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Analisi delle norme di riferimento

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Academic year: 2021

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I

l quadro della responsabilità civi-le connesso all’erogazione di una prestazione sanitaria è fonda-to sulle regole generali previste dal Codice civile. Solo di recente, co-me si vedrà, vi sono stati interventi normativi mirati a influenzare que-sto sottosettore del diritto in modo esplicito.

Nel corso del tempo le basi teoriche che hanno fondato l’azione risarcito-ria sono mutate anche in rapporto al mutare delle condizioni di erogazio-ne delle prestazioni per poi ricon-durre fondamentalmente il risarci-mento alle regole generali di respon-sabilità contrattuale.

Sebbene a rischio di una semplifica-zione eccessiva, le regole di respon-sabilità - sia in sede civile che in sede penale - hanno oscillato attra-verso periodi diversi di indulgenza e di severità nei confronti del perso-nale coinvolto per giungere a uno stadio evolutivo in cui il momento centrale non è rappresentato più (in sede civile) dalla responsabilità indi-viduale dell’operatore quanto della struttura sanitaria all’interno della quale egli opera.

Con specifico riferimento al risarci-mento del danno, le innovazioni or-ganizzative che hanno interessato l’erogazione di prestazioni sanitarie dall’anno 1970 assieme ai progressi della medicina e al crescente ruolo del consenso informato quale mo-mento legittimante l’attività di cura hanno imposto profonde revisioni nei criteri di allocazione della re-sponsabilità e nelle voci di danno risarcibili.

Dalla responsabilità del medico a quella della struttura

In sintesi, si è assistito a una espan-sione dei confini della

responsabili-tà civile in ambito sanitario agevol-mente descritta dalle varie locuzio-ni linguistiche succedutesi nel tem-po. All’inizio il riferimento naturale andava alla «responsabilità del me-dico», implicitamente riferendosi a una responsabilità contrattuale indi-viduale per inesatto adempimento degli obblighi assunti contrattual-mente dal professionista e con riferi-mento alla disciplina del relativo contratto di prestazione d’opera. A partire dall’anno 1950 circa, con l’emergere della complessità dei meccanismi di erogazione delle pre-stazioni sanitarie, dottrina e giuri-sprudenza cominciarono a utilizza-re maggiormente l’esputilizza-ressione «utilizza-re- «re-sponsabilità medica» riferendosi a quelle occasioni in cui il contributo individuale del professionista alla causazione del danno non era facil-mente individuabile perché, ad esempio, il danno si era realizzato in un intervento in equipe. Oggi, la locuzione maggiormente usata è «re-sponsabilità sanitaria», con ciò allu-dendo non tanto e non solo all’even-tuale responsabilità individuale del-l’operatore coinvolto quanto piutto-sto alla responsabilità - diretta o vi-caria - della struttura sanitaria coin-volta nell’erogazione della presta-zione.

Invero, come chiariscono anche do-cumenti ufficiali del ministero della Salute (ad esempio, “Introduzione a: Risk Management in Sanità - Il problema degli errori - commissio-ne tecnica sul rischio clinico - mini-stero dalla Salute”), «Il sistema sani-tario è un sistema complesso per diverse variabili (specificità dei sgoli pazienti, complessità degli in-terventi, esperienze professionali multiple, modelli gestionali diver-si), al pari di altri sistemi quali le

centrali nucleari, l’aviazione, la dife-sa militare. Dal momento che in ogni organizzazione complessa l’er-rore e la possibilità di un incidente non sono eliminabili, devono essere utilizzati tutti gli interventi possibili perché siano, per lo meno, controlla-bili».

Da questa descrizione in termini di attività complessa deriva immediata-mente la necessità e la relativa ten-denza giurisprudenziale, di spostare l’allocazione della responsabilità dal singolo professionista alla strut-tura con il conseguente alleggeri-mento dell’onere probatorio a cari-co del paziente.

Queste caratteristiche dell’erogazio-ne delle prestazioni sanitarie hanno indubbiamene contribuito a muove-re il sistema risarcitorio nella nostra materia oltre la mera ricerca di col-pe individuali e verso meccanismi sistemici più complessi.

Come anticipato, questa evoluzione si è accompagnata a una evoluzione dell’organizzazione dell’erogazione della prestazione sanitaria (con l’istituzione del Ssn, la sua successi-va aziendalizzazione e regionalizza-zione nonché con i relativi passaggi di pubblicizzazione e poi privatizza-zione del rapporto di impiego del personale sanitario) e a una diversa percezione delle ragioni di una man-cata guarigione in una stagione scientifica dalle accresciute poten-zialità di cura tali di far percepire all’utente l’obbligazione di cura co-me un obbligo di guarire. In questo, spesso si concretizza una errata per-cezione dell’obbligazione medica che rimane di mezzi e mai di risulta-to (Corte di cassazione, sentenze 23918/06 e 4400/04).

In parallelo, la giurisprudenza si è prodigata nel facilitare l’onere

pro-Analisi delle norme di riferimento

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batorio del paziente presunto dan-neggiato e nel fare del risarcimento del danno connesso all’erogazione di una prestazione di cura una pale-stra per i processi di espansione del-le voci di danno alla persona risarci-bile.

Il principio della vicinanza della prova

Il percorso di facilitazione dell’one-re probatorio, passando attraverso momenti diversi basati ora sulla di-stinzione tra interventi di facile e di non facile esecuzione, ora su mecca-nismi presuntivi, si è oggi consolida-to nel principio generale della vici-nanza della prova secondo cui l’one-re grava su chi è meglio in grado di assolverlo, e nell’ancoraggio della responsabilità contrattuale della struttura e del professionista non più al contratto di prestazione d’ope-ra professionale ma sulle regole ge-nerali della responsabilità contrat-tuale (articoli 1218, 1176 e 1228 del Codice civile; per una conferma e una puntuale ricostruzione si veda anche Corte di cassazione, sezione III penale, 26 giugno 2012 n. 10616, in «Danno e Responsabili-tà», 2013, pagg. 889 e seguenti). Di conseguenza la responsabilità del-l’ente verso il paziente può discen-dere direttamente - articolo 1218 del Cc - dall’inadempimento delle obbligazioni a suo carico o - ex

articolo 1228 del Cc - dall’inadem-pimento della prestazione professio-nale eseguita direttamente dal sani-tario di cui si avvale, dipendente o meno (Corte di cassazione, sezione III civile, 13 aprile 2007 n. 8826 e 14 luglio 2004 n. 13066).

Il quadro normativo e costituzionale

Fatte queste premesse, si deve ne-cessariamente iscrivere il quadro normativo di riferimento nell’alveo della Costituzione: il fulcro dell’as-sistenza sanitaria ruota attorno ai precetti costituzionali degli articoli 32 e 38.

Il primo, in particolare, ha assunto un rilievo centrale nella materia in esame sia nel definire le regole di responsabilità (ad esempio, centrali-tà del risarcimento del danno alla salute) sia nel presidiare l’evoluzio-ne delle voci di danno risarcibile. Il comma 1 dell’articolo 32 sancisce che: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’indi-viduo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigen-ti». Al comma 2 si precisa che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso viola-re i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quest’ultimo prin-cipio è stato dapprima declinato dal

Legislatore con la legge istitutiva del Ssn (e già prima con la discipli-na dei trattamenti sanitari obbligato-ri) sancendo (articolo 33) che: «Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi del-lo Stato possono essere disposti dal-l’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, se-condo l’articolo 32 della Costituzio-ne, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il di-ritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura».

Questi principi sono stati declinati dalla giurisprudenza allargando l’area del danno risarcibile e giun-gendo a risarcire il danno (non patri-moniale) conseguente alla mera vio-lazione del principio.

Le regole di responsabilità contrattuale e la vicinanza dell’onere della prova

Per lungo tempo la responsabilità medica è stata costruita attorno al contratto di prestazione professiona-le, anche se in tempi più recenti il Supremo collegio ha riclassificato questa responsabilità nell’alveo del-le regodel-le generali (Corte di cassazio-ne 22 gennaio 1999 n. 589) di re-sponsabilità contrattuale, eventual-mente basandola su un mero

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to sociale ove manchi un preceden-te rapporto contrattuale (Corpreceden-te di cassazione 29 settembre 2004 n. 19564, 21 giugno 2004 n. 11488, 21 luglio 2003 n. 11316, 11 marzo 2002 n. 3492, 19133/04, 10297/04 e 9085/06). A ogni modo, anche ove la responsabilità derivi dalla violazione di obblighi legislativa-mente previsti (come nel caso del necessario consenso informato) o da un atto illecito la giurisprudenza applica le regole di responsabilità contrattuale almeno con riferimento ai criteri di allocazione dell’onere probatorio.

A partire dal 2004 (Cassazione 21 giugno 2004 n. 11488), il Supremo collegio ha tarato la regola secondo cui nell’ambito della responsabilità professionale medica e delle struttu-re sanitarie - secondo le struttu-regole del-l’articolo 1218 del Cc - il paziente ha l’onere di provare l’inadempi-mento che ha causato il danno e non è chiamato a dimostrare la col-pa del convenuto o il suo grado. Sul paziente rimane l’onere di fornire in concreto la dimostrazione del-l’esistenza del pregiudizio lamenta-to e il diretlamenta-to nesso causale dall’ina-dempimento (Corte di cassazione 20 novembre 2007 n. 24140, 15 maggio 2007 n. 11189, 10 gennaio 2007 n. 238 e 4 luglio 2006 n. 15274). La prova dell’assenza di colpa e la valutazione del suo livel-lo ai sensi dell’articolivel-lo 2236 del Cc, rimangono in capo ai convenuti chiamati a dimostrare che non vi è stato inadempimento colpevole (di fatto, la prova positiva dell’impossi-bilità di adempiere correttamente per cause non attribuibili a loro). In

pratica dunque il paziente è chiama-to a dimostrare il tichiama-tolo della sua pretesa e ad allegarne l’inadempi-mento nei termini di un aggrava-mento dello stato di salute, della comparsa di una nuova patologia o del mancato ottenimento del miglio-ramento della medesima che nelle concrete circostanze poteva/doveva legittimamente attendersi, come ad esempio l’incremento delle capacità respiratorie a seguito di una setto-ri-no-plastica (tra le tante, Cassazione 9085/06 e più di recente 4030/13). Di conseguenza il professionista e la struttura devono provare non so-lo di avere correttamente erogato la propria prestazione ma anche l’im-prevedibilità e la natura eccezionale del danno arrecato a seguito del pro-prio intervento (si veda per tutte, Cassazione 577/08).

Ciò è coerente con l’ancoraggio del-la responsabilità del professionista e della struttura all’inadempimento dell’obbligazione di erogare la stazione in linea con la qualità pre-scritta dalla legge (si veda la legge 502/1992 - articoli 8, 8-quinquiese

14 - che integraipso iureil

contenu-to del contratcontenu-to di erogazione di pre-stazione sanitaria e ai fondamentali diritti alla tutela della salute; alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi sancita a livello di codi-ce del consumo ex articolo 2 del Dlgs 205/2006).

La diligenza richiesta

Sul piano della diligenza richiesta, la giurisprudenza ha dato una lettu-ra coordinata degli articoli 1176 e 2236 del Cc considerandoli espres-sione di un concetto unitario di

dili-genza secondo il quale il livello di diligenza richiesto deve essere ap-prezzato con riferimento alla diffi-coltà del servizio prestato (Cassazio-ne 23918/06) e quindi con riferi-mento a un debitore qualificato ai sensi del comma 2 dell’articolo 1176 del Codice civile. Tale diligen-za comprende l’adesione a quelle regole e precauzioni che nel loro complesso costituiscono la cono-scenza della professione medica e includono il dovere di monitoraggio della salute del paziente anche nelle fasi post operatorie (Cassazione

23918/06, 19133/04, 4400/04 e 3492/02). Questa lettura si impianta e in parte sostituisce la distinzione tra prestazioni di facile e di non facile esecuzione che nel tempo è servita a facilitare l’onere probato-rio del paziente danneggiato. Oggi possiamo considerare difficili quel-le prestazioni che trascendono l’abi-lità media e che non sono sufficien-temente studiate e testate dalla scienza medica.

Coerentemente la giurisprudenza ha precisato che la limitazione di re-sponsabilità di cui all’articolo 2232, comma 2, del Cc con riferimento ai casi che richiedono la soluzione di problemi tecnici di particolare diffi-coltà (Cassazione 9085/06) non si applica alle ipotesi di imprudenza e negligenza (Cassazione 8826/07). Le basi della responsabilità del pro-fessionista e della struttura rimango-no ancorate alla colpa. Entrambi so-no tenuti contrattualmente al risulta-to di cura da apprezzarsi alla stre-gua del criterio del risultato normal-mente atteso tenuto conto delle con-dizioni del paziente, delle capacità

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tecniche del professionista e della capacità istituzionale e organizzati-va della struttura (Cassazione 13 aprile 2007 n. 8826, 22 dicembre 1999 n. 589, 2750/98 e 8 gennaio 1999 n. 103). Conseguentemente il risultato normale dipende da una pluralità di fattori che includono il tipo di patologia trattato, le condi-zioni generali del paziente, lo stato dell’arte, le conoscenze tecniche e scientifiche del momento (tra le più recenti, Cassazione 8 ottobre 2008 n. 24791, 15 ottobre 2009 n. 975 e 29 settembre 2009 n. 20806) e l’or-ganizzazione dei mezzi appropriati per raggiungere gli obiettivi sanitari in condizioni normali e secondo le previsioni contrattuali legislativa-mente integrate dalla normativa rela-tiva al Servizio sanitario nazionale. Alla luce di ciò, si parla infatti di responsabilità per carenza organiz-zativa della struttura se a questa è da ascrivere il danno subito dal pa-ziente.

La causalità

I principi generali in tema di causali-tà si applicano anche alla materia in esame. Normale quindi il riferimen-to agli articoli 40 e 41 del Cp in primis. Coerentemente per la causa-lità materiale la giurisprudenza (Cassazione a Sezioni unite 11 gen-naio 2008 n. 581) in applicazione dei principi penalistici, di cui agli articoli 40 e 41 del Cp, ritiene che un evento sia da considerare causa-to da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del se-condo (cosiddetta “teoria della con-dicio sine qua non”). Sul piano

(suc-cessivo) della causalità giuridica tro-va in un secondo momento applica-zione la regola dell’articolo 1223 del Cc, per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite «che siano conseguenza immediata e di-retta» del fatto lesivo. Il principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 41 del Cp, in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, si deve riconoscere a ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel prin-cipio di causalità efficiente, desumi-bile dal comma 2. Questo attribui-sce l’evento dannoso esclusivamen-te all’autore della condotta soprav-venuta, solo se questa sia tale da rendere irrilevanti le altre cause pre-esistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cassazione 19 dicembre 2006 n. 27168, 8 settem-bre 2006 n. 19297, 10 marzo 2006 n. 5254 e 15 gennaio 1996 n. 268). Sul piano del nesso causale, il giudi-ce di merito è chiamato a identifica-re separatamente l’esistenza del nes-so tra la condotta illecita e l’evento di danno per determinare solo in se-guito ed eventualmente se la condot-ta sia scondot-tacondot-ta almeno colposa (Cassazio-ne 14759/07). Il cano(Cassazio-ne di accerta-mento utilizzato è quello probabilisti-co (Cassazione 16 ottobre 2007 n. 21619) secondo il quale se la presta-zione professionale fosse stata resa tempestivamente e correttamente vi sarebbero state serie e consistenti op-portunità di evitare il danno invece concretizzatosi (Cassazione 4 marzo 2004 n. 4400, 23 settembre 2004 n.

19133, 11 novembre 2005 n. 22894 e 21 gennaio 2000 n. 632).

Si noti incidentalmente che in sede penale il criterio causale richiesto impone la certezza in giudizio oltre ogni ragionevole dubbio (Cassazio-ne a Sezioni unite 11 settembre 2002 n. 30328 nel cosiddetto “caso Franzese”).

Al paziente è richiesto di provare il danno e il nesso causale tra questo e l’inadempimento allegato. Tuttavia la giurisprudenza è incline a una inversione dell’onere probatorio, at-tuato mediante presunzioni, ove: ● l’atto medico presentava un alto potenziale di risultati positivi rag-giunti solo parzialmente (Cassazio-ne 26 giugno 2007 n. 14759 e 13 aprile 2007 n. 8826);

● l’intervento si presentava come facile ma ha realizzato un evento avverso (Cassazione 14 febbraio 2008 n. 3520);

● la prestazione sanitaria non ha raggiunto il risultato positivo che ci si sarebbe attesi in base alle condi-zioni del paziente, le capacità tecni-che del professionista e la capacità organizzativa della istituzione sani-taria (Cassazione 13 aprile 2007 n. 8826 e 8 ottobre 2008 n. 24791).

Recenti novelle normative e relativi problemi

Come anticipato, in tempi recenti il Legislatore è intervenuto in modo assai discutibile sull’assetto giuri-sprudenziale prima descritto dettan-do una disciplina esplicitamente ru-bricata «Responsabilità professiona-le dell’esercente professiona-le professioni sani-tarie» all’articolo 3 del Dl 158/2012

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(cosiddetto “decreto Balduzzi”) con-vertito con modifiche dalla legge 8 novembre 2012 n. 189.

L’attuale testo in vigore recita al comma 1: «L’esercente la professio-ne sanitaria che professio-nello svolgimento della propria attività si attiene a li-nee guida e buone pratiche accredi-tate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lie-ve. In tali casi resta comunque fer-mo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risar-cimento del danno, tiene debitamen-te conto della condotta di cui al primo periodo)». Il testo, di interpre-tazione non facile, nel dettare una norma di rilievo penale parrebbe, sul piano civilistico:

a) fare rivivere una responsabilità

extracontrattuale del professionista e del solo professionista, stante il richiamo all’articolo 2043 del Codi-ce civile;

b)incidere sulle regole di

quantifi-cazione del danno giacché il giudi-ce dovrebbe nella sua determinazio-ne tedeterminazio-nere «debitamente conto» del fatto che il professionista si sia (o meno) attenuto «a linee guida e buo-ne pratiche cliniche accreditate dal-la comunità scientifica».

Su quest’ultimo punto non è intera-mente chiaro quale possa essere l’in-novazione visto che la giurispruden-za contempla già nel caso concreto l’aderenza del comportamento pro-fessionale con le indicazioni delle buone pratiche. Un carattere non ri-cognitivo della norma parrebbe pre-supporre un atteggiamento

maggior-mente benevolo nei confronti dei professionisti che, ove le circostan-ze del caso concreto lo richiedano, si siano adeguati agli standard inter-nazionali.

Fermi restando i dubbi di legittimi-tà costituzionale sul versante penale (già sollevati con ordinanza 21 mar-zo 2013, in «Rivista italiana di me-dicina legale», 2013, 1171, dalla se-zione IX penale del tribunale di Mi-lano) in quanto la norma non rispet-terebbe il principio di ragionevolez-za e di tassatività stante la generici-tà e ambiguigenerici-tà della formula legisla-tiva utilizzata, sul piano civilistico la norma appare prestarsi a soluzio-ni diametralmente opposte. E infatti così la giurisprudenza si è già espressa.

Secondo il tribunale di Arezzo 15 febbraio 2013 n. 196 (in Guida al Diritto-Il Sole-24 Ore n. 17 del 2013, pag. 17), ad esempio, il testo avrebbe - invero contra litteram -una portata meramente ricognitiva degli orientamenti giurisprudenziali mentre per il tribunale di Torino, sezione IV, 26 febbraio 2013 (in «Danno e Responsabilità», 2013, 4, 367) esso permette/richiede l’appli-cazione dei principi della responsa-bilità aquiliana ai rapporti tra pa-ziente e medici o funzionari pubbli-ci con la conseguente allocazione dell’onere probatorio diversa rispet-to a quanrispet-to fin qui illustrarispet-to. Il risultato ulteriormente perverso, fi-no a ora fi-non manifestatosi in giuri-sprudenza, sarebbe una rediviva re-sponsabilità aquiliana del professioni-sta indipendente dalle evoluzioni

pri-ma descritte e piuttosto legata all’ob-bligo assicurativo previsto per tutti i professionisti dal Dpr 137/2012. Successivamente alla novella poi è già intervenuta la Cassazione (sezio-ne III civile, 19 febbraio 2013 n. 4030) rammentando che, sebbene l’articolo 3, comma 1, del Dl 13 set-tembre 2012 n. 158, convertito dalla legge 8 novembre 2012 n. 189, abbia depenalizzato la responsabilità medi-ca in medi-caso di colpa lieve, dove l’eser-cente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accredi-tate dalla comunità scientifica, non è stata elisa l’operatività dell’illecito ci-vile e resta fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Cc che è clauso-la generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. Invero la Corte riafferma che la materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consoli-date e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cosiddetta “contrattuale del medico e della struttura sanitaria”, da contatto sociale (il rischio di un ritor-no al passato era segnalato dal tribu-nale di Varese 26 novembre 2012 n. 1406 ed era seguito da tribunale di Torino, sezione IV civile, sentenza 26 febbraio 2013, che riteneva modi-ficato il diritto vivente).

Lo stesso articolo 3, comma 3, del Dl 158/2012 prevede anche l’esten-sione delle tabelle Rca in tema di danno biologico alla responsabilità sanitaria. Il testo, infatti, recita: «Il danno biologico conseguente all’atti-vità dell’esercente della professione

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sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integra-te con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati artico-li, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’at-tività di cui al presente articolo.». Ancora una volta il testo si presta a non poche ambiguità e forzature nel sistema. Innanzitutto, in palese non cale delle pluridecennali evoluzioni giurisprudenziali e dell’evolversi de-gli assetti organizzativi della sanità, esso fa riferimento al danno biologi-co «biologi-conseguente all’attività dell’eser-cente della professione sanitaria» let-teralmente escludendo dall’ambito operativo delle tabelle di liquidazio-ne le ipotesi in cui il danno sia attri-buito alle carenze organizzative del-la struttura o, in ogni modo, prescin-dendo dagli addebiti personali ai

suoi dipendenti o collaboratori. L’il-logicità del risultato e la disparità irragionevole di trattamento che ge-nera appaiono di tutta evidenza. Al-trettanto poco chiaro è poi il riferi-mento all’integrazione (eventuale,

sic!) delle tabelle «per tenere conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti» la professione sanitaria, co-me se esistessero co-menomazioni del-l’integrità psicofisica esclusivamen-te causabili dall’attività sanitaria. In attesa di - si spera - ben più decisivi, interventi del Supremo col-legio nell’interpretazione delle nor-me de qua il quadro giurispruden-ziale prima descritto non pare esse-re stato profondamente influenzato dalle novelle normative.

Va indicato poi che la medesima no-vella prevede una non perspicua nor-mativa volta a incentivare e agevola-re la copertura assicurativa dei rischi per le specialità professionali sanita-rie particolarmente esposte alla

re-sponsabilità. Dei decreti attuativi atte-si per lo scorso giugno, però, more italiconon vi è ancora traccia alcuna. Infine, ma non ultimo, il quadro nor-mativo di nostro interesse è completa-to dalla disciplina relativa alla media-zione obbligatoria. Già il Dlgs 28/2010 prevedeva il tentativo di me-diazione obbligatoria per le controver-sie di risarcimento del danno derivan-te da responsabilità del medico (seb-bene la prassi e la giurisprudenza fa-cessero da subito riferimento alla re-sponsabilità sanitaria come sopra de-scritta). A seguito dell’intervento del-la Corte costituzionale 292/2012, il cosiddetto “decreto del Fare” (conver-tito dalla legge 9 agosto 2013 n. 98) ha rinnovato l’obbligo con una espli-cita estensione al «risarcimento del danno derivante da responsabilità me-dica e sanitaria» nel rinnovato quadro di obbligatorietà (l’esperimento del tentativo di mediazione è

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C

ome detto nelle pagine prece-denti, a prescindere dai re-centi interventi normativi in materia di mediazione obbligatoria e con il cosiddetto “decreto Balduz-zi”, l’intero quadro relativo al risar-cimento dei danni connessi all’ero-gazione di una prestazione sanitaria è frutto di una lenta e costante evo-luzione giurisprudenziale. Vi sono tuttavia temi particolarmente com-plessi e centrali ancora presenti nel-le Corti che meritano un sia pur breve approfondimento.

Consenso informato

Il consenso informato costituisce og-gi indubbiamente la base leog-gittiman- legittiman-te prima dell’atto medico, nel qua-dro dell’erogazione organizzata del-le prestazioni sanitarie, resa sempre più complessa dai progressi scienti-fici e dalle conseguenti esigenze or-ganizzative, al punto che se il con-senso è necessario per ciascun atto medico, è anche vero che le modali-tà della sua acquisizione sono dise-gnate piuttosto dall’istituzione cui il professionista appartiene che da lui medesimo (si veda, da ultimo, Cas-sazione 27 novembre 2012 n. 20894, che ancora puntualizza le condizioni di manifestazione e di formazione del consenso informato, che ha natura bilaterale ed esprime un incontro di volontà libere e con-sapevoli, consenso che si configura quale diritto inviolabile della perso-na e che trova precisi referenti negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzio-ne; si veda anche Cassazione 28 luglio 2011 n. 16543).

Se poi storicamente l’atto medico era considerato lecito in virtù delle sue finalità sociali (e anche quando conduceva a un esito infausto)

stan-te l’assenza di instan-tento di ledere o perché agiva una specifica clausola di esonero (ad esempio l’adempi-mento di un dovere ex articolo 51 o lo stato di necessità ex articolo 54 del Cp oppure il consenso dell’aven-te diritto ex articolo 50 del Cp), oggi invece ogni atto medico con-dotto senza o addirittura contro il consenso del paziente (fatte salve le rare eccezioni di trattamento sanita-rio obbligatosanita-rio, stato di necessità e incapacità a prestare il consenso: si vedano Cassazione 8 ottobre 2008 n. 24791 e 16 ottobre 2007 n. 21748) sarebbe in palese violazione degli articoli 32 e 13 della Costitu-zione e contrario all’articolo 33 del-la legge 833/1978. In redel-lazione a ciò, oggi la giurisprudenza è pacifi-ca seguendo i principi solennemen-te enunciati nel “caso Massimo” (Cassazione penale 21 aprile 1992) e recepiti pienamente nel codice di deontologia medica.

La miglior sintesi del principio la troviamo (non casualmente) nella Cassazione, sezione I civile, 16 otto-bre 2007 n. 21748: «il consenso in-formato costituisce, di norma, legit-timazione e fondamento del tratta-mento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la prati-ca del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.».

Da questo quadro emerge, con piena conferma giurisprudenziale, che è onere del professionista e della strut-tura dimostrare la corretta acquisizio-ne del prescritto consenso del pa-ziente. Sebbene il consenso scritto

debba essere acquisito solo in speci-fiche e limitate ipotesi legislativa-mente previste, la prassi porta ad attestare per iscritto sia il consenso sia l’erogazione delle necessarie in-formazioni preliminari a questo. Pro-prio il tema del contenuto delle infor-mazioni necessarie a produrre un consenso consapevole, informato, at-tuale e libero rappresenta un tema cruciale nei dibattiti giurisprudenzia-li (Cassazione 11 maggio 2009 n. 10741). Rimane, infatti, in capo al paziente la dimostrazione che le in-formazioni non erano complete e hanno influenzato il consenso. In al-tri termini, ove la struttura/il profes-sionista abbia dimostrato di avere legittimamene acquisito il consenso del paziente questi potrà sempre di-mostrare che sono state omesse in-formazioni rilevanti e tali da inficia-re il consenso pinficia-restato. È oneinficia-re del paziente la dimostrazione che qualo-ra avesse avuto le informazioni inve-ce omesse non avrebbe prestato il proprio consenso al trattamento da cui, eventualmente, sia scaturito un danno iatrogeno o meno.

Il danno da mancanza di consenso

Il consenso informato, quale consape-vole adesione al trattamento medico proposto, è un diritto fondamentale garantito dall’articolo 32 della Costi-tuzione alla luce del principio perso-nalistico espresso dalla medesima al-l’articolo 2 e alla luce della protezio-ne che essa accorda alle libertà fonda-mentali (articolo 13). Si veda anche la Corte costituzionale 438/08. Stan-te quesStan-te premesse di principio, si intuisce come anche nel caso in cui il trattamento sanitario non abbia causa-to un danno alla (salute della)

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na o addirittura questa sia migliorata a seguito del trattamento stesso, le Corti siano inclini ad accordare il risarcimento del danno non patrimo-niale. In questo caso il risarcimento si limita alla violazione del diritto di autodeterminarsi rispetto ai tratta-menti sanitari e si estende ad altri danni (patrimoniali e non) solo nel-l’ipotesi della dimostrazione positiva che il paziente non si sarebbe sotto-posto al trattamento se pienamente informato dei rischi di evento avver-so poi verificatisi.

La giurisprudenza, anche di legitti-mità, pare oscillare circa l’onere pro-batorio e le conseguenze risarcitorie sul punto. Si rammenti, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione 9 febbraio 2010 n. 2847, in «Foro italiano», 2010, I, 2113, per la quale l’autonoma configurabilità della le-sione del diritto all’autodetermina-zione e i danni autonomamente risar-cibili e ricondurisar-cibili alla carente in-formazione circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili comporterebbe per il paziente l’one-re di dimostral’one-re che se debitamente informato, non avrebbe verosimil-mente accettato l’intervento. Più di recente, invece, la Cassazione 27 no-vembre 2012 n. 20984 (in «Danno e responsabilità», 2013, 743, con nota di S. Clinca), dopo avere escluso l’ammissibilità di un consenso taci-to o l’onere di una minore

informa-zione ove il paziente sia un profes-sionista sanitario, ha riallocato l’one-re probatorio in capo al personale sanitario lasciando al paziente solo un onere di deduzione del relativo inadempimento.

Una volta acclarato che il consenso è momento centrale e indefettibile di ogni trattamento sanitario, è utile passare in rassegna alcuni nodi giu-risprudenziali particolarmente intri-cati e spinosi: il dissenso al tratta-mento; la costituzione di un ammini-stratore di sostegno per l’espressio-ne di un consenso (rectius: di un

dissenso) specifico. Entrambe le ipotesi sono strettamente connesse al requisito dell’attualità del consen-so stesconsen-so.

Il dissenso al trattamento del soggetto cosciente e dell’incapace

Nella giurisprudenza si rileva una ca-sistica sufficientemente ampia con ri-ferimento ad alcune fattispecie per così dire tipiche di dissenso esplicito al trattamento. Il ventaglio di decisio-ni analizzate conferma che questo, come il consenso, deve essere inequi-voco, attuale, effettivo e consapevo-le (per tutte, Cassazione 23 febbraio 2007 n. 4211).

Assieme al caso dei testimoni di Geova che rifiutano l’assunzione di sangue, emoderivati ed emocompo-nenti (con alcune eccezioni) si regi-strano le ipotesi di coloro che

chie-dono la interruzione di un trattamen-to (come è ad esempio il respiratrattamen-tore meccanico) pienamente consapevo-li delle conseguenze (è il caso di Piergiorgio Welby). Il tema su cui si gioca normalmente la partita, au-torizzatoria prima ed eventualmente risarcitoria dopo, è l’attualità del consenso.

Le acquisizioni più recenti sembra-no superare il principio che, soven-te in modo forzato, lasciava presu-mere la non più attuale manifesta-zione del consenso (recte: dissenso)

liberando da responsabilità il perso-nale che aveva, ad esempio, effet-tuato una trasfusione al paziente che aveva dissentito prima di diveni-re incosciente. Le forzatudiveni-re si muo-vevano ora sul crinale del (presun-to) stato di necessità che si sarebbe creato in un secondo momento ov-vero desumendo dalla (ovvia) non volontà di morire il mutamento di opinione rispetto al trattamento di-venuto operativamente salvavita. Le tendenze più recenti confermano la risarcibilità del danno morale an-che nel caso in cui non vi sia stato un peggioramento dello stato di salute e per la mera violazione del diritto al-l’autodeterminazione del paziente. Assai problematico e pur tuttavia risolto in modo netto è il caso del dissenso al trattamento espresso dal soggetto incapace.

La soluzione data dal Supremo

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gio nel caso Englaro (Cassazione, se-zione I civile, sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748), sebbene rivolta alla ipotesi del coma permanente irrever-sibile della vittima, ha tracciato uno spartiacque culturale e concettuale enucleando e consolidando principi di ben più ampia portata sula scorta dell’assunto per cui «Il consenso in-formato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmen-te di inconsapevolmen-terromperla, in tutconsapevolmen-te le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio persona-listico che anima la nostra Costitu-zione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della me-desima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convin-zioni etiche, religiose, culturali e fi-losofiche che orientano le sue deter-minazioni volitive.» (paragrafo 6.1 della motivazione).

Se si astrae dalla fattispecie concre-ta e dal principio di diritto specifica-mente per esso enucleato emerge un’istruzione operativa per il

perso-nale sanitario e il chiaro riconosci-mento di un diritto per il paziente spesso coartato da una malintesa prevalenza del diritto alla vita: «in caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei princi-pi costituzionali di isprinci-pirazione soli-daristica, che consentono e impon-gono l’effettuazione di quegli inter-venti urgenti che risultino nel mi-glior interesse terapeutico del pa-ziente. E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza del-l’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica al-la base del principio del consenso informato e il principio di parità di trattamento tra gli individui, a pre-scindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elabora-zione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordi-ne alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attra-verso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.» (paragrafo 7.2). Il Supremo collegio fissa un princi-pio guida che travalica l’ipotesi del paziente incapace quando precisa che il tutore «deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’inca-pace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto pri-ma di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi

prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dal-la sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue con-vinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». E pur tuttavia il princi-pio si è prestato e si presta a soluzio-ni ambigue sotto altri versanti.

L’amministratore di sostegno e la volontà

La legge 6/2004 ha novellato il Co-dice civile introducendo il nuovo istituto dell’amministratore di soste-gno. L’articolo 404 del Cc prevede che «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una meno-mazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nomina-to dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domi-cilio.». Mentre l’articolo 408 del Cc, con formula contestata in dottri-na e in giurisprudenza permette che «L’amministratore di sostegno [sia] designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventua-le futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenti-cata.».

E visto che (articolo 406 del Cc) «Il ricorso per l’istituzione dell’ammi-nistrazione di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto bene-ficiario», parte della dottrina e della

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giurisprudenza hanno individuato nell’istituto una via invero forzata di introduzione nel nostro ordina-mento di una sorta di direttive anti-cipate (tribunale di Prato 8 aprile 2009 e tribunale di Parma 2 aprile 2004) o di dare sostanza a quelle ipotesi in cui pur in assenza di una incapacità sia necessario un soste-gno alla scelta del paziente (ad esempio con affezioni psichiche: tri-bunale di Palermo 9 dicembre 2009, tribunale di Genova 1˚ marzo 2005 e tribunale di Roma 19 marzo 2004). L’istituto si è prestato a solu-zioni (discutibili per molti versi) di sostituzione dell’amministratore di sostegno all’amministrato nell’espri-mere il consenso, ad esempio a un trattamento riabilitativo successivo a un Tso (tribunale di Cosenza 28 ottobre 2004) o in caso di gravi deficit mentali (tribunale di Paler-mo 9 dicembre 2009).

Il nodo problematico maggiore si è rivelato nelle ipotesi in cui, come si è anticipato, si è tentata la strada della nomina ora per allora dell’am-ministratore di sostegno. Tema que-sto su cui si rileva una netta divisio-ne in giurisprudenza. Da una parte vi è chi nega questa possibilità (co-me ad esempio tribunale di Cagliari 14 dicembre 2009, tribunale di Ge-nova 6 marzo 2009 e tribunale di Firenze 3 luglio 2009) e dall’altro chi la ammette con motivazioni

di-verse (come tribunale di Varese 25 agosto 2010, tribunale di Firenze 22 dicembre 2010, tribunale di Caglia-ri 22 ottobre 2009, tCaglia-ribunale di Mo-dena 13 maggio 2008, 5 novembre 2008 e 23 dicembre 2008). Il pre-supposto tecnico impeditivo sareb-be la necessaria incapacità attuale ai fini dell’attivazione del procedi-mento, dato contro cui argomenta-no numerose sentenze denunciando-ne incongruenze e illogicità tali da generare disparità di trattamento (ad esempio tra chi affetto da malat-tia degenerativa possa usufruire del-l’istituto per proiettare le proprie scelte in avanti e chi magari per un improvviso trauma non potesse tem-pestivamente farlo; così il tribunale di Cagliari 22 ottobre 2009). Non ultime le argomentazioni favo-revoli hanno argomentato la con-traddittorietà intrinseca di un siste-ma che altrimenti negherebbe la possibilità al soggetto capace di esprimere pro futuro le proprie indi-cazioni e scelte rispetto a trattamen-ti sanitari e poi consentrattamen-tirebbe alla luce della dottrina Englaro di farlo in via presuntiva (tribunale di Firen-ze 22 dicembre 2010): per il giudi-ce fiorentino «non può a fortiori

che risultare pacifico il dovere del-l’ordinamento di rispettare l’espres-sione autodeterminativa del singolo quando, ... quella stessa volontà sia espressa oggi in previsione di un

possibile evento futuro che lo privi della capacità di esprimerla».

Il ruolo delle linee guida in seguito al cosiddetto “decreto Balduzzi”

La novella legislativa del comma 1 dell’articolo 3 del Dl 158/2012 (co-siddetto “decreto Balduzzi”), con-vertito con modifiche dalla legge 8 novembre 2012 n. 189, si è detto, ha causato non pochi problemi inter-pretativi. Il testo in vigore esclude il rilievo penale della colpa lieve ove il medico si sia attenuto «a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica» e con specifico riferimento alla «determi-nazione determi«determi-nazione del risarci-mento del danno» prescrive che di ciò il giudice «tiene debitamente conto».

Orbene, la Corte di cassazione, se-zione IV penale, 11493/13, ha limi-tato l’operatività della norma esclu-dendo che essa possa «involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia» e ha precisato le condizioni operati-ve delle medesime rilevando che «le linee guida, per avere rilevanza nell’accertamento della responsabi-lità del medico, devono indicare standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e (come

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detto) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contra-sto con le esigenze di cura del pa-ziente».

Con quest’ultimo assunto confer-mando la precedente giurispruden-za, però, il Supremo collegio non ha sciolto tutti i nodi. Ad esempio, non appare chiaro quale sia lo stan-dard di valutazione della colpa lie-ve né i criteri di selezione e scelta delle «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifi-ca». Per definizione, infatti, la munità scientifica medica non è co-stretta da confini territoriali e anzi tende a una dimensione transnazio-nale che lascia spazio a letture e indicazioni non sempre coincidenti. Sarà dunque necessario, di volta in volta, accertare con l’aiuto di consu-lenze tecniche l’effettiva coinciden-za tra le buone pratiche e linee gui-da seguite (o gui-dalle quali si è legitti-mamene deviato date le peculiarità del caso di specie) e quelle che cor-rispondono alla migliore scienza ed esperienza del momento storico. Con riferimento poi alla liquidazio-ne del danno, e ferme restando le perplessità operative relative al-l’estensione in generale del sistema tabellare per il danno alla salute in caso di danno da circolazione

stra-dale, la formula per cui il giudice deve tenere “debito conto” del fatto che il medico abbia o meno seguito (correttamente si immagina) le li-nee guida e le buone pratiche apre questioni assai delicate. Qualsiasi sia infatti la “direzione di marcia interpretativa” (aumentare il risarci-mento se non si sono seguite o dimi-nuirlo se si sono seguite) appare intuitivo che nel primo caso il risar-cimento assumerebbe una valenza sanzionatoria normalmente esclusa dal Supremo collegio nei confronti del personale sanitario e che cree-rebbe disparità di trattamento diffici-li ad accettare sul piano costituzio-nale.

Qualora poi si immaginasse il feno-meno inverso la (ulteriore) contra-zione del risarcimento a discapito del danneggiato non sembrerebbe trovare giustificazione alcuna. Infat-ti, al danneggiato non andrebbe be-neficio alcuno capace di giustificare il sacrificio del suo diritto (come invece avviene in sede di infortuni sul lavoro ad esempio) e la quantifi-cazione effettiva del danno sfuggi-rebbe a una valutazione obiettiva.

Mutatio libelli

e responsabilità sanitaria: un contrasto in Cassazione

Un ultimo problema che vogliamo segnalare è più squisitamente proces-suale ed è stato generato da una

re-cente decisione del Supremo colle-gio (13269/12) secondo la quale «non costituisce inammissibile muta-mento della domanda la circostanza che l’attore, dopo avere allegato nel-l’atto introduttivo che l’errore del sa-nitario sia consistito nell’imperita esecuzione di un intervento chirurgi-co, nel concludere alleghi, invece, che l’errore sia consistito nell’inade-guata assistenza post-operatoria». Il contenuto della domanda infatti, an-drebbe, secondo questa decisione ri-tenuto «idoneo a delimitare l’ambito dell’indagine nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazio-ni della condotta, ispecificazio-nizialmente alle-gate dall’attore, possano avere porta-ta preclusiva, attesa la normale man-canza di conoscenze scientifiche da parte del danneggiato».

Con ciò, però, la Corte contraddiva la costante presa di posizione per la quale, prospettare in corso di una causa di risarcimento del danno una condotta colposa diversa da quella prospettata nell’atto introduttivo, costituisse unamutatio libelli inam-missibile (tra le tante, Cassazione, sezione III civile, 7540/09) e in con-trasto con il rigore della prova richie-sta rispetto agli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria (soluzione confermata anche da Cassazione, se-zione III civile, 17408/12). n

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È

il caso di ribadire, anche inquesta sede, che ogni punto e argomento in materia di re-sponsabilità sanitaria rappresenta una questione aperta e demandata prioritariamente ai mobili assetti giurisprudenziali. Fatta tale premes-sa e demandando le principali que-stioni aperte in giurisprudenza ad altro approfondimento in questa Guida, ci concentriamo su alcune questioni aperte in cui, invece, il ruolo della giurisprudenza, pur sem-pre sem-presente e necessario, appare più defilato e ancorato a interventi regolatori.

La responsabilità sanitaria (del personale e delle strutture) e la gestione del rischio clinico

Il percorso di facilitazione della po-sizione del danneggiato culminato nell’affermazione del principio di vicinanza della prova e nell’anco-raggio della responsabilità del perso-nale e della struttura alle regole del-la responsabilità da inadempimento hanno teso a un pieno risarcimento del danno alla persona con una cre-scente apertura alla tutela risarcito-ria degli interessi costituzionalmen-te procostituzionalmen-tetti andando oltre la mera tu-tela del diritto alla salute, grazie an-che alla mediazione del consenso informato quale oggetto specifico di una illecita violazione. Come si è visto il percorso ha teso a spostare l’attenzione dal biasimo per l’errore individuale alla consapevolezza che il danno possa derivare prioritaria-mente da carenze strutturali e da errori evitabili sul piano sistemico. Mentre si espandeva lo spazio di risarcibilità del danno, la responsa-bilità medica diveniva sempre me-no “personale” e quindi più... sanita-ria nel senso detto prima: al com-plessificarsi della prestazione eroga-ta corrisponde una maggiore

diffi-coltà se non inutilità di individuare responsabilità individuali. Gli ele-menti costitutivi di questo fenome-no sofenome-no molteplici e riconducibili, senza pretesa di esaustività a: ● “oggettivazione” progressiva del-la responsabilità sanitaria nei suoi diversi elementi costitutivi;

● complessificarsi delle prestazioni cui ricondurre il danno, sempre me-no riferibili a una sola persona fisi-ca e sempre più riconducibili a un complesso di fattori umani e orga-nizzativi nonché alla struttura in quanto tale (cosiddette “carenze or-ganizzative”);

● indistinzione crescente tra attivi-tà in strutture pubbliche e in realattivi-tà private oggi del tutto irrilevante ai fini del risarcimento;

● aumento delle possibilità di dia-gnosi e cura a fronte di una contra-zione delle risorse disponibili; ● presenza del momento assicurati-vo che contribuisce a fare superare barriere anche psicologiche al con-tenzioso paziente-medico;

● copertura finanziaria offerta dalle aziende sanitarie e ospedaliere al proprio personale che ormai rispon-de economicamente solo per l’im-probabile caso del dolo;

● piena coincidenza tra chi paga per le prestazioni e chi paga per l’eventuale risarcimento del danno (gli enti titolari del Servizio e in primisle Regioni attraverso le strut-ture locali).

Il governo del rischio clinico è asse-gnato dall’articolo 15 della legge 229/1999 al Collegio di Direzione nelle strutture sanitarie aziendali e ospedaliere. Più di recente l’artico-lo 3-bisdel Dl 158/2012, come mo-dificato in sede di conversione dalla legge 189/2012, ha enucleato una norma specifica dedicata al rischio clinico. Esso recita: «Al fine di ri-durre i costi connessi al complesso

dei rischi relativi alla propria attivi-tà, le aziende sanitarie, nell’ambito della loro organizzazione e senza nuovi o maggiori oneri a carico del-la finanza pubblica, ne curano l’ana-lisi, studiano e adottano le necessa-rie soluzioni per la gestione dei ri-schi medesimi, per la prevenzione del contenzioso e la riduzione degli oneri assicurativi. Il Ministero della salute e le regioni monitorano, a livello nazionale e a livello regiona-le, i dati relativi al rischio clinico». La nozione assunta a livello norma-tivo, però, evidentemente è diversa da quella conclamata a livello inter-nazionale. Essa, infatti, è prettamen-te orientata alla riduzione dei costi assicurativi e del contenzioso piutto-sto che cercare di affrontare la ridu-zione dei rischi con il dovuto ap-proccio multidisciplinare. Ciò nono-stante le norme concernenti la quali-tà dei servizi non manchino nel si-stema (ad esempio, gli articoli 10 e 14 del Dpr 502/1992 che ripartisco-no le competenze tra Regioni e Sta-to) e richiedano, sempre ad esem-pio, al Direttore generale al dirigen-te sanitario del servizio «a richiesta degli assistiti», di adottare «le misu-re necessarie per rimuovemisu-re i disser-vizi che incidono sulla qualità del-l’assistenza» (articolo 14, comma 5, del Dpr 502/1992).

Come evidenzia anche la richiama-ta normativa più recente e nonosrichiama-tan- nonostan-te i costanti richiami al governo del rischio clinico nei piani sanitari na-zionali e regionali e nei numerosi decreti ministeriali che vedono - ad esempio - nelle linee guida uno stru-mento essenziale di governo del ri-schio clinico e dell’organizzazione del Ssn (Dm 30 giugno 2004) la gestione del rischio manca ancora di una reale visione sistemica. Ciò rimette al centro delle evoluzio-ni l’operato della giurisprudenza

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che in un quadro assai incerto deve dare risposte a questioni concrete e non risolte come il ruolo delle even-tuali «segnalazioni» di eventi avver-si nella determinazione della dili-genza del professionista o il loro eventuale rilievo penale.

La garanzia della qualità, la gestione del rischio e le infezioni nosocomiali: un esempio

Il riflesso parallelo a un oggettivarsi della responsabilità e al suo impun-tarsi prioritariamente sulle organiz-zazioni sanitarie in cui operano i pro-fessionisti è l’individuazione, la ge-stione e la rimozione dei rischi elimi-nabili insiti nei percorsi diagnosti-co-terapeutici. Il presupposto di que-sta operazione è la scomparsa della nozione di incidente per cui si è materializzata l’idea che un inciden-te corrisponda semplicemeninciden-te a un rischio non ben gestito e immediata-mente attribuibile agli individui cui si riconducono specifiche azioni od omissioni. Fuor di metafora, si ritie-ne che esista un rischio in sanità ed è l’omissione o l’azione (errata) di uno specifico elemento della catena di erogazione della prestazione sani-taria che ne ha permesso la materia-lizzazione in termini di danno. Questo fenomeno, che richiedereb-be il totale emergere di errori latenti e sistemici (ad esempio malfunzio-namenti strutturali e organizzativi), si scontra con gli effetti perversi sulla notifica di errori e quasi eventi che anche nel nostro ordinamento hanno le regole di responsabilità ci-vile e penale. Se dunqueerrare hu-manum est, non sarebbe umano per-severare sapendo di potere evitare almeno alcuni errori. Tuttavia, per le “paure” che la accompagnano ra-ramente l’analisi della casistica giu-risprudenziale e della singola casisti-ca di una struttura in tema di respon-sabilità sanitaria è stata utilizzata per evidenziare i fattori di rischio ed eliminarli individuando vulnera-bilità sistemiche nelle strutture sani-tarie e, soprattutto, disegnando

per-corsi formativi e riorganizzativi vol-ti a rimuovere tali vulnerabilità o almeno a disegnare meccanismi di controllo. Tutto ciò a dispetto delle norme che individuano precise re-sponsabilità in tal senso.

Questi profili in concreto interessa-no anche i processi di accreditamen-to delle strutture e di “abilitazione” dei professionisti nonché il control-lo continuo del mantenimento e del-l’aggiornamento delle competenze necessarie. Non a caso il Piano sani-tario 2006-2008 (in parte qua anco-ra in vigore) definisce il rischio cli-nico (pag. 57) come «la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè subisca un qualsiasi danno o disagio imputabi-le, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate, che cau-sa un peggioramento delle condizio-ni di salute o la morte». Il Psn prose-gue specificando che «[u]na gestio-ne efficace del rischio clinico pre-suppone che tutto il personale sia consapevole del problema, che sia incoraggiata la segnalazione degli eventi e che si presti attenzione ai reclami e al punto di vista dei pa-zienti. Le strategie di gestione del rischio clinico devono utilizzare un approccio pro-attivo, multi-discipli-nare, di sistema, e devono prevede-re attività di formazione e monito-raggio degli eventi avversi». Ovvia-mente a questi principi condivisibili non seguono poi le regole operazio-nali atte a implementarli.

Un esempio tangibile del purtroppo necessario intervento sostitutivo del-la giurisprudenza rispetto ai necessa-ri interventi sistemici è rappresenta-to dalle infezioni nosocomiali su cui pure vi sono numerosi interven-ti regolatori (come tesinterven-timoniato dal-l’istituzione, con il protocollo Sta-to-Regioni del 20 marzo 2008, del-l’Osservatorio nazionale di monito-raggio degli eventi sentinella, Osmes, presso il ministero della Sa-lute dello specifico Sistema informa-tivo per il monitoraggio degli even-ti avversi, Simes).

Le infezioni nosocomiali, la cui ridu-zione è da tempo terreno di eleridu-zione per la gestione (e riduzione) del ri-schio clinico (si vedano le circolari ministeriali 52/1985 “Lotta alle infe-zioni ospedaliere” e 8/1988 “Lotta alle infezioni ospedaliere: la sorve-glianza”), rimangono infatti al cen-tro dell’attenzione giurisprudenziale (Cassazione, sezione III civile, 7 giu-gno 2011 n. 12274, in www.osserva-toriodannoallapersona.org). In linea con quanto emerso in generale per la responsabilità sanitaria, la giuri-sprudenza tende a oggettivare la re-sponsabilità anche per le infezioni nosocomiali ricorrendo a un ampio uso di presunzioni (Cassazione, se-zione III civile, 1˚ dicembre 2010 n. 24401) come testimoniato dal lin-guaggio sovente utilizzato che fa ri-ferimento al fatto che «sarebbe irra-gionevole chiedere al Ctu di indica-re quale pratica non fosse stata effet-tuata in modo corretto, poiché il Ctu a distanza di tempo non può certo controllare se gli strumenti utilizzati nella medicazione e le condizioni in cui era avventa fossero state ottima-li» (si veda tribunale di Torino 1˚ marzo 1999) ovvero che l’infezione sopraggiunta all’intervento «era ve-rosimilmente dovuta a un’igiene non adeguata della sala operatoria» (si veda il tribunale di Monza 17 luglio 2006). Del resto, la giurispru-denza in circostanze come queste ha ritenuto configurata la responsabili-tà già per il solo fatto che non risul-tasse debitamente annotato in cartel-la clinica il decorso dell’infezione (ad esempio, Cassazione, sezione III civile, 26 gennaio 2010 n. 1538).

Infezioni nosocomiali e responsabilità del direttore generale e del direttore sanitario

Il risultato combinato è quello di addossare al professionista (Cassa-zione, sezione III civile, 5 luglio 2004 n. 12273) l’onere di contribui-re all’adozione delle misucontribui-re atte a ridurre ed eliminare nei limiti del possibile il rischio da infezione

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no-socomiale nonché di avvisare il pa-ziente... al limite consigliando il ri-covero presso altra struttura (sic!);

si veda Cassazione, sezione III civi-le, 26 giugno 2012 n. 10616 che ha riconosciuto la responsabilità del medico per il cattivo funzionamen-to di una apparecchiatura.

Quanto tale risultato sia lontano da quella che potrebbe essere la prassi è facilmente intuibile. Meno chiaro è spiegare perché non constino nu-merosi precedenti circa la responsa-bilità del direttore generale e del direttore sanitario cui pure, come si è visto, la normativa attribuisce in tema particolari compiti e relativi poteri nell’ambito dell’ampia auto-nomia loro attribuita assieme a quel-la delle istituzioni che sono chiama-ti a dirigere (Corte dei conchiama-ti della Toscana, Sezione giurisdizionale, 1˚ aprile 2008 n. 126).

Ove, infatti, le infezioni nosocomia-li discendessero dalle inefficienze organizzative a essi imputabili que-sti potrebbero risponderne civilmen-te e penalmencivilmen-te. Il direttore genera-le però risponderà di un’eventuagenera-le negligenza nell’organizzazione del-l’unità sanitaria e di mancata denun-cia di deficienze a essa relative (Cas-sazione, sezione III penale, 29 apri-le 2010 n. 22755). Al direttore sani-tario rimane ascritta una responsabi-lità specifica in tema di organizza-zione degli aspetti igienico-tecnico sanitari nonché il potere di

vigilan-za sul rispetto delle indicazioni for-nite (Corte dei conti dell’Umbria, Sezione giurisdizionale, 31 gennaio 2002 n. 39 che afferma la responsa-bilità amministrativa, a titolo di col-pa grave, del commissario straordi-nario e del direttore sanitario di un ospedale per il danno da disservizio e all’immagine conseguenti alle gra-vi carenze del sergra-vizio di cucina do-vute a prolungate negligenze nell’or-ganizzazione generale, inidoneità dei locali, carenza di manutenzione ordinaria e straordinaria, inadegua-tezza delle attrezzature e delle condi-zioni di pulizia, insufficienza delle procedure di vigilanza, si veda an-che Cassazione, sezione III penale, 22 gennaio 1993 n. 511).

In questa prospettiva si può realizza-re un corto circuito della realizza- responsabi-lità ove a discolpa dei dirigenti ve-nissero addotte deficienze struttura-li e di risorse attribuibistruttura-li a mancate autorizzazioni all’acquisto o assun-zione da parte degli enti competenti (le Regioni) chiudendo con una “responsabilità” politica non perse-guibile una irresponsabilità civile di fatto.

Assicurazione e risarcimento prima e dopo

il cosiddetto “decreto Balduzzi”

Sebbene sia centrale in ogni sistema risarcitorio, la problematica della co-pertura assicurativa dei rischi con-nessi all’erogazione di prestazioni sanitarie non è affrontata in modo organico nel nostro ordinamento.

Le polizze oggi presenti sul merca-to coprono assieme ai rischi connes-si all’erogazione della prestazione anche altri, in qualche modo collate-rali, come ad esempio quella da trat-tamento di dati sanitari. Peraltro, gli obblighi assicurativi nel settore so-no assai ridotti, riducendosi, per un verso alle ipotesi di sperimentazio-ne clinica, per l’autorizzaziosperimentazio-ne del-la quale deve essere prestata idonea garanzia assicurativa (articolo 6, comma 1, lettera i), della legge

211/2003) e alle previsioni di con-tratto collettivo nazionale del com-parto a mente del quale le aziende devono agevolare la copertura assi-curativa per i dipendenti relativa-mente alle ipotesi in cui potrebbero rispondere per colpa grave. Ovvia-mente le polizze sul mercato esclu-dono (in quanto il contratto sarebbe nullo) le ipotesi di dolo, sebbene la giurisprudenza continui a permette-re una diversa valutazione in sede penale (ove può essere riconosciuta la natura dolosa di un reato) e in sede civile (sul punto, Cassazione 17 dicembre 2009 n. 26505). Fatte queste premesse è agevole rile-vare come negli ultimi anni si siano registrati fenomeni di crisi nel setto-re consistenti non solo in significati-vi aumenti dei premi assicuratisignificati-vi ri-chiesti ma anche nella difficoltà di trovare idonea copertura sul merca-to, anche a fronte di premi ingenti, da parte di numerose istituzioni

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tarie. Questi fenomeni, assieme alle evidenti ristrettezze economiche in cui versano i sistemi sanitari regio-nali, sovente vincolati da stringenti piani di rientro, hanno spinto alla formulazione di soluzioni sperimen-tali di forme di “autoassicurazione” a livello regionale.

La difficoltà riscontrata negli ultimi anni dalle aziende sanitarie e dagli ospedali a trovare idonea copertura assicurativa (per il passaggio alle polizze claims made e per l’incre-mento dei premi assicurativi) ha mosso diverse Regioni a cercare modalità più efficienti di gestire (purtroppo, raramente di ridurre) i rischi per i pazienti e per il persona-le (ad esempio l’esposizione media-tica e lo stress del giudizio). Spes-so, però, le soluzioni adottate, oltre ad avere condotto a una eterogenei-tà di risposte a volte all’interno del-la medesima Regione, hanno punta-to puramente a una riduzione dei costi assicurativi che si sta rivelan-do effimera perché coincide con una riduzione dei premi ma anche con una riduzione dei rischi coperti (con il conseguente aumento del-l’esborso diretto effettivo) e a una incompiuta centralizzazione delle coperture che diventano una mera sommatoria di rischi e non una ri-partizione in vasche omogenee sul-le quali intervenire sesul-lettivamente. Invero, pur consapevoli di

effettua-re una eccessiva semplificazione, queste forme sono piuttosto una as-sunzione diretta/indiretta dei rischi a carico dei bilanci aziendali e me-diatamente regionali, nella speranza che i risparmipro temporesui pre-mi non vengano azzerati da eventi avversi tali da superare il costo (evi-tato) dei premi stessi.

I meccanismi attuati sono i più vari ma sono (nel migliore dei casi) asso-ciati a polizze per la copertura per danni di particolare entità magari accompagnati da clausole claims made per richiese eccedenti determi-nate soglie.

La difficile esistenza delle clausole claims made

Queste ultime sono state oggetto di numerosi e non sempre convergenti interventi giurisprudenziali relativi alle sue principali due forme. Quel-la cioè che ancora il sinistro assicu-rato nei termini di materializzazio-ne dell’evento avverso e della ri-chiesta di risarcimento alla vigenza del periodo di copertura della poliz-za e quello che, con minore inciden-za sull’oggetto del contratto tipico, identifica il sinistro risarcibile con la richiesta risarcitoria (che avvia il processo per il quale si registrerà eventualmente la perdita patrimonia-le assicurata).

A prescindere dalle varianti - com-merciali e giuridiche - possibili di

queste clausole, la totale chiusura in termini di invalidità per vessatorietà di tali clausole ha trovato una prima smentita in Cassazione 15 marzo 2005 n. 5624 (più di recente si veda anche Cassazione 22 marzo 2013 n. 7273) lasciando la giurisprudenza di merito a oscillare tra recise con-danne (tribunale di Bari 12 luglio 2012, in “Contratti”, 2012, 10, 825; tribunale di Milano 18 marzo 2010, in “Giurisprudenza Italiana”, 2011, 4, 831) e aperte ammissibilità delle relative clausole (Corte di appello di Roma, Sezione III, 22 marzo 2011, in “Massima redazionale”, Utet, 2011; tribunale di Napoli 11 febbraio 2010, in “Assicurazioni”, 2011, 131; tribunale di Crotone, 8 novembre 004, in “Massima reda-zionale”, Utet, 2008).

La novella del Dl 158/2012 sull’impianto assicurativo

Come anticipato, il Dl 158/2012, come modificato in sede di conver-sione dalla legge 189/2012, è inter-venuto (invero solo a livello poten-ziale fino a oggi) sul tema dell’assi-curazione dei danni da responsabili-tà sanitaria. Il comma 2 dell’artico-lo 3 prevedeva che «Con decreto del Presidente della Repubblica, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, da emanare entro il 30 giugno 2013, su proposta del

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stro della salute, di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e dell’economia e delle finanze, sen-tite l’Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA), la Fe-derazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoia-tri, nonché le Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle pro-fessioni sanitarie e le organizzazio-ni sindacali maggiormente rappre-sentative delle categorie professio-nali interessate, anche in attuazione dell’articolo 3, comma 5, letterae), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazio-ni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, al fine di agevolare l’acces-so alla copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie, so-no disciplinati le procedure e i requi-siti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, in conformità ai seguenti criteri:

a) determinare i casi nei quali, sulla base di definite categorie di rischio professionale, prevedere l’obbligo, in capo a un fondo apposi-tamente costituito, di garantire ido-nea copertura assicurativa agli eser-centi le professioni sanitarie. Il fon-do viene finanziato dal contributo dei professionisti che ne facciano espressa richiesta, in misura defini-ta in sede di contratdefini-tazione colletti-va, e da un ulteriore contributo a carico delle imprese autorizzate al-l’esercizio dell’assicurazione per danni derivanti dall’attività medico-professionale, determinato in

misu-ra percentuale ai premi incassati nel precedente esercizio, comunque non superiore al 4% del premio stes-so, con provvedimento adottato dal ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il ministro della Sa-lute e il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite la Federazio-ne nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, non-ché le Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle professioni sanitarie;

b)determinare il soggetto gestore del Fondo di cui alla letteraa)e le sue competenze senza nuovi o mag-giori oneri a carico della finanza pubblica;

c)prevedere che i contratti di as-sicurazione debbano essere stipulati anche in base a condizioni che di-spongano alla scadenza la variazio-ne in aumento o in diminuziovariazio-ne del premio in relazione al verificarsi o meno di sinistri e subordinare co-munque la disdetta della polizza al-la reiterazione di una condotta col-posa da parte del sanitario accertata con sentenza definitiva».

La previsione normativa inizia a de-lineare un sistema di risarcimento obbligatoriamente assicurato e... cal-mierato prono a più opzioni. Sotto il profilo assicurativo è di sicu-ro interesse la previsione di un fon-do non già a garanzia delle vittime quanto a supporto del presunto dan-neggiante e solo indirettamente del-la vittima. Il comma 2, infatti, dopo avere demandato a un emanando re-golamento governativo la disciplina

delle «procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità» dei con-tratti assicurativi per il settore, «al fine di agevolare l’accesso alla co-pertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie» fissa le basi per un vero a e proprio sistema bo-nus malus (lettera c) di cui sopra) calmierato di assicurazione della re-sponsabilità sanitaria.

Su quest’ultimo punto si prospetta assai intelligente immaginare un fondo cui possono accedere (finan-ziandolo in corrispondenza) i profes-sionisti che ne facciano richiesta e che rientrino nelle categorie di ri-schio professionale individuate dal menzionato regolamento, di fatto in concertazione con quasi tutti i sog-getti interessati. Invero, spiccano in-spiegabilmente per assenza nella ric-ca lista di soggetti che il Governo dovrebbe ascoltare sia il mondo dei potenziali danneggiati sia il regola-tore del setregola-tore assicurativo. Il risul-tato di calmieramento previsto do-vrebbe essere sul punto dell’accessi-bilità poiché, e presupponendo il fondo si muova in una logica assicu-rativa, si fisserebbe un parametro di riferimento per il mercato, sebbene agevolato da un sussidio incrociato ben preciso - pari al 4% massimo di contributo a carico dei premi assicu-rativi incassati dalle compagnie nel-l’esercizio precedente.

Il meccanismo non prefigura né una compagnia assicurativa pubblica né un vero piano no-fault. Si prevede solo che certe professionalità mag-giormente esposte possano essere

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sussidiate da altre professionalità meno esposte a rischio garantendo sempre la possibilità del risarcimen-to alla vittima. Se però si considera la prospettiva di una predetermina-zione dei costi risarcitori maggior-mente significativi, le premesse per un passaggio a un risarcimento/in-dennizzo amministrato sono larga-mente poste anche se inspiegabil-mente non coordinate ai profili di riduzione dei rischi sistemici.

Il risarcimento del danno e le tabelle in Rc sanitaria

L’annosa questione della parità di trattamento tra le vittime di danni alla persona aperta dalla previsione in sede di codice delle assicurazioni private dalla previsione di meccani-smi tabellari, distinti per le lesioni di lieve e di non lieve entità (1-9% e 10-100%), per i danni alla salute derivanti da circolazione stradale pa-re trovapa-re risposta positiva per la responsabilità sanitaria. Già il Con-siglio di Stato in sede consultiva

(parere 17 novembre 2011 n. 4209) aveva sollecitato il Governo segna-lando «una possibile conseguenza distorsiva derivante dall’applicazio-ne ai soli sinistri stradali degli indi-ci parametriindi-ci contenuti nelle tabel-le altabel-legate allo schema di regola-mento in questione: infatti, analo-ghe conseguenze sul piano lesivo verrebbero a ottenere differenti trat-tamenti risarcitori, a seconda del so-lo fatto che la lesione sia avvenuta nell’ambito della circolazione stra-dale o meno». Il suggerimento con-seguente all’amministrazione era scontato: si valuti «se sia utile pro-muovere una modifica legislativa in proposito, che consenta di ampliare lo spettro applicativo delle predette tabelle parametriche».

Coerentemente con questo auspi-cio, il comma 3 dell’articolo 3 del Decreto Balduzzi estende le tabelle Rca ai danni da responsabilità sani-taria: «Il danno biologico conse-guente all’attività dell’esercente

del-la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legi-slativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la pro-cedura di cui al comma 1 del predet-to articolo 138 e sulla base dei crite-ri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo».

Tenuto conto che i decreti di attua-zione per la tabella delle liquidazio-ni di non lieve entità in materia di Rca, che dovrebbe essere estesa “eventualmente integrata” con la medesima procedura alla responsabi-lità sanitaria, sono in attesa di essere emanati da più di 12 anni, non pare vi sia molto da sperare dalla novella legislativa che, more italico, fa la legge e ne demanda la piena realiz-zazione a norme successive e secon-darie. Nel frattempo a dominare per la liquidazione del danno in questo settore sono le tabelle adottate dal tribunale di Milano (pubblicate sul sito collegato a questa Guida e

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