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Ri-leggere e ri-scrivere il canone occidentale: la periferia sfida il centro.

Il nesso tra cultura e imperialismo non è un nesso casuale ed è proprio in nome della consapevolezza del potere che la cultura ha esercitato nel progetto imperiale e coloniale, che l’attività di (ri-)lettura e di ri-scrittura dei testi del canone occidentale, al fine di individuare e svelare le dinamiche di potere che ad essi soggiacciono, si configura come una pratica testuale di centrale importanza per i critici postcoloniali. L’appropriazione / ri-visitazione del canone della cultura occidentale da parte degli autori postcoloniali rappresenta una tappa ineludibile per svincolarlo (e per svincolare se stessi e, più in generale, tutti i soggetti subalterni) da quei condizionamenti ideologico-autoritari che si presumono universali e da quei valori estetici e morali tradizionalmente ritenuti assoluti. Va tenuto presente, infatti, come ha sostenuto John McLeod, che i testi sono sempre

[…] mediations: they do not passively reflect the world but actively interrogate it, take up various positions in relation to prevailing views, resist or critique dominant views of seeing. To read a text in its historical, social and cultural contexts is attend to the ways it dynamically deals with the

issues it raises. […] For many postcolonial critics, reading an established ‘classic’ of literature written at the time of colonialism often involve exploring its relationship with many of the issues and assumptions thet were

fundamental to colonial discourses44.

Seguendo la lezione di Derrida, secondo il quale i segni non rappresentano alcuna realtà esterna ma ricadono su se stessi, così che “Il n’y a rien hors du text”45, è proprio all’interno dei testi che hanno

costituito l’archivio coloniale che i Postcolonial Studies cercano le tracce del ‘colonial discourse’ tentando di definire le diverse relazioni che la letteratura postcoloniale intrattiene con il canone occidentale. Il testo scritto, cioè, diventa sito di contestazione e/o di resistenza al discorso coloniale cosicchè ri-vedere, ri-leggere, re-interpretare, ri-elaborare e ri- scrivere dal punto di vista del colonizzato i testi scritti nell’Europa coloniale – e pertanto caretterizzati da una visione eurocentrica – significa mettere in discussione l’egemonia culturale dell’Occidente. A questo scopo, vengono di solito identificati tre tipi di relazioni – o di forme di analisi testuale – che si avvalgono delle riflessioni decostruttive (a cui s’è fatto riferimento nel paragrafo precedente) che criticano la pratica ermeneutica tradizionale. Esse articolano il complesso rapporto tra discorso coloniale e discorso postcoloniale nella vasta mole dei testi del canone occidentale ma anche nella postcolonial

writing46.

La prima consiste nel passare al vaglio della critica postcoloniale, ri- leggendoli,quei testi considerati classics nei quali le tematiche coloniali

44 Cfr. J. McLeod, Beginning Postcolonialism, Manchester, Manchester University Press,

2000. p. 144.

45 Cfr. J. Derrida, De la Grammatologie…, cit., p. 158.

46 Nell’individuazione delle tre forme di analisi testuale a cui si fa qui riferimento, ci si

sono affrontate apertamente: sostenute oppure criticate (si pensi alle controverse interpretazioni di Heart of Darkness di Conrad oppure a

Passage to India di Kipling). Ad essere analizzati e interrogati sono anche testi che, a differenza di quelli sopra citati, apparentemente non sembrerebbero rientrare nell’ambito del discorso coloniale ma dei quali, tuttavia, è possibile dare provocatoriamente una ri-lettura postcoloniale. Rientrano in questa ‘categoria’, ad esempio, sia Jane Eyre di Charlotte Bronte che Mansfield Park di Jane Austen, due ‘classici’ in cui il riferimento al colonialismo è tutt’altro che evidente. Come spiega Said in Culture and Imperialism, infatti, attraverso una ri-lettura contrappuntistica47 si mira a dare del testo scritto un’interpretazione

che non sia univoca ma che faccia simultaneamente affiorare, oltre la cortina della storia metropolitana narrata, tutte le storie ‘altre’ contro e con cui il discorso del potere dominante agisce. In questo modo si vuole gettare luce e fare emergere quel complesso rapporto che lega potere, spazio e forme della rappresentazione e che, benchè sia essenziale per capire la genesi di un fenomeno estetico e la sua dimensione culturale e politica, risulta quasi sempre occultato.

47 In Culture and Imperialism (1993) Edward Said rivendica il ruolo che la narrativa ha

avuto nella storia e nel mondo imperiale; si propone di prenderne in esame le singole opere e di leggerle senza sminuire il loro valore estetico ma considerandole anche come parte ed spressione del rapporto tra cultura e impero. Egli porta avanti la sua critica avvalendosi di una modalità di ri-lettura che chiama “contrappuntistica” derivando la metafora dal contrappunto della musica classica. Come nella musica sono compresenti vari temi che si oppongono gli uni agli altri, ma dai quali deriva una polifonia armonica sulla quale nessun principio melodico è imposto dall’esterno, così ogni opera letteraria del canone occidentale deve essere letta come esperienza unica nel contesto delle relazioni coloniali. Essa, cioè, deve essere interpretata tenendo conto della sua relazione geografica e spaziale con l’impero. Scrive Said: “As we look back to the culture archive, we begin to reread it not univocally but contrappuntually”. Cfr. E. Said, Culture and Imperialism…cit. [corsivo mio].

La seconda forma di analisi testuale di stampo poststrutturalista è caratterizzata invece dalla ricerca degli indizi di una presenza ‘altra’ e perturbante rispetto a quella imperiale dell’io narrante nei testi ritenuti canonici. Si cerca di individuare le resistenze al progetto imperialista provenienti da parte di coloro ai quali tale progetto era rivolto; si punta, cioè, all’individuazione di forme e di strategie di resistenza anticoloniale da parte del subalterno a cui è stata negata la parola e ogni forma di agency politica. Lo scopo è di recuperare, all’interno degli enunciati coloniali, una presenza dei nativi che sia sovversiva e resistente alla costruzione della loro identità da parte del potere dominante e che sfidi il concetto di soggettività unitaria legato all’ideologia imperialista. Si tratta del tentativo di localizzare nella storia momenti di (ri)appropriazione del senso, di insurrezione o di resistenza da parte dei subalterni coloniali. Tanto Spivak quanto Bhabha, tuttavia, si dimostrano consapevoli dell’impossibiltà di una restituzione ingenua della soggetività dei colonizzati come di un soggetto coeso, coerente e autoreferenziale del tipo di quello umanistico-liberale.

La terza forma di analisi testuale tenta invece di definire i rapporti tra il canone occidentale e la postcolonial writing rivolgendosi, questa volta, all’analisi di testi di autori postcoloniali. Alcuni di questi testi si caratterizzano per il ripudio aperto e dichiarato del canone occidentale, un atteggiamento, questo, tipico di molti autori provenienti dalle ex- colonie. Il sentimento di rifiuto, protesta e resistenza, in questo caso, passa essenzialmente attraverso il particolare uso che della lingua inglese fanno questi autori. I loro testi sono caratterizzati dal tentativo di recuperare la dimensione orale della cultura indigena attraverso

l’uso di parole – il più delle volte intraducibili – dell’ idioma locale o delle versioni creolizzate dell’inglese cosicchè la lingua risulta meticciata, vale a dire intrisa di forme dialettali mentre forme occidentali vengono usate operando una commistione con le tradizioni autoctone. Ne risultano testi fortemente creativi, ibridi e contaminati, caratterizzati anche dal mancato rispetto della sintassi e/o dalla sovrapposizione di strutture linguistiche del posto. Non mancano tra di essi veri e propri esperimenti letterari che, dal punto di vista linguistico, rappresentano una sfida alla lingua del potere coloniale che subisce un vero e proprio ‛displacement’ e dà vita al proliferare di ‘new Englishes’. In questo modo, la scrittura postcoloniale diventa autorappresentazione e riappropriazione, anche linguistica; esempio della possibilità di quel

writing back che è ad un tempo una sfida e una risposta al potere coloniale occidentale.

In quest’ultima forma di analisi testuale rientra, infine, la vera e propria postcolonial writing che ri-visita, sfida, sovverte, ‛corregge’ i testi canonici occidentali. Il riferimento è a tutte le ri-scritture postcoloniali dei testi della tradizione occidentale che, proprio attraverso l’operazione di re-writing, interrogano l’ideologia del Potere non soltanto per offrire un punto di vista alternativo e inedito rispetto a quello dominante, ma soprattutto per restituire al soggetto colonizzato il controllo della propria storia. Attraverso la creazione di un counter-

discourse, o ‘con-text’, secondo la definizione di John Thieme48 (si pensi,

ad esempio, a Wide Sargasso Sea di Jean Rhys o a Foe di John Maxwell

48 John Thieme in Postcolonial Con-texts:: writing back to the Canon, (London,

Continuum, 2001) definisce con-text: “[…] a body of postcolonial works that take a classic English text as a departure point, supposedely as a strategy for contesting the authority of the canon of English literature”. p. 3.

Coetzee), lo scrittore postcoloniale, infatti, si dimostra consapevole del ruolo politico e sociale della letteratura e, liberandola dal ‘vincolo occidentale’ a cui era legata, guarda al futuro. La ri-scrittura dei testi del canone occidentale, tuttavia, entrando in relazione dinamica con il classico che ri-scrive e stabilendo un dialogo con esso, non è esente da interpretazioni ambigue secondo le quali tra la versione riscritta e il suo originale viene a instaurarsi una relazione che, per quanto tesa, si traduce comunque in uno scambio reciproco a volte tutt’altro che trasparente:

[…] the postcolonial con-texts [rewitings] invariably seemed to induce e reconsideration of the supposedly hegemonic status of their canonical departures points, opening up fissures in their supposedly solid foundations that undermined the simplism involved in seeing the relationship between ‘source’ and con-text in terms of an oppositional model of influence. Attractive though binary paradigms have been to some postcolonial theorists, the evidence invariably suggested a discursive dialectic operating along a continuum, in which the influence of the ‘original’ could seldom be seen as simply adversarial – or,

at the opposite extreme, complicit49.