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Said, Bhabha e Spivak: potere, silenzi, resistenze

La lezione del poststrutturalismo ha influenzato Edward Said, uno dei maggiori critici postcoloniali, il quale con la pubblicazione nel 1978 di Orientalism ha sancito una sorta di passaggio di consegne dal poststrutturalismo al postcolonialismo50. Si tratta di un testo chiave

nell’ambito dei Postcolonial Studies dove l’assunzione del metodo

49 Ibidem.

50 Cfr. R. Young, White Mythologies. Writing History and the West, London, Routledge,

archeologico foucaultiano51 ha permesso allo studioso palestinese di

mettere in luce la natura costruita e la funzione retorica dell’ Oriente quale elemento costitutivo della coscienza occidentale e del dominio sull’Altro. Oltre a rivelare la natura essenzialmente testuale e discorsiva dell’Oriente, egli ha reso problematica la stessa idea di Occidente minando alla base la legittimità dei suoi criteri di rappresentazione. Con quest’opera Said ha inaugurato un nuovo modo di studiare il colonialismo e, in particolare, quel complesso intreccio tra la produzione intellettuale del mondo colonialista e la sua progressiva dominazione del mondo52. Prendendo le mosse dalle idee sul Potere

espresse da Gramsci53 e dalla questione della rappresentazione così

come è stata formulata da Foucault – secondo il quale il sapere è costruito a partire da un ambito discorsivo –, Said dimostra come l’Oriente sia il risultato di una costruzione dell’Occidente. La tesi più importante formulata dallo studioso palestinese circa le condizioni discorsive alla base del sapere, infatti, è che i testi dell’Orientalismo possono creare non solo conoscenza ma anche la realtà stessa che sembrano descrivere. Per il suo progetto di dominio sull’Oriente (dominio dapprima intellettuale e subito dopo materiale) e per la sua sua costruzione del discorso sul mondo orientale, l’Occidente si è avvalso infatti di un’impressionante mole di testi e documenti, prodotta dagli studiosi occidentali, di carattere storico, geografico, antropologico

51 Sul metodo archeologico di Foucault si rimanda a: M. Foucault, L'Archéologie du

savoir, Paris, Gallimard, 1969.

52 Cfr. A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism,…, cit., p. 52.

53 Gli scritti di Antonio Gramsci sul concetto di ‘subalterno’, sull’ideologia e sui legami

complessi fra l’etnicità e il capitalismo, la struttura e le credenze sono stati essenziali per lo studio del colonialismo. In particolare, Said riconosce che la categoria gramsciana di egemonia è stata indispensabile per demistificare un radicato concetto di Oriente elaborato a uso e costume dell’Occidente imperialista. Cfr. A. Gramsci,

e politico che hanno creato realtà e conoscenza. Per Said, quindi, non solo l’Europa ha dato forma intelligibile all’Oriente immenso e amorfo, ha dato voce all’Oriente muto e ha parlato per lui, ma la stessa disciplina accademica, chiamata Orientalismo, fa parte della strategia di sottomettere e controllare l’Oriente ed è essa stessa strumento del potere. Il rapporto tra Oriente ed Occidente è una questione esclusivamente di potere, di dominio, di egemonia, e la cultura occidentale gioca un ruolo fondamentale nell’esercizio di influenza e predominio sull’Oriente, concepito come un sé complementare.

A ben vedere, non si tratta di una tesi completamente originale. Già Fanon54 aveva sostenuto che “l’Europa è letteralmente la creazione del

Terzo Mondo”55 e aveva messo in evidenza l’importanza delle

rappresentazioni e della dominazione culturale nel processo e nelle dinamiche coloniali, riconoscendo la centralità dell’ ideologia, delle immagini e degli stereotipi culturali nella formazione delle identità collettive ed individuali. Dalle pagine del suo Peau noire et masques

blancs (1953), lo psichiatra martinicano aveva già lanciato

54 Frantz Fanon (1925-1961), psichiatra, scrittore e filosofo martinicano è stato uno dei

massimi teorici dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Ha studiato e analizzato i meccanismi di alienazione mentale dei colonizzati e degli immigrati. I suoi scritti hanno avuto una profonda influenza sui movimenti radicali degli anni ’60. Il suo anticolonialismo radicale e il suo antiumanesimo si caratterizzano oltre che per la condanna a morte dell’umanesimo europeo e per la consapevolezza che esso sia implicato nella storia del colonialismo, soprattutto per l’esortazione all’insurrezione armata dei popoli oppressi contro le potenze imperialiste. La pubblicazione nel 1961, nel pieno della guerra d’Algeria, di Les damnés de la terre (Paris, Edition Maspero) assesta un colpo mortale all’umanesimo euro-occidentale: Fanon vi sostiene la necessità di una radicale ristrutturazione del pensiero europeo formulando una critica del colonialismo non in quanto fenomeno che si oppone alla cultura europea ma interno ad essa. Questa necessità di riposizionare i sistemi di conoscenza europei così da riportare alla luce come essi hanno funzionato come effetto del loro ‘altro’ coloniale è stata ripresa, tra l’altro, da Said in Orientalism. Cfr. R.J.C. Young, White

Mythologies…, cit.

l’ammonizione secondo la quale un’autentica liberazione dal giogo del colonizzatore sarebbe dovuta necessariamente passare attraverso una decolonizzazione del sapere e della cultura europei. Questa decolonizzazione ‘interna’ diventa ancora più esplicita in Les damnés de

la terre (1961), testo di riferimento nelle analisi e nei dibattiti sul razzismo, sull’antirazzismo e nella genealogia del discorso postcoloniale, dove Fanon riconosce in particolare l’importanza del potere della lingua quale principale strumento nella ri-definizione e svalutazione dell’identità dei colonizzati e vede nell’effettiva ‘presa di parola’ da parte degli indigeni e nel recupero delle loro storie represse, l’unica soluzione al problema dell’alienazione psichica, sociale e culturale di tutti i colonizzati, di tutti i “dannati della terra”, appunto. La forza del Potere che passa attraverso la conoscenza e si serve della parola facendone l’alleato privilegiato per il dominio e la sottomissione dei colonizzati è pertanto un denominatore comune a molti studiosi del postcolonialismo dato che:

The most formidable ally of economic and political control had long been the business of ‘knowing’ other people. This knowing underpinned imperial dominance and became the mode by which they were increasingly persuaded to know themselves: that is, as subordinate to Europe. A consequence of this process of knowing became the export to the colonies of European language, literature and learning as a part of civilizing mission that involves the suppression ofa vast wealth of indigenous cultures

beneath the weight of imperial control56.

Se Orientalism è un attacco al dualismo gerararchico di Occidente e Oriente, è pur vero che nel testo prolifera una miriade di nuovi

dualismi. Proprio questa ambivalenza, nel cuore stesso del discorso di Said, è stata affrontata dallo studioso indiano Homi Bhabha che ha esaminato i temi della differenza culturale e dell’agire subalterno e marginale in rapporto alla riproduzione dell’autorità sociale. Se anche Bhabha riconosce che, per la propria affermazione, il potere coloniale si serve dell’apparato discorsivo egli tuttavia evidenzia come il pensiero coloniale proceda per contrapposizioni stereotipiche e come lo stereotipo, fissando l’alterità in un’immagine atemporale, la riduca a una forma di intellegibilità semplice e soprattutto manipolabile che rende visibile e conoscibile l’altro recuperandolo come qualcosa di già visto. In questo senso, come afferma Sander Gilman, la funzione primaria dello stereotipo è quella di perpetuare un senso artificiale e mistificante di riflettere sull’opposizione noi/loro57. Lo stereotipo cioè,

in quanto modalità di conoscenza e di Potere, permette di controllare ciò che potrebbe destabilizzare l’identità del colonizzatore o la sua visione del mondo. Ciononostante, lungi dall’essere una fonte di sicurezza o di approdo, lo stereotipo si rivela un sistema si rappresentazione complesso e contraddittorio, rassicurante e angosciante allo stesso tempo. Le complesse spiegazioni di Bhabha si sviluppano su una sorta di doppio registro che tiene conto sia delle tematiche psicoanalitiche (con particolare riguardo alla teoria freudiana del feticismo sessuale e alle teorie di Lacan sull’identità) sia di quelle semiotiche implicite nella dimensione discorsiva dell’esercizio dell’autorità. Così facendo egli mostra il paradosso del discorso coloniale e come esso sia fondato su un’inquietudine nei confronti di

57 Sul tema delle stereotipo si veda: S. Gilman, Difference and pathology: Stereotypes of

quell’alterità che risulta al tempo stesso oggetto di desiderio ma anche di derisione58.

Opponendosi alla logica delle opposizioni binarie che costituiscono il discorso coloniale e a Said che ha descritto il sistema di dominazione coloniale come pienamente riuscito e privo di contraddizioni, Bhabha sostiene invece che la costruzione di una rappresentazione dell’Altro non è affatto diretta e regolare ma instabile e viene costamente disarticolata dal soggetto coloniale. Incroci inattesi, infatti, sono impliciti nel processo di ricezione e riproduzione dell’autorità coloniale che, incapace di riprodursi autonomamente nella coscienza dei colonizzati, viene ibridizzata e deformata dal soggetto colonizzato il quale, occupando due luoghi allo stesso tempo, si trova perennemente dislocato e spersonalizzato:

Hybridity is the revaluation of the assumption of colonial identity through the repetition of discriminatory identity effects. It despalys the necessary deformation and displacement of all sites of discrimination and domination. It unsettles the mimetic or narcissistic demands of colonial power but reimplicates its identifications in strategies of subversion that turn the gaze of the discriminated back upon the eye of power. For the colonial hybrid is the articulation of the ambivalent space where the rite of power is enacted on the site of desire, making its objects at

once disciplinary and disseminatory59.

Si assiste così a un proliferare imprevedibile e incontrollabile di soggettività alternative, instabili, antagonistiche e costantemente fluide in grado di indebolire e sovvertire il potere e le relazioni di dominio da

58

E’ soprattutto in The Location of Culture (Routdledge, New York 1994), uno dei testi più incisivi e influenti di Homi Bhabha, che lo studioso indiano, sulla scia di Freud e Lacan, ha analizzato il discorso coloniale come un modo di rappresentazione piuttosto paradossale.

59

cui sono germinate. E’ questo, per Bhabha, lo spazio dell’ibridazione e della negoziazione: è nel divario tra trasmissione e ricezione che emergono le dinamiche della resistenza da parte dei nativi che, sollecitati dai discorsi coloniali a imitare i comportamenti, la cultura e le credenze dei colonizzatori, danno luogo a fenomeni di sincretismo e ad atti di libertà parodica rispetto all’originale; mettono in azione forme di resistenza nei confronti dell’essenzialismo identitario che caratterizza il discorso cololoniale. Questo processo, che Said ha completamente eluso, e che da Bhabha viene denominato mimicry e viene descritto come assolutamente inconscio, può essere così spiegato:

Mimicry is the process by which the colonised subject is reproduced as almost the same, but not quite […] Colonised people are seen as copying the coloniser and in so doing both mock and menace them, so that mimicry is at once resemblance and menace. Mimicry upset the authority of colonial discourse, which is altered and

undermined60.

L’analisi di Bhabha, dunque, traccia una visione dell’identità liminale, ibrida e composita che ponendosi negli interstizi, negli spazi

in-between, ai margini delle grandi narrative, le attraversa in continuazione e ne decostruisce le stesse fondamenta discorsive. Proprio perché il processo di mimicry ha un effetto destabilizzante sulle dinamiche dei discorsi coloniali, il recupero della soggettività dei colonizzati diventa per lo studioso indiano uno degli obiettivi principali della critica postcoloniale.

Assai vicina a questa sua posizione è quella della studiosa bengalese Gaytri Spivak per la quale il progetto coloniale si è

inevitabilmente trasformato in un progetto di creazione di soggetti. Per lei la questione della location, della posizione e del posizionamento dei soggetti colonizzati e dei subalterni61 in genere, diventa centrale. In

particolare, definisce ‘spazio catacretico’ lo spazio sociale in cui l’indigeno si appropria dei significati altrui riscrivendo in essi i segni della propria traccia. In sintonia con Said, Spivak, che ancor più dello scrittore palestinese ha seguito la lezione decostruzionista di Derrida, vede la storia dell’imperialismo e del colonialismo come una ‘violenza epistemica pianificata’62 piuttosto che come produzione disinteressata

di fatti e, con Bhabha, afferma che per comprendere fenomeni complessi quali l’imperialismo occorre superare lo schema binario colonizzatore-colonizzato. Tuttavia, per Spivak riuscire a recuperare le tracce del soggetto subalterno e a ridestarne la voce autentica dal silenzio imposto dalla storia è praticamente impossibile sia perché non si può risalire a un momento puro precedente l’esperienza coloniale63

sia perché, alla stregua di un significante, definisce la coscienza subalterna come silenziosa per definizione: un subalterno che parla non è più tale e solo gli altri possono parlare per lui. Da qui l’aporia,

61 Spivak volutamente mutua il termine ‘subalterno’ dal testo di A. Gramsci, “Ai

margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni” che, scritto nel 1934, compare nel venticinquesimo dei Quaderni del carcere (cit., pp. 2283-89). Nelle sue descrizioni sulle classi Gramsci usa ‘subalterno’ come sinonimo di ‘subordinato’. Nella sua traduzione del testo di Derrida, De la Grammatologie, Spivak utilizza il termine nell’analisi del ‘supplemento’ per descrivere la diversità e il potenziale sovversivo insito nei gruppi dominati e nella rivendicazione del marginale. Cfr, J. Derrida, Of Grammatology,( trans. by G. Spivak), Baltimore, John Hopkins University Press, 1976.

62 Per spiegare il senso della ‘violenza epistemica’ dell’imperialismo e del

colonialismo, Spivak usa l’efficace immagine della “costruzione di un soggetto coloniale che si autoimmola per la glorificazione della missione sociale del coloniazzatore”. Cfr. G.C. Spivak, trad. it., Critica della ragione postcoloniale. Verso una

storia del presente in dissolvenza, Roma, Meltemi editore, 2004.

63 La studiosa bengalese sostiene che il discorso postcoloniale esiste solo come un

‘poi’, come conseguenza del colonialismo e, perciò, incentra la sua analisi sull’imperialismo e sul neocolonialismo.

(riconosciuta) secondo cui la luogotenenza del parlare per/dell’Altro porta con sé il rischio di operare ciò che la Spivak stessa definisce la ‘forclusione dell’informante nativo’64. Alla domanda (condivisa con il

Subaltern studies group) se sia lecito parlare per l’ ‘Altro’, Spivak risponde in maniera controversa e provocatoria in Can the Subaltern

speak? (1993): il subalterno/colonizzato non può parlare; egli, cioè, non può essere rappresentato dal testo coloniale65. Si tratta per Spivak

dell’aporia della Storia occidentale secondo la quale risulta inutile cercare nella Storia tracce di qualcosa che non c’è, cercare di recuperare un soggetto che si è costituito come un effetto discorsivo vuoto e fluttuante che proprio per queste caratteristiche si rivela intraducibile e irrecuperabile.

64La sperimentazione linguistica è una costante nei testi di Spivak, sempre costruiti

secondo le regole della decostruzione. Quello di ‘forclusione’ è un concetto-metafora che la studiosa prende a prestito dalla psicoanalisi freudiana così come è stata riletta da Lacan. Lacan usa il termine ‘forclusione’ o espunzione per spiegare il meccanismo del rigetto primario all’esterno del soggetto di un significante fondamentale che egli chiama il Nome-del-Padre, impossibile da sopportare per il soggetto stesso. La forclusione include quindi sia l’introduzione che l’espulsione dal soggetto del Nome- del-Padre che, non arrivando ad occupare nell’inconscio il posto che dovrebbe, lascia come un ‘buco’. L’espressione ‘informante nativo’ è invece presa a prestito da Spivak dall’etnografia novecentesca basata sul metodo della cosìddetta osservazione partecipante dove l’informante nativo era quel soggetto indigeno che meglio di altri si rivelava in grado di offrire ai colonizzatori una traduzione dei modi di vita e della cultura del gruppo di appartenenza. L’informante nativo era, cioè, un mediatore capace di offrire una conoscenza della differenza culturale tra europei e non europei, usato però dai colonizzatori proprio per dimostrare la sua stessa inferiorità. Per questa ragione Spivak ne fa l’emblema di quel processo di incorporazione dell’Altro che, attraverso precise strategie di inclusione ed esclusione, ha enunciato la teoria della diversità culturale e la supremazia degli europei. Spivak afferma che l’azione dell’Occidente nei confronti dell’informante nativo è stata di forclusione, cioè di esclusione, ma anche di violazione della conoscenza. In proposito si veda: G. C. Spivak, Critica della Ragione…,. cit., p. 81 sgg.

65 La condizione di subalternità per eccellenza secondo Spivak è quelle sperimentata

dalle donne indiane che sono “both an object of colonialist historiography and a subject of insurgency” e in entrambi i casi “the ideological construction of gender keeps the male dominant” Cfr. “Can the Subaltern speak?” in B. Ashcroft, et al., (eds),

La critica a una Storia tutta occidentale, bianca, eurocentrica, scritta sempre dalla parte del Potere, dove non c’è posto per gli ex-centrics, per coloro che stanno ai margini, per i subalterni con le loro storie e i loro drammi, è al centro del Subaltern studies group66 che, formatosi nei

primissimi anni Ottanta, si è posto fin dalla sua nascita l’obiettivo di “decostructing Historiography” recuperando la “small voice of history” e la “politics of the people”67. Posta sotto accusa la storiografia ufficiale

dei colonizzatori, ma anche quella delle élites locali dopo il raggiungimento dell’indipendenza, i Subaltern Studies rivendicano una narrazione della Storia dal basso e dalla periferia, la rivalutazione dell’agency e il protagonismo dei soggetti subalterni:

In so far the academic discourse of history –that is, ‘history’ as a discourse produces at the institutional site of the universalization –is concerned , ‘Europe’ remains the sovereign, theoretical subject of all histories, including the ones we call ‘Indian’, ‘Chinese’, ‘kenian’, and so on. There is a peculiar in which all these histories tend to become variations on a master narrative that could be called ‘the history of Europe’. In this sense ‘Indian historyi itself is in a position of subalternity; one can only articulate subaltern

subject positions in the name of this history68.

66 Riunito intorno allo storico ed economista Ranajit Guha, il collettivo dei Subaltern

Studies si forma in India nel 1982 e ha come base l’Università di Delhi. Costituisce una delle scuole fondamentali dei Cultural Studies sviluppatesi nel Sud-Est asiatico e si pone il fine di ricostruire la storia del subcontinente indiano dando voce ai subalterni che tanto la storiografia ufficiale occidentale prima quanto le élites nazionaliste dopo l’indipendenza hanno silenziato. Del gruppo originario, a cui si aggiungerà anche Spivak, erano membri, tra gli altri, Shahid Amin, David Arnold, Partha Chatteerjee, David Hardiman, Gyanendra Pandey e Dipesh Chakrabarty. Le loro idee sono espresse nella collana Subaltern Studies. Writing on South Asian History and Society che dal 1982 ad oggi è giunta al suo undicesimo volume.

67 Cfr. R. Guha, Subaltern Studies 11: Writings on South Asian and Society, Oxford

University Press, Delhi, 1982, pp. 2-6.

68 D. Chakrabarty, “Postcolonial and the Artifice of History: Who speaks for Indian

In particolare, l’ obiettivo dei Subaltern Studies (ma non di Spivak che pure ha ampiamente collaborato con essi) è di recuperare all’interno degli enunciati coloniali una presenza dei nativi sovversiva e resistente, di ridare loro quella agency di cui il potere coloniale li ha ‘derubati’. Partendo dal principio che la Storia è anzitutto narrazione, il gruppo di studiosi indiani attraverso analisi narrative di tipo strutturalista, si è molto interessato alle strategie narrative e retoriche di cui si è servita la storiografia al fine di opporvi una “prose of counter-insurgency”69, una

rete fatta dalle molteplici storie distinte, irriducibili e resistenti a qualsiasi schema onnicomprensivo occidentale. L’obiettivo, dichiarato, è di decolonizzare la Storia ovvero di decostruire una narrazione storiografica che ha posto l’Occidente come unico e attivo protagonista della vicenda umana.