• Non ci sono risultati.

Controlli igienico sanitari sui prodotti della pesca destinati al territorio della regione Toscana: attività UVAC nel triennio 2014-2016

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Controlli igienico sanitari sui prodotti della pesca destinati al territorio della regione Toscana: attività UVAC nel triennio 2014-2016"

Copied!
131
0
0

Testo completo

(1)

Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Veterinarie

Corso di Laurea Magistrale in Medicina

Veterinaria

Tesi di laurea

Controlli igienico sanitari sui prodotti

della pesca destinati al territorio della

regione Toscana: attività UVAC nel

triennio 2014-2016

Candidato:

Cripezzi Melissa

Relatori:

Prof. Armani Andrea

Dott. Barontini Filippo

(2)

RIASSUNTO

Gli Uffici veterinari per gli adempimenti comunitari (UVAC) sono uffici periferici del Ministero della Salute che mantengono a livello statale la responsabilità dei controlli a destino su prodotti di origine animale, sottoprodotti, animali vivi e loro produzioni a provenienza comunitaria. Lo scopo del presente lavoro è stato quello di effettuare un’analisi descrittiva dell’attività di controllo svolta dall’UVAC Toscana su partite di prodotti ittici di provenienza comunitaria nel triennio 2014-2016, per valutarne le principali non conformità. I dati sono stati estrapolati tramite la consultazione del sistema SINTESI ed elaborati considerando la tipologia di prodotto ittico, il Paese comunitario di provenienza, la distribuzione territoriale per Asl toscane, la tipologia di controlli veterinari disposti dall’UVAC e la tipologia di controlli eseguiti sulle partite stesse. Infine, per le partite sottoposte a controlli, ne è stato valutato l’esito finale e in quelle risultate non conformi, si è analizzata la tipologia di irregolarità e il provvedimento intrapreso a tutela della sicurezza alimentare. Nel triennio considerato le partite sottoposte a controlli veterinari sono state lo 0,65% delle partite totali di prodotti ittici destinate alla Regione Toscana. Queste provenivano prevalentemente da Spagna, Francia e Olanda. Il 3,4% di esse sono risultate non conformi. In particolare, la percentuale più elevata di non conformità è stata riscontrata durante controlli di tipo obbligatori (77%) in seguito ad analisi di laboratorio (73%). La Spagna è il paese comunitario da cui sono arrivate il maggior numero di partite non conformi mentre il pericolo chimico più frequentemente riscontrato è risultato il mercurio. Questi dati attestano l’importanza dell’attività di controllo degli UVAC sul territorio italiano in sinergia con i servizi veterinari delle ASL e gli IZS al fine di assicurare un elevato livello di sicurezza alimentare dei prodotti commercializzati nel nostro paese.

Parole chiave: UVAC, ASL, scambi comunitari, prodotti ittici, controlli sanitari, sicurezza

alimentare

ABSTRACT

The Veterinary offices for compliance with European Union (UVAC) are peripheral offices of the Ministry of Health which maintain the responsibility of destination controls on products of animal origin, animal by-products, alive animals and their EU productions at state level. The purpose of this study was to carry out a descriptive analysis on the control activity performed by the UVAC Toscana on EU fishery products, in the three-year period 2014-2016, to evaluate the main non-conformities. The data have been extracted through the consultation of the SINTESIS system and analysed in the light of the type of seafood, the EU country origin, the final territorial distribution (ASL), the type of UVAC veterinary control and the type of controls made on lots. In the case of those lots subjected to controls the type of non-conformities and the measure to protect the food safety were investigated. Overall, lots subjected to veterinary controls were 0,65% out of the total lots of seafood intended to Tuscany. These mainly came from Spain, France and the Netherlands. 3,4% of these resulted as non-compliant. The highest proportion of non-compliance was observed during mandatory controls (77%) by laboratory analysis (73%). Spain was the country with the highest number of non-compliances; the most of them were related to the presence of mercury. These data attest the relevance of UVAC control activity in Italy together with ASL veterinary activities and IZS in order to reach a high level food of safety of products sold in our country as requested by the European legislation.

(3)

INDICE

RIASSUNTO/ABSTRACT

CAPITOLO 1- IL COMPARTO ITTICO ... 1

1.1. INTRODUZIONE AL COMPARTO ITTICO ... 1

1.2. COMPARTO ITTICO MONDIALE ... 4

1.3. COMPARTO ITTICO COMUNITARIO ... 10

1.4. COMPARTO ITTICO ITALIANO ... 13

CAPITOLO 2- QUALITA’, SICUREZZA E RISCHI NELLA FILIERA ITTICA ... 17

2.1. QUALITA’ DEI PRODOTTI ITTICI ... 17

2.2. LA SICUREZZA ALIMENTARE NEL CONTESTO EUROPEO ... 19

2.3. PERICOLI E RISCHI ... 22

2.4. PERICOLI BIOLOGICI ASSOCIATI AI PRODOTTI DELLA PESCA ... 23

2.4.1. VIRUS ... 23

2.4.2. BATTERI ... 25

2.4.3. BIOTOSSINE MARINE ... 29

2.4.4. ISTAMINA ... 32

2.4.5. PARASSITI ... 35

2.5. RISCHI CHIMICI ASSOCIATI AI PRODOTTI DELLA PESCA ... 41

2.5.1. METALLI PESANTI ... 41 2.5.2. PCB E DIOSSINE ... 44 2.5.3. IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI (IPA) ... 45 2.5.4. ADDITIVI ... 47 CAPITOLO 3- GESTIONE DEL RISCHIO NEI PRODOTTI DELLA PESCA: NORMATIVA DI SETTORE ... 48

3.1. MERCATO UNICO E QUADRO NORMATIVO ... 48

3.2. QUADRO NORMATIVO DEL COMPARTO ITTICO ... 50

3.2.1. NORMATIVA RIGUARDANTE LA CLASSIFICAZIONE DEI PRODOTTI ITTICI ... 50 3.2.2. REQUISITI D’IGIENE PER I PRODOTTI ITTICI ... 51 3.2.3. REGOLAMENTO CE N. 2073/2005 ... 55 3.2.4. REGOLAMENTO CE N. 1881/2006 ... 56 3.2.5. REGOLAMENTO CE N. 1333/2008 ... 57 CAPITOLO 4- AUTORITA’ PREPOSTE AL CONTROLLO UFFICIALE DEI PRODOTTI DELLA PESCA ... 60

4.1. SANITA’ PUBBLICA VETERINARIA (SPV) IN ITALIA ... 60

4.1.1. AUTORITA’ DI CONTROLLO A LIVELLO CENTRALE ... 63

4.1.2. AUTORITA’ DI CONTROLLO A LIVELLO PERIFERICO ... 63

4.1.3. SERVIZI VETERINARI NEI DIPARTIMENTI DI PREVENZIONE ... 67

CAPITOLO 5- UFFICI VETERINARI ADEMPIMENTI COMUNITARI ... 71

5.1. NASCITA E COMPITI DEGLI UVAC ... 71

5.2. LA REGISTRAZIONE PRESSO L’UVAC DEGLI OPERATORI ECONOMICI E LORO ADEMPIMENTI ... 72

(4)

5.4. I CONTROLLI VETERINARI DISPOSTI DALL’UVAC ... 75

5.5. RESPINGIMENTI ... 81

CAPITOLO 6- SCOPO DELLA TESI ... 83

CAPITOLO 7- MATERIALI E METODI ... 84

7.1. PERIODO DI SVOLGIMENTO E RACCOLTA DEI DATI ... 84

7.2. ANALISI ED ELABORAZIONE DEI DATI ... 84

CAPITOLO 8- RISULTATI E DISCUSSIONI ... 86

8.1. FLUSSI DI MERCI COMUNITARIE DESTINATE ALLA REGIONE TOSCANA NEL TRIENNIO 2014-2016 ... 86

8.2. DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA PARTITE PRODOTTI ITTICI ... 91

8.2.1. FLUSSI DELLE PARTITE DI PRODOTTI ITTICI PER PAESE DI PROVENIENZA ... 91 8.2.2. FLUSSI DELLE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI PRODOTTI ITTICI PER PAESE DI PROVENIENZA ... 93 8.2.3. DISTRIBUZIONE TERRITORIALE DELLE PARTITE DI PRODOTTI ITTICI .. 94 8.3. CONTROLLI VETERINARI ... 96 8.3.1. DISTRIBUZIONE DEI CONTROLLI NEL TRIENNIO 2014-2016 ... 96 8.3.2. DISTRIBUZIONE DELLE TIPOLOGIE DI CONTROLLI DISPOSTI DALL’UVAC ... 101 8.3.3. DISTRIBUZIONE PER TIPOLOGIA DI CONTROLLO SULLE PARTITE ... 103 8.4. NON CONFORMITA’ ... 104 8.4.1. TIPOLOGIE DI NON CONFORMITA’ ... 106 8.4.2. PROVVEDIMENTI INTRAPRESI ... 110 CAPITOLO 9- CONCLUSIONI ... 114 BIBLIOGRAFIA: ... 116 RIFERIMENTI NORMATIVI: ... 124

(5)

CAPITOLO 1- IL COMPARTO ITTICO

1.1. INTRODUZIONE AL COMPARTO ITTICO

Il pesce ha rivestito sin da tempi remoti un importante ruolo nell’alimentazione dell’uomo (Salza et al.,1998); la pesca insieme all’acquacoltura rappresenta infatti una delle attività più antiche e che più facilmente ha permesso l’accesso al cibo e la sopravvivenza del singolo e delle specie.

E’ stato riscontrato come fin dal lontano Paleolitico superiore i prodotti ittici, sia provenienti da fonti costiere che da acque dolci interne, fossero una fonte proteica predominante nella dieta dell’uomo: questo è dimostrato dagli alcuni studi condotti sui fossili di resti ossei umani, attraverso i quali è stato possibile stimare la proporzione di proteine provenienti da fonti acquatiche e terrestri nei 10 anni precedenti alla morte.

L’inclusione nella dieta dei prodotti della pesca segna infatti un punto di svolta nell’evoluzione umana, con il passaggio da uomo arcaico, di Neanderthal, la cui fonte proteica era costituita prevalentemente da carni rosse di lupi, iene e grossi felini e nei resti ossei del quale non sono state trovate tracce di proteine di specie acquatiche marine o di acque dolci, a uomo moderno, del Medio Paleolitico, nei cui resti ossei la presenza di proteine di origine ittica rappresenta invece una costante e un segno caratteristico della sua dieta (Bradbury, 2011).

Rilevante inoltre come l’introduzione di prodotti della pesca nella dieta dell’uomo moderno coincida con lo sviluppo e l’espansione della materia grigia cerebrale (Crawford et al., 2002).

Numerosi riferimenti culturali e tradizioni riguardanti il pesce e la pesca emergono nella storia della civiltà occidentale: dal 2000 a.C. con i Sumeri che mantenevano vivai di pesci commestibili, gli Etruschi e i Romani che allevavano tinche e carpe, ma soprattutto specie marine in vasche, “piscinae”, collegate al mare con una rete di canali artificiali.

(6)

Nell’Italia di fine ottocento, il pesce e la carne erano pressoché inesistenti nella dieta che era invece ricca di legumi e di pane, riflettendo una condizione di scarsa disponibilità alimentare dell’epoca. Con gli anni del boom economico invece migliora lo stato nutrizionale, prodotti alimentari pregiati come il pesce, la carne e il latte diventano accessibili a tutti anche se il consumo di pesce rimane ancora limitato alle popolazioni che vivono lungo le coste.

Bisogna aspettare gli anni novanta per vedere il pesce ampiamente presente nell’alimentazione quotidiana degli italiani (Orban, 2012).

Fig.1.1- Elaborazione INRAN (2011) su dati ISTAT e FAO- Consumi alimentari in

aumento in Italia dal 1861 al 2006; aumento del 50% e più in media per decennio (variazioni percentuali, base kg/anno/pro capite nel 1861-1870). Fonte INRAN,

2011

L’aumentato consumo di pesce in Italia, sia di acqua dolce che marina, verificatesi negli ultimi anni è dovuto a molteplici fattori tra cui i crescenti quantitativi disponibili, l’evoluzione delle tecnologie di pesca, di conservazione e trasformazione, la diffusione di prodotti preparati per un uso più semplice e veloce ma soprattutto una maggiore attenzione da parte del consumatore alle caratteristiche nutrizionali e alla salubrità degli alimenti. Inoltre il cambiamento delle abitudini alimentari, con l’affermarsi della globalizzazione dei consumi in

(7)

ambito gastronomico e soprattutto del consumo di pesce crudo, ha avuto il suo peso in questo incremento.

La consapevolezza dell’importanza dei prodotti ittici nella dieta è aumentata negli Italiani, riconoscendo in essi una fonte di proteine ad elevato valore biologico, sali minerali e vitamine ed una valida alternativa ad altri alimenti proteici di origine animale.

Il pesce, in particolare, si differenzia dagli altri alimenti proteici di origine animale per la sua componente lipidica, caratterizzata da quantità significative di acidi grassi polinsaturi, specie della serie omega-3, in particolare l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA), dei quali i prodotti ittici sono l’unica fonte alimentare significativa (IREALP, 2007).

Nella recente review di Bradbury (2011) viene messo in evidenza come il DHA abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso e nella prevenzione di disordini neuropsichiatrici e neurodegenerativi.

Con la crescente acquisizione dell’importanza nutrizionale delle risorse ittiche si è resa necessaria una gestione più efficace e più responsabile della pesca e la ricerca di un possibile equilibrio tra risorse naturali e il loro utilizzo da parte dell’uomo.

E’ in questo contesto che l’acquacoltura si pone come il tentativo di salvaguardare le risorse biologiche ed ambientali e la possibilità di uno sviluppo economico sostenibile (Cataudella, 2012).

Come giustamente sostiene Cataudella (2012), pesca e acquacoltura, se correttamente pianificate, possono avere effetti sinergici di primaria importanza per accelerare il percorso verso la loro sostenibilità. Attualmente la pesca è un’attività in crisi per il sovra sfruttamento delle risorse ittiche, mentre l’acquacoltura, in quanto attività innovativa, è una forma produttiva in grande espansione: secondo le indicazioni della FAO (2016), il tasso di incremento annuo della pesca sta per annullarsi su scala mondiale e le catture medie riguardanti le risorse marine convenzionali sono prossime al tetto di massimo sfruttamento degli stock.

Sono molte, dunque, le aspettative generate dall’acquacoltura, prima fra tutte la riduzione dello sforzo di pesca, con effetti sostitutivi, nel soddisfare la crescente

(8)

domanda del mercato alimentare. L’acquacoltura ha inoltre permesso un processo di forte specializzazione, destinando tutto il prodotto derivante da questa pratica colturale all’alimentazione umana. Tuttavia tra gli effetti negativi di questa attività è possibile riscontrare il rischio di un inquinamento genetico sulle comunità ittiche autoctone, ad esempio con la fuga di pesci da impianti di acquacoltura, la modifica degli habitat naturali utilizzando delle aree che sono dei tipici pascoli per i giovani di alcune specie ittiche o, a causa di zone di allevamento collocate sulle foci di lagune, l’impossibilità per gli adulti di alcune specie ittiche di poter tornare al mare per riprodursi (Regazzi, 2005).

Non ultime, da citare, anche preoccupazioni di tipo igienico sanitario come la presenza di additivi non dichiarati sul prodotto finale o possibili contaminanti.

1.2. COMPARTO ITTICO MONDIALE

Secondo i dati statistici resi disponibili dalla FAO (2016) la produzione ittica mondiale, comprensiva dell’acquacoltura, è in continua espansione raggiungendo una quota pari a 167,2 milioni di tonnellate nel 2014, sostenuta dall’acquacoltura con 73,8 milioni di tonnellate e dalla produzione da catture con 93,4 milioni di tonnellate. In particolare della produzione del pescato, la quota più significativa è quella derivante dalle acque marine con 81,5 milioni di tonnellate, con la Cina che riveste il ruolo di principale produttore, seguita da Indonesia, Stati Uniti d’America e la Federazione Russa.

(9)

Tabella 1.2 –Produzione ittica mondiale (Fonte FAO, 2016)

Osservando più in dettaglio l’evoluzione delle produzioni totali negli anni precedenti si rileva un andamento crescente con un incremento costante; poco meno dell’87% della produzione mondiale ittica è direttamente utilizzato per il consumo umano, con oltre 146 milioni di tonnellate nel 2014, mentre il restante 13% viene usato per la produzione di farine ed oli di pesce. Della quota di produzione destinata al consumo umano, 67 milioni di tonnellate (il 46%) è sotto forma di pesce vivo, fresco e refrigerato, che in alcuni mercati risulta la forma più richiesta e anche la più costosa, 17 milioni di tonnellate (12%) come prodotti essiccati, salati, affumicati, 19 milioni di tonnellate (13%) come altri prodotti conservati e circa 44 milioni di tonnellate (30%) come prodotti congelati. Il congelamento risulta il principale metodo di lavorazione del pesce destinato al consumo umano, con il 55% del pesce totale trasformato per il consumo umano (FAO, 2016).

Per quanto riguarda il consumo pro capite di pesce a livello mondiale questo è cresciuto da una media di 9,9 kg nel 1960 a 14,4kg nel 1990, 19,7kg nel 2013 e con un nuovo record di 20 kg pro capite nel 2014; hanno contribuito a questa notevole crescita, non solo i crescenti quantitativi disponibili di prodotti ittici, ma anche la riduzione degli sprechi, una migliore valorizzazione degli stessi, i

(10)

canali di distribuzione, la crescente domanda legata alla crescita della popolazione, l’aumento dei redditi e il commercio internazionale che ha consentito scelte alimentari molto più ampie ai consumatori di tutto il mondo. Questa crescita significativa mette inoltre in evidenza il miglioramento delle diete delle persone in tutto il mondo attraverso un cibo diversificato e nutriente (FAO, 2016).

Tabella 1.3 Il mercato mondiale dei prodotti ittici (Fonte FAO, Food Outlook 2016)

La produzione complessiva di pesce è stata prevista in crescita dell’1,8% a 174,1 milioni di tonnellate nel 2016, sostenuta da un’espansione del 5,0% dell’acquacoltura, a 81,4 milioni di tonnellate, e con una riduzione invece dello 0,9% della produzione da catture, a 92,7 milioni di tonnellate (FAO, 2016). La crescita che è stata prevista, secondo il Food Outlook della FAO per il 2016, è ben al di sotto del trend di crescita degli ultimi 10 anni del 2,3%, riflettendo una serie di battute d’arresto che si sono verificate nel settore ittico a causa di malattie e vincoli normativi.

(11)

Controcorrente e superando ogni aspettativa invece la notevole espansione dell’acquacoltura che si conferma la forza motrice della crescita del settore e che compensa la tendenza negativa nella produzione da catture (Food Outlook FAO, 2016). Tale fenomeno va ricercato nel degrado delle acque marine piuttosto diffuso e nella carente tutela degli stock nelle diverse aree mondiali: infatti, l’espansione della flotta peschereccia e l’uso di tecniche di pesca sempre più efficienti hanno determinato una forte pressione sugli stock ittici con un notevole aumento delle catture di pesci, molluschi e crostacei (ISMEA, 2007). L’origine del fenomeno risiede prevalentemente nel così detto overfishing o sovra sfruttamento delle risorse ittiche, con l’eccessivo prelievo dall’ambiente naturale che va a impedire un adeguato ritmo di reclutamento degli stock e la ricostituzione della frazione rimossa con la pesca (Di Trapani, 2008).

Tra i paesi che hanno contribuito maggiormente alla crescita delle produzioni ittiche, figura al primo posto la Cina che sostiene oltre il 60% della produzione mondiale dell’acquacoltura e che nel corso del 2014 ha ricavato 14,8 milioni di tonnellate di pesce proveniente dalla cattura in acque marine; seguono, a notevole distanza in termini di milioni di tonnellate, l’Indonesia (6 milioni di tonnellate), gli Stati Uniti d’America (4,9 milioni di tonnellate e che ha mostrato rispetto al 2013 una contrazione della produzione ittica del 3%), la Federazione Russa (4 milioni di tonnellate, con una contrazione rispetto al 2013 del 2%) e il Giappone (3,6 milioni di tonnellate). E’ interessante evidenziare come tra i 25 principali produttori mondiali di pesce quelli che nel 2014 hanno mostrato un notevole incremento delle loro catture rispetto all’anno precedente sono stati la Cina, l’Indonesia e il Myanmar per l’Asia, la Norvegia per l’Europa e il Cile e il Perù per il Sud America (FAO, 2016); questi paesi hanno presentato inoltre un andamento differenziato per quanto riguarda gli scambi commerciali, con la Norvegia, principale produttore del continente europeo, che ha raggiunto livelli da record nelle esportazioni sia per il merluzzo sia per il salmone e per i salmonidi allevati e la Cina che invece ha subito una drastica diminuzione dei volumi esportati a causa di un rallentamento delle attività nel settore della trasformazione dei prodotti ittici (Villa, 2016). Inoltre India, Indonesia ed Ecuador rappresentano una quota significativa delle forniture internazionali di

(12)

gamberetti nonostante si trovino ad affrontare condizioni di mercato depresso (ISMEA, 2015).

Tabella 1.4 Produzione mondiale di pesce per paese- *Produzione totale

escludendo le catture di acciughe (Engraulis ringens), del Perù e del Cile. (Fonte FAO,

Food Outlook 2016)

Con riferimento alle specie prodotte osserviamo che tra quelle maggiormente pescate nel corso del 2014 figurano, nell’ordine, al primo posto il merluzzo dell’Alaska (Theragra chalcogramma), che per la prima volta dal 1998 supera l’acciuga cilena (Engraulis ringens), che si colloca così al secondo posto, e al terzo posto il tonnetto striato (Katsuwonus pelamis), molto popolare nella cucina giapponese. Tutte e tre le specie nel 2014 hanno superato i 3 milioni di tonnellate, anche se la pesca dell’acciuga cilena ha subito un crollo rispetto a

(13)

pescata al mondo. Le fluttuazioni emerse delle catture di questa specie, operate principalmente nell’area del Pacifico sud-orientale, sono infatti influenzate dalle condizioni meteoclimatiche e meteomarine ed hanno risentito ciclicamente delle conseguenze dell’El Niño, fenomeno che genera un’anomalia termica positiva nelle acque superficiali del Pacifico orientale principalmente nel periodo natalizio (ISMEA, 2007). Seguono ancora la sardina (Sardinella nei), il lanzardo (Scomber japonicus), l’aringa (Clupea harengus) e il tonno pinna gialla (Thunnus albacares) (FAO, 2016). Nella relazione FAO si registra inoltre una pesca record anche per altre quattro importanti categorie nel 2014: tonni, aragoste, gamberi e cefalopodi. Nel periodo preso in esame, le acque marine più pescose del mondo sono state quelle dell’Oceano Pacifico, con particolare riferimento a quelle del nord-ovest, seguite dalle aree del centro-ovest, dall’Atlantico nord orientale e dell’Oceano Indiano orientale; tutte queste aree, fatta eccezione per quella dell’Atlantico nord orientale, hanno mostrato un incremento nelle catture rispetto al decennio precedente (2003-2012) (FAO, 2016), e tra i paesi che ne hanno tratto beneficio figurano la Cina, il Giappone,

la Russia, la Corea fino ad arrivare alle Filippine, il Perù ed il Cile. Il rapporto definisce invece la situazione nel Mediterraneo e nel Mar Morto

come “allarmante”: risulta infatti che nel corso del 2014, il 59% degli stock monitorati sono sottoposti a livelli di pesca biologicamente non sostenibili, soprattutto per specie come il nasello, la triglia, la sogliola e l’orata, e il pescato proviene principalmente dalla Turchia (con oltre il 30% della produzione), a cui seguono l’Italia (con il 15% della produzione), Algeria, Spagna, Tunisia, Grecia ed Ucraina (GFCM, 2016). Da questi riscontri nasce la necessità da parte dell’Europa di garantire la sostenibilità delle sue risorse alieutiche, con una gestione adeguata degli stock per evitare lo sfruttamento eccessivo o l’esaurimento di questa preziosa risorsa: con la nuova politica comune della pesca (PCP) l’UE adotta misure volte a proteggere gli stock e prevede, non più tardi del 2020, che essi siano sfruttati a un livello tale da poter produrre a lungo termine il rendimento massimo sostenibile, il cosi detto maximum sustainable yield, ossia massimizzare le catture senza compromettere la futura produttività degli stock (Unione europea, 2016).

(14)

1.3. COMPARTO ITTICO COMUNITARIO

Con una produzione di circa 6 milioni di tonnellate nel 2013, provenienti sia dalle catture operate dalla flotta comunitaria che dagli impianti di allevamento, l’Unione europea è il quinto produttore mondiale e rappresenta circa il 3,2% della produzione del settore della pesca e dell’acquacoltura, dopo Cina, Indonesia, India e Vietnam.

Tabella 1.5- Principali produttori mondiali 2013 (Fonte Commissione europea, 2016)

Della produzione totale il 20% è sostenuta dall’acquacoltura, con 1,2 milioni di tonnellate, e il restante 80% dalle catture in acque marine con 4,8 milioni di tonnellate, rappresentando il 5% delle catture mondiali totali; tra i paesi che contribuiscono maggiormente a questi volumi figurano la Spagna, Danimarca,

(15)

Regno Unito e la Francia che assieme rappresentano oltre la metà delle catture dell’UE.

Nonostante la flotta europea operi su scala mondiale, queste catture sono principalmente effettuate nell’Atlantico nord orientale (che mantiene il suo primato con 3,6 milioni di tonnellate), nel Mediterraneo e nell’Atlantico centro orientale; con riferimento alle specie catturate dall’Unione europea nel corso del 2013 figurano al primo posto l’aringa (Clupea harengus) con 716 mila tonnellate, seguita dallo sgombro (Scomber scombrus), spratto (Clupea sprattus), sardina (Sardina pilchardus), sugarello (Trachurus trachurus) e tonnetto striato (Katsuwonus pelamis) (EUMOFA, 2016).

Sebbene si sia registrata da diversi anni una diminuzione delle catture, sia nell’Unione europea che nel resto del mondo, si conferma in UE un discreto consumo di pesce: il consumo medio pro capite in Europa ha raggiunto nel 2014 i 25,5 kg, mangiando il cittadino europeo un chilo di pesce in più rispetto al 2013 (EUMOFA, 2016) con variazioni comprese tra i 4,6 kg in Ungheria e i 55,3 kg in Portogallo, anche se questo dato rivela in realtà un trend negativo iniziato dal 2008, quando il consumo di pesce pro capite era di 26 kg (ISMEA, 2007). Il Portogallo ha registrato così nel 2014 il consumo pro capite di prodotti ittici maggiore fra gli stati membri con un ammontare di 30 kg superiore della media UE; ciò nonostante si è registrata una leggera contrazione in quanto il paese è passato da 57,5 kg nel 2001 a 55,3 kg nel 2014.

Il pesce consumato dai cittadini europei rimane principalmente quello catturato nonostante l’aumento registrato dal consumo di prodotti d’allevamento sia stato più sostanziale (+6%) rispetto al consumo di pesce catturato (+2,7%); inoltre per tre categorie quali i salmonidi, i bivalvi e i pesci d’acqua dolce, prevale il consumo di prodotti di allevamento (EUMOFA, 2016).

In particolare il tonno è stato il prodotto più consumato nell’UE nel 2014 con un consumo pro capite di 2,6 kg, seguito dal merluzzo nordico il cui consumo è aumentato in maniera significativa (+22% tra il 2012 e il 2014, con il Regno Unito che ne è stato il principale consumatore); mentre la specie d’allevamento più consumata, e con il valore di produzione più alto, è il salmone che si colloca al terzo posto tra i prodotti ittici più consumati nell’UE. La cozza è il secondo

(16)

prodotto d’allevamento più consumato, seguito da gamberoni e mazzancolle, principalmente d’importazione, mentre negli stati membri che si affacciano sul Mediterraneo sono la spigola e l’orata allevate ad essere consumate in misura maggiore.

Il consumo interno dell’UE è garantito principalmente dalle importazioni, soprattutto per le quattro specie più consumate nella comunità (merluzzo nordico, tonno, salmone e pollack d’Alaska) che sono quasi totalmente

importate da paesi terzi; ciò nonostante risulta comunque che l’UE è in grado di fronteggiare la crescita della domanda, a fronte dell’aumentato consumo, con la propria produzione interna (EUMOFA, 2016). Nel 2015, le importazioni dell’UE di prodotti ittici da paesi terzi hanno raggiunto il picco in valore dell’ultimo decennio con 5,8 milioni di tonnellate (EUROSTAT), mentre le esportazioni verso Paesi terzi sono state di 1,92 milioni di tonnellate, con una contrazione del 11% rispetto al volume registrato l’anno precedente.

(17)

1.4. COMPARTO ITTICO ITALIANO

Secondo i dati statistici resi disponibili dall’Eurostat ed elaborati dalla Commissione europea, nel 2013 sul fronte interno italiano la produzione ittica è ammontata a 172 mila tonnellate per le catture in acque marine (rappresentando circa il 3,5% delle catture totali dell’UE) e a 140 mila tonnellate per l’acquacoltura (circa l’11% del totale europeo). In questo ultimo settore l’Italia si classifica fra i principali paesi produttori europei in termini di volume. Le catture del comparto della pesca marittima hanno interessato in particolar modo specie come l’acciuga (Engraulis encrasicolus), che è risultata la più pescata con 29 mila tonnellate, seguita dalla sardina (Sardina pilchardus), vongola (Venerupis decussata), nasello (Merluccius merluccius) e gambero (Aristaeomorpha foliacea); mentre l’acquacoltura italiana, al contrario della pesca, ha avuto negli ultimi anni un trend positivo ed ha continuato a crescere in termini di volume, soprattutto per specie come la trota, che con 36 mila tonnellate prodotte si conferma la più allevata, cui segue la vongola, che raggiunge invece il picco più alto in termini di valore, e i mitili (Dati Eurostat, 2016).

Tabella 1.7- Principali specie catturate in Italia nel 2013 (volume in tonnellate di peso

(18)

Tabella 1.8- Principali specie di acquacoltura in Italia nel 2013 (volume in tonnellate di

peso vivo e valore in migliaia di euro) (Fonte Eurostat, 2016)

Il settore della pesca italiano sta continuando a mostrare negli ultimi anni la tendenza negativa e le difficoltà che hanno caratterizzato l’ultimo decennio: è sufficiente osservare come nel 2004 le catture della pesca in acque marine avevano raggiunto 288 mila tonnellate, mentre nel 2012 si sono arrestate a solo 195 mila tonnellate (FAO, 2016). Si assiste quindi a un calo del 32% nelle catture. L’occupazione nel settore ittico è sceso del 40%, la redditività delle imprese è diminuita del 31%, mentre i costi della produzione sono aumentati del 53% (Confsal pesca, 2015). Inoltre la consistenza della flotta da pesca italiana è in continua riduzione, con circa 12 mila imbarcazioni adibite a questa attività nel 2015 e solo Sicilia e Puglia che si distinguono per numerosità di battelli. E’ conservata comunque una capacità di flotta peschereccia tra le più elevate negli stati membri dell’UE (EUMOFA, 2016). Tuttavia, la riduzione della capacità delle flotte italiane, è soltanto uno dei tanti fattori che hanno influenzato la contrazione delle catture totali e della produttività: lo stato degli stock del Mediterraneo, i cambiamenti nelle zone di pesca a causa dei maggiori costi di produzione, la diversa composizione delle catture insieme alle nuove restrizioni imposte dal regolamento comunitario n.1967/2006, relativo alle misure di gestione per lo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nel Mar Mediterraneo, hanno contribuito al risultato attuale (FAO, 2015).

Nonostante questo, i consumi interni di prodotti ittici risultano aumentati nel 2014 del 4% rispetto all’anno precedente raggiungendo così una disponibilità pro capite di 28,9 kg (EUMOFA, 2016).

In termini di spesa pro capite in Italia si registra nel 2015 l’importo di 170 euro (EUROSTAT, 2016) confermando il trend positivo registrato anche in tutti gli altri stati membri rispetto al 2014. Con l’aumentata spesa dell’UE per i prodotti

(19)

ittici, verificatesi tra il 2010 e il 2015, si conferma anche la tradizionale abitudine dell’Italia nell’acquisto di questi prodotti che nel 2015 ha registrato oltretutto l’ammontare più alto dal 2010 con 10,3 miliardi di euro (+5%). Attualmente, la spesa per l’acquisto dei prodotti ittici corrisponde a circa un terzo di quella per l’acquisto della carne.

Rilevante inoltre, come nel 2015 l’Italia si è attestata al secondo posto in termini di volume di prodotti ittici freschi, consumati circa 331 mila tonnellate, e al terzo posto in termini di valore con 2,8 miliardi di euro. Le specie più importanti in valore economico sono state l’orata (Sparus aurata), il polpo (Octopus vulgaris), il calamaro (Loligo vulgaris), la spigola (Dicentrarchus labrax) e il merluzzo nordico (Gadus morhua), andando a coprire il 30% del totale, mentre in termini di volume la specie più consumata è stata la cozza (EUMOFA, 2016).

Analizzando dal punto di vista geografico la situazione ittica italiana si evidenzia come la produttività sia ridotta in tutte le aree di pesca anche se con tassi diversi: l’area con cali maggiori per le catture è quella della costa adriatica sia della Puglia, Emilia Romagna che del Veneto, ma anche la Sicilia mostra una riduzione importante a causa della scomparsa della tipica pesca “a travi”, detta anche di “caccia al pesce spada”, nello stretto di Messina (Andaloro F., 2006). Osservando in dettaglio i dati relativi alla produzione regionale, nel 2012 Sicilia e Puglia, con una flotta peschereccia composta rispettivamente da 2.946 e 1.572 battelli, si confermano come le regioni più importanti in termini produttivi e di ricavi: incidono infatti sul tonnellaggio complessivo rispettivamente con il 18,8% e 12,8%, più esattamente con 36,8 tonnellate la Sicilia e 25,2 tonnellate la Puglia. Seguono Marche, Emilia Romagna e Veneto (FAO, 2015). Sui risultati conseguiti da ciascuna regione influiscono la dimensione e la composizione della flotta, la diffusione di alcune tecniche di pesca piuttosto che altre, oltre alla notevole varietà di risorse ittiche presenti nel Mar Mediterraneo (Ismea, 2007).

(20)

Grafico 1.9- Catture e numero di battelli per regioni italiane nel 2012 (catture in

quintali)- Fonte dati FAO, 2015

Nel 2015 il deficit del saldo commerciale (esportazioni meno importazioni) dell’UE è stato il più alto registrato negli ultimi anni e le importazioni extra-UE di prodotti ittici hanno raggiunto il picco in valore dell’ultimo decennio a 22,3 miliardi di euro e un volume di 5,8 milioni di tonnellate: l’UE si conferma quindi un importatore netto di prodotti ittici.

L’Italia si pone in questo contesto tra i paesi membri che maggiormente hanno assorbito queste importazioni, circa 435 mila tonnellate di prodotto per un valore di 1,97 miliardi di euro con aumento del 4% in valore rispetto al 2014. Mentre per quanto riguarda le esportazioni, in un quadro europeo caratterizzato da un calo dei volumi esportati dell’11% rispetto all’anno precedente, l’Italia registra un valore di 135 milioni di euro (in aumento del 6% rispetto al 2014 ma pur sempre decisamente limitato) per un volume di 23 mila tonnellate esportate(-2%) (EUMOFA, 2016).

(21)

CAPITOLO 2- QUALITA’, SICUREZZA E RISCHI NELLA

FILIERA ITTICA

2.1. QUALITA’ DEI PRODOTTI ITTICI

I prodotti della pesca rappresentano una fonte proteica di rilievo nella dieta umana e un’importante percentuale, in rapido incremento, del commercio internazionale di alimenti. E’ importante tener presente che la maggior parte del pesce oggetto di commercio a livello internazionale proviene dai Paesi non industrializzati che spesso non hanno sistemi di controllo degli alimenti ben sviluppati ed hanno un’elevata incidenza di malattie gastroenteriche (Toti, 2005). Oltre a questo è necessario aggiungere che talora in alcuni paesi, compresi quelli industrializzati, i prodotti della pesca destinati sia al mercato interno sia a quello internazionale sono prelevati e trasportati in condizioni igieniche e temperature non adeguate. Risulta pertanto da queste premesse come la qualità, ed in modo particolare quella igienico sanitaria di questi prodotti, già molto delicati e deperibili, sia intaccata e talvolta compromessa. La qualità è definita come la capacità di un dato bene o servizio di soddisfare i bisogni espressi o latenti dei consumatori o dei clienti. Nel caso dei prodotti alimentari, per la soggettività presente nei diversi attori chiamati ad emettere un giudizio sulla rispondenza del prodotto (Belletti G., Marescotti A., 2014) e per la forte sensibilità del consumatore per caratteristiche qualitative come i contenuti nutrizionali o salutistici dell’alimento (Ismea, 2006), la definizione di qualità dei prodotti è sottoposta ad un’elevata variabilità.

Le prime norme di riferimento concernenti la qualità sono state pubblicate nel 1987 dall’International Organization for Standardization (ISO), con la serie delle norme ISO 9000, divenute la base del sistema di gestione della qualità; la definizione di qualità, quale “l’insieme delle caratteristiche di un’entità che ne determinano la capacità di soddisfare le esigenze, espresse e implicite dell’acquirente” (UNI EN ISO 8402-95), pur mantenendosi valida si è oggi giorno adattata ai nuovi scenari e alle nuove esigenze comunitarie, spostando l’attenzione dal prodotto all’insieme dei processi che contribuiscono alla sua

(22)

realizzazione (Mucciolo C., Mucciolo A., 2015). Dalla considerazione della qualità riguardante il solo prodotto, si è arrivati all’applicazione del concetto di qualità totale applicato all’intera filiera produttiva, per garantire al consumatore la sicurezza e la qualità totale del prodotto. Con il realizzarsi del mercato unico europeo la qualità è diventata uno dei principali obiettivi della politica agricola comunitaria, orientando sempre più verso un uso di pratiche ecocompatibili e responsabili (Orban, 2012).

Per il prodotto alimentare ittico gli aspetti fondamentali di qualità, fatto salvo il prerequisito della qualità igienico sanitaria, sono i parametri merceologici, le caratteristiche organolettiche, chimiche e nutrizionali e gli aspetti tecnologici (attitudine alla lavorazione, alla conservazione, alla trasformazione). Tutti questi caratteri dipendono principalmente dalla specie e dall’alimentazione di cui usufruiscono gli animali, dalla qualità dell’acqua e dall’ambiente in cui essi vivono, dal loro stato fisiologico, di benessere e di salute, dalla corretta gestione delle tecnologie e dalla sostenibilità ambientale delle attività di pesca e di acquacoltura, dalle operazioni di cattura e di raccolta e da quelle post raccolta del prodotto ittico, come la selezione, manipolazione, lavorazione e modalità di conservazione.

Altri elementi che contribuiscono alla qualità totale del prodotto ittico sono l’assicurazione della rintracciabilità lungo tutte le fasi del processo produttivo, la corretta informazione al consumatore tramite l’etichettatura del prodotto e la comodità d’uso (Poli, 2012). Per quanto riguarda la valutazione della qualità dei prodotti ittici, questa inizia con l’esame dell’aspetto esteriore prendendo in considerazione caratteri di freschezza come il colore della livrea, del carapace o delle valve ed altri caratteri di interesse commerciale valutati con una serie di misure di lunghezza e di peso.

Il concetto di qualità igienico-sanitaria di un prodotto alimentare si è evoluto nel tempo, passando dall’essere esclusivamente limitato agli aspetti igienici e alle caratteristiche chimiche, fino a estendersi e tener conto dei residui di farmaci e contaminanti ambientali, quali fonti di rischio per la salute umana. La qualità igienico-sanitaria di un alimento è, infatti, data dalla conformità a requisiti d’igiene minimi relativi al contenuto in sostanze di natura chimica, di

(23)

microrganismi e di loro metaboliti; essa è garantita dalla legislazione in materia e da un adeguato sistema di controlli.

Con l’attuazione di un mercato comune europeo e la realizzazione del processo di liberalizzazione degli scambi commerciali intracomunitari, sono divenuti indispensabili dei principi e delle regole che disciplinano e assicurano la qualità dei prodotti e la sicurezza dei consumatori.

La Comunità europea, per superare le diversità delle singole legislazioni nazionali, si è avvalsa del principio del mutuo riconoscimento delle attività di certificazione e prova eseguite nei diversi Paesi ed ha, inizialmente, scelto di adeguare attraverso delle regole tecniche soltanto i requisiti essenziali di qualità dei prodotti, ossia quelli necessari per essere immessi sul mercato e muoversi senza impedimenti all’interno dell’Unione europea.

2.2. LA SICUREZZA ALIMENTARE NEL CONTESTO EUROPEO

La normativa europea in materia di sicurezza alimentare è divenuta sempre più articolata per poter far fronte alle nuove esigenze di sicurezza e protezione della salute del consumatore, messe in evidenza anche dai numerosi scandali alimentari verificatesi in Europa negli ultimi decenni come per esempio la vicenda della BSE (encefalopatia spongiforme bovina, meglio nota come “morbo della mucca pazza”), l’influenza aviaria del 2004, le preoccupazioni in materia di organismi geneticamente modificati, lo scandalo del latte contaminato dalla melamina o le contaminazioni da diossina, solo per citarne alcuni. La percezione del rischio alimentare da parte del consumatore è divenuta sempre più forte, amplificata anche dall’aumentata consapevolezza del ruolo svolto dall’alimentazione sulla salute umana (Belletti G., Marescotti A., 2014).

E’ nel quadro delineato che la Commissione europea pubblica due documenti di notevole peso nel settore della sicurezza alimentare: il “Libro verde” (1997), nel quale si affrontano i principi generali della legislazione in materia alimentare, e il “Libro bianco” (2000), nel quale è data invece una visione sistematica della materia. Il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione europea hanno così realizzato

(24)

una revisione della legislazione comunitaria relativa alla produzione, commercializzazione e controllo degli alimenti, diretta al conseguimento di alcuni obiettivi, tra i quali:

-garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica e della sicurezza dei consumatori;

-garantire la libera circolazione delle merci all’interno del mercato unico; -garantire una legislazione razionale e comprensibile per tutti gli utenti;

-attribuire la responsabilità principale della sicurezza dei prodotti alimentari ai produttori e fornitori.

In particolare, il Libro bianco sulla sicurezza alimentare del 2000, esordisce affermando che “la politica europea degli alimenti deve essere fondata su standard elevati di sicurezza alimentare per tutelare e promuovere la salute dei consumatori”. Il concetto della salute del consumatore è posto in primo piano ed è affrontato tramite una strategia d’intervento volta alla rintracciabilità lungo tutta la filiera; quella che si viene a delineare è così una politica di sicurezza alimentare basata su un approccio integrato e completo ed intesa ad affrontare “from farm to fork” tutti i problemi di sicurezza alimentare che partono dalla produzione primaria e si sviluppano fino alla tavola del consumatore.

La sicurezza è inoltre un prerequisito essenziale della qualità e rappresenta essa stessa lo standard minimo che garantisce l’alimento dal punto di vista igienico sanitario; la rintracciabilità e l’etichettatura sono ulteriori strumenti di sicurezza, fornendo informazioni dettagliate e precise sia agli operatori della filiera sia al consumatore finale (Poli, 2012).

I risultati concreti della revisione della normativa sulla sicurezza alimentare, avviata dalla Commissione europea, sono stati raggiunti con l’emanazione del Reg. (CE) 178/2002.

Il Regolamento CE n.178/2002 (legge quadro in materia di sicurezza alimentare) è stato il primo atto normativo che ha rielaborato l’intero quadro giuridico comunitario, stabilendo i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituendo l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e definendo le procedure nell’ambito della sicurezza alimentare.

(25)

Tra i principi che questo regolamento pone, sicuramente quello dell’analisi del rischio è uno dei più innovativi ma, degno di nota, è anche il principio di precauzione (art.7) che a fronte di un’incertezza scientifica indica delle misure provvisorie di gestione al fine di garantire un livello elevato di tutela della salute in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio.

Altro strumento introdotto dal suddetto regolamento e che ha reso possibile il raggiungimento degli obiettivi definiti nel Libro bianco è quello della rintracciabilità, definita all’art.3 comma 15 come “la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione”.

Nel Regolamento, poi, si evidenzia come sia importante garantire che solo alimenti e mangimi sicuri siano immessi sul mercato: in particolare, gli articoli 14 e 15, oltre a imporre il divieto di immettere sul mercato prodotti alimentari e mangimi a rischio, così come il divieto di somministrare mangimi a rischio ad animali destinati alla produzione alimentare, stabiliscono anche i criteri che devono essere osservati a livello europeo e nazionale per poter determinare se uno specifico prodotto sia o non sia a rischio. Numerose disposizioni in materia sanitaria e di sicurezza alimentare che sanciscono requisiti specifici sono state adottate e, soltanto i prodotti conformi a tali prescrizioni, possono essere commercializzati ed utilizzati nelle attività di produzione alimentare.

(26)

2.3. PERICOLI E RISCHI

Il “rischio” viene definito dall’art. 9 del Regolamento n. 178/2002 come “funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute, conseguente alla presenza di un pericolo”, mentre l’art. 3 del reg. (CE) 178/2002 recita al punto quattordici la definizione di “pericolo” o “elemento di pericolo” quale “agente biologico, chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime, o condizione in cui un alimento o un mangime si trova, in grado di provocare un effetto nocivo sulla salute”. Pertanto il rischio alimentare è la probabilità con la quale un evento nocivo per la salute umana si manifesta e dipende dalla gravità (bassa, media o elevata) che esso comporta.

Trova inoltre un riferimento normativo nell’art. 7 del medesimo regolamento, il principio di precauzione, costituendo la sua formulazione generale valevole per l’intera disciplina della sicurezza alimentare (Nicolini M., 2010). Tale principio, come enunciato nell’art. 7, dispone espressamente “qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni

• Reg. 178/2002, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare;

• Reg. 852/2004, sull’igiene dei prodotti alimentari; • Reg. 853/2004, norme specifiche in materia di

igiene per gli alimenti di origine animale; • Reg. 854/2004, norme specifiche per

l’organizzazione dei controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano; • Reg. 882/2004, controlli ufficiali intesi a verificare

(27)

scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio”.

Esso rappresenta pertanto uno strumento necessario per determinare i mezzi di gestione del rischio o di altre azioni volte ad assicurare un elevato livello di protezione della salute, principio cardine della Comunità. E’ stato così previsto, qualora esista la possibilità che un alimento possa produrre degli effetti nocivi sulla salute, che tale principio sia applicato; importante rilevare che tale applicazione trova spazio non solo quando gli effetti potenzialmente pericolosi di un prodotto sono identificati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, ma anche quando tale valutazione non consente di determinare il rischio con sufficiente certezza.

L’articolo 14 del reg. (CE) 178/2002 definisce che gli alimenti sono considerati a rischio (e pertanto non possono essere immessi sul mercato) se sono dannosi per la salute o inadatti al consumo umano; nello specifico al punto quattro viene precisato come poter determinare un alimento dannoso per la salute, considerando: “ non soltanto i probabili effetti immediati e/o a breve termine, e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute una persona che lo consuma, ma anche su quella dei discendenti” , “i probabili effetti tossici cumulativi di un alimento” (si pensi ad esempio ai metalli pesanti) e “la particolare sensibilità, sotto il profilo della salute, di una specifica categoria di consumatori, nel caso in cui l’alimento sia destinato ad essa” (come nel caso delle allergie).

2.4. PERICOLI BIOLOGICI ASSOCIATI AI PRODOTTI DELLA

PESCA

2.4.1. VIRUS

L’aumentata importanza della trasmissione, attraverso gli alimenti, di malattie di origine virale è stata sempre più spesso segnalata dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e dal Codex Alimentarius. I virus alimentari, secondo il parere scientifico emesso dell’EFSA (2016), risultano infatti tra i principali responsabili di focolai di origine alimentare nell’Unione Europea, dopo agenti batterici, come la Salmonella e il Campylobacter, e tossine batteriche. In

(28)

(Norwalk virus) e il virus dell’epatite A (HAV) nei prodotti freschi, nei cibi pronti e nei molluschi bivalvi quali ostriche, cozze e cappesante, poiché tali alimenti sono classificati come pericoli prioritari dall’OMS.

Tra gli alimenti implicati nella trasmissione di malattie virali sono i molluschi bivalvi, consumati crudi, a rivestire il ruolo predominante: essendo dei potenti filtratori, essi sono in grado di concentrare un’elevata quantità di eventuali virus presenti nelle acque dove vivono. Inoltre, la depurazione cui sono sottoposti i molluschi che provengono da acque con limitata contaminazione di origine fecale, sebbene sia risultata utile per la prevenzione delle contaminazioni batteriche si è rilevata invece poco efficace ad eliminare i virus dai molluschi contaminati (De Medici et al., 2001). Anche il controllo della qualità delle acque e dei molluschi basato sulla determinazione e la quantificazione degli organismi indice di contaminazione fecale (come E. Coli) si è rilevato non correlabile alla presenza dei virus enterici (Croci et al., 2000).

Le malattie virali trasmesse dai molluschi hanno da sempre avuto un grosso impatto sulla salute pubblica: per quanto riguarda l’epatite A, i molluschi rappresentano i principali vettori dopo l’acqua, e sono stati implicati nel 61%dei casi registrati al nord e centro Italia e in 72% dei casi al sud Italia (De Medici et al., 2001); mentre i Norovirus, a livello internazionale, rappresentano la causa più frequente di malattia trasmessa dai molluschi (Mucciolo C., Mucciolo A., 2015).

Secondo il gruppo di esperti scientifici sui pericoli biologici (BIOHAZ) dell’EFSA, le misure da adottare per contenere la diffusione di questi virus dovrebbero basarsi sulla prevenzione della contaminazione a tutti i livelli di produzione, piuttosto che sull’eliminazione o inattivazione di questi virus dagli alimenti contaminati. L’adeguata cottura di questi prodotti rappresenta l’unica misura efficace per eliminare o inattivare il Norovirus o il Virus dell’epatite A dai molluschi bivalvi contaminati, in quanto entrambi i virus sono sensibili al calore e possono essere inattivati da temperature superiori ai 60°C (Mucciolo C., Mucciolo A., 2015). Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che i tessuti dei molluschi stessi possono avere un ruolo protettivo nei confronti del virus HAV: per ottenere un’inattivazione di una determinata quantità di virus è necessario

(29)

prolungare i tempi di trattamento termico a fronte dei tempi per ottenere in laboratorio l’inattivazione di una sospensione virale. Pertanto durante i procedimenti di cottura è necessario porre particolare attenzione ai tempi e alle temperature, le quali devono essere raggiunte anche al cuore del prodotto dove nei primi minuti di trattamento si registra una temperatura mediamente di 7-8°C inferiore a quella esterna (Croci, Suffredini, 2003).

I virus che risultano essere causa di patologie a seguito della loro trasmissione attraverso gli alimenti e le acque possono essere suddivisi in tre principali gruppi:

-virus che provocano gastroenteriti: Norovirus (NV, precedentemente denominato Norwalk-like virus), Rotavirus, Adenovirus tipo 40 e 41, Sapovirus (SV);

-virus dell’epatite a trasmissione oro-fecale: Virus epatite A (HAV) della famiglia Picornaviridae, Virus epatite E (HEV);

-virus che replicano nell’intestino umano ma causano patologia dopo essere migrati in altri organi come il sistema nervoso centrale o il fegato: Enterovirus (Koopmans, Duizer, 2004).

I virus enterici, con particolare riferimento a Norovirus, virus dell’Epatite A ed Enterovirus, vengono trasmessi per contatto diretto, attraverso l’acqua o con alimenti contaminati. Le tipologie di alimento ad elevato rischio di trasmissione sono tutte caratterizzate dalla stessa matrice di infezione, rappresentata dall’acqua, che a sua volta può essere contaminata dalla presenza di materiale fecale proveniente dalle acque di scolo (Losio M., Pavoni E., 2005).

2.4.2. BATTERI

Per quanto riguarda la flora microbica dei prodotti ittici, essa riflette le caratteristiche microbiologiche dell’ambiente in cui vivono e le loro abitudini di vita. La flora microbica del pesce si può facilmente ritrovare sulla cute, sulle branchie e nell’intestino, mentre non è presente a livello muscolare dove si può verificare una contaminazione al momento dell’eviscerazione (Cozzi, Ciccaglioni, 2005). Particolarmente sensibili alla presenza di contaminanti microbiologici e ambientali sono i molluschi filtratori, in quanto tendono ad

(30)

accumulare, nei loro tessuti e organi, batteri e sostanze chimiche potenzialmente pericolose.

I pesci provenienti dai mari freddi sono prevalentemente colonizzati da batteri Gram-negativi psicrofili, mentre quelli provenienti da mari tropicali prevalentemente da batteri Gram-positivi mesofili. La maggior parte dei batteri positivi appartengono ai generi Micrococcus e Bacillus, mentre i Gram-negativi ai generi Pseudomonas, Alteromonas, Moraxella, Acinetobacter, Vibrio, Flavobacterium, Cytophaga. Nei gamberi tropicali sono state rinvenute significative colonizzazioni da parte di Corynebacterium e Gram-negativi bastoncellari (Croci, Suffedrini, 2003). E’ noto che, in condizioni normali, i prodotti ittici ospitano sulla cute e sulle branchie le specie aerobie (Pseudomonas spp., Aeromonas spp., Acinetobacter spp., Moraxella spp., Cytophaga) mentre a livello intestinale si ritrovano germi Gram-negativi aerobi-anaerobi facoltativi (Vibrio spp. in larga parte, Alcaligenes spp., Flavobacterium spp., Xathomonas spp.) e in forma più modesta alcuni Gram-positivi (Micrococcus spp., Bacillus spp., Corinebacterium).

Questa flora microbica di tipo saprofita non rappresenta un rischio dal punto di vista sanitario per il consumatore, ma nella fase post-mortem, e già nelle prime operazioni che si compiono sul peschereccio al momento della cattura, si può verificare la contaminazione della massa muscolare del pesce. I pericoli sono legati all’originaria contaminazione del pesce stesso e dalla possibilità di contaminazioni crociate tra i vari esemplari: pertanto, se le operazioni di scelta, lavaggio, eviscerazione e dissanguamento del pesce non sono condotte con le adeguate cautele, si possono avere trasferimenti di microrganismi dalla cute e dai visceri alle masse muscolari (Croci, Suffredini, 2003).

Dai dati del Sistema Rapido di Allerta per gli alimenti (RASFF), i contaminanti microbiologici riscontrati nei prodotti della pesca durante il 2015 nella Comunità Europea sono stati principalmente Listeria monocytogenes (42%), Escherichia coli (23%), Norovirus (14%) e Salmonella (10%); la restante percentuale è rappresentata invece da Vibrio e altre intossicazioni microbiologiche di scarso rilievo. Inoltre, dalla lettura delle notifiche di allerta nel portale RASFF, risulta che nel corso del 2016 in Italia sono state notificate: tre allerte riguardanti la

(31)

presenza di Listeria monocytogenes (queste tre notifiche interessano partite di Salmone affumicato e refrigerato, provenienti, rispettivamente, dal Regno Unito e due dalla Lituania); un’allerta riguardante la presenza di Norovirus in una partita di ostriche vive (Crassostrea gigas) provenienti dalla Francia; quattordici allerte per la presenza di E. coli, in partite di cozze vive, ostriche vive e vongole refrigerate, di provenienza dalla Spagna (undici partite su quattordici notificate) e tre dall’Italia.

Listeria monocytogenes (Gram-positivo) è un organismo di origine ambientale, isolato da diverse fonti quali suolo, vegetali, materiale fecale e acque superficiali reflue. Non è tipico degli ambienti acquatici per cui non è isolato in pesce catturato o allevato in acque libere, ma il suo ritrovamento, a basse concentrazioni, è frequente in pesci di acque chiuse che ricevono reflui agricoli. La sua presenza è legata alla contaminazione dei prodotti durante la loro trasformazione e principalmente è presente negli alimenti pronti al consumo (Ready to eat) e prodotti affumicati. Infatti, determinate caratteristiche di lavorazione e conservazione rendono alcuni prodotti adatti alla sua crescita e sopravvivenza: l’assenza del trattamento termico (come nei prodotti crudi e nei prodotti affumicati a freddo) facilita la proliferazione batterica.

Inoltre, anche i prodotti che subiscono numerose manipolazioni nel corso della lavorazione presentano un rischio maggiore perché sono più frequentemente a contatto con strumenti e superfici (che ne sono un’importante fonte di contaminazione).

E’ un batterio particolarmente temuto per la sua capacità di crescere in un ampio range di temperatura (tra 0° e 45°C) e per l’alto tasso di mortalità in caso di tossinfezione; tuttavia l’evenienza di listeriosi di origine alimentare è piuttosto rara e più a rischio risultano alcune fasce della popolazione, come gli immunodepressi, gli anziani, le donne in gravidanza e i bambini in età neonatale.

Infatti, la sola presenza di Listeria in un prodotto non è sufficiente ad ipotizzare un rischio per la salute umana e, come espresso nel reg. (CE) 2073/2005 sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari, una concentrazione di

(32)

Listeria monocytogenes negli alimenti inferiore ai 100 ufc/g garantisce un livello di protezione sufficiente per la salute del consumatore.

Per quanto riguarda l’induzione di patologie nell’uomo sono stati frequentemente segnalati casi di gastroenteriti da Vibrionaceae, specialmente dopo il consumo di pesci provenienti da mari caldi, senza previa cottura.

Il genere Vibrio comprende batteri Gram-negativi che sono principalmente associati all’ambiente marino delle coste e agli estuari dei fiumi. Molte specie di vibrioni sono parte della flora batterica acquatica autoctona, ma solo una piccola porzione di esse sono potenzialmente patogene per l’uomo e l’infezione può avvenire sia per consumo di alimenti contaminati, sia per contatto diretto, attraverso la cute lesionata.

Alcune specie di vibrioni rivestono un’importanza rilevante poiché provocano delle infezioni comprese fra le malattie che richiedono quarantena e obbligo di notifica all’OMS (come il V. cholerae) o perché noti per essere associati ad alta mortalità (V. vulnificus). I fattori che influiscono maggiormente sulla vitalità dei vibrioni sono la temperatura e la salinità e le loro condizioni ottimali si hanno con una temperatura dell’acqua tra i 10° e i 30°C ed una salinità tra il 5 e il 30%; in relazione a questi fattori è ampiamente documentato il loro tipico andamento stagionale di presenza nell’ambiente e l’incremento, nei mesi estivi, delle tossinfezioni da essi causate (Cozzi, Ciccaglioni, 2005). Una piccola crescita di vibrioni si può verificare nei prodotti della pesca conservati sotto i 10°C, mentre per avere una loro riduzione è necessaria una temperatura di 50°C per almeno dieci minuti, con variabilità a seconda della specie e del ceppo. A una temperatura di refrigerazione iniziano a morire gradualmente, mentre con il congelamento e lo scongelamento si assiste ad una riduzione drastica (Lee, Rangdale, 2008).

I vibrioni sono spesso associati a patologie legate al consumo di molluschi bivalvi, in particolare per quanto riguarda il V. cholerae. La normativa vigente sui molluschi, basandosi sul controllo di batteri fecali come E. coli, non assicura che tali prodotti siano esenti da agenti patogeni; è ben ampiamente documentato infatti che la presenza di batteri indice di contaminazione fecale non è correlata a quella di Vibrionaceae, che sono normalmente presenti

(33)

nell’ambiente marino. In uno studio (Alessi, Croci, 2005) condotto sulla depurazione dei molluschi sperimentalmente contaminati con batteri del genere Vibrio, in particolare V. cholerae 01 e V. parahaemolyticus, è stato dimostrata la scarsa efficacia dei sistemi di depurazione previsti su questi microrganismi. Questi vibrioni presentano, infatti, un comportamento differente rispetto a E. coli: sebbene i batteri coliformi, dopo poche ore di trattamento (5 ore in acqua ozonizzata), raggiungono i limiti batteriologici imposti per legge, la riduzione dei vibrioni nei molluschi non è invece sufficiente a garantire la sicurezza di quelle fasce di consumatori a rischio, suscettibili anche a dosi infettanti inferiori alla norma.

Il V. cholerae, e nello specifico il sierogruppo01, è responsabile del colera epidemico, una diarrea secretoria che si manifesta per l’ingestione di acqua o cibo contaminato da questo vibrione. Data la sua sensibilità all’acidità gastrica, la dose infettiva è alta (108 batteri), ma pazienti con ipocloridria o problemi

gastrici sono suscettibili a dosi infettanti inferiori. Mentre il V. parahaemolyticus, è parte della flora autoctona dell’ambiente marino costiero nelle regioni tropicali e temperate di tutto il mondo. Presenta una tipica proliferazione stagionale nei mesi estivi più caldi e la contaminazione dei prodotti della pesca freschi è strettamente correlata alla presenza naturale dei vibrioni nell’ambiente in cui i prodotti sono stati raccolti. Le concentrazioni di V. parahaemolyticus nei prodotti della pesca sono generalmente inferiori a 103 cfu per grammo, ma possono essere più alte quando la raccolta avviene da acque molto calde (De Paola et al., 1990).

2.4.3. BIOTOSSINE MARINE

Il consumo di prodotti ittici, in particolare di molluschi bivalvi, può costituire un rischio per la salute pubblica in quanto responsabili di sindromi con decorso acuto e cronico a carico dell’apparato digerente e del sistema nervoso, legate alla presenza di tossine algali. La maggior parte di queste tossine sono prodotte da alghe marine (fitoplancton) assunte direttamente dai prodotti della pesca che diventano, a loro volta, vettori di tossine per l'uomo. In particolare, sono i molluschi bivalvi (mitili, ostriche, vongole) ad essere maggiormente implicati in

(34)

queste tossi-infezioni poiché sono degli attivi filtratori dell’acqua in cui vivono e possono così accumulare tali sostanze assumendole direttamente dalle acque. Le biotossine sono, infatti, legate alla presenza di specie di alghe unicellulari tossiche, divenute negli ultimi anni particolarmente rilevanti a livello mondiale in seguito all’aumento del numero di specie tossiche ma anche per l’aumento dei fenomeni di fioriture algali detti “blooms”. Questi fenomeni sono riconducibili all’eutrofizzazione delle zone costiere, ossia un’abbondante crescita algale per gli aumenti di fosforo e azoto nelle acque, all’immissione di contaminanti e ai cambiamenti climatici (Mattei et al., 2005).

Le biotossine algali sono suddivise in base alle loro caratteristiche di solubilità in idrosolubili e liposolubili, ed è noto come le principali intossicazioni associate al consumo di prodotti ittici sono legate alla PSP (Paralytic shellfish poisoning), DSP (Diarrhetic shellfish poisoning), NSP (Neurotoxic shellfish poisoning), ASP (Amnesic shellfish poisoning). E’ importante tener presente che tutte le biotossine algali sono resistenti al calore e non sono distrutte con la cottura degli alimenti, non causano variazioni delle caratteristiche organolettiche e non sono rilevate dalle comuni analisi microbiologiche (Pasolini et al., 2005). La maggior parte della sorveglianza di queste tossine si basa così sul monitoraggio periodico delle acque di produzione con prelievi di campioni di acqua e con l’identificazione del fitoplancton tossico mediante l’osservazione microscopica delle caratteristiche morfologiche. In caso di positività, si procede con la ricerca delle tossine negli organismi indicatori.

Le tossine PSP, tra cui ricordiamo la saxitossina (idrosolubile), provocano una tossinfezione a carico del sistema nervoso causando l’arresto della trasmissione degli impulsi nervosi nei nervi periferici e muscoli scheletrici e nei casi più gravi provocano la morte per paralisi respiratoria e arresto cardiaco. Le alghe responsabili di queste tossine appartengono alle Dinoflagellate, genere Alexandrium, sono diffuse in molte aree del mondo ma con massima concentrazione nella regione dell’Alaska mentre in Europa sono i paesi della fascia costiera Nord atlantica ad essere maggiormente esposti. La sintomatologia riscontrata può essere di tipo gastrointestinale (nausea, vomito, diarrea, dolore addominale) e di tipo neurologico (formicolio alle estremità degli

(35)

arti, perdita dell’equilibrio); tra le sindromi, la PSP è quella che provoca più casi di morte e pertanto è ritenuta tra le più pericolose (Ferrante M. et al., 2010). Per le PSP, il limite tollerabile di concentrazione nei molluschi bivalvi è stato stabilito a 800 µg/kg (Reg. CE n. 853/2004, Sezione VII).

Le tossine DSP, diarroiche, provocano invece una tossinfezione a carico dell’apparato digerente e comprendono un gruppo eterogeneo di composti tossici (liposolubili) come l’acido okadaico (OA), le dinofisitossine (DTX), le pectenotossine (PTX) e le yessotossine (YTX). L’effetto diarroico è legato all’alterazione del processo di fosforilazione che controlla la secrezione di sodio delle cellule gastrointestinali mentre l’acido okadaico stimola direttamente la muscolatura liscia intestinale provocando l’effetto diarroico (Ferrante M. et al., 2010). Le alghe responsabili della produzione di queste tossine appartengono alle Dinoflagellate, genere Dinophysis e Prorocentrum. Le pectenotossine e le yessotossine sono state segnalate nel Mar Adriatico ma non sembrano svolgere un’azione tossica sull’uomo. I sintomi che si manifestano sono di carattere gastrointestinale con vomito, diarrea, febbre e cefalea e non si conoscono ad oggi casi di morte per DSP. Per le DSP, il limite tollerabile di concentrazione nei molluschi bivalvi è stabilito a 160 µg/kg per l’OA, DTX e PTX e di 1 mg/kg per YTX.

Le tossine ASP, amnesiche, con l’acido domoico (idrosolubile) causano questa sindrome con azione neurotossica a livello dei recettori degli amminoacidi eccitatori (acido glutammico e aspartato) e della trasmissione sinaptica. I ceppi responsabili appartengono ai generi Nitschia e Pseudonitschia (Diatomee), che hanno delle fioriture algali principalmente nelle acque costiere del Nord Europa. I sintomi possono essere di tipo gastrointestinale (diarrea, vomito, dolori addominali) e/o neurologico (confusione, perdita temporanea della memoria, disorientamento fino a coma e morte nei casi più gravi). Per le ASP il limite tollerabile è stabilito a 20 mg/kg.

Le tossine NSP, neurotossiche, note con il nome di “brevetossine” sono responsabili della sindrome NSP a causa della loro azione depolarizzante che provoca l’apertura dei canali del sodio e il flusso dello ione all’interno delle cellule. I ceppi responsabili appartengono alle specie Ptychodiscus brevis e

Riferimenti

Documenti correlati

E’ attiva sul sito web dell’Agenzia la sezione “Amministrazione trasparente”; nello specifico, la sezione è articolata in sotto-sezioni di primo e di secondo livello

In en- trambi sono stati indagati aspetti di particolare importanza e delicatezza per il settore biogas, quali la digestione anaerobica e gli aspetti igieni- co sanitari,

del grado di conseguimento degli obiettivi individuali dei Direttori Generali e dell'Avvocato Generale della Regione Toscana e dei vertici amministrativi degli enti

- considerato che, nelle premesse del provvedimento, il Presidente del Tribunale ha rilevato che, l'assegnazione dei ruoli autonomi ai GOT si rende indispensabile

Articolo 8. Formazione del personale Articolo 9. Codice di comportamento Articolo 10. Attività di controllo Articolo 11.. 190 del 6 Novembre 2012 introduce nell’ordinamento

Il 6 novembre 2012 il legislatore ha approvato la legge numero 190 recante le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e

I dirigenti provvedono trimestralmente al monitoraggio del rispetto dei tempi procedimentali e alla tempestiva eliminazione delle anomalie e provvedono ad

[r]