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Displacement, Home, Identity, Memory e (Un)belonging nella scrittura diasporica di Caryl Phillips

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Dottorato di Ricerca in Studi Inglesi e Anglo-Americani

Ciclo XXIII

Valeria Polopoli

Displacement, Home, Identity, Memory

e (Un)belonging nella scrittura

diasporica di Caryl Phillips

TESI DI DOTTORATO

COORDINATORE: TUTOR:

Chiar.ma Prof.ssa M. V. D’AMICO Chiar.mo Prof. R. PORTALE

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Ringraziamenti

Desidero qui esprimere i miei più sinceri ringraziamenti alla Chiar.ma Prof.ssa Maria Vittoria D’Amico, Coordinatrice del Dottorato di Ricerca in Studi Inglesi e Anglo-Americani della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania, e alla Chiar.ma Prof.ssa Gemma Persico, mia Co-tutor, per la loro costante disponibilità, i preziosi consigli e suggerimenti che mi hanno sempre dato. Desidero ringraziare, in particolare, il mio Tutor, Chiar.mo Prof. Rosario Portale il quale, con grande rigore scientifico, acribia infinita (e non minor pazienza!) ha seguito ogni passo di questo mio lavoro, fin dalla sua fase ideativa. Last but not least, un grazie di cuore a tutta la mia famiglia.

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INDICE

Introduzione 1

CAPITOLO I

I Postcolonial Studies

1.1 Dal (Post?)colonialismo ai Postcolonial Studies 8 1.2 Oltre la Commonwealth Literature e lo Strutturalismo:

la Colonial Discourse Analysis 15 1.3 Ri-leggere e ri-scrivere il canone occidentale: la periferia

sfida il centro 26

1.4 Said, Bhabha e Spivak: potere, silenzi, resistenze 31 1.5 Identità a rischio: la Diaspora 41 1.6 Postmoderno e Postcoloniale 46

CAPITOLO II

Caryl Phillips: testi e contesti

2.1 Una “High Anxiety of Belonging” 51

2.2 Un Maestro dell’ambiguità 73

CAPITOLO III

The European Tribe

3.1 Una identità europea? 105

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CAPITOLO IV The Atlantic Sound

4.1 L’Atlantico nero 142 4.2 Atlantic Crossing 154 4.3 Leaving Home 163 4.4 Homeward Bound 178 4.5 Exodus 214 CAPITOLO V Higher Ground

5.1 “A chronicle of oppression” 219

5.2 Heartland 223

5.3 The Cargo Rap 234

5.4. Higher Ground 251

Conclusioni 264

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Introduzione

La mobilità è indubbiamente uno dei fenomeni più vistosi dei nostri giorni. La globalizzazione delocalizza intere popolazioni, riduce e, in taluni casi, persino annulla le distanze spazio/temporali; alimenta una condizione di permanente transitorietà, liquidità e fluidità pervasiva. Ci troviamo a vivere in un particolare momento storico in cui, per dirla con Bhabha, “spazio e tempo si intersecano dando vita a immagini in cui differenza e identità, passato e presente, interno ed esterno, inclusione ed esclusione si intrecciano inestricabilmente”1; un tempo

inquieto in cui le nozioni di cultura, identità, appartenenza nazionale (ma non solo) stanno subendo trasformazioni radicali e sono sottoposte a incessanti processi di analisi, re-visione e ri-definizione. Un tempo segnato da una sorta di incompiutezza che offre forme inedite di confronto, conflitto e convivenza, che disegna spazi trans e postnazionali che aboliscono e/o rivoluzionano le tradizionali concezioni di margine e di centro, e in cui la relazione egemonica dominante versus subalterno è necessariamente ri-definita. Dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze e delle alterità, capaci, queste ultime, di destabilizzare certezze e pretese egemoniche, emergono spazi ibridi e interstiziali, contaminati e creolizzati, aperti ed eterogenei.

In questa nuova dimensione di in-betweenes culturale (quel caos-mondo che, direbbe Glissant, non è semplicemente melting-pot ma la

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condizione attraverso cui la totalità-mondo è realizzata) in cui vengono meno alcuni dei concetti cardine della cultura occidentale, (per esempio, quelli di nazionalità, identità, purezza etnica, razza e autenticità culturale) si muovono i soggetti dislocati e ‘dell’altrove’, profughi dalle regioni/ragioni dell’identità, quei soggetti sradicati delle diaspore che caratterizzano e attraversano spazi e tempi della nostra contemporaneità.

A parte quelli ‘storici’ appartenenti al popolo ebraico, soggetti diasporici sono oggi i discendenti degli schiavi africani deportati nelle Indie occidentali prima e nelle Americhe poi, ma anche i protagonisti della ‘diaspora lavorativa’, tutti quei gruppi culturali (minoritari) che per ragioni economiche, politiche o per motivi personali sono inseriti in contesti e spazi transnazionali, ed anche tutte quelle comunità costrette a vivere lontane dalla terra nativa o immaginata tale. In queste diaspore, prodotte dagli imperi, dalle colonizzazioni o dalla segregazione razziale ed etnica, ma anche dalla nacessità di spostarsi per cercare lavoro, il progetto diasporico post-coloniale viene a intersecarsi con quello del border crossing (di cui la figura del migrante è l’emblema), dando vita a un vocabolario che si genera nell’area semantica del movimento, che abbatte e supera ogni confine di natura spaziale, politica, culturale e ideologica.

Il passaggio da una concezione che legava la diaspora alla persecuzione (non solo religiosa) del popolo ebraico a quella secondo cui la diaspora è un evento cha ha colpito molte comunità nella storia dell’umanità producendo effetti traumatici in ogni parte del mondo (la schiavitù, l’emigrazione, la dislocazione, la ricollocazione e la globalizzazione culturale), è avvenuto grazie all’apporto delle analisi

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elaborate dai Postcolonial Studies, dai Cultural Studies e, più recentemente, dai Diaspora Studies. L’attenzione critica posta dai sopra citati ambiti di studio al fenomeno della/e diaspora/e ha evidenziato l’esistenza di una vera e propria mobilitazione multirazziale e multiculturale che si auto-proclama, invoca e rivendica la sua piena accettazione in ogni ambito della sfera personale, pubblica e civile e per la quale concetti come quelli di Displacement, Home, Identity, Memory e

Belonging si caricano di un profondo valore culturale.

Nel presente lavoro, che si muove entro le coordinate stabilite dalla vasta e differenziata costellazione delle elaborazioni critico-teoriche dei

Postcolonial Studies, dei Cultural Studies e dei Diaspora Studies, assumendo come contesto generale la prospettiva postmoderna postulata dai Postmodern Studies, focalizzeremo la nostra analisi sulla

black diaspora, ossia sulla diaspora afro-caraibica di cui Caryl Phillips è, oltre che un discendente, anche uno dei più autorevoli rappresentanti. In particolare, assumeremo a modello interpretativo di riferimento il

Black Atlantic teorizzato da Paul Gilroy, inteso come spazio deterritorializzato, rizomorfo e frattale, che è insieme koinè e background comune alle diverse identità culturali nere.

Caryl Phillips incarna perfettamente il concetto-condizione di diaspora e, conseguentemente, la condizione postmoderna della relatività delle categorie spazio e tempo; è l’esempio più chiaro di quei “punti instabili di identificazione o sutura temporanea”2 che per Stuart

Hall costituiscono le “new ethnicities” in quanto riunisce in un’unica persona le caratteristiche della Britishness e della blackness, della

sameness e dell’ otherness, ‘riconcilia’ l’opposizione centro/periferia,

2 Cfr. S. Hall, “New Ethnicities” in A. Rattansi et al., (eds.), Race, Culture and Difference,

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sfida e attraversa ogni opposizione binaria e destruttura la modernità occidentale. Emblema di quella condizione di transitorietà permanente e di incompiutezza costitutiva a cui s’è fatto riferimento sopra, egli delegittima l’essenzialismo e il concetto di purezza genetica, trasforma le roots in routes, separa la cultura dalla località (le “traveling cultures” di Clifford). Con la nostra indagine, che prende in esame la scrittura di Phillips, ci proponiamo di esplorare le modalità attraverso le quali concetti quali quelli di Displacement, Home, Identity, Memory e (Un)belonging informano i suoi scritti dai forti accenti autobiografici, e di capire se può essa stessa definirsi diasporica. Data la complessità dell’argomento, l’esigua bibliografia sull’autore e la sua vasta produzione letteraria, si è reso necessario operare una selezione dei suoi testi scegliendo di analizzare quelli a nostro avviso più significativi per il nostro assunto. Per l’analisi e la comprensione della produzione culturale dello scrittore ci avverremo delle proposte epistemologiche del poststrutturalismo, del postcolonialismo e del postmodernismo da noi ritenute gli strumenti analitico-epistemologici più idonei alla nostra ricerca. Partendo dalla fondata convinzione che la scrittura diasporica abbia contribuito all’elaborazione di tematiche e di questioni di ordine specificamente postcoloniale, cercheremo di esplorare, con un approccio interdisciplinare e comparatistico che attraversa le frontiere tra differenti campi discorsivi, la dimensione diasporica in The European

Tribe, The Atlantic Sound e Higher Ground.

Il primo capitolo, “I Postcolonial Studies”, è di natura teorico-metodologica. Al fine di introdurre le drammatiche e complesse problematiche connesse alla disapora e di delimitare il campo d’indagine entro i cui confini si muove questa ricerca, abbiamo tracciato

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un essenziale quadro teorico-critico dei Postcolonial Studies all’interno del mondo accademico anglofono, partendo dalla loro nascita e formazione. Abbiamo poi affrontato le controverse questioni terminologiche, oltre che cronologiche, e ripercorso le principali tappe del dibattito critico-storiografico che negli ultimi decenni ha coinvolto e ancor oggi coinvolge il vasto e molteplice campo dei Postcolonial Studies. Abbiamo inoltre fatto riferimento alle più importanti teorie critiche e letterarie e alle procedure discorsive che caratterizzano gli esiti migliori e più significativi di studiosi impegnati in questo campo.

Le numerose rispondenze e la contaminazione tra arte e vita giustificano l’ impianto storico-biografico del secondo capitolo – “Caryl Phillips: testi e contesti” – in cui s’è cercato di delineare, ‘ricostruendola’ nel modo più dettagliato possibile, la contestualizzazione storica della produzione letteraria di Phillips (fatta eccezione per le plays). Partendo dalla considerazione che il dato biografico è quasi sempre alla base della scrittura degli autori diasporici e che nello scrittore/soggetto forzatamente migrante i legami intrecciati tra testo e contesto in cui esso è prodotto sono di solito molto forti, abbiamo cercato di dare una ‘collocazione’ all’opera di Phillips, considerandola nel panorama della sua esperienza individuale e della sua storia personale da un lato, e di quella dei giovani black British di seconda generazione nell’Inghilterra degli anni Settanta e Ottanta dall’altro. In particolare, per la trattazione di questo capitolo ci siamo anche avvalsi di numerosissime interviste rilasciate dall’autore.

I capitoli terzo (“The European Tribe”), quarto (“The Atlantic Sound”)e quinto (“Higher Ground”) che riportano i titoli delle opere che in essi prendiamo in esame, sono di carattere più specificamente

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analitico. I primi due testi analizzati rientrano nel genere della

non-fiction, benchè siano in realtà di difficile collocazione. Protagonista in entrambi è il viaggio, inteso come viaggio reale ma anche metaforico, imprescindibile condizione esistenziale dell’autore e di tutti i soggetti diasporici. In particolare, l’opera giovanile The European Tribe è un resoconto di viaggio che si profila come una sorta di ‘personale e tardivo Grand Tour al contrario’ in cui Phillips, mosso dal bisogno di esplorare il sentimento ambiguo che lo lega /non lo lega al Vecchio Continente, viaggia per l’Europa alla ricerca della sua identità. Al centro di questo book-length essay sono dunque le tematiche dell’Identity e dell’(Un)belonging. Ci proponiamo di esaminare e approfondire le modalità con cui, attraverso la scrittura, egli dà forma e sostanza alle sue lacerazioni di soggetto diasporico, esprime il suo senso di identità di uomo black e British in un’ Europa biancocentrica e il suo sentimento di (non-)appartenenza culturale.

The Atlantic Sound è invece un’opera più complessa nella quale lo scrittore scandaglia, e nel contempo problematizza, l’idea di Home e il significato che essa acquista all’interno della dimensione diasporica. Dopo l’Europa, sono i Caraibi, l’Africa e l’America le tappe di questo viaggio transcontinentale che porta Phillips verso quelle terre alle quali sente in qualche modo di appartenere. Elemento centrale di The Atlantic

Sound, come già si evince dal titolo, è l’Oceano Atlantico, metafora di separazione e unione, spazio che è stato dominato ed è appartenuto all’Altro, luogo che diffrange ma anche locus della memoria storica della tratta degli schiavi. Phillips ‘interroga’ l’Atlantico, tenta di coglierne il suono e la voce, ossia le innumerevoli voci dimenticate e quelle innumerevoli storie di uomini e donne vittime del colonialismo, della

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schiavitù e della diaspora che esso custodisce. In quest’opera, che si configura come un counter-travelogue e una counter memory in cui l’autore ri-porta alla luce vicende e protagonisti di storie minori tralasciate dalla storiagrafia ufficiale, la nostra analisi si focalizzerà soprattutto sulle tematiche di Home e Memory nel mondo liquido e instabile dell’Atlantico nero. Saranno presi in esame gli interrogativi di Phillips sulla memoria, sulla tensione mai risolta di remembering versus

forgetting, sulla fragile relazione tra i ricordo e dimenticanza.

Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, la nostra analisi si focalizzerà su

Higher Ground, un’opera polifonica che attarversa spazi ed epoche diverse e mette in relazione tre storie differenti di tre soggetti diasporici che, pur abitando luoghi e tempi lontani gli uni dagli altri, sono uniti dalla comune condizione di esiliati nella propria terra. La nostra analisi sarà volta a indagare la condizione di displacement non solo fisico, spaziale e geografico che affligge i tre protagonisti ma soprattutto di

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CAPITOLO I

I Postcolonial Studies

1.1 Dal (Post?)colonialismo ai Postcolonial Studies

La nascita dei Postcolonial Studies si fa comunemente risalire alla fine degli anni Settanta in concomitanza o comunque a ridosso della crisi dello strutturalismo. L’eterogeneità e la molteplicità che li caratterizzano, oltre a farne uno dei più stimolanti e controversi campi di studio dell’attuale scenario intellettuale (ma anche politico) internazionale rende assai difficile delimitarne l’ambito d’indagine in maniera soddisfacente. Essi, infatti, si situano al crocevia di numerosissime aree disciplinari che comprendono, intersecano, criticano e/o superano: dalla storia alla filosofia, dalla critica letteraria all’antropologia, dalla sociologia alle scienze politiche, all’economia, al multiculturalismo. La loro intrinseca interdisciplinarietà ne fa indubbiamente un insieme metodologicamente assai variegato di analisi, con grosse oscillazioni di impostazioni, prospettive e approcci ma che tuttavia converge nel porre al centro della propria indagine critica gli esiti del confronto tra popoli e culture in rapporto di dominio e sottomissione nei nuovi contesti determinati dalle lotte di liberazione nazionale1.

La difficoltà nel tentare di definire l’ambito del complesso e articolato settore di studio dei Postcolonial Studies deriva anche dall’ambiguità epistemologica insita nel termine ‛postcolonial’ laddove il prefisso ‛post’ è da accogliersi nella duplice e problematica valenza

1

Su questo aspetto si veda: Elio Di Piazza, “Studi post(coloniali)”, www.culturastudies.it/dizionario/pdf/studi_postcoloniali.pdf.

(13)

temporale e, soprattutto, ideologica: due accezioni cariche di contraddizioni che non sempre coincidono2. In senso letterale, infatti,

secondo la lettura storico-cronologica di tipo descrittivo datane da Stuart Hall, ‘postcolonialism’ sembra riferirsi a una transizione storica, al passaggio dall’età dell’Impero al momento della post-indipendenza o post-decolonizzazione3 e al “complesso processo d’affrancamento dalla

sindrome coloniale”4. Tuttavia, se da un lato si definiscono

postcoloniali i paesi e le società in cui si è assistito allo smantellamento del colonialismo in seguito al raggiungimento dell’indipendenza, dall’altro, in molte delle ex colonie, all’indipendenza politica non è seguita quella economica e /o culturale dagli ex colonizzatori o da una nuova potenza. In quest’ultimo caso, il termine ‛postcolonial’ indica quindi le persistenze coloniali ben oltre l’età delle indipendenze, dell’imperialismo sotto forma di neocolonialismo e, implicitamente, riconosce la chimera di quel ‛post’, il paradosso di quel ‛dopo’ che di

2 Si può parlare anche di uso epistemologico e uso ontologico della nozione di

postcoloniale. Con la prima accezione si definiscono i trattti distintivi di un preciso stadio storico nello sviluppo sociale, economico e culturale dell’umanità, quello della contemporaneità. In questo senso ‘postcoloniale’ può essere usato ad esempio alla stessa stregua di ‛postmodernità’ (J.F. Lyotard, La Condition Postmoderne. Rapport sur le

savoir, Paris, Minuit, 1979) o ‛tardo-capitalismo’ (F. Jameson, The Cultural Logic of Late

Capitalism, London, Rouledge, 1985; D. Harvey, The Condition of Postmodernity, Oxford, Blackwell, 1990). La seconda accezione, invece, nell’ambito della critica o teoria postcoloniale oppure nell’analisi culturale può riferirsi a una sorta di filosofia dell’identità, al tentativo di restituire all’altro quella soggettività sottrattagli dal colonialismo in tutte le sue manifestazioni (G. Spivak, “Gayatri Spivak:The Deconstructive Twist“ in S. Murray (ed.), Postcolonial Theory: Contexts, Practices, Politics London, Verso, 1997, pp. 74-113; H. Bhabha, 1992). Sull’argomento si veda: Miguel Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei

Postcolonial Studies, Meltemi editore, Roma, 2005.

3 Sull’argomento si veda: S. Hall, “When was the ‘Post-colonial’? Thinking at the

Limit” in R. Chambers et al., (eds.), The Post-colonial Question, Rouledge, London, 2006.

4 Cfr. P. Hulme, Colonial Encounters: Europe and the Native Caribbean 1942–1797,

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fatto non è ancora arrivato5. Di questo avviso sono, tra gli altri, Leela

Gandhi e Jean-François Lyotard6. Per L. Gandhi, lo stesso termine

postcoloniale risulta inesatto poiché storicamente la decolonizzazione non coincide non coincide con il crollo delle potenze coloniali; i primi episodi di decolonizzazione risalgono infati al 1700 precedendo di ben due secoli la fase storica postcoloniale7. Per J. F. Lyotard, in una sorta di

ritorsione epistemologica, il prefisso ‛post’ indica proprio il contrario: l’impossibilità di un superamento del colonialismo a causa delle dinamiche del neocolonialismo. Da qui deriva anche la scelta da parte di qualche critico di mantenere graficamente tra parentesi il prefisso ‛post’8. Non meno problematico appare l’uso dell’aggettivo ‛coloniale’

che, come nota Ania Loomba, applicato all’analisi delle società postcoloniali sembra avere azzerato tutto ciò che lo ha preceduto, e cioè la storia di queste società e la loro cultura in ogni sua espressione9.

5 A questo proposito, Benita Parry si chiede provocatoriamente se l’etichetta di

‛postcolonial’ indichi davvero una categoria concettuale o non sia piuttosto una chimera. Invita pertanto a guardare al termine postcoloniale “con sospetto, riconoscendo che il ‛dopo’ che alcuni leggono e celebrano nelle sue produzioni non è ancora arrivato”. Cfr. B. Parry, “The Postcolonial: Conceptual Category or Chimera?”,

The Yearbook of English Studies 27 (1997), p.21.

6 Per Jean-François Lyotard non ha senso di parlare di post-colonialismo visto che il

colonialismo non è ancora tramontato. Sull’argomento si rimanda a: J. F. Lyotard, La

Condition postmoderne:..cit.

7 Sull’argomento si veda: L. Gandhi, Postcolonial Theory. A Critical Introduction,

Edinburgh U.P., Edinburgh, 1998.

8 Alcune tra le varianti grafiche del termine ‛postcolonialism’ sono: post-colonialism,

(post-)colonialism, post(-)colonialism. La scelta da parte di chi scrive non è mai casuale ed esprime piuttosto precise differenze di significato con conseguenti implicazioni ideologiche. In particolare, come hanno affermato tra gli altri Vijay Mishra e Bob Hodge, la presenza del trattino nega l’autonomia al secondo termine: “The word post-colonialism (hyphenated) is not given an independent entry in the OED (1989). It is still a compound in which the ‛post-’ is a prefix which governs the subsequent element. ‛Post-colonial’ thus become something which is ‛post’ or after colonial”. Cfr. V. Mishra, B. Hodge, “What is Post(-)colonialism?“, in P. Williams and L. Chrisman (eds.), Colonial Discourse and Post-Colonial Theory A Reader, New York, Columbia University Press, 1993.

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Allo stesso tempo, però, non mancano coloro i quali mettono in guardia da ogni romantico e sempre troppo semplicistico recupero del passato. Gayatri Spivak, in particolare, sottolinea come l’irruzione del colonialismo sia avvenuta sempre sotto il segno duplice e indissolubile della violazione e della creazione, come essa abbia rappresentato un’incursione, una violenta cesura nella storia preesistente ma anche l’inizio della creazione di un nuova storia in cui il passato rielaborato partecipa della costruzione di un presente ibrido e inedito.

Il termine ‛post-colonialism’ costruito interamente sull’opposizione binaria di tipo temporale prima /dopo, rischia poi di trascurare quell’altra coppia di opposti che per Anne McClintock costituisce invece il vero cuore del problema postcoloniale: l’analisi del soggetto, ovvero della dicotomia colonizzatore /colonizzato. E’ a partire da questa opposizione binaria, che esprime una relazione costruita lungo l’asse delle dinamiche di potere e delle sue mille sfaccettature, che secondo l’ intellettuale americana, bisogna analizzare e teorizzare il ‛post-colonialism’. Il rischio, infatti, sarebbe quello di continuare a fare riferimento all’idea occidentale di una storia lineare che, scandita da un prima e da un dopo il colonialismo, avanza inesorabilmente verso il progresso. Proprio contro la concezione della linearità della storia e della sua inarrestabile marcia, frutto dell’ideologia totalizzante e universalistica dell’Illuminismo e dell’imperialismo, si levano le teorie dei Postcolonial Studies. E’ questo un altro dei paradossi veicolati dal termine ‛post-colonial’ che per McClintock, risulta :

[…] haunted by the very figure of linear ‛development’ that it sets out to dismantle. Metaphorically, the term ‛post-colonialism’ marks history as a series of stages along an epochal road from the ‛pre-colonial’, to ‛the colonial’, to

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‛the post-colonial’- un unbidden if disavowed, commitment to linear time and the idea of ‛development’. […] Metaphorically poised on the border between old and new, end and beginning, the term heralds the end of a world era, but within the same trope of linear progress that animated that era. […] If the theory promises a decentering

of history in hybridity, syncreticism, multi-dimensional

time, and so forth, the singularity of the term effects a re-centering of global history around the single rubric of

European time10.

La conclusione a cui giunge la studiosa americana è prevedibile e mette sotto accusa

[…] the singular, monolithic term [‛post-colonialism’] organized around a binary axis of time rather than power, and which, in its premature celebration of the pastness of colonialism, runs the risk of obscuring the continuities and

discontinuities of colonial and imperial power11.

Una posizione assai vicina a quella di McClintock è quella di Vijay Mishra e Bob Hodge i quali, muovendosi esclusivamente nell’ambito testuale e teorico, si sono soffermati sui limiti semantici del termine, sulla sua valenza ideologica ai fini di una sorta di delegittimazione epistemologica. Essi parlano di ‛postcolonialisms’ ponendo l’accento sulla nozione plurale e complessa di differenza che attraversa e costituisce il ‛postcolonialism’ ma che viene appiattita proprio dall’uso del termine al singolare. Distinguendo tra un “oppositional postcolonialism” (con riferimento alle diverse fasi storiche successive all’indipendenza di ciascuna ex colonia), “complicit postcolonialism” (con riferimento alle molteplici manifestazioni di subordinazione

10 Cfr. A. McClintock, “The Angel of Progress: Pitfalls of the Term Post-colonialism”,

in P. Williams et al., (eds.), Colonial Discourse…, cit., pp. 292-3.

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neocoloniale) e svariate forme di discorso postcoloniale, entrambi sostengono che non si può parlare di “one ‛post-colonialism’ but many postcolonialisms” e che anche la scelta grafica ha delle importanti implicazioni sul piano ideologico poiché:

When we drop the hyphen [we] effectively use ‛postcolonialism’ as an always present tendency in any literature of subjugation marked by a systematic process of cultural domination through the imposition of imperial power. […] This form of ‛postcolonialism’ is not ‛post-’ something or other but is already implicit in the discourses of colonialism themselves. […] Postcolonialism is not a homogeneous category either across all postcolonial

societies or even within a single one12.

E’ proprio sulla valenza ideologica del termine ‘postcolonial’ che puntano i Postcolonial Studies. Sin dalla loro prima comparsa, sul finire degli anni Settanta (la pubblicazione nel 1978 di Orientalism di Said costiuisce un vero e proprio momento di svolta nello studio del colonialismo) l’ attenzione è stata focalizzata sull’ “exposing the making, operation and effects of colonial ideology”13. Benché l’ambito

privilegiato d’indagine critica sia senza alcun dubbio quello testuale e discorsivo, con una forte vocazione teorica, ciò non significa però che l’analisi condotta dagli Studi Postcoloniali, nella varietà di approcci che li caratterizza, abbia del tutto trascurato l’aspetto sociale ed economico. Questo punto, assai dibattuto tra i critici, da un lato è legato alla

posizione che essi stessi assumono e alla diversa lettura che danno dei

Postcolonial Studies, dall’altro alla complessa rete di relazioni che articola il rapporto tra marxismo e teoria postcoloniale. Se c’è chi sostiene infatti

12 Cfr. V. Mishra e B. Hodge, “What is Post(-)colonialism?“…, cit., pp. 287-89. 13 Cfr. A. Loomba, “The Institutionalization of Postcolonial Studies”, in N. Lazarus

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che gli Studi Postcoloniali uniscono all’aspetto concettuale quello materiale, a quello culturale ed epistemologico quello storico e sociale14,

non manca chi invece afferma proprio il contrario. Benita Parry, ad esempio, sostiene che i Postcolonial Studies sono affetti da una sorta di “indifference to social explanation”15, un distacco, cioè, dai contesti

sociali che pure hanno prodotto il colonialismo e all’interno dei quali esso si è attuato ma che si sarebbe tradotto, secondo Arif Dirlik16 e

Masao Miyoshi17, nell’elaborazione di una ‘postcolonial theory’ la cui

analisi del colonialismo ha spesso ‘sganciato’ quest’ultimo dal capitalismo, presentandolo essenzialmente come evento e fatto di natura esclusivamente culturale, puro “ideological exercise”18. Per Aijaz

Ahamad la collocazione dei Postcolonial Studies all’interno del “literary/aestethic realm [at] a great move from the economy” va ricercata nell’influenza determinante che su di essi ha esercitato il pensiero poststrutturalista19.

Non si può certo dubitare che il Poststrutturalismo abbia avuto un ruolo centrale nell’elaborazione della ‘postcolonial theory’ informando, tra l’altro, il pensiero e le opere di Edward Said, Gayatri Spivak e Homi Bhabha, le tre figure di spicco attorno alle quali si raccolgono i tre maggiori filoni d’indagine critica dei Postcolonial Studies. Sul piano

14 John McLeod considera “the postcolonial as hinging together the material and the

epistemological realms [to think about it] as unbreakably hinged to social and historical realities”. Cfr. J. McLeod (ed.), The Routdledge Companion to Postcolonial

Studies, Roudlegde, Oxford, 2007, p. 15.

15 Cfr. B. Parry, in P. Williams e L. Chrisman (eds.), Colonial Discourse…, cit., p. 74. 16 Cfr. A. Dirlik, “The Postcolonial Aura: Third World Criticism in the Age of Global

Capitalism”, Critical Inquiry, XX, 2(Winter 1994), pp. 328-56.

17 Cfr. M. Miyoshi, “A Borderless World? From Colonialism to Transnationalism and

the Decline of the Nation State”, Critical Inquiry, XIX, 4 (Summer 1993), pp. 726-51.

18 Cfr. E.Hobsbawm, The Age of Empire: 1874-1914, New Press, London, 1987 p. 116. 19 Cfr. A. Ahamad, “Postcolonialism: What’s in a name?” in R. de la Campa et al.,

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teorico, infatti, gli Studi Postcoloniali fanno propria l’opera di decostruzione delle Grandi Narrative (storiche, politiche, scientifiche) portata avanti dal poststrutturalismo. Inoltre, a spiegare il legame (riconosciuto da tutti i critici del postcolonialismo, indipendentemente dalle loro posizioni) così stretto tra Postcolonial Studies e poststrutturalismo, tanto che si è anche parlato dei primi come di un surrogato del secondo, concorrono numerosi fattori, a cominciare dalle loro date di nascita. Tuttavia, come tra gli altri ha sostenuto Simon Gikandi, il discorso postcoloniale ha cercato di andare “oltre il poststrutturalismo le sue teorie e i suoi metodi allo spazio coloniale”20.

1.2 Oltre la Commonwealth Literature e lo Strutturalismo: la Colonial Discourse Analysis

E’ tutt’altro che casuale il fatto che gli Studi Postcoloniali si siano affermati in Europa, dapprima in Francia e subito dopo nell’ambiente accademico anglo-americano, in seguito alla crisi negli anni Sessanta della cosiddetta ‛Commonwealth Literature’ da una parte e dello strutturalismo dall’altra. Nata negli anni Cinquanta quale disciplina degli English Studies, la ‛Commonwealth Literature’, poi divenuta ‛New Literatures’, abbracciava e rappresentava la produzione letteraria in lingua inglese di autori non inglesi provenienti da alcune delle ex-colonie e da domini dell’impero britannico. A dispetto della pluralità di voci espressa da un corpus di testi così eterogeneo derivante da realtà geografiche, etniche e culturali assai diverse tra loro (si pensi ad esempio all’Australia, al Canada, alla Nuova Zelanda e ai paesi del Sud-est

20 Cfr. S. Gikandi, “Poststructuralism and postcolonial discourse”, in N. Lazarus (ed.),

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asiatico), essa si faceva portatrice dei valori universali dell’Umanesimo21

significativamente preannunciati in quel ‛Literature’ dell’etichetta al singolare. La ‛Commonwealth Literature’, cioè, poneva al centro del proprio progetto culturale unicamente l’Inghilterra e la sua esperienza coloniale. Allo stesso modo, l’espressione ‛New Literatures’ se da un lato sembrava riconoscere quella pluralità di voci e di identità, dall’altro creava non poche perplessità perchè l’idea insita nel ‛new’ di ‛New Literatures’ inevitabilmente derivava il proprio senso soltanto se posta in contrapposizione alle ‛vecchie’ egemoniche letterature europee. Lo scopo implicito della ‛Commonwealth Literature’ (e delle ‛New Literatures’), i cui principi si fondavano chiaramente sulle concezioni statiche e indifferenziate dell’umanesimo liberale era, dunque, come viene dichiarato nel primo editoriale del Journal of Commonwealth

Literature (1965), quello di tentare di incorporare questi testi nella tradizione letteraria inglese, giudicandoli esclusivamente secondo i paramentri del canone occidentale:

[…] all writing […] takes place within the body of English literature, and becomes subject to the criteria of excellence

by which literary works in English are judged22.

Uno degli obiettivi principali dei Postcolonial Studies era quello di mettere sotto accusa proprio quell’approccio ‘liberal humanist’ su cui si fondava la ‛Commonwealth Literature’: il suo concetto di totalità, l’universalismo etnocentrico che faceva dell’Europa (e dell’Inghilterra

21 Paradossalmente, i valori dell’Umanesimo occidentale sono stati usati a sostegno del

progetto coloniale. Come per primo ha chiarito Fanon, l’effetto del colonialismo è stato di disumanizzare il nativo – un processo che ha trovato la sua giustificazione proprio nei principi dell’Umanesimo. Cfr. Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, Paris, Minuit, 1961.

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in particolare) l’unico soggetto storico universale, la sua fede nello storicismo lineare e progressivo di stampo hegeliano. Essi si proponevano, cioè, di riconfigurare la letteratura del Commonwealth le cui categorie conoscitive e i modi di comprensione, più che strumenti oggettivi di conoscenza, risultavano del pervasi dalla logica eurocentrica, imperialistica e razzista del potere colonialista. Si tratta di problematiche che indicano e fanno emergere una precisa affinità epistemologica tra gli Studi Postcoloniali e gli assunti del poststrutturalismo, del decostruzionismo, del postmodernismo e che necessitano di un breve inquadramento teorico-concettuale. Come questi ultimi, infatti, anche la critica postcoloniale prende di mira il soggetto dell’umanesimo illuminista; diversamente da questi, però, ha come proprio oggetto specifico la decostruzione del soggetto imperialista occidentale, ossia la visione secondo la quale l’Europa

riteneva se stessa l’agente fondamentale di ogni sviluppo storico e il cui percorso, fondato sulla nozione di progresso, costituiva il

principale (se non l’unico) parametro di giudizio nei confronti di tutte le altre culture. E’ precisamente questo ‘sé sovrano dell’Europa’ che gli Studi Postcoloniali si propongono di decostruire rivelando come l’Europa abbia costituito l’Altro come immagine-specchio attraverso la quale essa ha potuto costituire se stessa impedendo al contempo all’altro di portare a compimento l’identificazione23.

In questa visione, la critica decostruzionista di Jacques Derrida del logocentrismo (inteso come il più originario e potente strumento

23 E’ di Gayatri Spivak la formulazione secondo la quale l’Europa negli ultimi secoli si

è costituita “soggetto sovrano, invero sovrano e soggetto”. Cfr. Spivak, “Can The Subalten Speak? Speculation on a Widow Sacrifice” in Bill Ashcroft et al. (eds.), The

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dell’etnocentrismo) e della categoria filosofica del ‘centro’ assume un’importanza determinante mentre la sua teoria sulla différance ha avuto un notevole impatto nella costruzione dell’edificio concettuale dei Postcolonial Studies24. Le elaborazioni teoriche del postcolonialismo

si collocano infatti nell’orizzonte del poststrutturalismo e del pensiero dei filosofi poststrutturalisti francesi degli anni Settanta (oltre a Foucault, Jacques Lacan, Gilles Deleuze e J. F. Lyotard25) che ha avuto

in larga misura come base proprio la teoria della différance elaborata da Derrida: i suoi studi sull’instabilità dei segni, sull’interazione tra linguaggio e rappresentazione nella formazione del soggetto. La sua decostruzione della metafisica occidentale ha assunto via via un’ampiezza sempre maggiore fino a tradursi nell’attacco al logocentrismo (e al suo sodalizio con l’etnocentrismo) che nel proclamare la priorità della scrittura fonetica (imperniata sul privilegio

24 Il debito maggiore dei Postcolonial Studies è da ricondurre soprattutto al pensiero

della ‘decostruzione’ di Jacques Derrida (1930-2004), elaborato in alcuni testi fondamentali scritti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, come: De la grammatologie (Minuit, Paris, 1967) che è l’opera chiave ai fini della comprensione della ‘teoria della differenza’ e che, non è un caso, Spivak ha tradotto in inglese (Cfr. G. Spivak, Of

Grammatology, J.H. University Press, Baltimore, 1976.), L’ Écriture et la différence (Minuit, Paris, 1967); La voix et le phénomène (Seuil, Paris, 1967); La Dissémination (Seuil, Paris, 1972).

25 Il nome dei filosofi francesi Jacques Lacan (1901-1981), Gilles Deleuze (1925-1995) e

Jean-François Lyotard (1924-1998) è associato al postrutturalismo benchè le loro prospettive intrattengano legami tanto intensi quanto ambigui con lo strutturalismo. Nonostante le ovvie e non sottovalutabili differenze, il loro pensiero, caratterizzato da uno spiccato anti-umanesimo, condivide notevole affinità epistemologiche come, ad esempio, la reazione contro il formalismo della linguistica strutturalista, il dissolvimento dell’idea di Verità, l’antistoricismo e la reazione contro la centralità del soggetto epistemologico umanistico. Per questi autori è stata centrale la ripresa del pensiero di Heidegger (1889-1976) e di Nietzsche (1844-1900): i pensatori che contro il primato dell’unità e dell’identità della tradizione metafisica occidentale hanno riconosciuto la positività del molteplice e della differenza. Si tratta di tesi che hanno avuto un’influenza determinante anche per l’elaborazione di Derrida della ‘teoria della differenza’. Su questi aspetti si vedano, in particolare: J. Lacan, Écrits, Seuil, Paris, 1966; G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaires de France, Paris, 1968; J. F. Lyotard, La Condition postmoderne…, cit., 1979.

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della voce, phoné) finiva per coinvolgere il primato della prospettiva eurocentrica: “Il logocentrismo è una metafisica etnocentrica”26, scrive

infatti il filosofo francese. Attraverso l’attacco ai concetti di parola, scrittura, ragione e logica Derrida metteva in pratica una critica del sapere occidentale esercitata sfruttando le risorse ambivalenti della scrittura. Opponendo al logos la nozione di ‘differenza’, infatti, Derrida ‘chiude’ la tradizione della ‘metafisica della presenza’27 caratterizzata

dall’ossessione di un’origine che il logos avrebbe il compito di svelare, di un significato ‘dietro’ le parole. La sua critica si leva soprattutto contro la metafisica logo e fonocentrica, contro il privilegio – accordato fin dai tempi di Platone – all’oralità e al discorso in quanto manifestazioni della presenza metafisica, o Verità, piuttosto che alla scrittura. Focalizzando la sua attenzione sulla lingua – parlata e scritta – come gioco di differenze, di segni che rimandano solo a stessi, egli dichiara l’impossibilità di significati trascendenti e, nel contempo, dell’esistenza di un centro, di un’origine della significazione, di un punto di partenza assoluto. Le conseguenze sono notevoli: viene

26

Cfr. Jacques Derrida, De la Grammatologie…, cit., p. 92.

27 Il pensiero occidentale si è configurato fin dalle sue origini come una ‘metafisica

della presenza’ che ha considerato l’essere alla stregua dell’ente e ha finito con il concepirlo come presenza pura e indefettibile. Il pensiero occidentale, cioè, ha guardato alla verità come manifestazione e presenza dell’essere nella coscienza. Proprio da ciò, secondo Derrida, è scaturito il primato della voce e del parlato (in quanto attestanti questa ‘presenza’) sulla scrittura alla quale è invece essenziale il riferimento a ciò che non è presente, che è altro da sé. Si instaura così una dinamica di identità e differenza che si apre a un gioco infinito di interpretazione e allusione. Il punto di partenza della critica di Derrida alla ‘metafisica della presenza’ è il concetto di ‘struttura’ (paradigma della linguistica strutturale) che è stato sempre presente nell’ épisteme occidentale. L’idea di struttura ha sempre presupposto l’esistenza di un centro, una soggettività a cui essa si rapportava e che veniva inteso come ‘presenza’: origine fissa non partecipe ai mutamenti della struttura stessa; un centro, potremmo dire, occidentale ed etnocentrico. Con la critica alla ‘metafisica della presenza’, Derrida opera un ‘decentramento’ del soggetto rivelando l’esistenza di più soggetti e, in definitiva, la mancanza di un centro. Cfr. Adriana Cavarero, A più voci: filosofia

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dimostrata l’instabilità del testo stesso e del textual meaning che risulta costantemente differito e postposto da significanti che si rimandano gli uni agli altri contaminandosi in un gioco senza fine. Svelando i meccanismi nascosti del funzionamento della lingua, Derrida svela inoltre le dinamiche di potere che la articolano; decostruisce le opposizioni binarie (di cui si è servito il potere coloniale per la propria affermazione) mostrando come esse siano non semplicemente speculari ma gerarchicamente organizzate.

Si tratta di posizioni determinanti ai fini del discorso postcoloniale poiché, come sostiene il filosofo francese, proprio servendosi della parola, del discorso e dei suoi meccanismi tutt’altro che ‘innocenti’ e ‘trasparenti’ il pensiero metafisico occidentale ha presunto di potere conquistare la verità oggettiva facendosene assertore egemone e, in nome di quel possesso, ha assunto atteggiamenti di potenza, di dominio e di onnipotenza. Nell’ambito postcoloniale, in particolare, il concetto di

différance assume una funzione strategica nel campo discorsivo della costruzione dell’identità culturale e nelle teorie anti-essenzialiste che si distanziano da qualsiasi ancoraggio definitivo o assoluto a un’identità essenziale, a un’origine ancestrale e pura (quest’ultima caposaldo, per esempio, del discorso sulla razza e l’etnia)28. Rifiutando l’esistenza di

una pluralità di verità, il pensiero metafisico occidentale, infatti, ha letteralmente costruito la differenza culturale e creato l’identità

28 I Postcolonial Studies hanno proceduto alla decostruzione delle categorie tipiche della

cultura coloniale come ad esempio la razza, la subalternità, l’identità nazionale, denunciandone l’uso ideologio che di quelle stesse categorie ha fatto il discorso coloniale. Mostrando il carattere dinamico e irriducubile della differenza, inoltre, hanno mostrato l’instabilità plurimorfa della nozione di identità. Stuart Hall, in particolare, è stato uno dei maggiori teorici della nozione dell’identità instabile nell’ambito dei Postcolonial Studies (e dei Cultural Studies). Si veda: S. Hall, Questions of

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dell’Altro assegnandogli il ruolo di subalterno. Come si è detto prima, uno degli elementi che contraddistingue la critica poststrutturalista è la sua sistematica messa in discussione della stabilità del segno e del suo rapporto col referente, ossia della visione tradizionale del linguaggio come rappresentazione del reale. Derrida, infatti, dimostra come il linguaggio sia coinvolto nella produzione dei signifcati, della realtà e nella produzione stessa di identità. Attraverso il pensiero poststrutturalista, la teoria postcoloniale rivela come la lingua non soltanto veicola le differenze ma le costruisce, non rappresenta passivamente la realtà ma “precedes it and gives it meaning through a recognition of differences”29.

Grazie al decostruzionismo di Derrida, il poststrutturalismo supera finalmente i limiti dello strutturalismo e realizza fino in fondo il progetto di decostruzione della metafisica occidentale laddove lo strutturalismo invece aveva fallito. Se i pensatori strutturalisti, come ad esempio Claude Lèvi-Strauss30, avevano già intrapreso il progetto di

criticare lo storicismo e di sganciare l’etnocentrismo dall’umanesimo mettendo a nudo l’ eroe umanista, ossia il soggetto sovrano come autore, se essi cioè avevano postulato un primo decentramento del soggetto in nome dell’autonomia della lingua, le loro teorie erano rimaste tuttavia imbrigliate e pesantemente condizionate dall’eredità della tradizione occidentale e dal suo logocentrismo31. L’antropologo

29 Cfr. J. D. Edwards, Postcolonial Literature, Ney York Palgrave Mcmillan, 2008, p. 18. 30 Claude Lèvi-Strauss (1908-2009 ) ha per primo applicato l’indagine strutturale

all’antropologia. Tra le sue opere si segnalano: Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964 e Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960.

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francese, ad esempio, seguendo le teorie di Ferdinand de Saussure32

aveva condannato la scrittura ma aveva continuato a ritenerla ancora supplemento e duplicazione esteriore della parola. Inoltre, l’idea di struttura, teorizzata dai critici strutturalisti era essa stessa legata al pensiero occidentale (“as old as the Western philosophy”33, scrive

Derrida) e, soprattutto, prevedeva la presenza di un centro quale indispensabile principio organizzatore che ne limitava la libertà negandone l’autonomia.

Va tenuto però presente però, come sottolinea Spivack, che decostruzionismo non significa che non ci sia (non ci debba essere?) un soggetto, una verità, una storia ma

[…] it simply questions the privileging of identity so that someone is believed to have the truth. It is not the exposure of error. It is constantly and persistently looking into how truths are produced. That’s why deconstruction doesn’t say logocentrism is a pathology, or metaphysical enclosures are something you can escape. Deconstruction, if one want a formula, is among other things, a persistent

critique of what one cannot want34.

Lo strumento ermeneutico privilegiato di cui il decostruzionismo si è servito in questo suo “looking into how truths are produced”, nello svelare e criticare le operazioni discorsive su cui si è fondato il potere coloniale ed imperiale al fine di sovvertire l’ordine del discorso (così

32 Ferdinand de Saussure (1857-1913), linguista svizzero, fondatore della linguistica

moderna (si veda: F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris, 1922). Le sue teorie sull’arbitrarietà del legame tra significante e significato e sul principio della differenza che regola i meccanismi di funzionamento dei segni di ogni singola lingua hanno avuto un’influenza immensa sullo sviluppo dello strutturalismo

33 Cfr. Jacques Derrida, L’ Écriture et la différence…, cit., p. 352.

34 Cfr. G. C. Spivak, The Spivak Reader: Selected Works Of Gayatri Chakravorty Spivak,

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come è stato teorizzato da Foucault35) ma anche dei silenzi, è la ‘colonial

discourse analysis’36 che guarda alla grande varietà dei testi del

colonialismo considerandoli più che una semplice

[…] documentation or ‘evidence’, and also emphasizes and analyses the ways in which colonialism involved not just a military or economic activity, but permeated forms of knowledge which, if unchallenged, may continue to be the very ones through which we try to analyze and understand colonialism itself37.

La ‘colonial discourse analysis’ è una forma di analisi testuale di stampo fortemente poststrutturalista che attraverso la re-visione e ri-lettura dei testi letterari (e non) che consapevolmente o inconsapevolmente costituiscono l’archivio coloniale, ha come scopo

35 Michel Foucault (1926-1984) intendeva per ‘discorso’ un sistema di enunciati – che si

costituiscono in significati e saperi – che rappresentano un campo presupposto di argomentazione attraverso cui gli individui percepiscono, apprendono e classificano la realtà sociale. Secondo il filosofo francese, i gruppi dominanti producono nei ceti sociali subalterni un sistema arbitrario di valori, significati e conoscenze esperito dai soggetti come un vero e proprio regime di verità. I discorsi si rivelano così autosufficienti poiché formano i soggetti di cui parlano, producono la realtà degli oggetti che rappresentano e dei soggetti e/o gruppi sociali dai quali dipendono. Per Foucault, in particolare, l’ordine culturale dell’Europa moderna si è costituito per mezzo di definizioni discorsive le cui finalità erano quelle di stabilire le forme dell’identità e dell’alterità socio-culturale. I pazzi, i malati di mente, i criminali rappresentavano, ad esempio, quelle categorie di altri e/o diversi in base alle quali si aufondava il sé della ragione moderna. Cfr. M. Mellino, La Critica Postcoloniale…, cit., p. 66 e sgg. Sul concetto di ‘discorso’ si veda: M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris, 1871.

36 Definita anche ‘colonial discourse theory’ o, più semplicemente, ‘colonial discourse’

essa si profila come “lo studio critico dei testi letterari e non che sono stati prodotti che nel contesto dell’imperialismo britannico ma anche degli effetti del colonialismo e dei tetsi letterari sulle società contemporanee”. Cfr. Sara Mills, Discourse, London, Routledge, 1993, p. 94. Tra i suoi principali teorici: E. Said che con Orientalism e sulla scia di quanto sostenuto da Foucault, ha inaugurato negli anni Ottanta la ‘discourse theory’ che basa la sua critica al colonialismo su un approccio essenzialmenet testuale; H. Bhabha e G. Spivak hanno costruito la ‘colonial discourse theory’ ponendo l’accendo sui caratteri dell’ibridismo, dell’ambivalena e della differenza.

37 Cfr. R. Young, White Mithologies: Writing Histories and the West, London, Routledge,

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quello di analizzare l’ideologia coloniale. Se, infatti, i testi esistono nella loro relazione dialettica con il contesto storico e sociale che li ha prodotti, essi sono anche

[…] productive of, particular forms of knowledge, ideologies, power relations, institutions and practices – then an analysis of the texts of imperialism has a particular urgency, given their implication in far-reaching, and continuing systems of domination and economic exploitation38.

Assumendo forme diverse e insinuandosi nelle pieghe del discorso, la ‘colonial discourse analysis’ cerca di individuarvi i modi di rappresentazione del soggetto coloniale, di scardinare la dialettica binaria e manichea del colonialismo che si è retta su soggettività autocentrate e autonome e, nel contempo, passa al vaglio della critica le violenze epistemiche latenti o manifeste operate dalla narrazione occidentale; va alla ricerca di controdiscorsi e /o di eventuali resistenze a quelle stesse rappresentazioni. Essa, cioè, tenta di svelare quel nesso tra Sapere e Potere che è all’opera nell’elaborazione della teoria postcoloniale e che è stato ampiamente teorizzato da Michel Foucault benchè, in tempi più recenti, sia stato Said ad affrontarlo in Orientalism39.

38 Cfr. L. Chrisman, “Colonial Discourse and Post-Colonial…”, cit, p. 96.

39 Per Michel Foucault Sapere e Potere sono indisgiungibili in quanto da un lato,

l’esercio del Potere genera nuove forme di Sapere e, dall’altro, il Sapere porta sempre con sé effetti di Potere. In quest’ottica, i discorsi sono pratiche che dipendono dal Potere ma che anche generano Potere. Tuttavia, una delle critiche più trequenti mosse all’approccio di Foucault è di non avere dato rilievo all’importanza del colonialismo nella configurazione del sistema Sapere/Potere negli stati dell’Europa moderna e per questo motivo alcuni autori postcoloniali hanno tacciato le sue teorie di eurocentrismo. Il superamento di questo residuo etnocentrico della decostruzione foucaltiana della modernità è stato uno degli obittivi fondamentali di Edward Said in

Orientalism. Sull’argomento si rimanda a: M. Foucault, La volontè du savoir, Paris, Gallimard, 1876; E. Said, Orientalism: Western Conceptions of the Orient, London, Random House, 1978.

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Proprio sulla scia di Foucault, Said ha messo in evidenza l’aspetto testuale del colonialismo che viene da lui concepito soprattutto come formazione discorsiva, operazione del discorso che si è espressa in termini simbolici e che si è avvalsa di strategie retoriche e ideologiche che hanno incorporato l’Altro in un determinato sistema di rappresentazioni tutt’altro che ‘innocente’. La ‘colonial discourse analysis’ accusa la pratica storiografica o, quantomeno, problematizza il preteso carattere oggettivo delle fonti, evidenziando come nelle stesse modalità di produzione di un evento in quanto evento storico, nei meccanismi che rendono possibile la registrazione storica siano in gioco strategie di silenziamento e di occultamento. Nell’ambito più specificamente letterario, il sovvertimento del canone Occidentale e lo smantellamento dell’episteme e del discorso occidentale diventano priorità assolute per gli studiosi postcoloniali come sostengono specilamente Gayatri Spivak, Benita Parry e Homi Bhabha:

[…] postcoloniality involves the assumption of a deconstructive philosophical position towards the logocentrism and identitarian metaphysics underpinning Western knowledge reversing, displacing, and seizing the

apparatus of value-coding40. Its purpose [of postcolonial

critique] is to dismantle and displace the truth-claims of

Eurocentric discourses41, […] to intervene in and interrupt

the Western discourses on modernity42.

In particolare, nella sua decostruzione del canone occidentale attraverso la ‘colonial discourse analysis’, il poststrutturalismo si

40 Cfr. Gayatri Spivak, “Post-structuralism, Marginality, Postcoloniality and Value” in

P. Collier et al., (eds.), Literary Theory Today, , Ithaca Cornell University Press, 1990, p. 38.

41 Cfr. Benita Parry, “The Postcolinial Conceptual…”, cit., p. 67.

(30)

configura anzitutto come un metodo di analisi culturale basato sulla ri-lettura e / o la ri-scrittura:

[…] the rereading and rewriting of the European historical and fictional record are vital and inescapable tasks. These subversive manoeuvre […] are what is characteristic of post-colonial texts, as the subversive is characteristic of

post-colonial discourse in general43.

1.3 Ri-leggere e ri-scrivere il canone occidentale: la periferia sfida il centro.

Il nesso tra cultura e imperialismo non è un nesso casuale ed è proprio in nome della consapevolezza del potere che la cultura ha esercitato nel progetto imperiale e coloniale, che l’attività di (ri-)lettura e di ri-scrittura dei testi del canone occidentale, al fine di individuare e svelare le dinamiche di potere che ad essi soggiacciono, si configura come una pratica testuale di centrale importanza per i critici postcoloniali. L’appropriazione / ri-visitazione del canone della cultura occidentale da parte degli autori postcoloniali rappresenta una tappa ineludibile per svincolarlo (e per svincolare se stessi e, più in generale, tutti i soggetti subalterni) da quei condizionamenti ideologico-autoritari che si presumono universali e da quei valori estetici e morali tradizionalmente ritenuti assoluti. Va tenuto presente, infatti, come ha sostenuto John McLeod, che i testi sono sempre

[…] mediations: they do not passively reflect the world but actively interrogate it, take up various positions in relation to prevailing views, resist or critique dominant views of seeing. To read a text in its historical, social and cultural contexts is attend to the ways it dynamically deals with the

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issues it raises. […] For many postcolonial critics, reading an established ‘classic’ of literature written at the time of colonialism often involve exploring its relationship with many of the issues and assumptions thet were

fundamental to colonial discourses44.

Seguendo la lezione di Derrida, secondo il quale i segni non rappresentano alcuna realtà esterna ma ricadono su se stessi, così che “Il n’y a rien hors du text”45, è proprio all’interno dei testi che hanno

costituito l’archivio coloniale che i Postcolonial Studies cercano le tracce del ‘colonial discourse’ tentando di definire le diverse relazioni che la letteratura postcoloniale intrattiene con il canone occidentale. Il testo scritto, cioè, diventa sito di contestazione e/o di resistenza al discorso coloniale cosicchè vedere, leggere, re-interpretare, elaborare e ri-scrivere dal punto di vista del colonizzato i testi scritti nell’Europa coloniale – e pertanto caretterizzati da una visione eurocentrica – significa mettere in discussione l’egemonia culturale dell’Occidente. A questo scopo, vengono di solito identificati tre tipi di relazioni – o di forme di analisi testuale – che si avvalgono delle riflessioni decostruttive (a cui s’è fatto riferimento nel paragrafo precedente) che criticano la pratica ermeneutica tradizionale. Esse articolano il complesso rapporto tra discorso coloniale e discorso postcoloniale nella vasta mole dei testi del canone occidentale ma anche nella postcolonial

writing46.

La prima consiste nel passare al vaglio della critica postcoloniale, ri-leggendoli,quei testi considerati classics nei quali le tematiche coloniali

44 Cfr. J. McLeod, Beginning Postcolonialism, Manchester, Manchester University Press,

2000. p. 144.

45 Cfr. J. Derrida, De la Grammatologie…, cit., p. 158.

46 Nell’individuazione delle tre forme di analisi testuale a cui si fa qui riferimento, ci si

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sono affrontate apertamente: sostenute oppure criticate (si pensi alle controverse interpretazioni di Heart of Darkness di Conrad oppure a

Passage to India di Kipling). Ad essere analizzati e interrogati sono anche testi che, a differenza di quelli sopra citati, apparentemente non sembrerebbero rientrare nell’ambito del discorso coloniale ma dei quali, tuttavia, è possibile dare provocatoriamente una ri-lettura postcoloniale. Rientrano in questa ‘categoria’, ad esempio, sia Jane Eyre di Charlotte Bronte che Mansfield Park di Jane Austen, due ‘classici’ in cui il riferimento al colonialismo è tutt’altro che evidente. Come spiega Said in Culture and Imperialism, infatti, attraverso una ri-lettura contrappuntistica47 si mira a dare del testo scritto un’interpretazione

che non sia univoca ma che faccia simultaneamente affiorare, oltre la cortina della storia metropolitana narrata, tutte le storie ‘altre’ contro e con cui il discorso del potere dominante agisce. In questo modo si vuole gettare luce e fare emergere quel complesso rapporto che lega potere, spazio e forme della rappresentazione e che, benchè sia essenziale per capire la genesi di un fenomeno estetico e la sua dimensione culturale e politica, risulta quasi sempre occultato.

47 In Culture and Imperialism (1993) Edward Said rivendica il ruolo che la narrativa ha

avuto nella storia e nel mondo imperiale; si propone di prenderne in esame le singole opere e di leggerle senza sminuire il loro valore estetico ma considerandole anche come parte ed spressione del rapporto tra cultura e impero. Egli porta avanti la sua critica avvalendosi di una modalità di ri-lettura che chiama “contrappuntistica” derivando la metafora dal contrappunto della musica classica. Come nella musica sono compresenti vari temi che si oppongono gli uni agli altri, ma dai quali deriva una polifonia armonica sulla quale nessun principio melodico è imposto dall’esterno, così ogni opera letteraria del canone occidentale deve essere letta come esperienza unica nel contesto delle relazioni coloniali. Essa, cioè, deve essere interpretata tenendo conto della sua relazione geografica e spaziale con l’impero. Scrive Said: “As we look back to the culture archive, we begin to reread it not univocally but contrappuntually”. Cfr. E. Said, Culture and Imperialism…cit. [corsivo mio].

(33)

La seconda forma di analisi testuale di stampo poststrutturalista è caratterizzata invece dalla ricerca degli indizi di una presenza ‘altra’ e perturbante rispetto a quella imperiale dell’io narrante nei testi ritenuti canonici. Si cerca di individuare le resistenze al progetto imperialista provenienti da parte di coloro ai quali tale progetto era rivolto; si punta, cioè, all’individuazione di forme e di strategie di resistenza anticoloniale da parte del subalterno a cui è stata negata la parola e ogni forma di agency politica. Lo scopo è di recuperare, all’interno degli enunciati coloniali, una presenza dei nativi che sia sovversiva e resistente alla costruzione della loro identità da parte del potere dominante e che sfidi il concetto di soggettività unitaria legato all’ideologia imperialista. Si tratta del tentativo di localizzare nella storia momenti di (ri)appropriazione del senso, di insurrezione o di resistenza da parte dei subalterni coloniali. Tanto Spivak quanto Bhabha, tuttavia, si dimostrano consapevoli dell’impossibiltà di una restituzione ingenua della soggetività dei colonizzati come di un soggetto coeso, coerente e autoreferenziale del tipo di quello umanistico-liberale.

La terza forma di analisi testuale tenta invece di definire i rapporti tra il canone occidentale e la postcolonial writing rivolgendosi, questa volta, all’analisi di testi di autori postcoloniali. Alcuni di questi testi si caratterizzano per il ripudio aperto e dichiarato del canone occidentale, un atteggiamento, questo, tipico di molti autori provenienti dalle ex-colonie. Il sentimento di rifiuto, protesta e resistenza, in questo caso, passa essenzialmente attraverso il particolare uso che della lingua inglese fanno questi autori. I loro testi sono caratterizzati dal tentativo di recuperare la dimensione orale della cultura indigena attraverso

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l’uso di parole – il più delle volte intraducibili – dell’ idioma locale o delle versioni creolizzate dell’inglese cosicchè la lingua risulta meticciata, vale a dire intrisa di forme dialettali mentre forme occidentali vengono usate operando una commistione con le tradizioni autoctone. Ne risultano testi fortemente creativi, ibridi e contaminati, caratterizzati anche dal mancato rispetto della sintassi e/o dalla sovrapposizione di strutture linguistiche del posto. Non mancano tra di essi veri e propri esperimenti letterari che, dal punto di vista linguistico, rappresentano una sfida alla lingua del potere coloniale che subisce un vero e proprio ‛displacement’ e dà vita al proliferare di ‘new Englishes’. In questo modo, la scrittura postcoloniale diventa autorappresentazione e riappropriazione, anche linguistica; esempio della possibilità di quel

writing back che è ad un tempo una sfida e una risposta al potere coloniale occidentale.

In quest’ultima forma di analisi testuale rientra, infine, la vera e propria postcolonial writing che ri-visita, sfida, sovverte, ‛corregge’ i testi canonici occidentali. Il riferimento è a tutte le ri-scritture postcoloniali dei testi della tradizione occidentale che, proprio attraverso l’operazione di re-writing, interrogano l’ideologia del Potere non soltanto per offrire un punto di vista alternativo e inedito rispetto a quello dominante, ma soprattutto per restituire al soggetto colonizzato il controllo della propria storia. Attraverso la creazione di un

counter-discourse, o ‘con-text’, secondo la definizione di John Thieme48 (si pensi,

ad esempio, a Wide Sargasso Sea di Jean Rhys o a Foe di John Maxwell

48 John Thieme in Postcolonial Con-texts:: writing back to the Canon, (London,

Continuum, 2001) definisce con-text: “[…] a body of postcolonial works that take a classic English text as a departure point, supposedely as a strategy for contesting the authority of the canon of English literature”. p. 3.

(35)

Coetzee), lo scrittore postcoloniale, infatti, si dimostra consapevole del ruolo politico e sociale della letteratura e, liberandola dal ‘vincolo occidentale’ a cui era legata, guarda al futuro. La ri-scrittura dei testi del canone occidentale, tuttavia, entrando in relazione dinamica con il classico che ri-scrive e stabilendo un dialogo con esso, non è esente da interpretazioni ambigue secondo le quali tra la versione riscritta e il suo originale viene a instaurarsi una relazione che, per quanto tesa, si traduce comunque in uno scambio reciproco a volte tutt’altro che trasparente:

[…] the postcolonial con-texts [rewitings] invariably seemed to induce e reconsideration of the supposedly hegemonic status of their canonical departures points, opening up fissures in their supposedly solid foundations that undermined the simplism involved in seeing the relationship between ‘source’ and con-text in terms of an oppositional model of influence. Attractive though binary paradigms have been to some postcolonial theorists, the evidence invariably suggested a discursive dialectic operating along a continuum, in which the influence of the ‘original’ could seldom be seen as simply adversarial – or,

at the opposite extreme, complicit49.

1.4 Said, Bhabha e Spivak: potere, silenzi, resistenze

La lezione del poststrutturalismo ha influenzato Edward Said, uno dei maggiori critici postcoloniali, il quale con la pubblicazione nel 1978 di Orientalism ha sancito una sorta di passaggio di consegne dal poststrutturalismo al postcolonialismo50. Si tratta di un testo chiave

nell’ambito dei Postcolonial Studies dove l’assunzione del metodo

49 Ibidem.

50 Cfr. R. Young, White Mythologies. Writing History and the West, London, Routledge,

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