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Il dibattito contemporaneo sulla natura della letteratura e della cultura postcoloniali trova nell’ibridismo uno dei suoi temi e dei suoi passaggi obbligati. Se ne sono occupati, tra gli altri, Stuart Hall, Ahmad Aijaz, Paul Gilroy, Edouard Glissant, Benita Parry e, naturalmente, Said, Spivak e Bhabha (quest’ultimo ha edificato l'intera sua costruzione teorica sulla base di una rilettura del concetto di ibridismo e sulla sua forza dialogica e sovversiva). L’incontro coloniale e postcoloniale costituisce un fattore fondamentale e imprescindibile nel costituirsi dell’ibridismo e delle sua valenze culturali. Sfidando la purezza della tradizione, il processo di ibridazione attraversa e mette in discussione le

opposizioni binarie bianco/nero, indigeno/straniero, centro/periferia, mondo occidentale/terzo mondo su cui si è fondato il discorso coloniale. Benchè, infatti, lo scopo sarebbe quello di tradurre l’identità dell’Altro entro una categoria singola e facilmente manipolabile, l’ibridismo, suo malgrado, fallisce producendo qualcos’altro che va ben al di là di una semplice antagonistica opposizione binaria. Si tratta di quel third space teorizzato da Bhabha, ‘luogo’ interstiziale dell’ambivalenza e della traduzione, dove si collocano le identità cosmopolite, esuli, interstiziali, ibride e diasporiche che caratterizzano la contemporaneità globalizzata e multiculturale. Queste identità, che non sono fisse o predeterminate, risultano invece dal loro essere costamente in divenire, dallo loro fluidità e mobilità e di esse la figura del soggetto diasporico (e migrante in genere) e apatride che varca i confini nazionali e attraversa quelli culturali, rappresenta l’emblema.

Celebrando il movimento e un nuovo ordine ibrido, questa

condizione di perenne dinamismo e liminalità, costituisce una sfida al tradizionale concetto di nazionalismo e di stato-nazione e mette in risalto una dimensione transnazionale oltre che dell’identità anche della cultura così da destabilizzare le strutture fisse e delimitate dell’era imperiale e coloniale. La migrazione, la mobilità e la fluidità che caratteristiche del nostro tempo, problematizzano categorie concettuali come quelle di fissità e di essenzialismo come si evidenzia nella riflessione di Andrew Smith:

If human beings have tended to understand themselves as citizens of nations or as blood members of ethnic

groupings, migration increasingly exposes the

insufficiency of these ways of identifying ourselves. It reveals these identities as stories which are acted out in life but which are not unchangeable. Migrants become

emblematic figures in postcolonial literary studies precisely because they represent a removal from old foundations and from previous grounded ways of thinking about identity. […] Whatever older formations of identity were based in – ancestry, passport, or geography – it is their apparent fixity that migrancy calls into question70.

E’ precisamente in uno spazio socio-culturale delocalizzato che metaforicamente si inscrive il concetto di diaspora che postula la dimensione ibrida e transnazionale di cultura. Fino ai primi anni Novanta del secolo scorso il termine diaspora era usato per riferirsi alla storica frammentazione e dispersione del popolo ebraico. Esso indica tanto la storia secolare dell’esilio dalla propria terra degli ebrei che l’attuale condizione dei soggetti di cultura ebraica che continuano a risiedere altrove rispetto alla madrepatria, oggi identificata con Israele. Originariamente usato per descrivere l’effetto del movimento forzato di un gruppo religioso e/o etnico che trova rifugio e sopravvivenza in un’altra terra ove rimane però minoritario, oggi quel termine comprende invece tutti quei gruppi etnici transnazionali e deterritorializzati che hanno come riferimento una cultura condivisa e innescano, a distanza, forme e manifestazioni di appartenenza come, ad esempio, eventuali progetti di ritorno, costruzione e rafforzamento della loro identità etnica in chiave individuale o collettiva71. Il ricordo e

la nostalgia per la patria di origine (anche immaginata) a cui i soggetti diasporici anelano a ritornare è, infatti, alla base del concetto di

70

Cfr. A. Smith, “Migrancy, hybridity, and postcolonial literay studies” in N. Lazarus (ed.), The Cambridge Companion to Potscolonial…, cit., p. 249.

71 Prendendo in considerazione le diverse forme che la diaspora ha assunto, gli

studiosi individuano categorizzazioni differenti di diaspora. G. Sheffer, per esempio, distingue tra stateless diaspora (quella palestinese) senza uno stato d’origine e state-

based diaspora, mentre R. Cohen, invece, parla di labour diaspora (quelle cinese) e

diaspora che, nell’ambito dei Postcolonial Studies deve essere inteso soprattutto come discorso deteritorializzato e deterritorializzante. Il termine ben lo esemplifica Robert Cohen quando afferma:

Diaspora identifies a relational netwok, characteristically produced by forced dispersal and reluctant scattering. It is not just a word of movement, though purposive, urgent movement is integral to it. Under this sign, push factors are a dominant influence. They make diaspora more than a vogueish synonym for perergrinationn or nomadism. Life itself is at stake in the way the word suggests flight or coerced rather tehan freely chosen experiences of displacement. Slavery, pogroms, indenture, genocide and other unnameable terrors have all figured in the costitution of diasporas and the reproduction of diaspora- consciousness, in which identity is focused less on common territory and more on memory, or, morre accurately, on the socialdynamics of remembrances and

commemoration72.

Il soggetto diasporico media, in una tensione vissuta, le esperienze del vivere e del ricordare/desiderare un altro luogo, e lo fa in quella maniera contrappuntistica di cui parla Said alludendo alla ricchezza della visione dell’esiliato. Questa posizione di perenne tensione e sospensione fra il ‘da dove vieni’ e il ‘dove sei ora’ configura l’identità diasporica come estremamente complessa, fatta non solo di fluidità e contaminazione ma anche di dolore, travaglio, lacerazione e nostalgia. Si evidenzia così la ‘double consciousness’73 dei soggetti diasporici

72 Cfr. R. Cohen et al., (eds.), Migration, Diasporas and Transnationalism, Cheltenham,

Edward Elgar, 1999, p. 121.

73 Il concetto di ‘doppia coscienza’ è stato teorizzato da uno dei padri fondatori del

movimento panafricano, W. E. B. Du Bois, per indicare la condizione di doubleness o

towness in cui inesorabilmente si trova calato l’africano della diaspora che contemporaneamente sperimenta progetti di assimilazione e di resistenza. Se da una parte egli si confronta con la difficoltà di interiorizzare esistenzialmente l’identità americana bianca, dall’altra parte sente di appartenere a un altrove reale o

divisi tra la volontà di sentirsi parte della società in cui vivono e la consapevolezza di appartenere a un’altra cultura, di essere contemporaneamente degli insiders e degli outsiders. Una situazione, questa, che per Salman Rushdie conduce alla creazione di ciò che egli definisce “Imaginary Homelands”74, patrie e spazi della mente, nazioni

inesistenti, identità coerenti ma solo della e nella fantasia; un’idea che richiama quella delle ‘identità tradotte’ postulata da Bhabha e che presenta notevoli affinità epistemologiche anche con il concetto di identità abbozzato da Lacan e Derrida75. La complessa ambivalenza di

queste identità, sottolinea Stuart Hall, deriva anzitutto dalla fortissima instabilità che caratterizza le identità culturali dei soggetti diasporici, alienate e frantumate per definizione e mai stabili:

Cultural Identity is a matter of becoming as well as being. Cultural Identities undergo constant transformation. Far from being eternally fixed […] they are subject to the

continuous play of history, culture and power76.

Questa formazione delle identità, inoltre, mette in crisi concetti classici come quelli di acculturazione o deculturazione, improntati a una visione passiva e repressiva della cultura, per lasciare spazio a nuovi paradigmi che articolano le relazioni tra culture diverse mediante

immaginario, distinto dalla quotidianità. Sull’argomento si veda: W. E. B. Du Bois, The

Souls of Black Folk, New York, The Modern Library, 1996.

74 “ Imaginary Homelands” è anche il titolo della raccolta di saggi in cui lo scrittore

indiano affronta questi argomenti. Cfr. Salman Rushdie, Imaginary Homelands. Essays

and Criticism, 1982-1991, Milano, Mondadori, 1992.

75 Cfr. “The Postcolonial and the Postmodern: the Question of Agency” in H. Bhabha,

The Location of Culture, New York, Routledge, 1994, pp. 293-327.

76 Cfr. S. Hall, ‘Cultural identity and Diaspora’ in L. Chrisman et al., (eds), Discourse

processi di transculturazione che, come ha notato Pratt, hanno luogo nelle zone di contatto, negli spazi sociali asimmetrici dove si materializza lo scontro e la fusione tra culture diverse e avvengono i sincretismi culturali77. James Clifford, a questo proposito, propone

l’espressione ‘travelling cultures’ per sottlineare un nuovo modo di intendere la cultura e le identità culturali viste non più entro una prospettiva stanziale o locale bensì nella dimensione del viaggio, in senso soprattutto metaforico78.