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La partenza di Anfitrione, il suo ritorno ed il dialogo tra Geta e Birria (ottave 4-91)

L’autore della Novella di Geta e Birria si discosta da Vitale e comincia la narra- zione da un momento antecedente rispetto a quello raccontato dal predecessore: la partenza di Anfitrione per Atene e il dolore di Almena per il distacco dal marito (ottave 4-33).

Altra differenza è la descrizione di Almena, che manca sia nell’originale plautino che in Vitale. La donna viene rappresentata con i tratti tipici di quella cantata dagli stilnovisti, poiché oltre a possedere ‘più di biltade/ che pietra orientale e chiara stella’ (ottava 6, vv 1-2), è anche ‘onesta, pura e piena d’umiltade’, ricordando la

donna dantesca del celeberrimo sonetto . La donna supplica Anfitrione perché 53 non non la lasci da sola ma, sebbene disperata, deve assecondare i desideri del marito (ottave 7-10).

Anfitrione è indeciso su quale dei due schiavi, che ha con sé da molti anni, lo do- vrà accompagnare nel suo viaggio e ciò fornisce all’autore un’occasione per de- scrivere i due servitori (ottave 11-20).

Geta è il primo di essi e l’autore ne fornisce una descrizione dettagliata (ottave 12- 15). Questo costituisce una differenza rispetto al Geta, in cui il suo aspetto viene descritto unicamente da Arcade al momento del loro confronto. La rappresenta- zione assume tratti grotteschi: Geta viene dipinto ‘nero com’etiopo o indiano’ (ot- tava 12, v. 2), con una ‘corona di capel radi, e di colore strano/ […] con gli occhi rossi e molli/ arrovesciati e di mosto satolli/ […] ritruopico parea sì gonfiat’era’, (ottave 12 e 13). A concorrere al ritratto bizzarro è anche la lussuria di cui è detto schiavo: ‘con ardente furia, come porco era vinto da lussuria’, (ottava 13, v. 8). A concludere la descrizione farsesca viene posta la caratteristica che più di tutte do- veva suscitare il riso di chi leggeva:

Veduto era da lor con faccia lieta,

perché egli aveva un membro appariscente, c’avie virtù più che nel ciel pianeta

di fare amar la sua brutta figura. (ottava 14, vv. 4-7)

L’altro servo è Birria, anche lui non più bello di Geta, ma con altre caratteristiche: è estremamente pigro e amante del cibo. Anche di Birria viene fornito un ritratto che manca nel Geta:

Di pigrizia fu carnal fratello,

DANTE, Tanto gentile e tanto onesta pare. 53

lentissimo oltramodo in ogni fatto […]

A vespro ancor gli parea da mattina: padre del sonno, e guardian di cucina. (Ottava 16 vv. 3-4 e vv. 7-8)

Il più adatto a compiere il viaggio è Geta, che viene scelto da Anfitrione per ac- compagnarlo, mentre a Birria viene affidato il compito di vegliare su Almena. La donna è disperata per la partenza del marito e non manca di esternare tutto il suo dolore (ottave 25-27), già espresso nelle ottave 7-9. Nella Novella si insiste molto sui patimenti di Almena per la partenza del marito e su di essi l’autore torna a più riprese. Il testo è fortemente influenzato dalla letteratura italiana dell’inizio del XIV secolo e, come dimostra ogni incipit dei suoi canti, fa proprie le temati- che stilnoviste quali l’amore, Signore che regola la vita dell’innamorato, assieme alla figura dell’amata, padrona della sua esistenza.

Ciò permette di indugiare molto sulle sofferenze della donna, della quale vengono descritte tutte le pene per la partenza del marito:

Amor, la cui virtù tutto trapassa , 54

Non vale a’ colpi tuoi nulla difesa; Non vedi tu quanto dolore abassa Della mia vita, di tua fiamma accesa? Tu mi lasci sì vinta, stanca e lassa, Ch’i’ corro a morte e non so far difesa. (Ottava 26, vv. 1-6)

Passato il momento del dolore più acuto, Almena riacquista la sua tranquillità ed Anfitrione, dopo sette anni, sente di aver appreso la filosofia quanto basta per po-

Questi versi sembrano riecheggiare il celebri versi pronunciati da Francesca da Rimini nella

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Divina Commedia: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, al verso 103 e successivi del Canto V dell’Inferno.

ter fare ritorno in patria: chiama Geta e gli ordina di preparare tutto per il loro rientro (ottave 31-33).

È solo in questo momento della narrazione (ottava 34) che la Novella si pone sulla stessa linea temporale delle due opere precedenti, raccontando il momento del ri- torno a casa del padrone e del suo servitore, mentre Giove ed Arcade si apprestano a tessere i loro inganni.

L’autore ricorre allo stesso topos utilizzato da Vitale, quello dello struggimento d’amore di Giove per Almena (ottave 41-44), il quale si è così invaghito della donna da chiedere al padre Saturno di potersi recare sulla terra per godere della sua. Il genitore acconsente e dice al figlio di portare con sé Arcade, così che egli prenda le sembianze di Geta e lui di Anfitrione.

La natura festeggia l’arrivo degli dei e ad Almena è comunicata la notizia del ri- torno del marito. Così la donna adorna la sua figura e la casa per festeggiare l’ar- rivo del coniuge, mentre Giove ordina ad Arcade di andare dall’amata per annun- ciarle il rientro del marito in patria, (ottave 46-51).

Udita la notizia, Almena ordina a Birria, pigro, di andare incontro ad Anfitrione; il servo sulle prime fa finta di non udire, poi, minacciato, si alza e sia avvia verso la nave del padrone. Lungo la via si lamenta della sua sorte: chi fa credere ad Alme- na che Anfitrione sia tornato veramente? E poi, che lui vada o meno al porto, se è vero, il padrone tornerà lo stesso (ottava 55).

Non fa in tempo ad uscire il servo che Giove bussa alla porta della donna nei pan- ni di Anfitrione, la quale, vedendoselo davanti, lo riempie di baci e abbracci che il dio ricambia con piacere (ottave 52-59).

Birria, sulla via del porto, si lamenta delle sue sventure: tutte le fatiche gli vengo- no addossate risparmiando gli altri. In più, Birria ha un’altra sventura: quella di essere sottoposto al giogo di una donna; l’autore della Novella riprende la polemi- ca misogina presente in Vitale (vv. 109-119): ‘Guai a ch’è sottoposto al giogo/ come son’io, d’una femmina vana’ (ottava 65, vv. 1-2). Il servo, anche in questo

caso, sospetta che Almena lo abbia cacciato di casa per potersi incontrare libera- mente con l’amante e pronuncia un monologo in cui è combattuto: non sa decide- re se tornare sui suoi passi o dirigersi al porto. Alla fine, vinto dalla codardia, de- cide di andare ad accogliere Anfitrione con gli ha ordinato la padrona (ottave 64-69).

La Novella riprende i fatti già narrati da Vitale: Anfitrione e Geta approdano fi- nalmente a Tebe e Birria, per non farsi addossare i bagagli si nasconde in una grotta, dove ascolta i ragionamenti dell’altro servo.

Ma la sua speranza è vana perché, anche in questo caso Geta, fingendo di non ve- derlo, inizia la sua argomentazione nei pressi del suo nascondiglio(ottave 73-85). Come nel Geta il discorso è divisibile in due parti e si svolge secondo il topos del dialogo a distanza. La prima parte del monologo è costituita dal racconto di ciò che il filosofo ha subito in Grecia: fatica, freddo, fame ed ogni tipo di stento (otta- ve 78-79). Nella seconda parte (ottave 80-85) i due servi dialogano a distanza: Geta fa sfoggio delle conoscenze acquisite nei sette anni passati lontano dalla pa- tria e Birria le ridicolizza in a parte.

Tornano una ad una e nello stesso ordine, le tesi già presenti in Vitale:

Sommo loico son, onde si prova

Che l’asino sia uomo mostro per prova. 55

Così farò di ciascuno animale, Sillogizando, mutar forma e nome, Ciascun del suo prim’essere diseguale, […]

El Birria, perché è lento e poco vale,

Da monstrum: “prodigio, portento”; “essere che si presenta con caratteristiche estranee al con

55 -

sueto ordine naturale” da Vocabolario Treccani 2017: Il Treccani, Roma, Istituto dell' Enciclopedia italiana, 2017.

Asino vo’ che sia, perché si domi la schiena sua 56

(Ottava 79 vv. 7-8, ottava 80 vv. 1-3 e 4-7 )

E ancora:

Apparato che s’è quel ch’una volta, Non può la scienza sua esser mai tolta . 57

(Ottava 81, vv. 7-8)

Birria è felice di sentire che può continuare a mantenere la propria identità. Ma Geta continua con le sue dissertazioni:

Mi duol ch’ognun perisce per la morte. Socrate il gran Dottore, et ancor Plato Lasciar per morte questa vita grama; Et io, ch’ho tanto di senno apparato, Che in sempiterno viverà mia fama. 58

(Ottava 82 v. 8, ottava 83 vv. 1-4)

Birria ascolta attentamente dal suo nascondiglio e controbatte di nuovo alle affer- mazioni dell’amico, che trova contraddittorie:

Cred’i’ ben che costui si è smemorato; Diceva il Birria, che or si richiama Ché la morte uccide tutti, e poco avanti Provò che il fin mancava a tutti. (Ottava 83, vv. 4-8)

Cfr. VITALE DE BLOIS, Geta…op. cit. versi 163-168. 56

Ibidem, vv. 173-174 57

Cfr. VITALE DE BLOIS, Geta…op. cit. vv.175-176. 58

Il botta e risposta a distanza è analogo a quello scritto da Vitale ed utilizza la tec- nica messa a punto da Plauto per il dialogo tra Mercurio e Sosia, in cui i due pro- tagonisti portano avanti due discorsi paralleli percependo la presenza dell’altro. Alla fine Geta, udendo il mormorio di Birria dentro la grotta, passa all’azione fin- gendo di credere che al suo interno ci sia una lepre e si arma di pietre per “stana- re” il compagno. Così lo schiavo, senza più scampo, si fa riconoscere da Geta, il quale gli ordina di andare al porto a prendere i bagagli (ottave 86-91).

2.4 Vitale de Blois, Geta

Il dialogo tra Geta e Arcade (vv. 229-422)

Nel Geta, a differenza dell’Amphitruo, è solo dopo il confronto tra Geta e Birria che la vicenda si avvia verso l’episodio centrale: l’incontro di Geta con Arcade. Se nell’Amphitruo tale momento avveniva subito dopo il prologo, nel rifacimento accade durante il confronto tra i due servi, premessa necessaria per comprendere la psicologia di Geta ed il contesto culturale all’interno del quale si inseriscono le sue riflessioni. Il monologo di Geta, infatti, si configura come un preambolo alle ponderazioni che scaturiranno dal confronto col dio.

Dopo l’incontro con Birria, Geta si dirige verso la casa di Anfitrione e si rallegra di quella che pensa sia la fine della sua vita di fatiche, poiché il suo status di filo- sofo gli permetterà di oziare e di guadagnarsi la stima degli altri schiavi della casa . Questi lo chiameranno Geta magister (v. 235), lo rispetteranno nella sua 59 nuova condizione di uomo libero e insegnerà loro grandi cose (vv. 229-239). Il filosofo torna poi alla realtà, dicendosi certo che la porta della sua casa si spa- lancherà toccandola semplicemente col dito mignolo, ma giungendo di fronte ad

I nomi dei famigli citati da Geta - Sannione, Sanga e Davo - sono ripresi da Terenzio; il primo 59

essa si stupisce del silenzio. Prova allora con un’annuncio a gran voce: Exeat Al- mena, pandatur ianua Gete, exeat et videat Amphitriona suum! (vv. 249-250) . 60 Mentre in Plauto la scena si apriva con il monologo di Sosia che analizzava le dif- ficoltà di essere servitore di un ricco, tale passaggio manca in Vitale, il quale pas- sa immediatamente al dialogo tra i contendenti. Se infatti nel blesense Geta arriva alla dimora di Anfitrione annunciando a gran voce il ritorno del padrone, l’avvici- namento all’entrata da parte di Sosia era diverso: il servo aveva già percepito la presenza dell’estraneo - Mercurio - del quale Geta diviene cosciente solo dopo l’annuncio del suo arrivo; a rispondergli è difatti una voce così simile alla sua da atterrirlo. Il motivo della spavalderia manca a Sosia, il quale sembra già sentire sulla sua pelle il peso delle percosse paventate da Mercurio nel loro dialogo a di- stanza.

Il dialogo tra Arcade e Geta ha inizio al verso 270 ed al suo termine avviene la crisi conoscitiva del servo. Come nell’Amphitruo, la perdita d’identità di Geta si articola in una sequenza di tre monologhi in crescendo.

Il primo di essi (vv. 257-260) è una reazione all’uguaglianza della voce di Arcade che, trovandosi dietro la porta, dice: Adest foribus, Getam mentitur eratque persi- milis Gete corpore, voce magis. (vv. 251-252) , gli rivela che Iam thalamum tenet 61 Amphitrion, tenet hostia Geta. (v. 253) e gli intima di andarsene. 62

A quel punto Geta è stupefatto e reagisce con un monologo dal taglio filosofico:

‘Qui loquitur mecum voce est corpore Geta: Voce loqui Gete quis nisi Gete potest?

Sed logici memorant quod vox est una duorum

‘Si apra la porta a Geta, esca Alcmena; esca e veda il suo Anfitrione!’

60

‘È vicino alla porta, ha assunto l’aspetto di Geta ed era assai simile a lui nel fisico ma soprattutto

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nella voce.’

‘Anfitrione è già in camera da letto e Geta è di guardia alla porta.’

Atque duos nomen significabit idem.’ 63

(Vv. 257-260)

Grazie all’argomento dell’omonimia e alla polisemia del termine “vox” Geta ha superato facilmente la sua prima crisi, scaturita dalla somiglianza del timbro di Arcade al suo, poiché i logici sostengono che una voce può riferirsi a due cose. Nel sarsinate era Mercurio ad interrogare per primo il servo con una serie incal- zante di domande che non danno il tempo, a Sosia, di chiedere chi sia quell’estra- neo identico a lui sulla porta. La resistenza di Sosia è debole e a tratti viene eclis- sata dalle sue ritrattazioni che, per paura delle percosse, gli fanno addirittura nega- re se stesso.

Diverso è il meccanismo di appropriazione dell’identità che viene messo a punto nel Geta. In Vitale, dopo aver risposto che Anfitrione e Geta si trovano già in casa, è il filosofo ad incalzare colui che si trova dietro i battenti. Arcade, a differenza del Mercurio plautino, si nega alla vista del servitore che insiste perché gli venga aperto. I ruoli si sono rovesciati: non è più il dio che insiste perché l’altro risponda alle sue domande ma quest’ultimo che lo sollecita per sapere chi gli nega l’acces- so. In Vitale Arcade si trova nella posizione di colui che si deve difendere, mentre Geta attacca. Il dio recupera il temperamento del suo archetipo plautino, intimi- dendo il rivale con parole molto vicine al modello: Ergo cadet et tua cervix! (v. 315) ; Iniuria forte facta redundabit in caput, hercle tuum! (vv. 317-318) . Ben64 65 - ché neppure Geta minacci direttamente Arcade, si ritrova nel blesense una spaval- deria che mancava a Sosia, con frasi che indicano una minor codardia del perso-

‘Colui che parla con me ha la voce ed il corpo di Geta. Chi, se non Geta, può parlare con la voce

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di Geta? Ma i logici affermano che una voce può riferirsi a due cose e che un solo nome potrà in- dicare due persone.’

‘Allora ti romperò la testa!’

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‘L’oltraggio fatto alla porta ricadrà sulla tua testa, per Ercole!’

naggio: En tuus Amphitrion! Iubeas cito clausa recludit: introitum Gete furcifer iste negat! (v. 312) ; Ianua fuste cadet! (v. 315) .66 67

Per resistere all’insistenza di Geta, il dio comincia ad utilizzare una serie di argo- menti di cui solo il vero Geta può essere a conoscenza; così, dopo aver spiegato che Anfitrione si trova già in camera da letto con la moglie, aggiunge anche che ha fatto ritorno pure Birria, sul quale lui ha scagliato una raffica di sassi mentre si nascondeva in una grotta (vv. 264-268).

Lo schiavo, di fronte a queste affermazioni, pronuncia il secondo monologo (vv. 273-284), in cui lo smarrimento della logica appena acquisita si fa più acuto e sembra cominciare a convincersi davvero della sua perdita d’identità (vv. 273-284) : 68

Obstupuit retroque pedem tulit, ‘Heu michi!’, dicens, ‘Hunc verum Getam factaque voxque probant

Numquid aberravi? Numquid quomodo Birria missus Est ego qui mecum loquitur, sed nescio fiat

qua ratione duo qui prius unus erat.

Omne quod est unum est, sed non sum qui loquor unus; Ergo nichil Geta est, nec nichil esse potest.

Unus eram, clausa cum primum limina voce Intonui, sed me reddidit ille mihi.

Respondine mihi? Vocemne per echo relatam

‘Ecco il tuo Anfitrione! Affrettati a dare ordine di aprire quello che è chiuso: questo pendaglio

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da forca impedisce a Geta di entrare.’ ‘Romperò la porta a colpi di bastonate!’

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‘Rimase attonito e fece un passo indietro. dicendo: ‘Povero me! Le azioni e i fatti dimostrano

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che costui è il vero Geta. Ho forse sbagliato strada? Forse Birria, che ho inviato ora al porto, ha fatto ritorno più rapidamente o per strada più breve? Sono io stesso che parlo con me, ma non so spiegarmi come abbia potuto sdoppiarsi colui che prima era uno solo. Tutto ciò che esiste è uno, ma proprio io che parlo non sono uno; perciò Geta è nulla, eppure non può essere nulla. La prima volta che ho fatto sussultare la porta chiusa con il suono della mia voce ero solo, ma quella mi ha rimandato la mia stessa voce. Che mi sia risposto da solo?’

Ut solet in tilvis reddidit ipsa domus?’

Si tratta di una parodia non tanto della logica scolastica in sé, quanto del cattivo uso che ne fa un personaggio incolto. Per risolvere l’impasse Geta passa ad un’ul- tima prova per affermare la propria identità: gli farà delle domande sulle sue azio- ni e i suoi costumi poiché non leve ne Geta sit duo sive nichil (v. 290). Così, dopo un tentativo sventato da Arcade di sfondare la porta, il servo pone al dio la prima delle due domande che dovrebbero coglierlo in fallo ma che, in realtà, segneranno l’annullamento della sua identità:

‘Dic, oro, tu qui sit modus et color oris et membris proprias omnibus adde notas.’ (vv 321-322) 69

Tale domanda, ovviamente, mancava in Plauto poiché Sosia poteva vedere con i suoi occhi la fisionomia dell’altro.

Inizia una descrizione dettagliata dell’aspetto di Geta (vv. 331-353); egli è incre- dibilmente brutto a causa della sua pelle dal colore nero, che lo rende simile a un etiope o ad un indiano, ed è piagata dalla scabbia. I suoi capelli sono ispidi come la lana di capra, ha la fronte bassa, il naso lungo e gli occhi rossi. La sua faccia è ricoperta da una barba folta, mentre il collo è lungo e le spalle sono strette. La pancia e lo stomaco sono gonfissimi, tanto che non esiste cintura che li possa con- tenere; non possiede il segno della vita e pure la sua zona lombare è ricoperta di grasso. Le gambe sono tozze, anch’esse ricoperte di peli e scabbia, mentre il suo membro è così grande da raggiungere le ginocchia ricurve. I piedi sono tanto ar- cuati da non poter essere contenuti in nessun tipo di sandalo ed il suo aspetto è talmente disgustoso che chi l’ha visto una prima volta è spaventato al pensiero di

‘Dimmi, ti prego, quale sia l’aspetto e il colorito del tuo volto e aggiungi tutte le caratteristiche

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vederlo una seconda volta. L’aspetto fisico nel sarsinate costituiva l’ultimo atto - benché decisivo - della sottrazione della soggettività, fondata quasi totalmente sul- le esperienze. Nel Geta è, al contrario, dalla fisicità che il servo parte con le do- mande, non potendo vedere Arcade nascosto nell’ingresso della dimora.

Per questa descrizione è interessante il commento di Vincenzo Tandoi,che ricol- lega tale rappresentazione all’iconografia farsesca di Mercurio compagno di amori notturni di Giove, attestata in vasi italioti del sec. IV a.C. rinvenuti a Paestum . 70 Massimo Fusillo, invece, sottolinea come questa descrizione sia improntata alla poetica medievale del grottesco e del basso corporeo . 71

La descrizione colpisce il neo-filosofo che afferma: Quisquis id est, Geta est; sum quoque talis (v. 354) ma vuole un’ulteriore prova e pone la seconda domanda: in 72 che modo Geta è solito ingannare Anfitrione? Arcarde non si fa pregare e parla dell’amante segreta del servo, attratta unicamente dalla sua virilità, che attira le donne, al contrario del volto: Ut verum fatear, non Geta sed inguen sua amat (v. 364) . Il servo rivela di sottrarre i beni al padrone per mantenere Taide, la sua 73

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