interventi da parte del legislatore, poiché rappresentano una voce molto importante di spesa nel bilancio pubblico, che come tale ha visto una crescente attenzione da parte delle imprese. Dall’altro, essi hanno caratteristiche specifiche riassumibili nella rilevante asimmetria informativa che connota queste prestazioni e che rende quanto meno problematico ipotizzare processi decisionali veramente autonomi da parte dei pazienti. Si è deciso, inoltre, di occuparsi delle politiche sanitarie nel Regno Unito e in Italia, in quanto nazioni con una storia particolarmente significativa a questo riguardo. La Gran Bretagna perché, come è noto, il National Health

Service inglese è il precursore dei moderni sistemi universalistici ed è il primo ad

(12)

12

parte, un percorso parallelo a quello britannico. La terza linea direttrice della ricerca è allora costituita da due casi di studio: le riforme dei sistemi sanitari in Italia e nel Regno Unito.

Nel primo capitolo viene, dapprima, riscostruito il contesto storico, sociale e politico nel quale il neo managerialismo trova la sua diffusione con riferimento alla storia del welfare e alla sua crisi, conseguente ai problemi economici dei primi anni Settanta. Viene poi illustrato lo stato dell’arte del dibattito sulla crisi del welfare, sulle possibili exit strategy e soprattutto sul neo managerialismo al fine di delinearne identità e caratteristiche. La letteratura sul NPM si divide tra coloro che lo considerano semplicemente come un “set di strumenti”; coloro che lo ritengono una vera e propria teoria - la “via neoliberista alla governance”1 - e

chi, invece, ne nega l’esistenza. Segue una ricostruzione delle basi teoriche del NPM che si trovano fondamentalmente nell’individualismo metodologico, nella teoria della scelta razionale, nella Public Choice Theory – i cui autori di riferimento sono Buchanan e Tullock – nei neoaustriaci come F. Von Hayek e nei libertari come R. Nozick e M. Friedman, nel corso della quale si rende evidente la centralità che riveste il tema della libertà di scelta. La rappresentazione dell’idea di libertà presente in questi autori è, però, molto discutibile e discussa nella storia del pensiero.

La ricerca prosegue, dunque, nel secondo capitolo con un’analisi del pensiero politico moderno e contemporaneo su questo tema in teorici come Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, Burke, Constant, Marx, Rawls, Sen e Habermas, il cui contributo consiste nel mostrare non solo le molte possibili sfumature del concetto di libertà, ma anche i diversi rapporti tra stato e mercato, il sistema di diritti e l’idea stessa di cittadinanza che a partire da queste prendono forma. La riforma del welfare e dei sistemi sanitari, attraverso un’apertura ai meccanismi di mercato, infatti, si muove al confine di una delle grandi questioni della scienza politica, quella dell’antinomia o della possibile composizione tra le istanze della libertà e dell’uguaglianza.

Il terzo capitolo riscostruisce le origini e la storia del National Health Service inglese, uno dei primi sistemi universalistici, gratuiti e basati sulla fiscalità

(13)

13

generale, del Servizio sanitario nazionale italiano e delle recenti riforme della sanità. Viene chiarito quanto le trasformazioni avviate nel Regno Unito dalla Thatcher prima - con il tentativo di realizzare un “quasi mercato”, separando committenti e fornitori delle prestazioni - dal governo neo labourista poi - più orientato a meccanismi di coordinamento, con sistemi di valutazione della performance e di pagamento sulla base dei risultati – e, infine, da Cameron – con quello che è stato definito “Abdication Act ” – abbiano modificato quello che per lungo tempo ha rappresentato il modello di riferimento dei sistemi di welfare in Europa. Il Servizio sanitario nazionale italiano, nato nel 1978 sul modello Beveridge, inizia a essere trasformato in senso neo managerialiste tra il 1992 e il 1993, quando, ad esempio, le Unità sanitarie locali diventano Aziende sanitarie locali con un direttore generale; poi con la legge Bindi del 1999 si passa dalla competizione, seppure amministrata, alla cooperazione e, infine, con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 la salute diviene un ambito a legislazione concorrente. La configurazione attuale del SSN italiano è quella di un sistema frammentato e disomogeneo con rilevanti disparità regionali.

Dunque, in seguito alle riforme realizzate, un cittadino inglese ha la possibilità di scegliere il medico di base su tutto il territorio nazionale e qualsiasi fornitore pubblico o privato per le cure ordinarie. Un paziente italiano può decidere il medico di base, il pediatra e tra vari fornitori all’interno della propria regione, sulla base della legislazione locale e in ogni caso può utilizzare i servizi sanitari forniti da aziende pubbliche o private accreditate, disponibili su tutto il territorio italiano.

Nel quarto capitolo, vengono presentati i punti di convergenza e di divergenza nelle riforme italiane e inglesi e negli esiti delle stesse, considerando anche le diverse caratteristiche della struttura amministrativa dei due stati. Viene prima brevemente analizzato da un punto di vista teorico il concetto di scelta in ambito sanitario e le premesse sulle quali si fonda, cioè che i consumatori siano completamente informati e che i beni e i servizi siano omogenei e intercambiabili. Si procede, poi, all’analisi della letteratura

(14)

14

secondaria sulla base del database messo a disposizione dal COCOPS2 e di altri

studi. Gli obiettivi sono quello di sottoporre a verifica la tesi che stabilisce una correlazione positiva tra NPM e scelta dei pazienti, per cui l’introduzione nella sanità elementi di mercato e della gestione d’impresa dovrebbe rendere i cittadini più liberi, e di analizzare l’impatto della libertà di scelta sull’efficienza, sull’efficacia e sull’equità. In generale, nei documenti esaminati il tema della libertà appare del tutto secondario, mentre vengono segnalate manipolazioni, burocratizzazione, centralizzazione, riduzione della qualità e una tendenza al restringimento dello spazio dei diritti garantiti, sia dei pazienti che degli operatori. Tra le criticità è particolarmente rilevante un fenomeno di “selezione al contrario”, così accade che i cittadini, che dovrebbero essere “liberi di scegliere”, sono invece scelti dagli operatori. Si conferma, inoltre, l’incidenza del problema delle asimmetrie informative - la mortalità e l’incidenza delle malattie variano tra le classi sociali anche in relazione all’istruzione – e, per quanto riguarda l’Italia, di una mobilità interna quasi “forzata”.

Nel quinto capitolo, la ricerca viene ricondotta sul piano teorico per comprendere se l’incongruenza tra “teoria e prassi” che emerge, è una conseguenza inaspettata e dovuta all’incapacità dei governi o se, invece, è strutturale e voluta. Si fa riferimento ad autori come S. Hall, D. Harvey, U. Beck, T. Piketty e C. Crouch le cui riflessioni sulle trasformazioni politiche, sociali, economiche e culturali illuminano ulteriori aspetti del NPM, o meglio del contesto nel quale si sviluppa. Si cerca poi di confermare le ipotesi formulate nella prima parte del capitolo, analizzando il mercato della salute in Inghilterra e in Italia e in particolar modo i soggetti privati che vi operano, gli ambiti loro riservati, il modo in cui agiscono, le relazioni che stabiliscono con l’attore pubblico e la qualità dei servizi che offrono. La presenza di aziende che operano in modo quasi monopolistico e l’instaurarsi di legami ambigui e talvolta illeciti con l’attore pubblico conferma la rilevanza che hanno avuto nelle trasformazioni avvenute gli interessi delle multinazionali piuttosto che i bisogni, veri o presunti, dei pazienti.

2

Il COCOPS o Coordinating for Cohesion in the Public Sector of the Future è un consorzio di ricerca sul management pubblico, finanziato dalla Commissione Europea.

(15)

15

Il capitolo conclusivo, infine, è occasione di riflessione sulle conseguenze che le riforme impongono alla società in generale e ai singoli, perché modificare le politiche sociali può voler dire cambiare il nostro modo di vivere insieme e di esistere come comunità. Viene chiarito il ruolo del welfare state nella sua accezione “classica” nei moderni stati democratici, riconducendolo al concetto di cittadinanza sociale di Thomas H. Marshall e all’idea che esso rappresenti uno strumento di “demercificazione” (Esping-Andersen), cioè di liberazione degli individui dalla dipendenza dal mercato, e di istituzionalizzazione della solidarietà (Offe). Lo stato, dunque, come produttore di beni pubblici, esiste solo se si ha una nozione condivisa di “comunità di interessi non rivali”3, di identità,

cioè l’essere pubblico di un bene non è una qualità in sé, ma dipende dalla percezione che se ne ha. La crisi del welfare di cui il NPM è un evidente segnale, senza esserne la causa, non può essere spiegata solo come il risultato dell’attacco da parte di élite politiche, ma questo stesso attacco è reso possibile da un cambiamento strutturale, dal venir meno della solidarietà, intesa come ciò che “solidifica un gruppo umano”4. Il rischio per la società è di cadere nell’“anomia”,

nella disgregazione delle comunità nazionali; mentre dal punto di vista del singolo è di trovarsi solo di fronte a problematiche complesse, di dover trovare come sostiene Ulrich Beck “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”. Il NPM potrebbe contribuire a rendere i soggetti sempre più passivi e disorientati di fronte a una possibilità di scelta che diviene un’ingiunzione, di trasformarli in simmeliani uomini blasé. D’altro canto, se riconosciamo come valida l’ipotesi di Herbert Simon che attribuisce solo una forma di razionalità limitata agli esseri umani, non possiamo non riconsiderare l’importanza delle istituzioni nel semplificare e sostenere i processi decisionali, rispetto alle difficoltà che incontrano i soggetti nelle scelte meramente individuali.

Beck, in un articolo apparso nel 20115 su La Repubblica, sintetizza il bivio di

fronte al quale si trova l’Europa come la scelta tra Hegel e C. Schmitt, cioè tra la possibilità che la crisi economica contemporanea costituisca un’“antitesi”, che si rovescia in una sintesi di livello superiore, un’“astuzia della ragione” per

3 C. Offe, Democracy against the welfare state?, in Political Theory, Vol. 15, No. 4 (Nov., 1987), p. 521. 4

A. Supiot, Grandeur et misère de l'État social, Paris, Fayard, Collège de France, coll. « Leçons inaugurales du Collège de France », 2013, p. 8.

(16)

16

condurci a uno stadio ulteriore di sviluppo; oppure invece che essa si trasformi in uno “stato di eccezione” permanente, governato dal binomio amico-nemico.

La riforma dello stato sociale e dei sistemi di sanità ci pone, mutatis mutandis, di fronte allo stesso dilemma: può essere occasione per introdurre logiche di partecipazione e di democrazia “dal basso”, ricostruendo così legami sociali indeboliti oppure ristabilire l’antica separazione tra cittadini-pazienti meritevoli e non meritevoli. E’ innegabile, cioè, che le politiche sociali necessitino di una qualche “ristrutturazione”, ma nel realizzarla la storia e la cultura del welfare dovrebbero essere considerate “non un peso di cui liberarsi, ma una risorsa”6.

(17)

17

I

Vie di uscita dalla crisi: il New Public Management

Questa ricerca si propone di analizzare le riforme dei sistemi di sicurezza sociale, in particolare in ambito sanitario in Italia e in Inghilterra, ascrivibili al

New Public Management. A tale scopo, nel primo capitolo, si cercherà di illustrare

lo stato dell’arte della letteratura contemporanea sul neo managerialismo al fine di delinearne una sorta di “statuto epistemologico” e individuarne limiti e caratteristiche. Verrà, inoltre, presentata una ricostruzione del contesto storico, sociologico e politico, nel quale il neo managerialismo trova la sua diffusione e soprattutto della sua genesi teorica - nel corso della quale si renderà evidente la centralità che riveste il tema della libertà di scelta.

1.1. Breve storia delle politiche di solidarietà

Esistono da sempre forme di politica sociale, sin dall’antica Roma, ma i moderni sistemi di welfare hanno i loro antecedenti in modalità di previdenza legate dapprima alle gilde e alle corporazioni, poi evolutesi su base territoriale con le società di mutuo soccorso; nel dovere di tutela di origine feudale da parte del datore di lavoro, decisamente ridimensionato dopo la Rivoluzione francese e, infine, nelle responsabilità di pubblica assistenza che gli stati nazione iniziano

(18)

18

assumere tra il 1500 e il 1600, affiancate, però, da programmi di repressione e di controllo sociale. In Inghilterra, infatti, tra il 1576 e il 1601 vengono emanate le

Old Poor Laws allo scopo di limitare il fenomeno del vagabondaggio attraverso

un sistema di case di lavoro, ospizi e case di correzione per coloro che erano abili o meno al lavoro o che non volevano lavorare. Il modello inglese è paradigmatico dell’intervento di, più o meno, tutti gli stati europei in tema di assistenza ai poveri, ma dalla metà del 1700 l’approccio dell’attore pubblico nel vecchio continente cambia e aumentano i trasferimenti monetari alle famiglie che sostituiscono la pratica dell’istituzionalizzazione. Anche l’Inghilterra partecipa del nuovo corso, che qui prende il nome di Speenhamland system e che ha termine ben prima degli altri paesi, nel 1834, con il Poor Law Amendament

Act, che rende illegali i trasferimenti di denaro. E’ in questo momento che le

strategie nazionali iniziano a divergere. L’assistenza pubblica inglese, infatti, è caratterizzata, rispetto all’Europa continentale, da un maggiore centralismo, dall’opposizione alle erogazioni monetarie alle famiglie e dal “custodialismo”. Questa differenza è attribuibile alla debolezza della classe dei proprietari terrieri rispetto agli industriali, alla crisi della famiglia tradizionale allargata, dell’associazionismo religioso e di categoria. Le famiglie inglesi vengono, infatti, duramente messe alla prova dalle enclosures e dal diffondersi del lavoro femminile.

Per quanto riguarda le prime società di mutuo soccorso o le friendly societies, esse nascono in Gran Bretagna a metà del Settecento e assistono soprattutto operai e contadini. Le stesse arriveranno in Italia, dapprima in Piemonte e Lombardia, nel 1848 e avranno carattere laico e borghese, ma soprattutto si faranno portatrici di un nuovo orientamento nei confronti dell’esclusione sociale, costituendosi come “società dove il soccorso era un diritto e dove la povertà e la marginalità non erano una colpa, ma una situazione dalla quale emanciparsi.”7 Le friendly societies inglesi, dopo aver vissuto una fase declinante,

hanno grande sviluppo nella seconda metà dell’800, ma a differenza di altri paesi, in particolare della Germania, sono piuttosto frammentate, poco

7

A. Salfi, F. Tarozzi (a cura di), Dalle società di mutuo soccorso alle conquiste del welfare state, Ediesse, Roma 2014, p. 43. Le società offrivano “non beneficenza, ma mutua assistenza, reciproco aiuto specie nei momenti difficili della disoccupazione, delle malattie, della vecchiaia”, ivi, p.52.

(19)

19

organizzate, impiegano personale per la maggior parte volontario e hanno carattere completamente privato. L’intervento pubblico in Gran Bretagna8,

dunque, è piuttosto marginale alla fine del XIX secolo, ma diviene preponderante e anche più egualitario a partire dalla legislazione sull’assicurazione sanitaria obbligatoria del 19119.

In generale, in Europa, il passaggio da un sistema di interventi “occasionali, residuali e discrezionali”10 a uno più strutturato e standardizzato avviene a

partire dalla prima metà del 1800, con l’introduzione in Belgio della prima assicurazione obbligatoria contro la malattia, invalidità, la vecchiaia e la morte per i marinai e successivamente in Austria e Prussia con le stesse forme assicurative per i minatori. E’ la Germania di Bismarck la prima a istituire assicurazioni obbligatorie a carattere generale – nel 1883 contro le malattie, nel 1884 contro gli infortuni e nel 1889 contro la vecchiaia e l’invalidità - che riguardano ormai non solo alcune categorie professionali, ma un numero ben più ampio di lavoratori e che vedono per la prima volta il contributo economico obbligatorio dei datori di lavoro. Il modello bismarckiano, visto il carattere peculiare e tardivo dell’industrializzazione tedesca, assume un carattere autoritario e paternalistico11. Il Cancelliere si trova a dover mediare, in chiave

anti socialista, tra gli interessi delle classi conservatrici e quelli delle associazioni degli operai, allo scopo di integrare questi ultimi all’interno dell’ordine sociale precostituito12. Le assicurazioni sociali si diffondono poi in

tutta Europa e alla Germania, infatti, fa seguito l’Austria nel 1887 con l’assicurazione contro gli infortuni e l’anno successivo con quella contro le malattie; la Norvegia introduce forme assicurative contro gli infortuni nel 1894, la Finlandia nel 1895 e l’Italia nel 1898. Gli schemi assicurativi contro gli infortuni sono i primi a essere istituiti perché la questione assume notevole rilevanza a seguito della seconda rivoluzione industriale, ma soprattutto perché sono più facilmente accettabili sia dai socialisti che dai liberali, mentre l’assicurazione contro la disoccupazione – istituita in Inghilterra nel 1911, poi in

8

Per questa ricostruzione vedasi M. Paci, Pubblico e privato nei moderni sistemi di Welfare, Liguori editori, Napoli 1989, p. 50-59.

9 La questione delle assicurazioni sanitarie obbligatorie verrà approfondita nel terzo capitolo. 10

M. Ferrera, Le politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, Il Mulino, Bologna 2012, p.23.

11

S. Rizza, Welfare e democrazia, Franco Angeli, Milano 2009, p.23.

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20

Italia nel 1919 e in Austria nel 1920 -“rappresentò una rottura radicale con la tradizione liberale e conservatrice, che aveva sempre considerato la disoccupazione come risultato di incapacità individuali e non come un rischio sociale prodotto dai meccanismi della società stessa o del mercato.”13 In

generale, gli schemi assicurativi offrono una modalità di controllo sociale “dall’alto” rispetto al nascente movimento operaio e alle sue rivendicazioni, presentandosi come una risposta alle nuove esigenze, richieste e rischi che l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la dissoluzione delle comunità tradizionali pongono.

Le conseguenze della Prima Guerra Mondiale, la Grande Crisi, il secondo dopo guerra, la crescita dei partiti di massa e l’introduzione di forme di suffragio universale rendono più pressante la richiesta di uno Stato “interventista” e regolatore dei processi economici. Così negli anni Trenta e Quaranta del ’900 assistiamo a un ampliamento dei sistemi di welfare, sia rispetto al numero dei soggetti inclusi, che non sono più solo i lavoratori, ma anche i disoccupati e i loro familiari, sia con riguardo alla varietà delle prestazioni offerte. Avviene in questi anni il passaggio dalla fase “sperimentale” a quella di “consolidamento”, nel momento in cui le politiche di solidarietà sociale ottengono il sostegno di gran parte della popolazione e non più solo delle élite, proprio perché ritenute elemento imprescindibile delle democrazie moderne14 e si passa a interventi di

tipo preventivo e inclusivo, piuttosto che “reattivo”15. E’ in questo contesto che

Roosevelt dà vita al sistema previdenziale americano, il Social Security e, soprattutto viene presentato nel 1942, in Gran Bretagna, il piano Beveridge, considerato

“il massimo esempio di programma di sviluppo sociale nazionalizzato mai redatto nei paesi avanzati e […] il presupposto culturale e politico dell’intero sviluppo degli stati sociali nel corso degli anni cinquanta e sessanta”16.

13 M. Ferrera, Le politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, op. cit. p. 24. 14

C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, FrancoAngeli, Milano 2005, p.62.

15

Ivi, p. 65.

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21

Tale piano era orientato da principi di universalità e di gratuità e da quella che Marshall definirà “cittadinanza sociale”, l’idea cioè che i servizi sociali costituiscano un diritto degli individui, che di lì a poco verrà accolta anche nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani dell’Onu del 1948. Il National Health

Service inglese instituito nel 1948, sulla base del modello Beveridge, infatti,

prevede l’assistenza sanitaria universale, pubblica, gratuita e finanziata dalla fiscalità generale. Il piano Beveridge e il NHS saranno oggetto di ulteriori approfondimenti nei capitoli successivi.

Gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 costituiscono la “fase di espansione”17

dei sistemi di sicurezza sociale, grazie al boom economico, infatti, aumentano imposizioni fiscali e spesa sociale e si moltiplicano le prestazioni di welfare. Se, in un primo momento, la richiesta di ampliamento delle coperture assicurative proviene essenzialmente dai partiti di sinistra, in seguito si assiste a una sorta di “de-politicizzazione”18, come conseguenza della sempre più accesa competizione

elettorale, che trasforma la “questione sociale” in un elemento attorno al quale costruire il consenso. In un primo momento, tra gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, i governi cercano fondamentalmente di porre rimedio alla frammentazione dei sistemi di welfare esistenti, estendendo le prestazioni, il cui importo, però, rimane piuttosto misero, mentre la vera e propria “esplosione” degli schemi assicurativi si ha a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Negli anni Settanta e Ottanta, invece, la maggior parte dei cittadini europei ormai beneficia di piani di sicurezza sociale, per finanziare i quali, però, gli stati, nell’impossibilità di accrescere ulteriormente il prelievo fiscale, sono costretti a ricorrere a consistenti forme di indebitamento, trovandosi in una spirale per la quale il costo degli interessi non fa altro che accrescere il debito. Continuano a sussistere, nonostante l’espansione delle prestazioni pubbliche, forme familistiche, private e private sociali di assistenza, ma lo stato viene sempre più riconosciuto non come un semplice attore sociale tra gli altri, ma come il garante e il principale - in alcuni casi unico - fornitore dei servizi di welfare.

17

Ivi, p. 65.

(22)

22

1.1.1.

Modelli di welfare state

Nei diversi paesi si sedimentano, nel tempo, diverse modalità di gestione e organizzazione delle politiche di solidarietà e i primi studi comparativi su questo tema si hanno tra gli anni Cinquanta e Sessanta con R. Titmuss. La variabile chiave nell’analisi di Titmuss che consente la differenziazione è il grado di copertura, cioè il numero di soggetti che beneficiano o che sono esclusi dalle prestazioni - il chi19 - e, infatti, è proprio su questa linea che si evolvono

inizialmente gli schemi di assicurazione sociale. Titmuss distingue tre modelli, quello residuale o public assistance model; quello meritocratico-occupazionale o

industrial achievement performance model e, infine, quello

istituzionale-redistributivo o istitutional redistributive model. Nel primo schema, lo stato ha un ruolo secondario e marginale e agisce in modo discrezionale, perché si limita a intervenire a posteriori, cioè solo quando il mercato o la famiglia non riescono più a rispondere alle necessità degli individui che si trovano in condizioni particolarmente difficili. Nel secondo schema, la sicurezza sociale è garantita ai lavoratori da uno stato che integra eventuali mancanze del mercato del lavoro con un mandato correttivo. Il terzo modello è universalistico e prevede prestazioni per tutti i cittadini, in nome del “principio del puro bisogno”.20 In

realtà, più che di tre tipologie, secondo Titmuss, si tratta diverse fasi di un percorso evolutivo, in cui il modello redistributivo rappresenta il punto di arrivo e il momento più alto.

Negli anni Novanta un rinnovato interesse per gli studi comparativi in materia di welfare e, in particolare, per le modalità di erogazione dei servizi e la loro dimensione – il quanto e il come 21- vede affermarsi la modellizzazione del

sociologo danese G. Esping-Andersen, secondo la quale, invece, i differenti schemi di welfare vengono distinti sulla base della capacità di promuovere o meno l’indipendenza degli individui dal mercato del lavoro - la demercificazione - e di rendere meno vincolanti le distinzioni di classe – cioè la destratificazione22.

19

“La scelta del chi includere nei nuovi schemi pubblici di protezione è stata storicamente preliminare e assai più controversa rispetto alla decisione in merito a quanto e come proteggere”. M. Ferrera, Le

politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, op. cit. p.38 20

Ivi, p. 126.

21

Ivi, p.38.

(23)

23

Egli propone tre modelli, liberale, conservatore-corporativo e socialdemocratico e, come è evidente nella denominazione stessa, tra i fattori determinanti ci sono la classe politica e l’organizzazione del potere. Così, ad esempio, nei paesi socialdemocratici c’è stata una più forte mobilitazione della classe operaia che si è trovata ad affrontare una borghesia più debole, rispetto a nazioni definite corporative, dove, invece, borghesi e operai sono stati costretti a molti compromessi23. Nello stato sociale liberale – cioè principalmente negli Stati

Uniti, in Gran Bretagna e in Australia - le prestazioni offerte sono piuttosto modeste e le assicurazioni coprono solo una parte limitata della popolazione, selezionata con la “prova dei mezzi”, mentre il mercato

“è visto come il vero strumento di emancipazione dalle ingiustizie, dalle disuguaglianze di classe e dai privilegi protezionistici costruiti dalle autorità politiche. Lo stato incoraggia il mercato sia passivamente (assicurando prestazioni minime) sia attivamente (sussidiando interventi privati) […].”24

In questo caso la demercificazione e la destratificazione sono a un livello piuttosto basso.

Il modello corporativo-conservatore – cui appartengono la Germania, la Francia, l’Austria e i Paesi Bassi - il cui precedente può essere considerato il sistema di assicurazioni di Bismarck, è organizzato attorno alle posizioni lavorative dei cittadini e ha pertanto un approccio scarsamente redistributivo e disomogeneo, in cui lo stato ha un ruolo sussidiario, cioè interviene nei casi in cui la famiglia, che è, invece, centrale, o le associazioni di categoria falliscono. Qui la demercificazione è considerata media e la destratificazione è medio-bassa. Gli stati socialdemocratici come la Svezia, la Danimarca, la Finlandia e la Norvegia, offrono una copertura universalistica, prestazioni generose e con un livello qualitativamente alto e a fronte di una spesa sociale elevata. In questi paesi l’attore pubblico relega in un ruolo secondario il mercato e la famiglia e, pertanto, la demercificazione e la destratificazione sono alte.25

23

M. Paci, Pubblico e privato nei moderni sistemi di Welfare, op. cit. p.129.

24

C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, op. cit. p.127

(24)

24

Alle classificazioni di Titmuss ed Esping-Andersen, alcuni studiosi italiani26

hanno ritenuto opportuno aggiungere una quarta tipologia - cui afferisce l’Europa meridionale, ovvero l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo - cioè il modello meritocratico-particolaristico che presenterebbe due varianti una di tipo corporativo e un’altra clientelare27. I paesi mediterranei-clientelari

avrebbero, inizialmente, seguito un percorso assimilabile a quello bismarckiano per poi allontanarsi realizzando un sistema di welfare “dualistico e polarizzato”28, nel quale alcuni, i cosiddetti insider – dipendenti pubblici e

impiegati in grandi imprese – beneficiano di prestazioni di livello e generose, mentre gli outsider - coloro che hanno posizioni lavorative più deboli – hanno a disposizione forme di protezione piuttosto basse. La famiglia conserva un ruolo di primo piano e le politiche sociali sono considerate particolaristiche, sia rispetto alle prestazioni, spesso, appunto, erogate sulla base di scelte clientelari, sia con riferimento al finanziamento delle stesse, che ammette forme di evasione contributiva piuttosto diffuse29. Dunque, in questi paesi, la destratificazione è

bassa, mentre la demercificazione è alta per alcune categorie e bassa per altre. Esping-Andersen è stato criticato, inoltre, perché nel definire i diversi regimi

“non ha considerato l’offerta e la conformazione dei servizi sanitari nella sua caratterizzazione dei tre regimi. Ma non è difficile comprendere come la presenza di un servizio sanitario nazionale possa esercitare effetti importanti sia di demercificazione che di destratificazione, rispetto ai sistemi frammentati di mutue occupazionali prima vigenti nell’Europa meridionale e a tutt’oggi caratteristiche dei regimi conservatori-corporativi.” 30

In effetti, la Gran Bretagna prima delle riforme della Thatcher, nella quale, cioè, il National Health Service offre una copertura universale, può essere inscritta nel modello liberale solo operando una forte semplificazione. Il sistema mediterraneo è stato classificato anche come “modello delle solidarietà familiari

26

In particolare U. Ascoli, M. Paci e M. Ferrera. Cfr. F. Villa, Lezioni di politica sociale, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 50-52.

27 “«Welfare meritocratico-particolaristico», che si realizza in due varianti: una prima variante di tipo

«corporativo» […] ; una variante di tipo clientelare, in cui i processi di legittimazione politica passano attraverso una dipendenza «clientelare» dei cittadini dai partiti ed attraverso l’incentivazione dell’assistenza da parte dello Stato.” Ivi, p. 52

28

M. Ferrera, Le politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, op. cit. p. 41.

29

C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, op. cit. p. 131.

(25)

25

e parentali”31, in considerazione della presenza di un paradigma familiare che è

deviante rispetto a quello classico del male breadwinner e che, invece, fa riferimento a relazioni intergenerazionali e parentali più estese e più forti. Le politiche sociali e fiscali, ma anche i meccanismi normativi, nei paesi del sud dell’Europa, sarebbero, dunque, state costruite su questa base, o meglio, paradossalmente, lasciando alle famiglie il ruolo di “ammortizzatore sociale”32,

senza, però, affiancarle con politiche di sostegno o significativi trasferimenti monetari.

Sempre nell’ambito del dibattito italiano, M. Paci ha recuperato il concetto gramsciano di egemonia come strumento di analisi dei diversi percorsi evolutivi dei sistemi di welfare europei. Egli ritiene, con Gramsci, che affinché una classe possa prevalere su un’altra non sia sufficiente esercitare semplicemente una qualche forma di dominio, ma è necessaria, appunto l’egemonia, intesa come

“una compiuta capacità di direzione che dipende dal realizzarsi di un complesso sistema di relazioni e mediazioni sociali, prima ancora che politiche. Ricorrendo a tale concetto, dunque, è possibile sottolineare come l’assunzione di determinati obbiettivi […] dipenda, insieme, dalla posizione di forza delle classi dirigenti e dalla loro capacità di accogliere e selezionare le esigenze e gli orientamenti diffusi nella società civile.”33

In Europa, dunque, si sono confrontati due “progetti di integrazione sociale”, quello del movimento operaio e dei socialisti e quello dei liberali e saranno proprio questi ultimi a imporre la propria egemonia sui processi di costruzione delle politiche sociali, con l’eccezione dei paesi scandinavi. In Germania, infatti, si afferma il progetto conservatore di Bismarck contro il movimento operaio, ma dovendo, comunque, scendere a compromessi con quest’ultimo. In Inghilterra, fino agli anni Quaranta del XX secolo, i liberali e le compagnie di assicurazioni private, dapprima, hanno la meglio sulle friendly societies e, poi, egemonizzano la costruzione dello stato sociale attraverso l’impostazione beveridgiana del “minimo vitale”, anche se la realizzazione dello stesso spetterà ai labouristi che otterranno importanti miglioramenti. In Italia, dopo un primo momento nel

31 M. Naldini, Le politiche sociali e la famiglia nei Paesi mediterranei. Prospettive di analisi comparata, in Stato e Mercato, n.64, aprile 2002.

32

M. Ferrera, Le politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, op. cit. p. 41.

(26)

26

quale la componente più avanzata della classe dirigente cerca modalità di collaborazione con le associazioni, queste vengono marginalizzate e, infine, durante il fascismo, soppresse.34 In generale, in molti paesi europei, i partiti e i

movimenti di sinistra si trovarono inseriti in una sorta di percorso obbligato in una direzione particolaristica e corporativa, senza avere la capacità e la forza di elaborare proposte alternative. In Svezia e nei paesi scandinavi, invece, il movimento operaio evita di rinchiudersi in una “strategia del ghetto” e riesce a realizzare alleanze che rendono possibile un’evoluzione dei sistemi di sicurezza sociale in senso universalistico35.

1.1.2.

Crisi del welfare ed exit strategy

La storiografia tradizionale data a partire dagli anni Settanta, e in particolare dal 1973, anno dello shock petrolifero, la crisi del welfare. In realtà è più corretto parlare di “rallentamento”36 rispetto alla precedente fase espansiva e

collocarlo negli anni Novanta, nel periodo in cui il fenomeno della globalizzazione e della internazionalizzazione di mercati e capitali acquista sempre maggiore evidenza. M. Ferrera ha definito la fase delle riforme come “ricalibratura”37, termine che rimanda a una posizione neutrale che si mantiene

distante da giudizi di valore, e ne ha attribuito le cause a una serie di vincoli esterni e interni che, a loro volta, orientano le scelte dei riformatori. I cambiamenti, secondo Ferrera, possono intervenire a un livello funzionale, cioè riguardare i diversi ambiti del welfare – “ricalibratura funzionale” –; al livello della distribuzione, ovvero sulle categorie dei beneficiari delle prestazioni – “ricalibratura distributiva” – e, infine, sulle norme e sui valori in modo da orientare positivamente l’opinione pubblica rispetto alle riforme – “ricalibratura normativa”38. Altri hanno parlato di una “«deriva decrementale», che opera per

«sottrazione»”, riferendosi all’incapacità degli stati europei di mettere in atto una vera e propria azione riformatrice, sostenuta da un ripensamento

34

Ivi, p. 132-133.

35 Ivi, p. 134-135. 36

C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, op. cit. p.72

37

M. Ferrera, Le politiche sociali: l'Italia in prospettiva comparata, op. cit. p..30.

(27)

27

complessivo del quadro delle politiche sociali39. Lo stato sociale, infatti, non

viene distrutto, ma, piuttosto, riformato in alcuni aspetti marginali, al di là della volontà dei singoli governi che in alcuni casi si proponevano trasformazioni più radicali. I servizi offerti alla classe media, infatti, non vengono per lo più intaccati. In realtà si crea una sorta di iato tra la condizione economica congiunturale e le richieste di servizi avanzate dalla popolazione. Non solo l’aumento dei prezzi del petrolio, ma anche il venir meno della convertibilità oro-dollaro e la fine del regime di cambi fissi contribuiscono a determinare un periodo caratterizzato dalla “stagflazione”, ovvero dall’aumento diffuso dell’inflazione e da una riduzione dei tassi di crescita economica. D’altro canto accadono importanti cambiamenti demografici che minano l’equilibrio generazionale. L’invecchiamento della popolazione e la diminuzione dei tassi di natalità, infatti, fanno crescere vertiginosamente la spesa pensionistica, riducono la percentuale di popolazione attiva e accrescono la domanda di prestazioni, come effetto anche del disgregarsi delle famiglie tradizionali e quindi del venir meno della capacità di cura delle stesse. La disoccupazione, inoltre, ridottasi fortemente negli anni del secondo dopo guerra, torna a crescere in modo significativo e, soprattutto, assume sempre più i connotati di un fenomeno di lunga durata, determinando la richiesta di nuovi sussidi e forme di tutela. Le disuguaglianze sociali, la distanza tra quella parte della popolazione mondiale che si trova in condizioni di povertà e coloro, invece, che sono benestanti, progressivamente si fanno più evidenti, ma emergono anche nuove forme di impoverimento, che domandano misure di protezione. La cosiddetta “globalizzazione” induce gli stati a una gara per attrarre i capitali attraverso la riduzione dei tassi di interesse, del costo del lavoro, della spesa pubblica. Gli stessi meccanismi di protezione sociale generano, secondo molti, le cosiddette “trappole del welfare”, ovvero inefficienze come lo “scivolamento distributivo”, cioè lo spostamento da un approccio redistributivo ad uno distributivo, dovuto al crescere della classe media e a ragioni di consenso elettorale; “la forza inerziale degli impegni assunti”, cioè la difficoltà dei governi di annullare impegni precedentemente presi; “le trappole della dipendenza”, ovvero il

(28)

28

pericolo di un adattamento passivo da parte dei cittadini e una riduzione dell’autonomia nella ricerca di soluzioni alle difficoltà; “le trappole della povertà”, cioè la cristallizzazione di situazioni di bisogno e di esclusione sociale e “l’espansione della sfera pubblica e i fallimenti dei programmi statali”, il rischio, cioè, che una eccessiva dilatazione degli interventi dello stato ne renda difficile la gestione e la critica a questi stessi di essere eccessivamente burocratici, standardizzati e di non prevedere forme di autodeterminazione dei beneficiari.40

A partire dagli anni Ottanta, poi, la possibilità di partecipare, in qualità di erogatori, all’offerta dei servizi sociali, viene allargata al terzo settore e ai privati e lo Stato assume un ruolo “regolatore e facilitatore dell’azione di altri soggetti”41 e ci si avvia, infine, verso un modello di welfare mix.

Le trasformazioni della pubblica amministrazione e l’interpretazione, gli esiti e le possibili risposte alla crisi divengono, in questi anni, oggetto dell’attenzione di un pubblico internazionale, fatto di accademici, tecnici, politici, consulenti e manager di grandi aziende. Nel panorama internazionale A. O. Hirschman considera la crisi del welfare come una conseguenza della defezione dei cittadini nei confronti di un sistema inefficiente42. Il “cittadino-consumatore” può, infatti,

a suo avviso, agire in termini di exit o di voice, cioè di “defezione” o di “protesta” sulla base della sua soddisfazione o meno rispetto alla partecipazione alla vita pubblica. Egli risponde, dunque, alla tesi sulla strategia del free rider di M. Olson43 e all’idea che non possono esistere comportamenti altruistici,

sostenendo che, in realtà, gli individui, nella ricerca del proprio benessere, oscillano tra un movimento di allontanamento e di avvicinamento dalla sfera pubblica e precisando che l’agire collettivo è di per sé gratificante44. Nel primo

caso – exit- se gli individui si ritirano nel privato, prevale il mercato, mentre nella seconda ipotesi – voice - si impongono modalità di azioni collettive.

“Definirò voce un qualsiasi tentativo di cambiare, invece che eludere, uno stato di cose riprovevole, sia sollecitando individualmente o collettivamente il management direttamente

40

C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, op. cit. p..171-177.

41 Ivi, p. 77.

42 M. Paci, Pubblico e privato nei moderni sistemi di Welfare, op. cit. p.18-19. 43

La scelta, cioè, di lasciar pagare agli altri i costi dei benefici che si ottengono, utilizzandoli gratuitamente.

(29)

29

responsabile, sia appellandosi a una autorità superiore […], sia mediante vari tipi di azione e di proteste, comprese quelle intese a mobilitare l’opinione pubblica.”45

I due atteggiamenti sono interrelati e inversamente proporzionali, perché tanto maggiore è la difficoltà di uscire, tanto più si diffondono atteggiamenti di protesta.

Esping-Andersen, invece, ritiene che “è nel nesso tra uguaglianza e pieno impiego che l’essenza della crisi deve essere trovata”46 o, detto in altro modo, nel

venir meno del paradigma keynesiano che teneva insieme benessere sociale e crescita economica. Infatti, i problemi del welfare sono dovuti sia al malfunzionamento del mercato del lavoro, sia all’incapacità dei sistemi di sicurezza sociale di proteggere i cittadini dai nuovi rischi e di dare risposte ai nuovi bisogni. Se, da un lato, la globalizzazione ha spostato la competizione del mercato del lavoro su un piano globale, dall’altro la tradizione, le istituzioni, gli interessi nazionali plasmano tuttora le strategie di uscita dalla crisi dei diversi stati47. Egli identifica, anche in questo caso, tre modelli di risposta ai

cambiamenti nella struttura della famiglia, dell’occupazione e del ciclo di vita 48,

“la via scandinava”, quella “neo – liberista” e quella della “riduzione del lavoro”. I paesi scandinavi hanno affrontato il problema della disoccupazione, inizialmente, espandendo il settore del pubblico impiego49 fino a quando, però, la

diminuzione dei tassi di produttività e degli investimenti privati ha reso difficilmente sostenibile la pressione fiscale che tutto questo comportava. Nel Nord Europa, allora, sono state introdotte misure di workfare, di formazione continua, ma anche di decentramento e privatizzazione, senza, però, sostiene Esping-Andersen, arrivare a vere e proprie trasformazioni radicali e mantenendo un approccio di “investimento sociale”50. La strategia neoliberista,

invece, ha prodotto un cambiamento ben più radicale – reso possibile anche

45

Cit. in G. Pasquino, Hirschman politologo (per necessità e virtù), in Moneta e credito, vol 67 n.266, 2014, p. 174.

46 G. Esping-Andersen, After the Golden Age? Welfare State Dilemmas in a Global Economy, in Welfare States in Transition, Sage Publications, London 1996, p. 1.

47

Ivi, p.3-6.

48 Ivi, p. 6-7. 49

I paesi scandinavi sono riusciti, così, a consentire l’ingresso nel mondo del lavoro di molte donne, ma anche determinando una sorta di ghettizzazione dell’occupazione femminile.

(30)

30

dall’indebolimento delle forze sindacali - soprattutto in nazioni come la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda, che erano state le prime a realizzare sistemi universalistici. In questi paesi, ma anche in Australia, Usa e Canada, seppure con modalità differenti, è evidente un significativo aumento delle diseguaglianze e della povertà in gran parte dovuto alla deregolamentazione e riduzione dei salari soprattutto per i lavoratori meno qualificati e per i giovani. Esping-Andersen definisce come “riduzione del lavoro” la scelta delle nazioni dell’Europa continentale di rispondere alla crisi principalmente con i pensionamenti anticipati, ampliando, così, il divario tra insider e outsider e mantenendo lo squilibrio tra “assicurazioni sociali altamente sviluppate” e “servizi sociali sottosviluppati”51. Il welfare continentale conserva l’approccio

familistico costruito attorno al modello del male breadwinner, che rimane la figura più tutelata rispetto alle donne e ai giovani. Le politiche sociali, soprattutto nelle nazioni dell’Europa continentale, si trovano in una sorta di “impasse”, in uno stato di “congelamento” perché incapaci di realizzare il compromesso tra uguaglianza e occupazione o tra uguaglianza ed efficienza. Esping-Andersen sostiene, infine, che

“Parte della crisi del welfare state di oggi può essere semplicemente una questione di pressione finanziaria e crescente disoccupazione. In parte, è chiaramente correlata anche a bisogni meno tangibili di nuove forme di integrazione sociale, solidarietà e cittadinanza. Il mercato può infatti essere un meccanismo efficiente di allocazione, ma non di costruzione di solidarietà […]Ma, non dobbiamo dimenticare che l’unica logica credibile dietro l’efficienza economica è che produca benessere. L’idea di cittadinanza sociale può perciò estendersi anche nel ventunesimo secolo.”52

Nel dibattito italiano, Ardigò attribuisce la causa della crisi del welfare al “neocorporativismo”, inteso come, appunto, l’ “incorporazione” dei grandi interessi privati all’interno dello spazio pubblico 53 che avrebbe conseguenze

sulla capacità di interscambio tra gli individui e il sistema sociale54. Egli ritiene

51

Ivi, p.18.

52 Ivi, p. 27. 53

F. Villa, Lezioni di politica sociale, op. cit. p. 59. “[…] l’ “incorporazione” è considerata come una cooptazione di questi gruppi nei processi politico-decisionali, mediante forme più o meno larvate di istituzionalizzazione della codecisione stessa.” Ibidem

54

“[…] Ardigò elabora uno schema della crisi che fa riferimento ai nodi della transizione tra mondi vitali e sistema sociale; la crisi viene tematizzata come crisi di transizione, di scambio, tra Sistema sociale ed individui […].” Ivi, p. 61-61.

(31)

31

non praticabile né l’opzione della deregolamentazione neoliberista né una scelta tecnocratica, ma ipotizza che una soluzione ai problemi del welfare che riguardano sia l’ambito economico, politico, sociale e culturale, possa venire da un’apertura - e, nello stesso tempo, una riformulazione in una direzione meno burocratica e più decentrata - dello spazio pubblico al privato sociale. La crisi, infatti, nasce come crisi economica, ma determina poi cambiamenti anche sul piano valoriale, nel momento in cui crollano i presupposti keynesiano-fordisti della riduzione delle forme di integrazione alle sole dimensioni del mercato e dello stato, la fiducia nella crescita illimitata della ricchezza e nella capacità regolativa dei rapporti economici dello stato. La nuova società è incline a valori “postmaterialisti”, in altre parole alla qualità, alla pluridimensionalità, a una razionalità non strumentale, al dono e alla reciprocità. Dunque

“A rimodellare il “Welfare State” dei servizi […] concorrono diverse proposte. La più radicale è quella dello Stato minimo […]. Una terza linea di proposte consiste nella “socializzazione di parti del Welfare” e cioè nella destatalizzazione […] verso modelli di “socializzazione alternativi” che privilegiano il “privato sociale”. 55

Non solo Ardigò, ma anche P. Donati converge sulla necessità di accogliere questa “terza dimensione” nelle politiche sociali e di accompagnarne il riconoscimento. Infatti, a giudizio di Donati, una soluzione ai problemi del welfare può arrivare dalla consapevolezza che i rapporti tra pubblico e privato devono essere organizzati attraverso un’azione che non può essere di totale compenetrazione né di isolamento, ma, piuttosto, di comunicazione e negoziazione tra i soggetti e tra i sottosistemi culturale, economico e politico56.

Tutto ciò consentirebbe un ripensamento dei fini dei sistemi di sicurezza sociale - cioè del benessere sociale, inteso non più come un insieme di standard predeterminati dai governi, ma come attiva responsabilità degli individui – e dei mezzi – favorendo, o meglio rendendo “obbligatoria”, attraverso riforme legislative e istituzionali, la scelta di soluzioni cooperative, pertanto, solidaristiche57. Allo stesso modo, anche autori di appartenenza marxista58 come

55 Ivi, p. 71-72. 56 Ivi, p. 65. 57 Ivi, p. 66-67.

(32)

32

U. Ascoli, manifestano un interesse crescente verso il terzo settore nel momento in cui

“La ricerca di nuovi equilibri e di nuovi strumenti passa ovunque per un superamento del dualismo Stato/Mercato e per una valorizzazione di sfere d’azione sottratte sia ai processi di mercificazione, quantunque strettamente intrecciate, che alla sfera autoritativa pubblica: sfere d’azione imperniate sul volontariato, sull’altruismo, sulla reciprocità, sulla solidarietà, sulla «produzione» non mercificata di relazionalità e socialità.”59

La crisi degli schemi di welfare tradizionali rende possibile una forte crescita del privato sociale in tutti i paesi occidentali, il quale assume, però, dimensioni e funzioni diverse e, in particolare, negli Usa - dove viene asservito a progetti di ridefinizione del welfare in ambiti sempre più residuali60- e in Europa – dove,

invece, il pubblico continua a costituire il punto di riferimento dei sistemi di sicurezza sociale, seppure con una differenziazione nei vari stati. Così, ad esempio, nei paesi scandinavi il privato sociale entra a far parte di un sistema il cui obiettivo rimane, nonostante la crisi, la realizzazione dei diritti sociali, mentre nei paesi continentali rappresenta una scoperta – o meglio, una riscoperta - recente, che potrebbe assumere i contorni ambigui di “una strumentalizzazione del Terzo Settore per coprire la «ritirata» del pubblico e l’«americanizzazione» del sistema”.61

1.2. Il New Public Management nel dibattito internazionale

In generale, nell’analisi dei processi riformatori, possiamo individuare due macro tendenze, la prima negli anni ’50 e la seconda negli anni ’70. Verso la

58 “Tra quanti si occupano di sicurezza sociale e di solidarietà , si registra una certa convergenza, tra la

scuola cattolica (Ardigò, Donati) e la scuola neomarxista Paci, Ascoli). […] Tale convergenza riguarda proprio la rivalutazione delle autonomie sociali in sede di analisi storica e sociologica: la scuola neomarxista rivaluta, e non solo come fatto storico, le diverse esperienze di solidarietà (mutue, cooperative, associazioni varie) di ispirazione laica e socialista; la scuola cattolica il variegato mondo della solidarietà cristiana e cattolica.” V. Cotesta, Comunitarismo, utilitarismo e federalismo, in E. Bartocci (a cura di), Le incerte prospettive dello stato sociale, Donzelli, Roma 1996, p. 143.

59 U. Ascoli, Il welfare futuro, Carrocci, Roma 1999, p. 14. 60

“Negli stati Uniti il terzo settore viene utilizzato ideologicamente e concretamente per smantellare il welfare state”. Ivi, p. 15.

(33)

33

metà del secolo scorso, infatti, il tema della riforma della pubblica amministrazione era considerato una questione legale e tecnica e non politica o economica62, che riguardava uno specifico settore e un determinato stato, perché

strettamente connessa con la costituzione e le leggi nazionali. Non vi era, pertanto, dibattito internazionale, né ricerca accademica comparativa, né interesse alcuno da parte delle “multinazionali della consulenza”. La seconda macro tendenza, invece, si sviluppa a seguito della crisi dei primi anni ’70, di cui si è parlato, e vede la questione sociale divenire oggetto di un interesse diffuso e non essere più relegata a un ambito tecnico-specialistico e nazionalistico. Il New

Public Management emerge, appunto, in questa fase come una delle risposte – o

meglio, quella prevalente, seppure condizionata dai contesti nazionali e al di là della speranza in una trasformazione partecipativa e democratica del welfare – alla crisi. E’ il Regno Unito, sotto la guida della “Lady di ferro”, ad avviare i primi provvedimenti neo manageriali, seguito in parte dagli Usa, dalla Nuova Zelanda e dall’Australia63. Il precursore della nuova tendenza è rapporto del

1983 stilato da Roy Griffith, advisor della Thatcher, ex amministratore della Monsanto e poi di una famosa catena di supermercati64. Negli Stati Uniti, anche

Ronald Regan chiederà alla cosiddetta Commissione Grace uno Studio del settore

privato sul controllo dei costi65, allo scopo di analizzare inefficienze e sprechi dello

stato americano. Nel documento, reso pubblico nel 1984, viene data indicazione al governo americano di effettuare tagli alla spesa pubblica per evitare l’aumento eccessivo del deficit. Negli altri paesi Ocse il NPM arriverà negli anni ’90 come conseguenza dell’importanza assunta dalle agenzie di consulenza e da istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse che nei loro rapporti promuovono un’agenda riformatrice all’insegna del neo managerialismo.66

62

C. Pollit, G. Boukaert, Public Management Reform: A Comparative Analysis - New Public Management, op. cit. p. 5.

63 E’ doveroso ricordare, però, che il primo laboratorio di sperimentazione delle ricette del Washington Consensus è, significativamente, il Cile del dittatore Pinochet.

64

A Pollock, NHS plc, op. cit. p.39.

65 URL : https://en.wikipedia.org/wiki/The_Grace_Commission

66

Alcuni autori ipotizzano una terza fase66, a partire dagli anni ’90, nella quale le nuove parole d’ordine,

partnership, e-governance, joined-up government e trasparenza, sembrano in parte ridimensionare il

ruolo di efficienza ed efficacia, probabilmente perché le precedenti riforme avevano dato vita a molte organizzazioni e agenzie, rendendo più pressante la necessità di trovare forme di coordinamento. Un

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