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L'Amphitruo di Plauto: due esempi di rifacimento fra il XII e il XV secolo.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

L’Amphitruo di Plauto: due esempi di rifacimento fra il XII e il XV secolo.

CANDIDATO RELATORE

Alice Rossi Prof.ssa Elena Rossi Linguanti CORRELATORE

Prof. Alessandro Russo

(3)

INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I: L’AMPHITRUO DI PLAUTO, IL GETA DI VITALE DE BLOIS E LA NOVELLA DI GETA E BIRRIA

1. L’Amphitruo di Plauto 1.1 L’autore e l’opera

1.2 La fortuna dell’Amphitruo di Plauto
 2. Il Geta di Vitale de Blois


2.1 L’autore e l’opera
 2.2 Il modello

2.3 La fortuna del Geta 3. La Novella di Geta e Birria


3.1 L’autore e l’opera
 3.2 Il modello

CAPITOLO II: L’ANFITRIONE, IL GETA DI VITALE DE BLOIS E LA NOVELLA DI GETA E BIRRIA A CONFRONTO

1. Il prologo


1.1 Plauto, Amphitruo
 1.2 Vitale de Blois, Geta


1.3 La Novella di Geta e Birria

2. La vicenda


2.1 Plauto, Amphitruo: Il dialogo tra Sosia e Mercurio (vv. 153-462)
 2.2 Vitale de Blois, Geta: Il ritorno di Anfitrione e il dialogo tra Geta e Birria (vv. 23 - 229)

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2.3 La Novella di Geta e Birria: La partenza di Anfitrione, il suo ritor no ed il dialogo tra Geta e Birria (ottave 4-91)

2.4 Vitale de Blois, Geta: Il dialogo tra Geta e Arcade (vv. 229-422)
 2.5 La Novella di Geta e Birria: Il dialogo tra Geta e Arcade (ottave 95-146)

2.6 Plauto, Amphitruo

2.6.1 Il dialogo tra Alcmena e Giove (vv. 499-550)
 2.6.2 Il dialogo tra Sosia e Anfitrione (vv. 551-632) 2.6.3 Dialogo tra Alcmena e Anfitrione (vv. 633-860) 2.6.4 Il secondo dialogo tra Giove ed Alcmena (882-955) 2.6.5 La crisi di Anfitrione (vv. 956-1052)

2.7 Vitale di Blois, Geta: Il dialogo tra Geta e Anfitrione (vv. 422-488) 2.8 La Novella di Geta e Birria Il dialogo tra Geta e Anfitrione (ottave 147-169)

3. La conclusione

3.1 Plauto, Amphitruo: Il finale (vv. 1053-1145) 3.2 Vitale de Blois, Geta: Il finale (Vv. 499-530)


3.3 La Novella di Geta e Birria: Il finale (ottave 170-186)

CONCLUSIONI

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INTRODUZIONE

Il presente elaborato analizza due dei rifacimenti che l’Amphitruo di Plauto ha ispirato dall’età tardo antica a quella contemporanea. I testi presi in esame sono il Geta di Vitale de Blois, opera di area francese del XIII secolo, e La Novella di Geta e Birria, rifacimento italiano di epoca umanistica sul cui autore non si hanno notizie certe.

L’analisi di queste opere ha lo scopo di riconoscere ciò che di plautino è rimasto all’interno dei due testi e ciò che, invece, costituisce un’innovazione degli autori. La scelta di intraprendere questo lavoro è dettata dalla volontà di arricchire la let-teratura inerente i rifacimenti delle commedie plautine, infatti a bibliografia ri-guardante i due testi non è ampia e tratta prevalentemente delle opere stesse, non dedicando molto spazio al confronto col modello. Manca, in particolare, un’anali-si parallela delle tre opere che ne evidenzi i punti comuni e le differenze, ed è pro-prio questa lacuna che si è cercato di colmare.

Dal punto di vista metodologico, si è scelto di tenere come punto di riferimento l’Amphitruo, modello dei due testi, per confrontare, sezione per sezione ed in se-quenza cronologica, il Geta e la Novella. In particolare, poiché lo svolgimento rimane prevalentemente lo stesso nei rifacimenti, si è seguito lo sviluppo della storia dall’inizio sino alla conclusione. In questo modo risultano più evidenti le similitudini e le differenze che riguardano non solo la struttura dell’opera, ma an-che i personaggi ed i messaggi sottesi al testo.

Ci si chiede cosa sia stato mutuato da Plauto per quanto riguarda la vicenda, in che modo vengano trattati gli episodi presenti nel modello e quanto spazio venga dato loro. Nell’indagare le caratteristiche dei personaggi l’attenzione si concentra sulla loro psicologia, su quanto di plautino sia rimasto in loro e su cosa, nei nuovi caratteri introdotti dagli autori, si volesse comunicare tenendo conto del contesto culturale e del pensiero dell’autore.

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L’elaborato è diviso in due capitoli. Il primo fornisce una panoramica concentran-dosi sull’autore, la datazione, l modello e sulla fortuna. In particolare, questo ini-zia con l’analisi dall’Amphitruo, fornendone un inquadramento temporale e deli-neando la vicenda. Oggetto del discorso è anche la fortuna dell’opera, che ha ispi-rato moltissimi rifacimenti, pure in epoca contemporanea. Per quanto riguardo il Geta, si è delineata la figura dell’autore, Vitale de Blois, e fornito un breve sunto dell’opera. A ciò si aggiunge un approfondimento sulle questioni più controverse riguardanti il modello e la datazione del testo, per poi concludere con delle consi-derazioni circa la fortuna dell’opera. Il capitolo si chiude con la sezione dedicata alla Novella di Geta e Birria, della quale vengono spiegate le difficoltà nell’indi-viduarne il modello e nell'attribuirlo ad un autore.

Il secondo capitolo si concentra, sezione per sezione, sulle similitudini e differen-ze tra strutture, temi e personaggi, ponendo sempre come metro di paragone l’Amphitruo.

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CAPITOLO I

L’AMPHITRUO DI PLAUTO, IL GETA DI VITALE DE BLOIS E LA NOVELLA DI GETA E BIRRIA

1. L’Amphitruo di Plauto 1.1 L’autore e l’opera

L’Anfitrione è una commedia scritta da Plauto verso gli ultimi decenni del III se-colo ed il primo del II sese-colo e composta da 1146 versi - con una parte perduta - 1 in cui viene rappresentata la vicenda del comandante tebano Anfitrione e della moglie Alcmena.

Il condottiero, di ritorno a casa dalla guerra coi Teleboi capeggiati dal re Pterela, si trova a vivere un fatto incredibile: il dio Giove, innamorato di Alcmena, ha as-sunto le sembianze di Anfitrione per poter giacere con la sua sposa, mentre il fi-glio Mercurio veste i panni del servo Sosia per tenere lontani dalla casa disturba-tori e padroni di casa.

Alla fine, dopo aver creato non poco scompiglio, il dio chiarisce l’accaduto ed Alcmena dà alla luce due gemelli, uno mortale figlio di Anfitrione e un altro bam-bino dalla forza straordinaria, Ercole, erede di Giove.

La commedia si fonda sull’equivoco e sullo scambio d’identità che coinvolge sia Anfitrione che il servo Sosia. Ciò crea nei due personaggi una crisi relativa al proprio ruolo, alla propria esistenza ed alle personali esperienze di vita.

1.2 La fortuna dell’Amphitruo di Plauto

Questa commedia, più che altre, rappresenta un caso esemplare di ricezione dei classici, vista l’ampiezza dello spettro geografico e dei generi letterari di

Per maggiori informazioni sulla questione della datazione dell’Amphitruo si rinvia a: A. DE LO

1

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zione. L’opera è stata oggetto di numerosi rifacimenti , narrando una vicenda - 2 quella di Giove che prende le sembianze di Anfitrione per sedurne la moglie Alc-mena - che ha fornito materiale per rielaborazioni eterogenee in svariate epoche e linguaggi artistici.

La tematica del doppio si è difatti prestata a molte riletture, attraversando i secoli e giungendo sino all’età contemporanea.

Il tema ha affascinato nei secoli autori della statura di Rotrou (Les Sosies, 1638) Molière (Amphitryon, 1667), Kleist (Amphitryon, 1807) e Giraudoux (Amphitryon 38, 1929), i quali hanno rivisitato in maniera sempre nuova il tema della perdita d’identità . 3

2. Il Geta di Vitale de Blois 2.1 L’autore e l’opera

Vitale de Blois fu un dotto clericus vissuto nella prima metà del XIII secolo nella 4 valle della Loira, che aveva probabilmente studiato gli auctores e la logica sotto la guida dei grandi maestri dell’epoca: a Parigi con Abelardo e a Chartres con Ber-nardo, Teodorico e Guglielmo di Conches. Secondo Bertini, questa solida base culturale “gli consentì da un lato di scrivere in un latino elegante, ricco di remini-scenze ovidiane e virgiliane, dall’altro di possedere una sicura conoscenza dei principali problemi che si dibattevano nel secolo XII, vale a dire il problema degli universali e quello delle origini del mondo e dell’uomo ”.5

Per un approfondimento sui rifacimenti dell’Amphitruo si rimanda: Ö. LINDBERGER, The tran

2

-sformations of Amphitrion, Almqvist & Wiksell, Stockholm, 1956; R. ONIGA, Le riscritture del-l’Anfitrione dal Medioevo all’età contemporanea, Università degli studi di Udine, 2016; M.

FU-SILLO, L’altro e lo stesso teoria e storia del doppio, Mucchi editore, 2012, pp. 90 - 109. Sull’argomento M. FUSILLO, L’altro e lo stesso…op. cit., p. 90.

3

Le informazioni sulla vita di Vitale de Blois sono riprese da G. FERRONI, Figure del doppio, in 4

La semiotica ed il doppio teatrale, Liguori Editore, Napoli, 1981, pp. 313 e seguenti.

F. BERTINI, Il "Geta" di Vitale di Blois e la scuola di Abelardo in Sandalion, Vol. 2 (1979). 5

(9)

La filosofia costituisce il sottofondo costante del Geta , composto attorno al 1125-6

1130 rielaborando l’Amphitruo. Il testo fu redatto verosimilmente per gioco e concepito per essere recitato di fronte ad un pubblico di clerici dotti e spiritosi, che potevano apprezzare le allusioni parodiche alle dispute filosofiche della scuo-la di Parigi oltre alle raffinatezze linguistiche e retoriche di Vitale.

La trama dell’opera non si discosta molto da quella dell’Amphitruo. Il protagoni-sta non è più il condottiero tebano, ma il suo schiavo Geta - con cui il blesense sostituisce Sosia - che parte con lui per studiare filosofia in Grecia. Al loro ritorno Geta viene mandato da Anfitrione ad annunciare alla moglie Alcmena il rientro in patria del coniuge e lo schiavo si trova a doversi difendere dagli attacchi di Arca-de . Quest’ultimo tenta di convincerlo Arca-della sua perdita iArca-dentità al fine di prolun7 -gare l’incontro amoroso tra Giove ed Alcmena. Nelle vicenda sono presenti episo-di comici che hanno come protagonisti Geta e l’altro nuovo personaggio del testo: Birria, il suo compagno di servitù pigro e goloso. L’opera si conclude con la rap-pacificazione tra Anfitrione ed Alcmena dopo i sospetti di tradimento da parte del marito.

Vitale opera innovazioni sia per quanto riguarda i personaggi che per la declina-zione del tema della perdita dell’identità: introduce due nuovi personaggi, Geta, che sostituisce Sosia e ne acquisisce le esperienze, e Birria, che fa da spalla comi-ca all’amico; il tema della perdita dell’identità viene rielaborato in chiave polemi-ca ed attualizzato nel contesto storico in cui l’autore si trova a vivere . 8

Per il testo di riferimento: VITALE DE BLOIS, Geta, in Commedie latine del XII e XIII secolo,

6

Genova 1980

Vitale sceglie questa variante per indicare Mercurio. 7

F. BERTINI, Il "Geta" di Vitale di Blois e la scuola di Abelardo in Sandalion, Vol. 2 (1979), p. 8

(10)

2.2 Il modello

La domanda che la critica si è posta riguardo a quest’opera è se Vitale si sia basato sull’Amphitruo plautino o su un suo rifacimento successivo. Gli studiosi si sono divisi tra chi ritiene che il clericus abbia letto direttamente Plauto (Schmidt , El9 -liot e Bate ) e chi, invece, ritiene che il francese avesse come modello una 10 11 commedia tardo antica.

Bertini ritiene certo che l’Aulularia di Vitale abbia avuto come modello un testo tardo antico, il Querolus , e conclude che la stessa cosa può essere verosimile 12

per l’opera in questione. Bisogna inoltre aggiungere che Plauto in età medievale era poco conosciuto, a differenza di altri autori classici come Ovidio e Terenzio; non pare perciò infondato ritenere che il Geta sia stato composto sulla base di un modello simile e coevo a quello del Querolus.

Infine, nel prologo plautino, Mercurio viene identificato come Arcadis, aggettivo sostantivato che non risulta attestato prima di Lucano , o comunque non prima 13 del IV secolo. Si tratta quindi di un altro argomento a favore di chi sostiene che Vitale si sia rifatto ad un modello tardo-antico.

Esistono anche degli argomenti a sostegno della conoscenza di Plauto in epoca medievale.

W. SCHMIDT, Untersuchungen zum “Geta” des Vitales Blesensis, Ratingen-Kastellaun-Düssel

9

-dorf 1975

A.G. ELLIOT, Geta by Vitalis of Blois, in “Allegorica”, 1978 10

A.K. BATE, Twelfth Century Latin Comedies, and the Theatre, in “Papers of the Liverpool La

11

-tin Seminar”, Second Volume, 1979

Palliata tratta dall’Aulularia di Plauto e scritta tra la fine del IV secolo e l'inizio del V da un

12

autore ignoto, probabilmente nella cerchia di conoscenze di Rutilio Namaziano M.A. LUCANO, Pharsalia, IX, 661

(11)

Il Manitius pensava di aver trovato nel De cultu imaginum, trattato composto 14 intorno all’840 da Giona di Orléans, delle tracce della conoscenza dell’Amphitruo. Il testo è stato composto per confutare le tesi eterodosse di Claudio da Torino: Giona lo invita ad entrare nelle basiliche dei martiri per purificarsi ed accenna alla commedia plautina: et tunc faberis quod nunc negas, et tuum nomen, qui in Vigi-lantio loqueris, libere proclamabis te esse aut Mercurium, propter nummorum cu-poditatem, aut Nocturnium iuxta Plauti Amphitryonem, quo dormiente, in Alcme-nae adulterio duas noctes Jupiter copulavit , ut magna fortitudinis Hercules na-sceretur […]. Tale citazione è entrata a far parte delle poche testimonianze sulla conoscenza di Plauto in epoca medievale. Gaiser, ad esempio, riteneva che la menzione di alcuni particolari come la doppia notte e la nascita di Ercole dimo-strassero la conoscenza diretta di Plauto. Bertini smonta tuttavia la tesi di Gaiser 15 dimostrando che la citazione riportata da Manitius era stata ripresa da Giona dal-l’Adversus Vigilantium di Gerolamo. Giona, quindi, non conosceva direttamente Plauto ma si era limitato a citare Gerolamo che, evidentemente, conosceva Plauto. Tuttavia, queste informazioni non sono utili ad individuare la fonte dell’opera di Vitale. In conclusione, mentre come è stato ormai quasi accertato il modello di Vitale fu il Querolus di un anonimo, sembra ragionevole supporre che il Geta sia stato composto sulla base di un modello analogo e coevo.

2.3 La fortuna del Geta

L’opera di Vitale godette sin da subito, e con un’ampiezza considerevole, di una grande fortuna , tanto da essere tramandato da circa settanta manoscritti e da di16

M. MANITIUS, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, vol. 1, München, 1911, 14

p. 379.

F. BERTINI, Introduzione a VITALE DE BLOIS, Geta, in Commedie latine del XII e XIII se- 15

colo, Genova 1980 . p. 147

Per la fortuna del Geta le informazioni sono riprese da F. BERTINI, Introduzione…op. cit. p. 16

(12)

ventare essa stessa modello da imitare. Il suo successo fu così grande nei due se-coli successivi la sua stesura che si sostituì in pratica alla conoscenza diretta del-l’Amphitruo, lo stesso Petrarca lo riteneva opera di Plauto . 17

Il primo adattamento è di area francese ed in lingua francese antica, ad opera di Eustache Deschamps: Traicté de Geta et d’Amphitryon, un poemetto in ottonari 18 di 1106 versi rimasto inedito sino al 1872, anno in cui il marchese Queux de Saint Hilaire fece pubblicare l’opera a Parigi; tale pubblicazione fu poi seguita da quella del 1893, voluta da Gaston Raynaud.

Il testo di Vitale varcò i Pirenei, giungendo anche alla corte spagnola; esistono dei riferimenti a Birria e alla sua pigrizia nel Cancionero che Juan Alfonso de Baena scrisse per Giovanni II contro il Cardinale Don Pedro Fernàndez de Frìas, oltre che alla furbizia di Geta.

Il lavoro di Vitale perse la sua fama a causa della riscoperta umanistica delle commedie plautine e molti studiosi del Settecento lo ritenevano un volgarizza-mento dell’Amphitruo . Così il Geta cadde nell’oblio fino al 1833, anno in cui il 19

Cardinale Angelo Mai ne pubblicò un’edizione e risvegliò per il testo un tiepido interesse.

3. La Novella di Geta e Birria 3.1 L’autore e l’opera

La novella di Geta e Birria è un cantare in ottave di 186 ottave e 1500 versi di area toscana che ripropone la vicenda dell’Anfitrione di Plauto. Si ritiene che sia

M. FUSILLO, Variazioni su un mito: l’Anfitrione sulla scena moderna in L’altro e lo stesso… 17

op. cit., p. 94.

F. BERTINI, La commedia elegiaca latina in Francia nel secolo XII: con un saggio di traduzio

18

-ne dell'Amphitryo di Vitale di Blois, Genova (1973), pp. 69-75.

F. BERTINI, Introduzione…op. cit., p.159.

(13)

stato scritto sul finire del secolo XIV e continuato nella prima metà del secolo successivo.

La Novella, per nomi dei personaggi e vicenda, è più vicina al Geta di Vitale de Blois che non all’originale plautino: l’autore riprende la vicenda dallo scrittore a lui cronologicamente più vicino.

Ciò si evince dalla narrazione dei fatti che ricalca la storia così come narrata nel-l’opera di Vitale. Vi si ritrovano Anfitrione e Geta che partono per studiare filoso-fia ad Atene così come il nuovo personaggio Birria. La sequenza dei fatti è analo-ga a quella narrata dal blesense, compreso l’epilogo, e recepisce anche la vena polemica che soggiace all’intera opera che le fa da modello.

Le problematiche legate all’opera sono molteplici, in particolare sono controverse la datazione dell’opera e la sua attribuzione per la contraddittorietà delle informa-zioni che ci sono giunte . 20

3.2 Il modello

All’epoca della seconda stampa, sul finire del secolo XV, l’opera veniva attribuiva al Boccaccio. Il primo a parlare dell’attribuzione del cantare al certaldese è il gre-cista e latinista Anton Maria Salvini come viene citato nel Codice Riccardiano: “Birria e Geta di Ghigo d’Attaviano Brunelleschi, G.B., e dell’Acquetino da Pra-to. Dal G.B. fu stimato essere Giovanni Boccaccio” . 21

In realtà il Salvini si mostra scettico circa questa attribuzione e ritiene che lo scrit-to sia da ricondurre in parte a Ghigo Brunelleschi, in parte a ser Domenico da Pra-to e in parte a Giovanni Acquetini.

Gli spunti di questa sezione sono ripresi da: C. ARLIA, Geta e Birria, Novella riprodotta da 20

un’antica stampa e riscontrata co’ testi a penna da C. Arlìa, Editore Gaetano Romagnoli, Bologna

1879 e da A. BORLENGHI, Novelle del Quattrocento, Milano, Rizzoli, 1962. CODICE RICCARDIANO 2281, Biblioteca Riccardiana, Firenze, p. 43.

(14)

Giovanni Maria Crescimbeni, poeta e critico letterario, sostiene che Salvini affer-masse di aver visto un testo presso il Cavalier Cesare del Priore Senatore Ricasoli che dopo l’ottava 161 riportava la seguente dicitura: ‘Insino a qui tradusse e misse in rima il nobile Ghigo d’Attaviano Brunelleschi, e di qui insino alla fine tradusse e misse in rima il sapiente uomo ser Domenicho del Maestro Andrea da Prato’ e riteneva anche che l’origine della confusione tra Ghigo Brunelleschi e Giovanni Boccaccio fosse da imputare all’uso, allora molto diffuso, di indicare gli autori con le sole iniziali. Le lettere G.B., avrebbero fatto pensare al ben più noto scritto-re certaldese . 22

In realtà non è solo questo il motivo di tale attribuzione; in tanti, infatti, nell’Amo-rosa visione del novelliere lessero i seguenti versi : 23

Vedeasi appresso quivi la biltate, in una storia che venia, d'Almena
 piena di grazia e di tutta onestate,
 in suoi sembianti gioconda e serena;
 a cui Giove, in forma del marito
 che dallo studio tornava d'Atena, tutto il suo disio avea compito.
 Vedevavisi Geta doloroso


perché un altro n'avea 'n casa sentito.
 Appresso v'era Birria nighittoso
 caricato di libri; al picciol passo parea venisse tutto dispettoso,


sanza alcun ben, dicendo: «Oimè lasso,
 quando sarà ch'i' posi questo peso
 che sì m'affolla, ponendolo abbasso?».
 Inver lo ciel ne gia, poi ch'ebbe preso Giove il diletto che di lei li piacque,

Arlìa lo identifica come il Codice Riccardiano n. 1591. 22

GIOVANNI BOCCACCIO, Amorosa visione, Canto XVIII, vv. 70-88. 23

(15)

pregna lasciandola, al salire inteso:
 di cui appresso il forte Ercule nacque.

Questi versi fecero concludere a molti che l’autore della novella fosse il certalde-se, sebbene il fatto che Boccaccio ne abbia fatto un sunto fedele non significhi che egli ne sia stato il creatore, mentre è probabile che ne fosse a conoscenza poiché aveva letto un carme a lui anteriore, quello di Vitale de Blois, del secolo XII. Ghigo Brunelleschi e Pippo di ser Brunellesco de’ Lippi, in alcuni casi sono stati confusi l’uno con l’altro, ma “Ghigo” è il diminutivo di Federigo, mentre “Pippo” lo è di Filippo.

I codici che attribuiscono la novella a Federigo Brunelleschi sono i seguenti: Ric-cardiano 2281; RicRic-cardiano 2859; RicRic-cardiano 2825; De’ Laurenziani n. 28; De’ Laurenziani n. 42; De’ Magliabechiani. Lo assegnano a Filippo di ser Brunellesco de’ Lippi il Riccardiano n. 2289 e De’ Magliabechiani II n. 38.

In realtà, quest’ultimo non lo attribuisce chiaramente a Pippo, ma a un ‘Brunelle-sco. E di Pippo’. Si tratta di un codice della seconda metà del Quattrocento che reca la seguente dicitura al principio del testo: ‘addì 22 aprile 1454 cominciaj a scrivere - Qui comincia il libro del Birria et del Gieta messo in nasstanze per… Brunelleschi il forte, et tiensi che Filippo di Ser Brunellesco anche fosse in com-pagnia del detto…ma rimanendo imperfetto si dicie che ser Domenico da Prato famoso dicitore v’aggiunse…ciò è l’ultime’.

Dunque la novella, secondo le notizie scritte dall’amanuense all’inizio del testo, sarebbe stata scritta a due mani da un non meglio specificato “Brunellesco” e da Pippo di ser Brunellesco de’ Lippi, per poi essere completata da da Domenico da Prato: ‘L’onventore di quest’opera non procedette più oltre, non so la cagione, o egli andò fuori da Firenze o forse morì. Fecene come si vede stanze 161. Di poi si dicie che ser Domenico da Prato, notaio et valente huomo aggiunse queste 21 stanze che qui seguiteranno.’

(16)

L’Arlìa si concentra su quel l’onventore per sostenere che l’autore fu uno solo e non due, come precedentemente detto, e nello specifico Pippo. Egli aveva ordito, con un gruppo di amici, una burla ai danni di Manetto Ammannatini, lavoratore di tarsie detto Il Grasso legnajolo. Al malcapitato fu fatto credere di non essere più lui ma un certo Matteo, mettendo in scena ciò che era successo a Geta e facendo-gli dubitare della sua stessa esistenza. Il critico sostiene che questa non sia la pro-va del fatto che fu Pippo a scrivere la novella, ma è la ripropro-va che sicuramente conosceva l’opera di Vitale.

Gli argomenti portati dall’Arlìa a sostegno della sua tesi sono un po’ deboli per escludere la scrittura del cantare a più mani e per eleggere Pippo ad inventore del-la noveldel-la; tanto più che, come anche l’Arlìa sostiene, il testo possiede una tale eterogeneità di stili da ritenere difficile che possa essere opera di una sola persona. Anzi, pare più probabile che il carme sia stato compilato per gioco da una brigata di amici che l’hanno lasciato incompiuto e che sia stato completato da un altro, magari proprio ser Domenico da Prato.

Ma anche su ser Domenico esistono dei dubbi; infatti, il Guasti nella sua Biblio24 -grafia Pratese si chiede se ‘Domenico del maestro Marco da Prato fu veramente diverso da Domenico del maestro Andrea’ giudicando errato il nome Bartolomeo che si legge nel Laurenziano n.43 3 40 e nel Riccardiano n. 2259. Tuttavia, se-guendo il metodo filologico, poiché la maggior parte dei codice riportano la lectio ‘Ser Domenico da Prato, notaio, valente huomo et famoso dicitore’, si ritiene che questo sia il nome del continuatore.

Cesare Guasti (1822-1899), scrittore e filologo pratese autore della Bibliografia Pratese compi

24

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CAPITOLO II

L’ANFITRIONE, IL GETA DI VITALE DE BLOIS E LA NOVELLA DI GETA E BIRRIA A CONFRONTO

1. Il prologo

1.1 Plauto, Amphitruo

Il prologo dell’Amphitruo (vv. 1-52) è di natura espositiva e prolettica: è pronun-ciato da Mercurio, il quale presenta l’opera e anticipa cosa sta per succedere. La prima parte del prologo (vv. 95) si compone di una lunga captatio benevolen-tiae in cui il dio intima agli spettatori che vogliono da lui protezione negli affari di ascoltare in silenzio e con attenzione la commedia che viene rappresentata. È stato mandato lì da Giove, circostanza di cui non bisogna stupirsi poiché il padre degli dei aveva già fatto la sua apparizione in commedia l’anno prima . 25

Mercurio procrastina volutamente l’enunciazione vera e propria dell’argomentum ed insiste sul fatto che si tratti di una tragicomoedia (v. 64): è una dichiarazione di poetica da parte di Plauto, che opera una mistione tra moduli tragici e comici. Nella seconda parte del prologo (vv. 95-152) il dio comincia a narrare finalmente l’argomento della commedia: la rappresentazione è ambientata a Tebe ed Anfitrio-ne, nativo di Argo, adesso è a capo dell’esercito tebano contro i Teleboi. Prima di partire per la guerra il condottiero ha messo incinta la moglie Alcmena, figlia di Elettrione; questa, però, aspetta un figlio anche da Giove, che si è innamorato di lei, e adesso la donna è inconsapevolmente incinta del dio e del marito.

Si allude a qualche altra commedia in cui Giove appariva come Deus ex Machina. Cfr. T.M. 25

(18)

Il padre degli dei, al momento del prologo, si trova in casa con Alcmena, di cui si è invaghito, ma nessuno sa che si tratta del dio, perché questi ha preso le sembian-ze di Anfitrione; Mercurio , invece, ha assunto l’aspetto del servo Sosia. 26

In quel giorno i veri Anfitrione e Sosia torneranno a casa; trattandosi di personag-gi identici, il Sosia-Mercurio avrà sopra al petaso, antico cappello da viagpersonag-gio, del-le adel-lette, mentre Giove-Anfitrione sarà contraddistinto da un cordoncino d’oro sotto il copricapo.

Mercurio ordisce nei confronti di Sosia un inganno parallelo a quello per Anfitrio-ne, facendogli perdere la coscienza di sé.

1.2 Vitale de Blois, Geta

Il Geta di Vitale de Blois si apre con un argumentum (vv. 1-10) che narra per sommi capi la vicenda che si andrà a rappresentare. Ciò indica probabilmente una ricezione, da parte dell’autore, di esemplari dell’opera del sarsinate che già si aprivano con gli argumenta che sono giunti fino a noi. Di essi - in questo caso di 27

quelli non acrostici - il blesense riprende anche lo stile, asciutto e franto con frasi in asindeto.

Anfitrione si è allontanato da Tebe per recarsi ad Atene, con il servo Geta, a stu-diare la filosofia, lasciando così da sola la moglie Alcmena. Approfittando dell’as-senza del marito, e con l’aiuto di Arcade, Giove assume l’aspetto dell’aspirante filosofo e giace con la donna.

Da notare come egli sia la divinità più vicina all’essenza truffaldina dei servi plautini, poiché è 26

dio dei pastori e dei viandanti, araldo e messaggero degli dei, accompagnatore delle anime dei morti negli Inferi, intermediario fra dei e uomini, dio dei ladri, degli audaci, degli accattoni e dei mercanti.

Le commedie plautine sono sempre introdotte dai fabularum argumenta che non furono scritti

27

da Plauto e sono datati II sec. d.C. Ne esistono di acrostici e non acrostici e, sebbene i veri autori siano ignoti, i primi vengono attribuiti ad Aurelio Popilio, mentre i secondi a Gaio Sulpicio Apol-linare.

(19)

Anfitrione fa ritorno in patria e manda in avanscoperta Geta, che, gabbato da Ar-cade, si convince di non esistere. Ciò scatena la reazione del padrone che si dice convinto ad imbracciare le armi per vendicare l’offesa subita.

Il marito offeso, però, non avrà maniera di riscattarsi perché il padre degli dei, dopo aver ottenuto ciò che voleva, se ne va insieme al figlio. Così, visto che l’adulterò non viene trovato, l’ira svanisce e la vicenda si appiana.

L’argumentum del blesense fornisce alcune informazioni sulle divergenze della vicenda rispetto all’originale: Anfitrione non è più un condottiero ma uno studente di filosofia che lascia la moglie per andare ad Atene; ad accompagnarlo non è più Sosia ma Geta. Il resto della vicenda narrata resta pressoché invariato.

La naturale conseguenza è che il prologo di Vitale abbia tutt’altra finalità rispetto a quella plautino, sia perché la vicenda è già stata introdotta, sia per la volontà dell’autore di imbastire una polemica contro la realtà in cui vive.

Il prologo dell’autore francese (vv. 11-23) si configura come una riflessione sui costumi contemporanei all’autore; infatti, sostiene, la commedia non viene gradita dal pubblico perché tutti sono alla ricerca di cose serie e bramano soltanto il dena-ro.

L’invettiva contro l’avidità è perfettamente rispondente al clima dell’epoca, quello delle dispute filosofiche sugli universali. Ne consegue che niente venisse conside-rato più immanente e terreno della brama di denaro e, quindi, condannabile in maniera assoluta.

Degno di nota è anche il fatto che l’autore abbia scelto di pronunciare con la pro-pria voce il prologo, al contrario di quello del Sarsinate enunciato da Mercurio, ulteriore prova del passaggio dell’opera dalla dimensione teatrale a quella scritta e pensata per la lettura.

(20)

1.3 La Novella di Geta e Birria

La Novella di Geta e Birria non possiede né un argumentum né un prologo, ma prende l’avvio con un’invocazione dal taglio stilnovista dell’autore (ottave 1 - 3), che si rivolge all’Amore.

L’amore è il Signore che rende la sua vita felice tra molte pene, dal momento 28

che gli basterebbe vedere la sua donna solo qualche volta per condurre un’esisten-za migliore. Inoltre il suo Signore (ottava 1, v.1) sa quanto gli è devoto a causa della splendida donna che ama, tanto che gli pare di perdere tempo quando tratta di altri argomenti. Chiede alla sua amata la grazia, senza la quale non si può ap-prestare a narrare alcunché e, se gliela concederà, potrà raccontare senza timore. La vicenda entra subito nel vivo a partire dalla terza ottava e probabilmente non aveva bisogno di un’introduzione particolareggiata alla vicenda, grazie alla grande fama di cui già godeva l’opera di Vitale, da cui questo cantare in ottava rima trae-va spunto.

2. La vicenda

2.1 Plauto, Amphitruo

Il dialogo tra Sosia e Mercurio (vv. 153-462)

Nell’Amphitruo, successivamente al prologo, a prendere la parola è Sosia, il ser-vus di Anfitrione che inizia il suo monologo (vv. 153-175) e avrà di lì a poco un colloquio con Mercurio. Si tratta di uomo estremamente codardo, malizioso ed astuto che ha utilizzato tutti gli espedienti a sua disposizione per non partecipare alla guerra. A lui viene affidato il compito di portare la comicità all’interno della commedia, con i suoi giochi di parole e le preoccupazioni materiali che risultano in netto contrasto con il dramma familiare che gli si sta consumando attorno. È anch’egli vittima di una beffa da parte di Mercurio, che per allungare la

C. ARLIA, Geta e Birria…op. cit. p. 1, ottava 1.

(21)

nenza del padre nel letto di Alcmena fa credere all’ignaro servo di aver perso la propria identità.

Sosia si presenta sulla scena al suo arrivo dal porto, dopo il viaggio compiuto per ritornare in patria, con una lanterna e immagina le conseguenze se i triumviri lo troveranno in giro di notte. Le sue inquietudini, tuttavia, contano poco: il padrone vuole che vada a casa ad avvertire la moglie del suo ritorno. È l’occasione per so-stenere che la vita del servo di un ricco è assai più grama di quella di chi sta a di-sposizione di un povero: ci sono più cose da fare e capricci da soddisfare. Nel frat-tempo Mercurio, che lo sta aspettando sulla porta della casa di Anfitrione, ascolta il discorso del servo e al verso 176, per la prima volta, risponde alle parole sulle sue condizioni servili avviando una lunga serie di battute a parte (vv. 176-292): L’incontro tra i due è volutamente procrastinato da Plauto e mentre Sosia racconta la vittoria dell’esercito tebano, la sua fuga quando la battaglia infuriava e simula l’epico racconto dei fatti che verrà fatto ad Alcmena, Mercurio si lascia andare a commenti sardonici e pronuncia il suo programma di aggressione, (vv. 265-269). Il non-contatto prosegue ancora per alcuni versi, in cui Sosia si accorge dell’in-credibile lunghezza della notte.

Giove, infatti, ha fatto sì che l’oscurità si prolungasse per poter godere più a lungo della compagnia di Alcmena. La scelta dell’oscurità non casuale, poiché le tenebre si addicono allo svolgimento di un tema che si situa ai confini tra la realtà e l’allu-cinazione: quello del doppio, centrale in tutta la commedia.

È solo al verso 292 Sosia si rende conto della presenza di Mercurio e sottolinea la scoperta con un secco: Non placet. Al servo viene attribuito una sorta di presenti-mento magico di ciò che sta per accadere, come per altro era già successo ai versi 183-184 (Aliquem hominem allegent, qui mihi advenienti os occillet probe/ 29

Per le traduzioni dell’Amphitruo ci si è avvalsi del supporto di quella scritta da Scandola in T.M.

29

(22)

Quoniam bene quae in me fecerunt, ingrata ea habui atque inrita ) e che produce 30

un’ironia drammatica: lo spettatore, già informato nel prologo che Mercurio ha preso possesso dell’identità di Sosia per cacciarlo dalla sua stessa casa, ride per la maggiore informazione che ha rispetto ai personaggi.

È a questo punto che inizia un lungo dialogo a distanza tra i due (293-340) che poi sfocerà in confronto vero e proprio.

Lo scopo del figlio di Giove è spaventare Sosia, per far sì che si allontani dalla casa dove in quel momento si trova il padre degli dei con Alcmena. Perciò le bat-tute del dio sono intrise di violenza fisica che Sosia, da codardo, teme fortemente. Il botta-risposta è ricco di giochi di parole ed è proprio con un gioco di parole che Sosia fa un’ulteriore premonizione del furto della propria identità ed in particolare del primo marchio che la costituisce: il nome. Mercurio si vanta infatti di aver ste-so con i suoi pugni quattro uomini ed il servo esclama: Formido male/ ne ego hic nomen meum commutem, et Quintus fiam e Sosia (vv. 304-305) . Il tema del 31 nome torna dopo una trentina di versi con uno scambio di battute sempre a parte (vv. 331-332):

ME.: ‘Certe enim hic nescioquis loquitur.’ SO.: ‘Salvus sum, non me videt.

Nescioquem loqui autumat; mihi certo nomen Sosia est.’ 32

Tali battute fanno tornare alla mente, tramite un allusione parodica, il celebre ver-so dell’Odissea che vedeva protagonista Polifemo.

‘Invierebbero qualcun che al mio arrivo mi pestasse la faccia a dovere, poiché mi sono mostrato

30

ingrato e insensibile al bene che mi hanno fatto.’

‘Ho una paura tremenda di dover cambiare il mio nome: da Sosia diverrò Quinto.’

31

ME.: ‘Certamente qui parla non so chi.’

32

(23)

Dopo che Sosia ha affermato la sua identità basata sul nome, inizia lo scontro di-retto ed il dialogo vero e proprio (vv. 340-462): Mercurio sottopone lo schiavo ad un interrogatorio serrato (ME.: Possum scire, quo profectus, cuius sis aut quid ve-neris?, v. 346 ) in cui afferma di essere l’unico Sosia schiavo di Anfitrione. 33 La situazione chi si viene a creare è paradossale: non è Mercurio a doversi difen-dere dalle domande del vero schiavo, ma quest’ultimo a dover proteggere la pro-pria identità dagli attacchi di chi cerca di annullarla. La resistenza di Sosia è molto debole e a tratti viene eclissata dalle sue ritrattazioni che, per paura delle percosse, gli fanno addirittura negare se stesso. Tutto questo accade perché il Dio gioca d’anticipo e non dà tempo a Sosia di farsi domande su chi si trovi di fronte a lui. Solo più avanti, dal verso 402 al 407, avrà un moto di coraggio e di orgoglio - e di tregua dalle percosse del figlio di Giove.

Il servo deve addirittura augurarsi lo scambio, poiché se l’altro fosse Sosia sareb-be lui ad essere preso a pugni, poi a ritrattare sulla sua identità sotto la minaccia di percosse (voleva dire Amphitruonis socium, v. 384 ) ed infine a ribadire un’ulti34 -ma volta la propria identità. E lo fa utilizzando termini tipici della propria condi-zione di schiavo, (vv. 399-400).

All’accusa di non essere sano mossagli da Mercurio, Sosia risponde con un primo vacillare della propria identità espresso con un cumulo di interrogazioni retoriche. È il primo dei tre monologhi che segnano la graduale presa di coscienza della per-dita d’identità da parte di Sosia (vv. 402-409):

‘Quid, malum, non sum ego seruos Amphitruonis Sosia? Nonne hac noctu nostra nauis ex portu Persico

uenit, quae me aduexit? Non me huc erus misit meus?

Nonne ego nunc sto ante aedis nostras? Non mihist lanterna in manu? Non loquor? Non uigilo? Nonne hic homo modo me pugnis contudit?

‘Posso sapere dove sei diretto, di chi sei e perché sei venuto?’

33

‘Socio di Anfitrione’

(24)

Fecit hercle, nam etiam misero nunc malae dolent.’ 35

Questo primo monologo di riflessione, che spezza il ritmo rapido del dialogo, si limita ad analizzare i dati immediati dell’esistenza e la propria percezione del rea-le, basata sul passato appena trascorso ed il presente scenico.

Tra le affermazioni pronunciate, l’unica decisiva per la rinnovata appropriazione dell’identità è l’ultima, la sola di cui Mercurio non possa e non voglia contestare l’appartenenza univoca: il dolore fisico, utilizzato da Sosia come conferma della sua esistenza. Essa è addirittura ribadita da Mercurio, la cui aggressione risulta avere carattere contraddittorio, trovandosi insieme ad affermare e negare l’io del-l’aggredito.

Ciò che resta della soggettività di Sosia viene invece rivendicato come proprio da Mercurio, il quale, grazie alla sua condizione divina, dà prove sicure del suo esse-re Sosia narrando il buon esito della battaglia, del viaggio di ritorno e come la coppa sia stata donata al generale vittorioso.

Lo schiavo inizialmente si concentra sul nome: Aliud nomen quaerundum est mihi, (v. 423) ma quando Mercurio narra le esperienze segrete di cui nessuno, se 36 non Sosia, poteva essere a conoscenza (il godimento del cibo e delle bevande che hanno sostituito le fatiche della battaglia), il servo si avvicina al misterioso usur-patore e ne scruta con la lanterna i tratti fisici. Scoprire che l’uomo che ha di fron-te gli ha rubato non solo il nome e le esperienze ma anche l’aspetto fisico fa na-scere il secondo monologo in cui la perdita di sé si avvicina alla sua compiutezza, (vv. 441-449):

‘Accidenti, non sono forse Sosia, servo di Anfitrione? E non è venuta dal porto persiano la nave

35

che mi ha portato qua questa notte? Non mi ha mandato qua il mio padrone? E adesso non sto da-vanti alla porta della nostra casa? Non ho una lanterna in mano? Non parlo? Non sono sveglio? Non mi ha percosso coi suoi pugni quest’uomo? Lo ha fatto, per Ercole, ho le mascelle ancora doloranti, povero me!’

‘Devo cercarmi un altro nome’

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‘Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam, quem ad modum ego sum–saepe in speculum inspexi–, nimi’ similest mei. Itidem habet petasum ac vestitum; tam consimilest atque ego.

Sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra, Malae, mentum, barba, collus: totus. Quid verbis opust? Si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius.

Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui. Novi erum, novi aedis nostras; sane sapio et sentio. Non ego illi optempero quod loquitur. Pultabo foris.’ 37

L’assoluta somiglianza fisica rafforza il senso di soprannaturale; era già inspiega-bile che Mercurio conoscesse il gesto compiuto da Sosia durante la battaglia in piena solitudine, ma ora l’inverosimile si moltiplica.

Alla fine però, come nel primo monologo, Sosia supera la crisi e si riappropria dell’identità tramite una connessione logica tra il pensare e l’essere che richiama, ante litteram, il cogito ergo sum cartesiano: Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui/ […] sane sapio et sentio. Da notare che per lo schiavo la pro-pria identità significa sempre l’appartenenza al padrone e alla casa che sono ante-posti alle facoltà mentali e sensoriali.

Un’ultima aggressione fisica da parte di Mercurio fa desistere definitivamente So-sia ed il terzo ed ultimo monologo segna l’accettazione definitiva del furto d’iden-tità (vv. 455-462):

‘Abeo potius. Di immortales, opsecro vostram fidem,

‘Certamente, per Polluce, quando lo osservo e penso al mio aspetto, alle mie fattezze - spesso mi

37

sono guardato allo specchio - mi assomiglia moltissimo. Ha lo stesso petaso, lo stesso abito; è tale e quale a me. Le gambe, i piedi, la statura, il taglio dei capelli, gli occhi, il naso, le labbra, le ma-scelle, il mento, le labbra, le mama-scelle, il mento, la barba, il collo, tutto! In poche parole: se ha la schiena piena di cicatrici, non esistono somiglianze più simili. Ma quando ci penso, non v’è dub-bio che io sono quello che sono sempre stato. Conosco il mio padrone, conosco la nostra casa, possiedo i sensi e il senno. Non ascolterò ciò che dice e busserò alla porta.’

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ubi ego perii? ubi inmutatus sum? ubi ego formam perdidi? An egomet me illic reliqui, si forte oblitus fui?

Nam hicquidem omnem imaginem meam, quae antehac fuerat, possidet. Vivo fit quod numquam quisquam mortuo faciet mihi.

Ibo ad portum atque haec ut<i> sunt facta, ero dicam meo: nisi etiam is quoque me ignorabit. Quod ille faxit Iuppiter, ut ego | hodie raso capite calvos capiam pilleum.’ 38

Maurizio Bettini ha dimostrato come in questo monologo affiorino i tratti speci39 -fici dell’identità romana. Innanzitutto la concezione omerica secondo la quale l’ombra del defunto è un vero e proprio doppio: avendo incontrato il proprio fan-tasma Sosia ritiene di essere morto senza essersene reso conto.

In secondo luogo la frase: Vivo fit quod numquam quisquam mortuo faciet mihi, (v. 459) che allude ad un uso funebre gentilizio, quello delle imagines maiorum che riproducevano in cera i volti dei defunti e venivano indossate da persone mol-to rassomiglianti al mormol-to, formando un solenne e impressionante corteo che at-tualizzava il passato della famiglia.

L’immagine del mondo sottesa a questo monologo è inquietante: un universo in cui si può perdere la propria identità e la si può dimenticare mentre una controfi-gura vive altrove la vita “vera”.

Il finale del monologo ha una funzione liberatoria rispetto ai turbamenti dell’iden-tità e all’angoscia del non esserci. L’ultima battuta, in particolare, ha lo scopo di alleggerire il turbamento di Sosia, il quale trasforma la vanificazione della persona in un peccato di sbadataggine: “da qualche parte ho scordato me stesso!”. Sulla

‘Piuttosto me ne vado. Dei immortali, mi appello a voi: dove mi sono perso? Dove mi sono tra

38

-sformato? Dove ho smarrito la mia figura? Mi sono per caso lasciato laggiù per dimenticanza? Davvero costui possiede tutta la fisionomia che finora era mia. M’accade da vivo ciò che nessuno mi farà mai quando sarò morto. Andrò al porto e dirò al mio padrone come stanno le cose. A meno che nemmeno lui mi riconosca. Giove lo voglia! Così oggi, calvo, col capo rasato, mi metterò il berretto dei liberti.’

Nell’introduzione a R. ONIGA, (a cura di) T.M. PLAUTO, Anfitrione, Venezia, Marsilio, 1991.

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stessa linea si colloca la speranza di non essere riconosciuto nemmeno dal padro-ne e di potere abbandonare la sua condiziopadro-ne di schiavo, diventando liberto. Ciò ovviamente non è plausibile, tanto che, quando Sosia va da Anfitrione, questi non crede al racconto fatto ed anzi risulta comico che, come prima non riusciva a di-fendere la sua identità con Mercurio, adesso non riesca a didi-fendere la sua non-identità con il padrone. 


In tutta la commedia la tematica sociale è molto presente: Sosia accetta lo sdop-piamento con maggiore facilità rispetto ad Anfitrione, in quanto la sua identità è comunque per statuto proprietà altrui.

Il motivo del doppio esplica tutta la sua forza nella sezione appena analizzata tra-mite il dramma della perdita d’identità Sosia. Egli rappresenta nella commedia una figura volta alla mediazione delle emozioni: ridere di lui e del dramma della perdita d’identità permette di prendersi gioco anche dello stesso disagio vissuto dalla figura istituzionale del pater familias.

Infatti della sottrazione dell’identità e della sposa subite da Anfitrione si potrà ri-dere solo dopo aver riso alle spalle di chi subisce solo la prima delle due: Sosia. Egli non ha un’identità avente valore sociale e giuridico, ma è un semplice schia-vo; anzi, la sua soggettività, essendo un insieme di obblighi e disagi, può essere ritenuta un qualcosa che si perde senza rimpianti.

Sosia possiede le tradizionali caratteristiche dello schiavo plautino: è vigliacco e imbroglione. Si deve confrontare con Mercurio, il quale riprende da lui queste pe-culiarità ma, dal punto di vista logico, tra due furbizie gemelle nessuna delle due avrebbe la meglio. L’impressione che si ha costantemente è quella di una partita giocata con carte truccate, di cui è emblematico il momento in cui viene stipulata la tregua tra Sosia e Mercurio con la frase: Tum Mercurius Sosiae iratus siet, (vv. 391-392). Mercurio, alla fine, riesce a sconfiggere Sosia grazie all’architettura dell’inganno di cui è partecipe e complice ma, soprattutto, alla sua natura divina.

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2.2 Vitale de Blois, Geta

Il ritorno di Anfitrione e il dialogo tra Geta e Birria (vv. 23 - 229)

Nel Geta dopo il prologo si trova il confronto tra Geta e Birrria, un’ampia sezione in cui si incontrano innovazioni inserite da Vitale e che pospongono il dialogo tra Geta - nuovo Sosia - e Arcade. In questa sezione vengono raccontati gli struggi-menti amorosi del Dio - che viene mostrato con emozioni e pulsioni umane - e della donna, la quale brama il ritorno del marito.

La narrazione comincia dal desiderio di Giove per Alcmena (vv. 23-38) : il dio, 40 addirittura, si rammarica di non essere Anfitrione, amato dalla donna: Quid - ait- cetus superum Iove patre superbit? Iam superum patrem est Amphitrione minor!, (vv. 25-26) . Il momento gli è favorevole: con Anfitrione lontano, il padre degli 41 dei può approfittare della circostanza per recarsi sulla terra e godere di Alcmena, egli invita il figlio ad assumere le sembianze di Geta, servo di Anfitrione, mentre lui avrà quelle del padrone di casa.

Questa parte è un’innovazione di Vitale, poiché in Plauto non c’è traccia del mo-mento precedente l’arrivo dei due dei presso la dimora di Anfitrione. Nel sarsinate Sosia scopre Mercurio a fare la guardia alla porta, mentre Giove si trova già al-l’interno dell’abitazione in compagnia dell’amata. Anche gli struggimenti e l’invi-dia nei confronti dell’umano sono del tutto estranei a Plauto; non era certo pensa-bile che il re degli dei potesse essere invidioso di un mortale.

Alcmena viene a sapere del ritorno del marito dagli annunci della Fama e predi-spone perché tutto sia perfetto (vv. 38-62), dalla casa all’accoglienza del coniuge, per ricevere il quale invia al porto il servo Birria . Nell’Amphitruo, Alcmena fa la 42

Per la traduzione del Geta ci si è avvalsi di quella di Ferruccio Bertini in VITALE DE BLOIS,

40

Geta…op. cit.

‘Quale motivo - dice - può avere la stirpe dei celesti di andare fiera di Giove padre? Ormai il

41

padre degli dei vale meno di Anfitrione!’

Birria è uno dei due nuovi personaggi inseriti da Vitale; servitore pigro e fannullone fa da con

42

-troparte a Geta, il servo filosofo. Di entrambi i personaggi si avrà modo di parlare in maniera più approfondita in seguito, al momento del dialogo tra i due.

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sua prima apparizione solo nel momento in cui lascia il marito che deve ritornare al porto, mentre nel blesense viene rappresentata piena di desiderio ed emozione intenta a adornare la casa per l’arrivo del coniuge.

Mentre Giove ha raggiunto l’amata Alcmena e Arcade fa da guardiano alla porta, l’attenzione viene spostata su Birria, il quale pronuncia il suo monologo (109-130). Esso si divide in due parti, la prima è un’invettiva contro le donne (vv. 109-119):

‘Ve tibi, femineo quisquis adacte iugo! Femina vult sudare suos didicitque iubere; pena tenet famulos, innovat illa cutem.’ 43

Tale lamentela riecheggia quella dell’entrata in scena di Sosia che, similmente, sosteneva, (vv. 166-175):

‘Opulento homini hoc servitus dura est, hoc: magi’ miser est diviti’ servos:

noctesque diesque adsiduo satis superque est quod facto aut dicto adest opus, quietu’ ne sis. Ipse dominu’ dives operis, [et] laboris expers quodquomque homini accidit lubere, posse retur; aequom esse putat, non reputat labori’ quid sit; nec aequom anne iniquom imperet cogitabit. Ergo in servitute expetunt multa iniqua.

‘Povero te, chiunque tu sia, se sei soggetto al giogo di una donna! La donna esige che i suoi sot

43

-toposti sudino ed ha imparato a comandare; mentre i suoi servi soffrono, ella cura lo splendore della propria pelle.’

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Habendum et ferundum hoc onust cum labore.’ 44

Cambia il bersaglio dell’apostrofe ma il punto centrale rimane: mentre i padroni stanno a casa e comandano, i servi devono eseguire i loro desideri, benché spesso irragionevoli. Birria, però, aggiunge un particolare che rende ancora più insoppor-tabile il suo stato: dover soddisfare i capricci di una donna, aggiungendo alla po-lemica una sfumatura misogina.

La seconda parte del monologo (vv. 120-130) è costituita dall’enunciazione di due propositi contrastanti: il primo è di azione, mentre il secondo è di ritrattazione del-le sue intenzioni. Birria vorrebbe vendicare quella che ritiene un’ingiustizia; egli è convinto di essere stato cacciato per far sì che la padrona possa incontrare il pro-prio amante liberamente (vv. 118-119). Inizialmente, si fa strada in lui il proposito di ricattare Alcmena col segreto della sua infedeltà ma il servo, codardo com’è, pensa alle conseguenze: Anfitrione crederà alla moglie e a lui toccherà il patibolo, (vv. 123-124).

Alcune delle caratteristiche di Birria sono state mutuate da Sosia (così come per Geta), infatti il servo del blesense ha fatto propria la vigliaccheria di quello plauti-no. Sosia dava grande prova di codardia durante la battaglia contro i teleboi (Cum pugnabant maxume, ego tuo fugiebam maxume, v. 199) e nel confronto con 45 Mercurio, del quale temeva la violenza che lo spingeva a ritrattare le sue tesi. An-che Birria in varie occasioni dimostra la propria pavidità, aggiungendo comicità al suo personaggio.

‘È dura la schiavitù quando il padrone è un un uomo importante, per questo è più sfortunato lo

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schiavo di un ricco: di notte e di giorno, senza sosta, c’è sin troppo da fare e da dire, perché tu pos-sa avere pace. Il padrone, siccome è ricco e non conosce che copos-sa sia lavoro e fatica, crede che noi si possa far tutto quel che gli viene in mente; crede che sia ragionevole e non si preoccupa della fatica c’è, non pensa se quel che ordina è giusto o ingiusto. Perciò, quando si è schiavi, si subisco-no molte ingiustizie; è un che peso bisogna tenersi e sopportare con tutte le sue fatiche.’

‘Quando gli altri erano nel pieno della battaglia, io ero nel pieno della fuga.’

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Mentre Birria prende la via del porto, giungono a Tebe anche i veri Anfitrione e Geta. Il pigro servitore, immaginando che il padrone vorrà affidargli i pesi del viaggio, cerca rifugio in una grotta. Il nascondiglio diverrà la sua trappola, poiché Geta, che lo ha individuato, si ferma come per caso davanti all’antro, cominciando un discorso su quanto è successo ed ha appreso ad Atene (vv. 151-197).

Per questo ragionamento, Vitale riutilizza il topos comico che prevede la presenza contemporanea di due personaggi, ognuno dei quali conduce un discorso autono-mo, già impiegato da Plauto nel dialogo a distanza tra Sosia e Mercurio. L’intrec-cio dei discorsi diviene implicitamente dialogo, conservando tuttavia i segreti e le contorsioni del monologo.

Vitale dà molto spazio a questo momento e non solo, come faceva Plauto, a quello del dialogo tra Geta ed Arcade. Questo gli permette di mettere in luce, tramite la bocca del servo - ora studente di filosofia - il falso sapere dialettico, o meglio, il cattivo uso che ne fanno gli incolti.

Il discorso di Geta può essere suddiviso in tre parti, tutte e tre pronunciate sapen-do che Birria lo sta ascoltansapen-do dal suo nascondiglio.

Nella prima (vv. 157-162) il servo racconta la sua esperienza ateniese in un vero e proprio monologo: ha sofferto il freddo, la fame, la sete, l’insonnia, la povertà e tutte le privazioni che si addicono ad un vero filosofo.

Nella seconda parte del ragionamento (vv.162-184), lo sfoggio delle proprie cono-scenze da parte di Geta suscita le reazioni di Birria, dando avvio ad un dialogo a distanza costellato da sue battute a parte. Geta ha patito molto, ma ha portato con sé dei meravigliosi sofismi ed è capace di dimostrare che sit asellus homo (v. 164) . 46

Birria, ascoltando la teoria degli asini, ribatte, (vv. 169-172):

‘Quid? Birria fiet asellus?

Quod natura dedit, auferet iste michi?

‘Che un uomo sia un asino’

(32)

Birria sic Gete, quecumque problemata solvet, Respondebit: erit Birria semper homo.’ 47

Ma Geta continua ed enuncia un’altra teoria: Cui semel esse datur numquam non esse licebit, sic faciem mutat et nova esse suum, (vv.175-176) e Birria, pronto: 48 Geta vivet in eternum (177-178) . Il filosofo chiude poi con un altro sillogismo: 49 Omnia mors delet, omnia morte cadunt (v. 182) ma anche a questo Birria replica 50 con una battuta: Dissidet iste sibi: modo fine careret probabat omnia, cuncta modo morte perire dolet (vv. 183-184) . Il bagaglio dialettico del neo-filosofo, 51 grazie al viaggio ad Atene, si è notevolmente accresciuto, soprattutto grazie al-l’approccio alla sofistica , procedimento che viene parodiato. Andando avanti si 52 vedrà che tutti i ragionamenti imbastiti da quello che si può ritenere il protagoni-sta dell’opera di Vitale ruotano attorno a questo meccanismo. Tuttavia Geta non è, come dice Birria, in contraddizione con se stesso; sta invece facendo sfoggio delle sue capacità sofistiche. La funzione del servo Birria nella commedia è ben rappre-sentata in questa scena in cui si contrappone all’altro schiavo di casa. Egli è dipin-to come un fannullone amante della cucina e dell’ozio ed è per quesdipin-to il

‘Che cosa? Birria diventerà un asino? Costui mi toglierà forse ciò che natura mi ha dato? No,

47

qualunque problema Geta intenda risolvere, Birria risponderà: Birria sarà sempre un uomo.’ ‘Ciò a cui è concessa l’esistenza una volta non potrà mai non esistere, ma muta aspetto e rinnova

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il proprio essere.’ ‘Geta vivrà in eterno.’

49

‘La morte distrugge ogni cosa, ogni cosa finisce con la morte.’

50

‘Costui è in contraddizione con se stesso: poco fa dimostrava che per nessuna cosa esiste una

51

fine, ora si rammarica che tutto finisca con la morte.’

La sofistica è un procedimento di argomentazione nato nel V sec. a.C. in Grecia che si avvaleva

52

delle tecniche dialettiche; esso, attraverso passaggi logici, illustrava la verità di una tesi per poi confutarla successivamente nell’ottica di dimostrare la relatività della verità attraverso il potere dell’argomentazione e, in ultima istanza, della parola. Tutto ciò nell’ottica del relativismo, poiché, secondo i principi sofisti, non esisteva un’unica verità. Cfr. MAURO BONAZZI, I sofisti, Carocci, Roma, 2010.

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naggio che suscita il riso e la simpatia del pubblico. Il compito di Birria è quello di opporsi alla figura di Geta, nei confronti del quale dimostra già inizialmente una punta di insofferenza. Così, quando nascosto nella grotta commenta le cono-scenze di cui il compagno fa sfoggio, non fa altro che ridicolizzarlo per paura del-le sue ritorsioni. Viene nuovamente alla luce la codardia di Birria, anche se stavol-ta è misstavol-ta ad una punstavol-ta di malizia. L’astuzia è una caratterisstavol-ta ripresa da Sosia, che il servo condivide con Geta, il quale mette in pratica questa abilità durante il con-fronto a distanza. Le osservazioni di Birria alle disquisizioni dell’altro servo risul-tano comiche e rendono ridicolo Geta e la filosofia di cui è esponente. La sua voce può essere identificata con quella dell’autore, il quale si scaglia contro le dispute spesso sterili della Scolastica, identificate dalla capacità di Geta di dimostrare che alcuni uomini sono asini ed altri buoi. A quell’affermazione, in maniera grossola-na e comica, Birria risponde che egli sarà sempre un uomo e ciò indica l’igrossola-nanità di questi ragionamenti.

Geta, che sostituisce il Sosia plautino, è vittima dell’ironia dell’autore poiché vie-ne rappresentato come un saccente, un ignorante che ha appreso in modo frettolo-so e confusionario delle nozioni che frettolo-sono troppo complesse per lui. Essendo un millantatore fa sfoggio delle proprie conoscenze ben sapendo che il suo amico Birria lo sta ascoltando. Ma le sue affermazioni vengono rappresentate come ridi-cole: utilizza i suoi studi per dimostrare che alcuni uomini sono asini ed altri buoi, per poi contraddirsi affermando prima che ciò che esiste una volta esisterà per sempre e poi asserendo che la morte cancella ogni cosa. Verrà punito, poiché nel confronto che ha con Arcade sarà vittima dei suoi stessi sofismi, i quali non sa-ranno in grado di aiutarlo ad opporsi al furto della sua identità da parte di que-st’ultimo. Se infatti la logica afferma che una voce può riferirsi a due cose ed un solo nome a due persone, tale disciplina non fa menzione del fatto che possano esistere due individui con la stessa identità. Ne deriva che solo uno di loro può esistere e quello è Arcade, dal momento è capace di dimostrarlo. Geta si sentirà tradito dalla filosofia, che non è capace di fornirgli una risposta circa la sua

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esi-stenza e dovrà ricorrere all’aiuto del padrone per avere una soluzione al suo di-lemma. Alla fine maledirà quella disciplina che ha annullato la sua persona, per tornare alla normale esistenza.

Nella terza parte del suo discorso (vv. 185-229) Geta, deciso a stanare Birria, fin-ge di credere che nella grotta si nasconda una lepre. Ciò è dovuto al borbottio del-l’altro servo che, incauto, non pensa alle conseguenze che le sue parole possono causare. Geta utilizza dei sassi per far uscire “l’animale” dalla grotta e le pietre rompono la barriera che si era creata poco prima tra i due. Quasi come un ostaco-lo, quello tra il falso sapere dialettico, rappresentato delle dissertazioni di Geta, ed il senso comune, impersonato da Birria. Il filosofo è difatti sordo ai richiami del-l’altro, che a gran voce grida che sta scagliando la sua sassaiola contro un suo amico, e sembra provare un piacere gratuito nel procurargli dolore. Il servo indo-lente, infatti, non può far altro che uscire, terrorizzato e dolorante, dal suo nascon-diglio e invocare pietà; ma Geta finge di non riconoscerlo fino a che l’altro non gli giura obbedienza, così da potergli affibbiare il carico che si trova ancora sulla nave. Quindi le loro strade si dividono, uno di loro va al porto e l’altro verso casa.

2.3 La Novella di Geta e Birria

La partenza di Anfitrione, il suo ritorno ed il dialogo tra Geta e Birria (ottave 4-91)

L’autore della Novella di Geta e Birria si discosta da Vitale e comincia la narra-zione da un momento antecedente rispetto a quello raccontato dal predecessore: la partenza di Anfitrione per Atene e il dolore di Almena per il distacco dal marito (ottave 4-33).

Altra differenza è la descrizione di Almena, che manca sia nell’originale plautino che in Vitale. La donna viene rappresentata con i tratti tipici di quella cantata dagli stilnovisti, poiché oltre a possedere ‘più di biltade/ che pietra orientale e chiara stella’ (ottava 6, vv 1-2), è anche ‘onesta, pura e piena d’umiltade’, ricordando la

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donna dantesca del celeberrimo sonetto . La donna supplica Anfitrione perché 53 non non la lasci da sola ma, sebbene disperata, deve assecondare i desideri del marito (ottave 7-10).

Anfitrione è indeciso su quale dei due schiavi, che ha con sé da molti anni, lo do-vrà accompagnare nel suo viaggio e ciò fornisce all’autore un’occasione per de-scrivere i due servitori (ottave 11-20).

Geta è il primo di essi e l’autore ne fornisce una descrizione dettagliata (ottave 12-15). Questo costituisce una differenza rispetto al Geta, in cui il suo aspetto viene descritto unicamente da Arcade al momento del loro confronto. La rappresenta-zione assume tratti grotteschi: Geta viene dipinto ‘nero com’etiopo o indiano’ (ot-tava 12, v. 2), con una ‘corona di capel radi, e di colore strano/ […] con gli occhi rossi e molli/ arrovesciati e di mosto satolli/ […] ritruopico parea sì gonfiat’era’, (ottave 12 e 13). A concorrere al ritratto bizzarro è anche la lussuria di cui è detto schiavo: ‘con ardente furia, come porco era vinto da lussuria’, (ottava 13, v. 8). A concludere la descrizione farsesca viene posta la caratteristica che più di tutte do-veva suscitare il riso di chi leggeva:

Veduto era da lor con faccia lieta,

perché egli aveva un membro appariscente, c’avie virtù più che nel ciel pianeta

di fare amar la sua brutta figura. (ottava 14, vv. 4-7)

L’altro servo è Birria, anche lui non più bello di Geta, ma con altre caratteristiche: è estremamente pigro e amante del cibo. Anche di Birria viene fornito un ritratto che manca nel Geta:

Di pigrizia fu carnal fratello,

DANTE, Tanto gentile e tanto onesta pare. 53

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lentissimo oltramodo in ogni fatto […]

A vespro ancor gli parea da mattina: padre del sonno, e guardian di cucina. (Ottava 16 vv. 3-4 e vv. 7-8)

Il più adatto a compiere il viaggio è Geta, che viene scelto da Anfitrione per ac-compagnarlo, mentre a Birria viene affidato il compito di vegliare su Almena. La donna è disperata per la partenza del marito e non manca di esternare tutto il suo dolore (ottave 25-27), già espresso nelle ottave 7-9. Nella Novella si insiste molto sui patimenti di Almena per la partenza del marito e su di essi l’autore torna a più riprese. Il testo è fortemente influenzato dalla letteratura italiana dell’inizio del XIV secolo e, come dimostra ogni incipit dei suoi canti, fa proprie le temati-che stilnoviste quali l’amore, Signore temati-che regola la vita dell’innamorato, assieme alla figura dell’amata, padrona della sua esistenza.

Ciò permette di indugiare molto sulle sofferenze della donna, della quale vengono descritte tutte le pene per la partenza del marito:

Amor, la cui virtù tutto trapassa , 54

Non vale a’ colpi tuoi nulla difesa; Non vedi tu quanto dolore abassa Della mia vita, di tua fiamma accesa? Tu mi lasci sì vinta, stanca e lassa, Ch’i’ corro a morte e non so far difesa. (Ottava 26, vv. 1-6)

Passato il momento del dolore più acuto, Almena riacquista la sua tranquillità ed Anfitrione, dopo sette anni, sente di aver appreso la filosofia quanto basta per

Questi versi sembrano riecheggiare il celebri versi pronunciati da Francesca da Rimini nella

54

Divina Commedia: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, al verso 103 e successivi del Canto V dell’Inferno.

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ter fare ritorno in patria: chiama Geta e gli ordina di preparare tutto per il loro rientro (ottave 31-33).

È solo in questo momento della narrazione (ottava 34) che la Novella si pone sulla stessa linea temporale delle due opere precedenti, raccontando il momento del ri-torno a casa del padrone e del suo servitore, mentre Giove ed Arcade si apprestano a tessere i loro inganni.

L’autore ricorre allo stesso topos utilizzato da Vitale, quello dello struggimento d’amore di Giove per Almena (ottave 41-44), il quale si è così invaghito della donna da chiedere al padre Saturno di potersi recare sulla terra per godere della sua. Il genitore acconsente e dice al figlio di portare con sé Arcade, così che egli prenda le sembianze di Geta e lui di Anfitrione.

La natura festeggia l’arrivo degli dei e ad Almena è comunicata la notizia del ri-torno del marito. Così la donna adorna la sua figura e la casa per festeggiare l’ar-rivo del coniuge, mentre Giove ordina ad Arcade di andare dall’amata per annun-ciarle il rientro del marito in patria, (ottave 46-51).

Udita la notizia, Almena ordina a Birria, pigro, di andare incontro ad Anfitrione; il servo sulle prime fa finta di non udire, poi, minacciato, si alza e sia avvia verso la nave del padrone. Lungo la via si lamenta della sua sorte: chi fa credere ad Alme-na che Anfitrione sia torAlme-nato veramente? E poi, che lui vada o meno al porto, se è vero, il padrone tornerà lo stesso (ottava 55).

Non fa in tempo ad uscire il servo che Giove bussa alla porta della donna nei pan-ni di Anfitrione, la quale, vedendoselo davanti, lo riempie di baci e abbracci che il dio ricambia con piacere (ottave 52-59).

Birria, sulla via del porto, si lamenta delle sue sventure: tutte le fatiche gli vengo-no addossate risparmiando gli altri. In più, Birria ha un’altra sventura: quella di essere sottoposto al giogo di una donna; l’autore della Novella riprende la polemi-ca misogina presente in Vitale (vv. 109-119): ‘Guai a ch’è sottoposto al giogo/ come son’io, d’una femmina vana’ (ottava 65, vv. 1-2). Il servo, anche in questo

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caso, sospetta che Almena lo abbia cacciato di casa per potersi incontrare libera-mente con l’amante e pronuncia un monologo in cui è combattuto: non sa decire se tornadecire sui suoi passi o dirigersi al porto. Alla fine, vinto dalla codardia, de-cide di andare ad accogliere Anfitrione con gli ha ordinato la padrona (ottave 64-69).

La Novella riprende i fatti già narrati da Vitale: Anfitrione e Geta approdano fi-nalmente a Tebe e Birria, per non farsi addossare i bagagli si nasconde in una grotta, dove ascolta i ragionamenti dell’altro servo.

Ma la sua speranza è vana perché, anche in questo caso Geta, fingendo di non ve-derlo, inizia la sua argomentazione nei pressi del suo nascondiglio(ottave 73-85). Come nel Geta il discorso è divisibile in due parti e si svolge secondo il topos del dialogo a distanza. La prima parte del monologo è costituita dal racconto di ciò che il filosofo ha subito in Grecia: fatica, freddo, fame ed ogni tipo di stento (otta-ve 78-79). Nella seconda parte (otta(otta-ve 80-85) i due servi dialogano a distanza: Geta fa sfoggio delle conoscenze acquisite nei sette anni passati lontano dalla pa-tria e Birria le ridicolizza in a parte.

Tornano una ad una e nello stesso ordine, le tesi già presenti in Vitale:

Sommo loico son, onde si prova

Che l’asino sia uomo mostro per prova. 55

Così farò di ciascuno animale, Sillogizando, mutar forma e nome, Ciascun del suo prim’essere diseguale, […]

El Birria, perché è lento e poco vale,

Da monstrum: “prodigio, portento”; “essere che si presenta con caratteristiche estranee al con

55

-sueto ordine naturale” da Vocabolario Treccani 2017: Il Treccani, Roma, Istituto dell' Enciclopedia italiana, 2017.

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Asino vo’ che sia, perché si domi la schiena sua 56

(Ottava 79 vv. 7-8, ottava 80 vv. 1-3 e 4-7 )

E ancora:

Apparato che s’è quel ch’una volta, Non può la scienza sua esser mai tolta . 57

(Ottava 81, vv. 7-8)

Birria è felice di sentire che può continuare a mantenere la propria identità. Ma Geta continua con le sue dissertazioni:

Mi duol ch’ognun perisce per la morte. Socrate il gran Dottore, et ancor Plato Lasciar per morte questa vita grama; Et io, ch’ho tanto di senno apparato, Che in sempiterno viverà mia fama. 58

(Ottava 82 v. 8, ottava 83 vv. 1-4)

Birria ascolta attentamente dal suo nascondiglio e controbatte di nuovo alle affer-mazioni dell’amico, che trova contraddittorie:

Cred’i’ ben che costui si è smemorato; Diceva il Birria, che or si richiama Ché la morte uccide tutti, e poco avanti Provò che il fin mancava a tutti. (Ottava 83, vv. 4-8)

Cfr. VITALE DE BLOIS, Geta…op. cit. versi 163-168. 56

Ibidem, vv. 173-174 57

Cfr. VITALE DE BLOIS, Geta…op. cit. vv.175-176. 58

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