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Il dialogo tra Geta e Anfitrione (vv. 422-488)

Mentre in Plauto la scena corrispondente (vv. 551-632) si configurava come un concitato dialogo e si apriva in medias res, con Anfitrione già a conoscenza di quanto affermato da Sosia, nel Geta la conversazione tra i due comincia con il pa- drone preoccupato per il viso sconvolto del servo.

Nel Geta la riappropriazione dell’identità del servo, o meglio, la restituzione della stessa da parte di Anfitrione, avviene in due fasi. La prima è quella dell’utilizzo del nome. Solo dopo che il padrone ha pronunciato il suo nome, Sosia, come se Anfitrione avesse sciolto un incantesimo, inizia l’esposizione di quanto accaduto. Dopo il dialogo con Arcade, Geta corre incontro ad Anfitrione con un viso così turbato da fargli sospettare la morte di un figlio o una malattia della moglie, per cui lo chiama col suo nome, chiedendogli disperato quale disgrazia sia accaduta (vv. 422-436). Il nome pronunciato dal padrone segna il momento esatto dell’ini- zio della riappropriazione dell’identità da parte del servo-filosofo, che ha la rive- lazione che aspettava:

‘Hercule! Sum Geta, quia Getam me vocat ille. Quod non est aliquid nomen habere nequit.’ (Vv. 437-438) 126

Lo schiavo conclude che non può essersi annullato: ciò che non esiste non può avere nome.

‘Per Ercole, allora sono Geta, visto che egli mi chiama Geta. Quel che non esiste non può avere

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Ma il servo continua la narrazione - straordinaria - di ciò che è accaduto e lo fa con un racconto pronunciato tutto d’un fiato, cominciando con un’affermazione che potrebbe apparire delirante (vv. 440-442):

‘Nuntio mira: diu est quod sumus ambo domi. Hercule! Non sumus hic, rediit iam Birria iamque Amphitrion thalamos, hostia Geta.’ 127

Per poi proseguire:

‘Insisto foribus; me Geta recede iussit,

Amohtriona probans iam rediisse domum. Me michi descripsit , mea facta recensuit ipse Quodque foret Geta multa vedere fidem.’ (vv. 447-450) 128

Con poche frasi Geta ha tracciato gli incredibili fatti appena avvenuti, mentre Bir- ria ascolta e commenta tutto in a parte in maniera sarcastica. In particolare si sca- glia contro quella disciplina che li resi pazzi durante il loro viaggio in Grecia (vv. 451-452) e ciò lo fa giungere ad una conclusione:

‘Insanire facit stultum dialectica quemvis; Ars eam numquam sit, Birria, nota tibi:

Arte carere bonum est que per fantasmata quedam, Aut homines asinos aut nichil esse facit.

‘Porto una notizia straordinaria: noi due siamo a casa da molto tempo. Noi non siamo qui, per

127

Ercole, anche Birria è già tornato e Anfitrione è già in camera da letto, mentre Geta è di guardia alla porta.’

‘Busso insistentemente alla porta, ma Geta mi ingiunse di allontanarmi, asserendo che Anfitrio

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ne era già tornato a casa. Mi fece la descrizione di me stesso, enumerò le azioni da me compiute e molti argomenti mi convinsero che egli era Geta.’

Sit logicus luivis; tu, Birria, sis homo semper! His studium placeat, uncta popina tibi!’ (vv. 453-458) 129

È stato sottolineato come Birria incarni il buonsenso comune, in contrapposizione al falso sapere dialettico e alla logica appresa in modo erroneo . È vero che con i 130 suoi commenti ai ragionamenti di Geta ne smaschera l’assurdità, ma è anche vero che il pigro servo non rappresenta un esempio di saggezza. Al contrario, le sue considerazioni hanno sempre una conclusione ridicola, come in questo caso, quando dice di preferire la uncta coquina alla filosofia.

Anfitrione, che fino a questo momento era stato in silenzio ad ascoltare il servo, fornisce una soluzione alla sua crisi:

‘Falleris’ inquit ei ‘qui te nichil esse vereris.’ ‘Mechus habet thalamos, cui bene notus eras.’ (vv. 461-462)

Con poche parole Anfitrione ha restituito nuovamente la sua identità a Geta. Il processo iniziato con l’utilizzo del suo nome si è concluso con la rivelazione di quanto, secondo il padrone, sta accadendo veramente: non è avvenuto alcun mi- sterioso sdoppiamento o sottrazione dell’identità, semplicemente un amante che conosceva bene Geta ha messo in atto questo stratagemma per raggirarlo e godere della compagnia di Alcmena. Tutte le ragionamenti ed i dubbi del servo sono stati vani: egli non ha mai cessato di esistere e adesso ne ha la prova.

‘Quando uno è ignorante, lo studio della dialettica lo fa impazzire; quella è una scienza che tu

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non devi mai apprendere, Birria: è un vero guadagno fare a meno di una scienza che, per mezzo di elucubrazioni fantastiche, trasforma gli uomini in asini o addirittura li annienta. Chi vuole faccio pure il logico; tu, Birria, cerca di rimanere sempre un uomo! Costoro amino lo studio, tu il grasso della cucina.’

Variazioni su un mito: l’Anfitrione sulla scena moderna, in M. FUSILLO, L’altro e lo stesso…

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La discussione tra servo e padrone si svolge in un modo diverso nell’Amphitruo, in cui le asserzioni di Sosia vengono contestate da Anfitrione con rabbia accom- pagnata da minacce di violenza fisica. Nel Geta, il padrone ascolta senza inter- rompere la narrazione del servo e non ha, come nel modello, dubbi angosciosi nel- la spiegazione di quanto raccontato. Anfitrione non indica nel Geta l’ubriachezza, la follia o la magia come spiegazione di quanto accaduto e dà una soluzione più semplice al dramma del servo: quello che ha incontrato è solamente un uomo che lo ha raggirato. Di fronte a questa rivelazione Geta non appronta, come accadeva nell’Amphitruo, una strenua difesa di quanto ha vissuto ma accetta senza discus- sioni ciò che il padrone afferma. Anfitrione ha dato una risposta ai suoi dubbi esi- stenziali e ciò gli basta.

Al contrario di Sosia, questa rivelazione non rende felice Anfitrione, il quale ordi- na ai due servi di imbracciare le armi per uccidere l’amante della moglie, (vv. 463-468).

Birria non ha nessuna intenzione di rischiare la vita e ribadisce la sua estraneità alle ragioni che hanno fatto impazzire il padrone e l’altro servo:

‘Nullus te, Birria, fallit.

Hos agit insanes ad sua dampna furor;

Hi sine bella gerant: nichil est ad prelia tutum. Si poserunt, numquam Birria Marte cadet.’ (vv. 471-474) 131

Lo schiavo dichiara la sua estraneità alla battaglia che il padrone pretende di fargli combattere, poiché vede in quello scontro tutta la vanità delle convinzioni propu- gnate da Geta ed Anfitrione. L’amante inesistente può essere visto come una meta-

‘Nessuno può ingannarti, Birria. La follia spinge questi pazzi alla rovina. Lascia che combatta

131 -

no la loro guerra: quando si va in battaglia non c’è nulla di sicuro. Se mi sarà possibile, Birria non cadrà mai in guerra.’

fora dell’inutilità e dell’inconsistenza delle ricerche effettuate dalla dialettica dalla quale Birria - il buonsenso comune - si discosta. E difatti quell’irruzione, bran- dendo le armi, la fanno solamente i due filosofi, perché Birria trova delle scuse per mantenersi nelle retrovie (Hoc me tardat onus; vos sequar, v. 476 ; eminus 132 adsistam quia funda saxa rotabo:/improvisa magis vulnera sepe nocent, vv. 483-484 ) e continua a ridere di loro. 133

Poco prima della carica dei tre, Giove saluta Alcmena, (vv. 493-498) adducendo come scusa le navi lasciate incustodite al porto. Rispetto alla scena corrispondente dell’Amphitruo risulta subito evidente la brevità, con cinque versi a fronte dei 50 plautini (vv. 499-550). L’altra differenza è la mancanza di proteste da parte di Alcmena, alla quale addirittura non viene data la parola, mentre la donna del sar- sinate si mostra molto risentita per la breve permanenza del marito. Giove, tra l’altro, se ne va senza palesarsi più e ciò impedisce il crearsi degli equivoci che le sue apparizioni scatenano in Plauto. Manca al Giove di Vitale la volontà di ingan- nare per puro divertimento il marito dell’amata, motivo per il quale la sua perma- nenza coincide unicamente con il tempo utile a soddisfare il suo desiderio.

2.8 La Novella di Geta e Birria

Il dialogo tra Geta e Anfitrione (ottave 147-169)

In questa sezione la Novella segue pedissequamente la narrazione di Vitale e apre la scena con Anfitrione che, vedendo il servo sconvolto, pensa ad una qualche di- sgrazia avvenuta all’interno della sua famiglia, (ottava 150). I toni della preoccu- pazione di Anfitrione, rispetto al Geta, sono fortemente accentuati, dando vita ad un vero e proprio appello disperato al servo:

‘Geta!’ quasi lacrimando.

‘Questo peso mi rallenta; vi verrò dietro.’

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‘Io vi proteggerò da lontano perché lancerò pietre con la fionda: spesso i colpi inaspettati reca

133 -

Dicendo: ‘Dimmi tosto, qual difetto Ti fa tornar? Chi ha di vita bando, Almena, o '1 flgliuol mio tanto diletto?’ […]

‘Geta, che pensi tu ? Che non rispondi S' i' debbo stare in vita, o s' io m'uccida? Perchè col tuo tacer più mi confondi ? Di' tosto la cagion che qui ti guida Troppo fa' mal se 'I ver tu mi nascondi.’ (Ottave 151-153)

Anfitrione è ignaro della vera ragione del silenzio dello schiavo: pronunciandone il nome (ottava 149, v. 1) gli ha permesso di riappropriarsi della sua identità, e ciò avviene con le stesse modalità raccontate dal Geta:

‘E son pur Geta; chiaro veggio il come , Perchè ora Anfltrion Geta mi chiama; Nicessità non è eh' egli abbi nome Chi non è nulla, o sol d' esser brama.’ (Ottava 152, vv. 1-4)

Geta, durante la sua riflessione, non risponde alle domande del padrone che si mostra sempre più angosciato, quindi si affretta a raccontare quanto di straordina- rio è successo quando, per suo ordine, si è recato a casa per annunciare ad Alcme- na il proprio ritorno:

‘Come volesti , a casa tua n' andai, Per far quel che da te mi fu commesso. Ad alta boce Almena tua chiamai;

Non mi rispose ; ond' i' mi fé' più presso» E con un sasso la porta picchiai;

Dentro era Geta, e risposerai appena, Minacciando di rompermi la schiena.

Cos'i dicendo: Anfitrion è in braccio Della sua donna , e quivi si riposa. Per certo egli era il Geta, e questo saccio» Che di ciò eh' i' fé' mai disse ogni cosa. D'ogni suo membro e' mi contò avaccio Fatto com' io ho, e colla boce ombrosa Parla col parlar mio; ond'io do fede

Ch'e' sia il ver Geta, e sciocco è chi nol crede.’ (Ottave 154-155)

Come nel modello, anche in questo caso Birria ridicolizza in a parte le parole di Geta ed Anfitrione, dicendosi convinto di non voler imparare quella disciplina che ha resi pazzi: «Costoro apparon loica, pensando/ D’ esser per senno degli altri maggiori./ Ed ella gli vien poi così conciando», (ottava 157, vv. 1-3). Ma il padro- ne interrompe i ragionamenti dei servi con parole più dure rispetto al testo del ble- sense, con la rabbia propria del personaggio plautino:

‘Un uccel sanza penne

Ti fé' natura; in qual libro si trova Ch'un altro in te, o tu in altro ti muti? Troppo se' sciocco , se Giove m' ajuti.’ (Ottava 159, vv. 6-8)

L’aggressione di Anfitrione al servo si conclude con una rivelazione: quello che parlava con la sua voce e l’ha descritto con precisione era l’amante della moglie, un uomo che lo conosceva bene e che l’ha gabbato per potersene stare in compa- gnia della donna (ottava 160).

Questa notizia completa il processo di riappropriazione dell’identità da parte del servo, il quale, con le stesse modalità utilizzate nel modello, non difende la pro- pria verità di fronte alle convinzioni del padrone ed è felice di essersi riappropria-

to dell’individualità. Geta raccoglie l’ordine di imbracciare le armi dato dal pa- drone e si prepara ad affrontare l’amante della donna (ottave 160-161).

Anche Birria viene invitato a fare lo stesso ma, fermamente convinto della follia del padrone e dell’altro schiavo, continua a prendersi gioco di loro e delle loro azioni:

Dicea fra se: ‘Vedi quant'è ignorante Ciascun di loro! E' mi par doppio errore Che a' danni loro gli mena il furore. Fàccian pur queste battaglie a loro modo, Se i’ potrò, Birria inanzi mai non cadi; Di questi smemorati i' ben ne godo. Lascia ir loro, e fa' eli' a dietro vadi, E di lor fantasia sciolgan lor nodo. Che, stando scosto, ne periscon radi.’ (Ottave 162-163)

Ciò viene confermato, come in Vitale, dalle scuse utilizzate da Birria per non par- tecipare allo scontro: ‘Andate inanzi, i’ verrò drieto piano’ (ottava 165, v. 3); ‘I’ non sarò mai sì lontano, /Che la mia pietra non giunga feroce’ (ottava 165, vv. 7-8). La Novella fa propria - non è dato sapere quanto consapevolmente - la pole- mica filosofica sottesa al Geta e riproduce gli stessi atteggiamenti polemici di Bir- ria, riprendendo la protesta nei confronti dell’erroneo apprendimento della logica e delle sterili polemiche della scolastica.

Allo stesso modo del blesense e con pochi versi (ottave 168-169), Giove saluta Alcmena, (vv. 493-498) sostenendo Geta lo sta attendendo sulla nave. Anche in questo caso Giove informa Alcmena che sta per andarsene, mentre la donna non solo non protesta ma non risponde nemmeno al marito. Anche in questo caso il mancato ritorno del dio impedisce l’esplosione degli equivoci, poiché l’unico

obiettivo della permanenza del dio era godere della compagnia della moglie di Anfitrione.

3. La conclusione

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