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Combinazione di Irinotecan e Temozolomide (TEMIRI) in pazienti pediatrici e giovani adulti affetti da Sarcoma di Ewing: profili di efficacia e sicurezza

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

Combinazione di Irinotecan e Temozolomide (TEMIRI) in pazienti pediatrici e giovani adulti affetti da Sarcoma di Ewing:

profili di efficacia e sicurezza

RELATORE Dott. Luca Coccoli CANDIDATO

Chiara Guarini

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RIASSUNTO ANALITICO

Introduzione. Il SE è un tumore raro mesenchimale altamente maligno, scarsamente

differenziato e con alto potenziale metastatico. La sua peculiarità genetica è la presenza nella quasi totalità dei casi del gene di fusione EWS-FLI1. Costituisce il 6-10% di tutti i tumori maligni primitivi dell’osso e colpisce prevalentemente pazienti pediatrici e giovani adulti (età media di insorgenza compresa tra i 5 e i 25 anni) con incidenza in Italia di circa 60 nuovi casi l’anno. Il corrente standard terapeutico è rappresentato da un approccio multidisciplinare che si avvale dell’integrazione dei trattamenti chemioterapico, chirurgico e radioterapico. L’introduzione di una chemioterapia efficace ha significativamente migliorato la prognosi e reso possibile un notevole aumento della sopravvivenza a 5 anni che tuttavia, ancora oggi, si attesta tra il 65% e il 75%. Nuovi regimi chemioterapici sono necessari soprattutto in particolari categorie di pazienti con SE a prognosi infausta, ovvero i pazienti recidivati o in progressione di malattia e i pazienti con metastasi extrapolmonari e scheletriche multiple alla diagnosi (VHR, very high risk). In tali categorie di pazienti, l’impiego clinico dell’irinotecan in associazione alla temozolomide (TEMIRI) rappresenta una nuova ed importante strategia terapeutica.

Scopi. Il presente studio ha lo scopo di valutare l’efficacia e la tossicità della combinazione

TEMIRI in pazienti pediatrici e giovani adulti affetti da SE e trattati nell’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica dell’AOUP, sia nella window therapy di prima linea in pazienti VHR sia in seconda linea di trattamento in pazienti recidivati o in progressione di malattia.

Pazienti e metodi. Sono stati inclusi nello studio retrospettivo osservazionale 8 pazienti, di età

compresa tra 12 e 34 anni, affetti da SE e valutati nel decennio maggio 2007-maggio 2017. Dell’intera coorte, 3 pazienti sono stati sottoposti a window therapy di prima linea con TEMIRI, mentre 6 pazienti hanno ricevuto il trattamento con TEMIRI in seconda linea, dopo fallimento della terapia standard multimodale; un paziente infatti ha effettuato sia la window

therapy sia la seconda linea di trattemento con TEMIRI a seguito di recidiva. Lo schema

terapeutico utilizzato rispetta le indicazioni degli attuali protocolli (ISG/AIEOP EW2 VHR e rEEcur): in ciascun ciclo di trattamento della durata di 21 giorni, ad eccezione di un caso in cui è stato necessario ricorrere a riduzione della dose, sono stati somministrati 100mg/mq per os dopo digiuno di 2 ore di temozolomide, seguiti, a distanza di 1 ora, da infusione endovenosa di 50mg/mq (max 100mg) di irinotecan in 150cc/mq di soluzione fisiologica in 60 minuti.

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Risultati. Nei 6 pazienti in terapia non di prima linea sono state evidenziate le seguenti

migliori risposte: 2 risposte complete (RC), 2 risposte parziali (PR), 1 stabilità di malattia (SD) e 1 progressione di malattia (PD). I migliori tassi di risposta e di controllo della malattia sono stati ottenuti a 3 mesi e sono rispettivamente 66,7% e 83,3%. La sopravvivenza libera da malattia (PFS) è stata compresa nell’intervallo 2-25 mesi. Quattro pazienti sono deceduti a causa della malattia con sopravvivenza globale (OS) tra 17 e 30 mesi, mentre due pazienti sono in vita, uno con malattia misurabile e in progressione e uno senza evidenza di malattia. Le risposte al trattamento nei 3 pazienti sottoposti a window therapy di prima linea sono state le seguenti: 0 CR, 2 PR, 1 NV (non ancora valutabile, perché in fase di completamento del secondo ciclo). Un paziente è deceduto a causa della malattia dopo 42 mesi dall’inizio della terapia, mentre gli altri due sono vivi, entrambi con malattia misurabile e terapia in corso. La terapia nel complesso è stata ben tollerata: gli effetti collaterali sono stati in prevalenza lievi-moderati (di grado 1 in 6 pazienti e di grado 2 in 5 pazienti). Soltanto in 2 pazienti sono stati riscontrati eventi avversi severi: un caso di tossicità di grado 3, nessun caso di tossicità di grado 4 e, infine, un caso di exitus (grado 5), ma di non sicura attribuzione alla chemioterapia effettuata.

Conclusioni. Il profilo di efficacia e la buona tollerabilità della terapia con TEMIRI riscontrati

nel presente studio, sebbene si basi su una coorte di pazienti piccola ed eterogenea, sono significativi ed incoraggianti in vista di trials clinici futuri. I risultati ottenuti, in accordo con le evidenze emergenti e i precedenti lavori riportati in letteratura, suggeriscono la possibilità di inserire il TEMIRI all’interno dell’armamentario terapeutico attualmente disponibile nella prima linea di terapia in pazienti con SE VHR e di considerarlo verosimilmente il migliore schema di terapia di seconda linea in pazienti con SE recidivati o in progressione di malattia.

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INDICE

PARTE I ... 7 INTRODUZIONE ... 8 Il Sarcoma di Ewing ... 8 Epidemiologia ... 9

Patogenesi: basi genetiche e molecolari ... 10

Presentazione clinica, diagnosi e stadiazione ... 13

Anatomia patologica ... 21

Trattamento multimodale ... 22

Follow up... 26

Fattori prognostici ... 28

IRINOTECAN e TEMOZOLOMIDE (TEMIRI) nel Sarcoma di Ewing 32

IRINOTECAN: farmacologia, impiego clinico e tossicologia ... 32

TEMOZOLOMIDE: farmacologia, impiego clinico e tossicologia... 39

Background per l’impiego clinico della combinazione di Irinotecan e Temozolomide . 43 Studi sulla combinazione di Irinotecan e Temozolomide (TEMIRI) nel sarcoma di Ewing ... 45

REEcur ... 49

ISG/AIEOP EW2 VHR ... 50

PARTE II ... 53

SCOPI DELLO STUDIO ... 54

PAZIENTI E METODI ... 55

Individuazione e caratterizzazione della coorte ... 55

Valutazione della risposta alla chemioterapia... 55

Valutazione della tossicità alla chemioterapia ... 58

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RISULTATI ... 60

Caratteristiche dei pazienti ... 60

Trattamento ... 64

Modalità di somministrazione di TEMIRI ... 64

Valutazione della risposta al trattamento ... 67

Valutazione della tossicità al trattamento ... 72

DISCUSSIONE ... 75

Prospettive future ... 76

BIBLIOGRAFIA ... 78

SITOGRAFIA ... 85

INDICE DELLE FIGURE... 86

INDICE DELLE TABELLE ... 86

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PARTE I

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INTRODUZIONE

Il Sarcoma di Ewing

Il Sarcoma di Ewing (SE), il cui nome deriva da James Ewing che lo descrisse per la prima volta nel 1920, è un tumore mesenchimale altamente maligno, scarsamente differenziato e con alto potenziale metastatico. Dal punto di vista anatomopatologico è caratterizzato da piccole cellule blu rotondeggianti;1,2 la sua peculiarità genetica è la presenza nella quasi totalità dei casi del gene di fusione EWS-FLI1, derivante dalla traslocazione tra i cromosomi 11 e 22. Benchè possa svilupparsi in qualsiasi distretto del corpo, il SE origina più frequentemente a livello osseo e le sedi più colpite sono la diafisi delle ossa lunghe degli arti (in particolare del femore e della tibia) e le ossa piatte del bacino; localizzazioni più rare sono l’omero, la fibula, la mano, il piede, il cranio, la scapola, la clavicola e le coste. Si parla invece di Sarcoma di

Ewing extraosseo quando il tumore interessa i tessuti molli, come i muscoli, i tendini, il

tessuto fibroso, il grasso, i vasi sanguigni e i nervi.

I tumori della famiglia del Sarcoma di Ewing (EFT) sono un gruppo di neoplasie che includono, oltre al SE, anche il neuroepitelioma o tumore neuroectodermico periferico primitivo (PNET) e il tumore di Askin. Queste neoplasie sono accomunate dall’origine neuroectodermica, dalle caratteristiche istologiche, immunoistochimiche e citogenetiche, e attualmente dallo stesso tipo di trattamento.3,4 Lo PNET è una variante più differenziata e può interessare sia i tessuti molli sia l’osso, mentre il tumore di Askin è una variante a localizzazione toracica con insorgenza solitamente muscolare.

All’esordio il 20-25% dei pazienti presenta, inoltre, localizzazioni secondarie di malattia clinicamente evidenti, in genere a livello polmonare e/o osseo.

Dal punto di vista terapeutico, il SE mostra un’elevata sensibilità ai trattamenti integrati chemioterapico, chirurgico e radioterapico; pertanto l’approccio multidisciplinare qualificato risulta indispensabile. L’introduzione di una chemioterapia efficace ha migliorato significativamente la prognosi, permettendo il passaggio da un infausto 5-10% ad un 65-75% di sopravvivenza a 5 anni. Ad oggi, infine, almeno il 50% dei pazienti presenta una sopravvivenza a lungo termine.

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Epidemiologia

Il SE è un tumore raro: costituisce il 6-10% di tutti i tumori primitivi maligni dell’osso che colpiscono bambini ed adolescenti, tra i quali è secondo per frequenza, dopo gli osteosarcomi. In Italia l’incidenza del SE osseo è di circa 60 nuovi casi l’anno, di cui due terzi interessano pazienti di età inferiore ai 20 anni. Negli Stati Uniti l’incidenza stimata è di 3,4 casi l’anno per milione di abitanti. L’età di insorgenza è compresa, in oltre il 90% dei casi, tra i 5 e i 25 anni, con prevalenza lievemente maggiore nel sesso maschile rispetto a quello femminile (M:F=1.5:1) e nei caucasici piuttosto che negli individui di origine africana, nei quali invece il SE è raramente riscontrabile1,4(vedi Figura 1).

Figura 1. Incidenza del SE nei due sessi, nelle varie fasce di età e nei diversi segmenti scheletrici (788 casi) dei casi presentatisi tra il 1900 e il 2000 all’Istituto ortopedico Rizzoli (per gentile concessione del Centro Tumori dell'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna).

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Patogenesi: basi genetiche e molecolari

I sarcomi sono un gruppo eterogeneo di neoplasie maligne che derivano da tessuti mesenchimali (osso, muscolo e cartilagine). A differenza dei carcinomi, ovvero tumori di origine epiteliale che generalmente insorgono in età più avanzata come risultato finale di una lunga progressione di lesioni preneoplastiche, che si accumulano ed acquisiscono mutazioni molecolari nel tempo (cancerogenesi multistep), i sarcomi compaiono di solito in pazienti pediatrici ed in giovani adulti e presentano una storia naturale per lo più sconosciuta. Nella fattispecie i tumori della famiglia di Ewing non sono associati attraverso evidenze convincenti né a malattie congenite né a malattie ereditarie a trasmissione mendeliana. Tuttavia, negli ultimi decenni, sono state identificate alcune anomalie genetiche ritenute alla base della patogenesi dei sarcomi. In particolare, peculiari alterazioni molecolari sono state associate a specifici sottotipi istologici di sarcoma e hanno permesso di elaborare una nuova classificazione. Attualmente, infatti, i sarcomi ossei e dei tessuti molli possono essere geneticamente suddivisi in due gruppi: quelli caratterizzati da un’aberrazione cromosomica ricorrente, tumore-specifica e rilevante nella patogenesi e nella diagnosi (rappresenta un vero e proprio criterio diagnostico), e quelli con cariotipi complessi e con variabili alterazioni genetiche.5,6 I tumori della famiglia di Ewing, insieme al sarcoma sinoviale, al rabdomiosarcoma alveolare, al liposarcoma mixoide ed al condrosarcoma mixoide, appartengono al primo gruppo. Questi tumori difatti si accompagnano in maniera caratteristica a specifiche traslocazioni cromosomiche che causano l’espressione di un fattore di trascrizione chimerico oncogenico. Nel sarcoma di Ewing, il gene di fusione EWS-FLI1 è presente in più dell’85% dei SE e deriva dalla t(11;22), ovvero dalla traslocazione tra i cromosomi 11 e 22, mentre meno frequentemente si riscontrano altre due traslocazioni, t(21;22) e t(7;22). Tutte comportano la fusione del gene EWS, situato sul cromosoma 22, con un gene codificante per un fattore di trascrizione della famiglia ETS (E26

trasformation-specific o E-twenty-six family) e non sembrano determinare tassi di sopravvivenza differenti

in pazienti con SE7 (vedi Figura 2). La proteina di fusione EWS-FLI1 ha potere trasformante, costituisce lo step limitante nella tumorigenesi e determina il mantenimento del fenotipo oncogeno. Tuttavia gli effetti della espressione forzata di EWS-FLI1 e la conseguente insorgenza della neoplasia sono fortemente condizionati dal background cellulare. Nonostante i fattori critici favorenti la comparsa della neoplasia siano per lo più sconosciuti, nella patogenesi del SE rivestono un ruolo rilevante l’inattivazione di P53 e RB, la presenza di una

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11 via metabolica intatta di IGF (fattore di crescita insulino-simile, insuline-like growth factor) e di CD99 (cluster di differenziazione 99). La CD99 in particolare è una proteina integrale di membrana fortemente espressa in molti pazienti con SE. La reciproca influenza tra EWS-FLI1 e questi fattori critici noti è stata evidenziata di recente. Nello specifico è stato dimostrato come l’espressione di EWS-FLI1 possa indurre una upregolation di IGF1, mediante un’attivazione autocrina del recettore di IGF (IGF-R1) e/o di CD99, in modo da determinare la trasformazione in senso neoplastico delle cellule staminali mesenchimali.8-10

Figura 2. Traslocazione cromosomica reciproca e bilanciata tra il cromosoma 11 ed il cromosoma 22 con la formazione del gene di fusione EWS-FLI1. La porzione prossimale del gene EWS è giustapposta alla porzione distale di FLI1. La proteina chimerica codificata contiene quindi il dominio aminoterminale di EWS e la regione carbossiterminale di FLI1.

Sicuramente la presenza di un prodotto chimerico tumore-specifico rappresenta un elemento molto attraente dal punto di vista terapeutico; tuttavia non esistono ad oggi farmaci che interferiscano con la sua espressione o con il meccanismo di tumorigenesi da esso attivato. Come potenziale armamentario terapeutico nei confronti del SE avanzato sono stati studiati

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12 anticorpi monoclonali o inibitori tirosinchinasici diretti contro IGF-1R, che bloccano, quindi, le vie metaboliche regolate dall’espressione di EWS-FLI1.11 Gli studi clinici condotti con questi farmaci hanno però rilevato una scarsa efficacia (risposta in meno del 10% dei pazienti trattati) e una tossicità moderata (iperglicemia lieve e reversibile).12,13 L’evidenza di un ruolo compensatorio di IR-A (isoforma A del recettore dell’insulina) in presenza dell’inattivazione del IGF-1R e, quindi, di tale meccanismo di resistenza intrinseca alla terapia anti-IGF-1R,14,15 rende ad oggi necessari ulteriori studi per identificare i pazienti che potrebbero beneficiare di una terapia anti-IGF-1R in aggiunta alla terapia standard.

Un’ulteriore ed importante opzione terapeutica pone come bersaglio molecolare la proteina CD99 attraverso la somministrazione di anticorpi monoclonali anti-CD99, in grado di indurre un’apoptosi massiva e di ridurre il potenziale maligno delle cellule del SE.16,17 Peraltro è stato

dimostrato in vitro e in vivo che la combinazione di un anticorpo anti-CD99 con ADM potenzia l’efficacia antitumorale della terapia immunologica.18 Una recente ricerca inoltre

suggerisce che, nel prevenire la normale differenziazione neuronale delle cellule di Ewing, sia proprio il CD99 a svolgere un ruolo cruciale.19

Una nuova strategia terapeutica nel trattamento del SE si basa sull’azione pro-apoptotica del ligando TRAIL (tumor necrosis factor-related apoptosis-inducing ligand), il quale, attivando i recettori posti sulla superficie delle cellule neoplastiche, induce la morte cellulare programmata. Esistono prove che attestano la sensibilità delle cellule di Ewing all’apoptosi indotta dal TRAIL; inoltre in letteratura è stato riportato da poco uno studio preclinico che ha mostrato l’efficacia di TRAIL nei modelli animali di SE.20 L’utilizzo quindi di anticorpi

monoclonali che si comportino da agonisti, attivando il TRAIL, rappresenta una modalità terapeutica aggiuntiva a quelle attualmente disponibili.

È infine importante menzionare la scoperta, anch’essa recente, dell’interazione con feedback positivo tra i geni di fusione EWS-FLI1 e il PARP1 (poli ADP-ribosio polimerasi) e i suoi potenziali risvolti terapeutici. I geni di fusione EWS-FLI1 infatti sostengono l’espressione di PARP1, il quale a sua volta è richiesto per la trascrizione mediata da EWS-FLI1. Risultati incoraggianti in modelli animali sono stati riscontrati mediante la somministrazione di inibitori di PARP1. In particolare, l’aggiunta di inibitori di PARP1 al farmaco di seconda linea temozolomide ha determinato risposte complete in un modello di xenotrapianto di topo,21 aprendo la strada alla sperimentazione clinica di questi farmaci.

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Presentazione clinica, diagnosi e stadiazione

La presentazione clinica del SE è spesso condizionata dalla sede e dalle dimensioni di malattia. Nella maggior parte dei casi, il sintomo più precoce è rappresentato dal dolore, intenso e irradiato qualora si manifesti una sindrome da impigement (sindrome da conflitto), come nelle localizzazioni sacrale e vertebrale. Il dolore può essere accompagnato o meno da tumefazione della sede colpita, da aumento locale della temperatura, apprezzato meglio alla palpazione, e da limitazione funzionale. La presenza di questi sintomi e segni, specialmente in pazienti pediatrici e giovani adulti, è suggestiva dell’insorgenza della neoplasia e richiede un approfondimento diagnostico. In alcuni pazienti si riscontrano sintomi sistemici come la febbre (in un terzo dei casi) ed alterazioni di parametri ematochimici che possono simulare un’infezione, come aumento della proteina c-reattiva (PCR) e della velocità di eritrosedimentazione (VES), anemia e leucocitosi. Non esistono indagini ematochimiche specifiche per la diagnosi e, sebbene livelli elevati di LDH si evidenzino nel 30% dei pazienti e rappresentino un fattore predittivo, essa costituisce un indice di morte cellulare che subisce alterazioni importanti in molte malattie neoplastiche e non. Infine, la fosfatasi alcalina può riscontrarsi anch’essa aumentata, ma con valori che correlano meno strettamente rispetto all’LDH con la prognosi.

In caso di sospetto clinico di SE, un corretto iter diagnostico prevede in prima istanza l’esecuzione di una radiografia in due proiezioni della sede colpita, che nella maggior parte dei casi suggerisce la diagnosi. La presentazione radiografica consiste generalmente in aree osteolitiche multiple a piccoli focolai non confluenti, spesso pandiafisarie, con l’osso che nelle fasi più avanzate può apparire come “cancellato” (“osso fantasma”). Il quadro radiografico del SE riflette il rapido andamento clinico della malattia: nelle fasi iniziali è presente una lesione osteolitica permeativa ed infiltrante a limiti non definiti; successivamente l'osteolisi raggiunge e distrugge la corticale con una chiara e visibile reazione del periostio (espressione del reiterato ma vano tentativo di contrastare la diffusione periferica del tumore,

reazione periostale a "bulbo di cipolla"); a seguito del superamento della corticale, anche il

periostio viene distrutto e rimane solo un’area di iperostosi triangolare ai margini del tumore, caratteristica anche dell’osteosarcoma (Triangolo di Codman); infine, il tessuto patologico si espande rapidamente nei tessuti molli circostanti, il cui interessamento può essere rilevato alla RMN o alla TC. La RM, con la quale deve essere esplorato l’intero segmento osseo insieme

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14 alle articolazioni adiacenti, costituisce peraltro l’indagine di elezione per individuare le skip

metastates (vedi Figura 3). L’uso della TC non può considerarsi sostitutivo della RMN, ma

può fornire informazioni aggiuntive in alcuni casi, quali l’interessamento di sedi assili. Possono essere inoltre richieste in situazioni particolari l’angioTC e l’angiografia. Le indagini di imaging quindi permettono di valutare l’estensione delle lesioni osteolitiche, l’eventuale e tipica reazione periostale a “bulbo di cipolla” o il triangolo di Codman e l’interessamento pressoché costante delle parti molli.

Il quadro radiografico, la rapidità del decorso clinico e la sintomatologia soprattutto di tipo sistemico pongono sempre la diagnosi differenziale con l'osteomielite acuta, la quale viene favorita dal fatto che la reazione periostale a “bulbo di cipolla” del SE risulta ampiamente interrotta nella sua continuità. Tra le patologie neoplastiche, il SE va differenziato innanzitutto dall'osteosarcoma, specie nella sua variante teleangectasica, dal fibrosarcoma e dall'istiocitoma fibroso maligno, ma anche dai tumori della serie ematopoietica (in particolare il linfoma) e dalle metastasi ossee, anche se queste ultime colpiscono una fascia d'età differente rispetto al SE.

Figura 3. Aspetti radiologici di un SE del terzo prossimale della diafisi tibiale destra. Radiografia in proiezione anteroposteriore (A) e laterolaterale (B) e RM T1-pesata in sezione coronale (C).

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15 La stadiazione sistemica della malattia necessita dell’esecuzione delle seguenti indagini: la TC spirale del torace, la scintigrafia scheletrica e la biopsia osteomidollare (BOM). Ad oggi sta acquisendo un ruolo sempre più rilevante nella stadiazione la PET total body, oltre all’ormai riconosciuto valore predittivo in relazione al SUV (Standardized Uptake Value, misura semiquantitativa della captazione del tracciante nella regione di interesse); è ancora oggetto di valutazione invece l’effettiva utilità della RM total body.22 In alcuni centri di terzo livello, tra i quali l’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, la collaborazione tra la Medicina Nucleare e la Radiologia ha permesso di eseguire nella stessa seduta la PET total

body e la scansione basale integrata TC torace, ottenendo un vantaggio per il paziente in

termini di radiazioni, tempo e stress.

Non esistono criteri di imaging definiti per stabilire la natura dei reperti polmonari. Si può tuttavia affermare che lesioni polmonari singole di dimensione inferiore a 0.5 cm hanno una bassa probabilità di rappresentare secondarismi. La probabilità che i noduli rilevati alla TC spirale siano di natura metastatica aumenta in relazione al numero e alle dimensioni degli stessi. Inoltre sono indicative di lesione metastatica le modificazioni della densità e delle dimensioni in corso di trattamento chemioterapico. Un accertamento bioptico dei noduli polmonari deve essere preso in considerazione in caso di TC torace dubbia, soprattutto qualora l’esito positivo della biopsia comporti un diverso approccio terapeutico. Una valutazione analoga accompagnata da eventuale procedura bioptica deve essere riservata anche per le sedi extrapolmonari di eventuali localizzazioni secondarie di malattia.

Nella flow chart diagnostica del SE non può essere esclusa l’esecuzione della biopsia osteomidollare bilaterale (BOM),per identificare l’interessamento del midollo osseo.

La biopsia della sospetta sede primitiva permette di confermare la diagnosi e deve obbligatoriamente precedere qualsiasi intervento terapeutico. La sede della biopsia deve essere marcata e ben riconoscibile, in quanto il tragitto bioptico dovrà sempre essere asportato al momento della chirurgia definitiva, qualunque sia stata la procedura bioptica, per evitare l’insemensamento neoplastico.23 Il prelievo bioptico deve essere eseguito presso un centro di

riferimento da un chirurgo o da un radiologo esperto e può avvalersi di tecniche diverse in relazione alla sede e alle caratteristiche della lesione. Le tecniche più utilizzate sono l’agobiopsia TC- o eco-guidata e la biopsia incisionale, mentre la biopsia escissionale deve essere evitata.24 Attualmente la tecnica utilizzata regolarmente nei centri qualificati è quella

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16 L’agobiopsia può essere effettuata in particolare in tumori con aspetto clinico-radiografico classico, per i quali non è necessario ricorrere ad una valutazione istologica estesa. Viene effettuata solitamente in anestesia locale o generale (pazienti pediatrici), in regime ambulatoriale, con guida ecografica o radiologica. Consiste nell’inserimento di un trocar (grosso ago di 5-6mm di diametro) e non di un ago sottile, che consentirebbe il solo esame citologico (agoaspirato), e rappresenta una procedura più semplice rispetto ad una biopsia incisionale, anche in relazione alla successiva escissione del tragitto bioptico in continuità con il tumore sottostante. Lo svantaggio principale è rappresentato dalla modesta quantità del materiale prelevato, che in alcuni casi può risultare non rappresentativo.

La biopsia incisionale, invece, tecnica ad oggi preferita, è indicata soprattutto in tumori con caratteristiche clinico-radiolografiche non univoche, nei casi in cui è necessario uno studio istologico accurato e completo per stabilire la condotta terapeutica ed in tutte le situazioni nelle quali l’agobiopsia potrebbe non essere sufficiente per confermare la diagnosi a causa della scarsità del prelievo. L’incisione va generalmente eseguita in senso longitudinale in una sede che possa essere escissa in blocco assieme al tumore al momento della chirurgia definitiva; deve essere condotta attraverso il muscolo e senza la dissezione dei piani anatomici, in modo da evitare la contaminazione di più compartimenti come i fasci vascolo-nervosi e le cavità articolari. È preferibile inoltre prelevare il tessuto a livello dell’interfaccia osso ospite/tumore, sede più ricca di cellule vitali, la parte centrale della lesione invece può essere necrotica e quindi non diagnostica. Prima della sutura, bisogna accertarsi di ottenere un’adeguata emostasi riempiendo la cavità ossea con spugna emostatica o cemento per evitare la formazione di ematomi disseminanti cellule neoplastiche. Infine, l’eventuale utilizzo di un drenaggio richiede la sua applicazione in linea ed in prossimità dell’incisione cutanea.

La biopsia escissionale consiste nell’esposizione e nell’escissione totale della neoformazione, ma è da riservarsi a lesioni benigne e da evitare in caso di sospetto SE come suddetto.

L’indagine istologica richiede una competenza specifica da parte di un anatomopatologo o la conferma di un Centro di riferimento nazionale. In presenza di una lesione osteolitica e/o frattura patologica del rachide, specialmente in soggetti di giovane età e quindi riconducibile ad un sospetto SE, dovrebbe essere evitata la laminectomia decompressiva, privilegiando l’accertamento bioptico in urgenza e il trasferimento presso un centro di riferimento specialistico.

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17 I sarcomi di Ewing sono tutti tumori ad alto grado. La biopsia deve fornire materiale sufficiente per l’esecuzione delle tradizionali colorazioni istologiche, delle indagini immunoistochimiche e di biologia molecolare. Si raccomanda che il materiale fresco sia congelato e conservato in specifiche banche dei tessuti. Nella maggior parte dei casi la diagnosi può essere posta sulla base della colorazione con ematossilina ed eosina e dell’analisi immunoistochimica che deve comprendere l’espressione di CD99, caveolina e FLI1. La diagnosi differenziale con i linfomi richiede ulteriori indagini immunoistochimiche, come la negatività di CD45. La ricerca e l’identificazione delle caratteristiche traslocazioni cromosomiche mediante le indagini di biologia molecolare è attualmente ritenuta indispensabile e diventa obbligatoria quando sussiste un dubbio diagnostico, anche se questo dovesse richiedere l’esecuzione di una ulteriore biopsia.25,26 Un laboratorio di riferimento per

la diagnosi di SE deve disporre di tecniche di FISH (ibridazione fluorescente in situ,

fluorescent in situ hybridization) e RT-PCR ( real time-Polimerase Chain Reaction).27 La PCR real time, denominata anche PCR quantitativa o PCR quantitativa in tempo reale, è un metodo che ha rivoluzionato la Biologia molecolare e che consente l’amplificazione e la simultanea quantizzazione del DNA, partendo da quantità minime (anche una sola molecola) di acido nucleico; rappresenta la tecnica di scelta se è disponibile materiale fresco. La FISH è una tecnica citogenetica che permette, mediante microscopia a fluorescenza, di rilevare e localizzare specifiche sequenze di DNA nei cromosomi, sfruttando sonde fluorescenti che si legano in modo selettivo alle regioni del cromosoma; a differenza della PCR real time è utilizzabile su materiale fissato in paraffina (vedi Figura 4). L’uso di RT-PCR sull’aspirato midollare è attualmente oggetto di valutazione, tuttavia non sembra offrire vantaggi in termini di valutazione prognostica rispetto al classico esame citologico del midollo osseo.28

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Figura 4. Ibridazione fluorescente in situ (FISH) che dimostra la t(11; 22) (q24; q12), [der (22)] nel SE e nei tumori neuroectodermici periferici primitivi (PNET)

Attualmente vengono utilizzati due sistemi di stadiazione del SE, peraltro condivisi con gli osteosarcomi: il sistema di stadiazione secondo Enneking e il sistema di stadiazione UICC/AJCC. Il secondo appare più informativo dal momento che tiene conto delle skip metastasi e dei diversi pattern di metastatizzazione.29-33

Il primo, messo elaborato da Enneking nel 1980 e adottato dall’American Musculoskeletal Tumor Society, si basa su tre parametri:

• il grado (G) istologico di malignità del tumore; • la sede e l’estensione (T) della neoplasia;

• la presenza o meno di metastasi regionali o a distanza (M).

In relazione a tali parametri, le neoplasie maligne vengono suddivise negli stadi I e II in caso di lesioni rispettivamente a basso e alto grado istologico in assenza di metastasi. Risultano ulteriormente distinte in intracompartimentali (A) ed extracompartimentali (B) in base all’estensione anatomica locale. I pazienti allo stadio III presentano neoplasie a basso o alto grado istologico e lesioni metastatiche. I sarcomi di Ewing sono tutti tumori ad alto grado istologico e solitamente extracompartimentali. La Tabella 1 descrive il sistema di stadiazione secondo Enneking per i tumori maligni primitivi dell’osso.

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Tabella 1. Sistema di stadiazione secondo Enneking per i tumori maligni primitivi dell’osso. Abbreviazioni utilizzate: T1, tumore intracompartimentale; T2, tumore extracompartimentale; M0, assenza di metastasi, M1, presenza di metastasi regionali o a distanza; G1 basso grado istologico; G2, alto grado istologico.

Enneking ha anche proposto una stadiazione speciale per il SE: EW I, solitario intraosseo; EW II, solitario extraosseo; EW III, scheletrico multicentrico; EW IV, metastatico. Il 20% dei pazienti con SE alla diagnosi è già metastatico.

Il sistema di stadiazione dell’American Joint Committee on Cancer (AJCC) è stato recentemente aggiornato. Nei casi diagnosticati dopo il primo gennaio del 2003, l’entità del tumore riflette la dimensione piuttosto che l’estensione transcorticale del tumore. I tumori con diametro maggiore inferiore o uguale a 8cm vengono designati come T1, mentre quelli con diametro maggiore a 8cm vengono indicati come T2 (nella precedente stadiazione l’attribuzione del parametro T si riferiva come suddetto all’estensione: intracorticale, T1, o extracorticale, T2); inoltre è stato aggiunto T3 per indicare le skip metastasi. Un’ulteriore modifica riguarda la suddivisione di M1 in M1a (metastasi solo polmonari) e M1b (metastasi a distanza in altre sedi). Non vi sono invece cambiamenti relativi al grado istologico di malignità: G1 (ben differenziato) e G2 (moderatamente differenziato) rappresentano il basso grado, mentre G3 (scarsamente differenziato) e G4 (indifferenziato) rappresentano l’alto grado di malignità. La Tabella 2 descrive in dettaglio questo sistema di stadiazione.

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Tabella 2. American Joint Committe on Cancer Staging System per i tumori maligni primitivi dell’osso diagnosticati dopo il 1 gennaio 2003.

Abbreviazioni utilizzate: T1, tumore di dimensioni ≤ 8cm; T2, tumore di dimensioni > 8cm; T3, presenza di skip

metastasi nell’osso primitivo; NO, assenza di metastasi linfonodali regionali; N1, presenza di metastasi linfonodali regionali; M0, assenza di metastasi a distanza; M1a, metastasi polmonari; M1b, metastasi in altre sedi; G1, tumore ben differenziato; G2, tumore moderatamente differenziato; G3 tumore scarsamente differenziato; G4, tumore indifferenziato.

In un’ottica di valutazione olistica del paziente, la stadiazione deve essere completata indicando la sua capacità funzionale. Per la definizione e misurazione dello status funzionale si possono utilizzare almeno due sistemi: la scala di Karnofsky o l’indice della qualità della vita proposto dall’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG). La prima, il cui nome originale è Karnofsky performance status scale, è una scala di valutazione sanitaria che, per stimare la qualità della vita del paziente, tiene conto di tre parametri: la limitazione delle attività, la capacità di prendersi cura di se stessi e l’autodeterminazione. La scala è descritta ad intervalli di 10 punti dove il 100% (nessuna limitazione) rappresenta il punteggio massimo e lo 0% (morte) ne rappresenta il minimo. Fornisce indicazioni sulla prognosi, sullo scopo delle terapie e sulla pianificazione delle stesse. La valutazione dello stato di salute finale del paziente è necessaria infatti per intraprendere la migliore condotta terapeutica possibile nei vari stadi di malattia, in relazione alle possibilità di guarigione, di prolungamento della vita, di restituzione funzionale o di palliazione. Nella pratica clinica quotidiana, però, viene maggiormente utilizzato l’indice ECOG, che assume valori da 0 (nessuna limitazione funzionale) a 5 (morte). Un ECOG pari a 2, ad esempio indica la presenza di sintomi che limitano l’attività lavorativa ma non tali da determinare l’incapacità di provvedere alla cura di se stessi. Ai pazienti con SE viene nella quasi totalità dei casi attribuito un indice ECOG 0.

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Anatomia patologica

Il SE è un tumore che origina nella cavità midollare, determina la progressiva erosione della corticale e del periostio fino a raggiungere le parti molli. Dal punto di vista macroscopico, presenta un colorito biancastro-bruno con aree emorragiche e necrotiche, ed una consistenza molto soffice. La parte centrale della neoformazione spesso è necrotica con un aspetto semiliquido, simile a essudato purulento. All’esame istologico il tumore, è costituito, solitamente in maniera uniforme, da lamine di piccole cellule rotondeggianti e leggermente più grandi dei linfociti, stipate tra di loro, in assenza di matrice cellulare. Le cellule sono tutte simili tra loro: il citoplasma è scarso, pallido, granulare, eosinofilo con i bordi scarsamente definiti; i nuclei hanno una forma tonda-ovalare, con una membrana nucleare ben distinta e cromatina finemente dispersa, possono contenere uno o più nucleoli, e rare le figure mitotiche (vedi Figura 4). Le fibre collagene che separano le cellule delimitando isole di cellularità sono scarse, mentre i vasi sanguigni sono numerosi e sottili. La colorazione con il PAS (periodic acid Schiff) mostra numerosi granuli di glicogeno intracitoplasmatici confermati all’analisi del campione al ME (microscopio elettronico), mentre la valutazione immunoistochimica evidenzia la positività alla vimentina e altri antigeni.3 Talora le cellule si organizzano in strutture primarie definite pseudorosette di Homer-Wright, formazioni caratteristiche in cui le cellule tumorali sono disposte ad anello attorno ad uno spazio centrale fibrillare con i nuclei disposti alla periferia e proiezioni citoplasmatiche che si orientano verso il centro. Queste pseudorosette sono indicative della differenziazione in senso neurale oppure possono essere correlate alla necrosi centrale. Quando l’analisi immunoistochimica mostra una positività alla proteina S100 e all’enolasi specifica neuronale (NSE) e la microscopia elettronica evidenzia processi dendritici, neurotubuli e granuli neurosecretori densi, il tumore è uno PNET. La necrosi si presenta frequentemente, è molto estesa e può essere accompagnata da un abbondante infiltrato leucocitario; in questo caso la lesione non deve essere confusa con un quadro di osteomielite. Il tumore si insinua in modo diffuso nel midollo prima di iniziare a distruggere l’osso; determina un’intensa risposta vascolare ed infiammatoria e una reazione osteo-fibrosa che, però, non è in grado di arrestare l’espansione del tumore tramite la creazione di una capsula isolante. Ai margini del tumore è possibile ritrovare noduli satelliti sia all’interno sia al di là della zona reattiva, e possono persino essere presenti delle lesioni a salto (skip metastases).1,2

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Figura 5. Anatomia patologica microscopica del SE. Il preparato istologico colorato con ematossilina ed eosina (EE) mostra un fitto strato di cellule neoplastiche rotonde con nucleo grande, il doppio di quello dei linfociti, intensamente colorato e con rare figure mitotiche e nucleoli visibili, circondato da scarso citoplasma pallido e vacuolizzato.

Trattamento multimodale

Il trattamento del SE richiede la centralizzazione dei pazienti in Centri dotati di elevata esperienza nel trattamento dei sarcomi ossei o in istituzioni che afferiscono a network specializzati nei sarcomi. In relazione alla rarità della malattia, si raccomanda che i pazienti vengano inseriti in studi clinici nazionali o internazionali.

La combinazione di terapia sistemica (chemioterapia) e locale (chirurgia e/o radioterapia) rappresenta attualmente l’approccio terapeutico standard per questa neoplasia, trattandosi di un tumore altamente chemio- e radiosensibile.34

La chirurgia costituisce, ove possibile, la prima scelta nel trattamento locale del SE ed ha lo scopo di rimuovere il tumore con margini di resezione ampi preservando al contempo il migliore recupero funzionale. I margini chirurgici vengono definiti secondo la classificazione di Enneking in radicali, ampi, marginali, intralesionali e contaminati.31 La determinazione dei margini chirurgici deve essere frutto della stretta collaborazione fra chirurgo ed anatomopatologo ed è fondamentale in considerazione della relazione esistente fra qualità dei

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23 margini chirurgici e rischio di recidiva locale. Un intervento intralesionale deve sempre essere evitato, anche in caso di lesioni del rachide con iniziale compromissione nervosa. Una chirurgia intralesionale, anche se combinata con radioterapia postoperatoria, non offre, infatti, vantaggi superiori alla sola radioterapia in termini di controllo locale e non deve pertanto essere pianificata. Attualmente, tra tutti i pazienti affetti da SE che possono essere sottoposti ad un intervento chirurgico, la percentuale di candidati ad interventi di tipo conservativo è superiore al 90%. Il giudizio di non resecabilità deve essere confermato da un chirurgo dotato di una specifica esperienza nel trattamento di sarcomi ossei. Le aree con margini a rischio, evidenziatesi in corso di procedura chirurgica, dovrebbero essere identificate con clips in titanio ai fini dell’eventuale trattamento radioterapico postoperatorio.

Le tecniche ricostruttive dovranno tenere in considerazione la possibile necessità di un trattamento radioterapico postoperatorio.

In pazienti trattati localmente con la sola radioterapia, in casi selezionati, previa valutazione multidisciplinare, la chirurgia potrà essere considerata a completamento del trattamento chemioterapico.

La radioterapia rappresenta il trattamento locale esclusivo nei casi in cui la chirurgia venga giudicata non fattibile o oncologicamente inadeguata. Essa offre una buona percentuale di controllo locale grazie alla radiosensibilità della neoplasia.

Qualora, inoltre, i margini chirurgici fossero, inaspettatamente, interessati da malattia, deve essere somministrato un trattamento radioterapico postoperatorio.35,36 Non vi è consenso sull’opportunità di somministrare radioterapia postoperatoria, invece, in caso di margini ampi e scarsa risposta istologica; non vi è indicazione al trattamento radioterapico postoperatorio in caso di margini ampi e buona risposta istologica.

Il volume di trattamento radioterapico fa riferimento all’estensione tumorale alla diagnosi e si avvale ad oggi di tecniche di radioterapia conformazionale (3D-CRT) o ad intensità modulata (IMRT). In caso di radioterapia esclusiva la dose cumulativa raccomandata è di 55-60 Gy, mentre nel caso in cui la radioterapia venga associata a chirurgia la dose raccomandata è di 40-45 Gy. Il bifrazionamento quotidiano del trattamento radioterapico viene di norma utilizzato al fine di aumentare l’intensità del trattamento, di consentire una migliore integrazione con la chemioterapia, e di limitare, inoltre, la tossicità tardiva grazie alle più basse dosi per singola seduta. In caso di localizzazione al rachide la dose somministrata al midollo spinale non deve superare i 45 Gy. La 3D-CRT e la IMRT, divenute recentemente disponibili, consentono, soprattutto per alcune sedi di malattia, una maggiore selettività di

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24 trattamento con risparmio dei tessuti circostanti. Allo stato attuale non vi sono evidenze di un vantaggio prognostico da parte di queste tecniche rispetto a quelle tradizionali. Analoga considerazione vale per la terapia con adroni.

Nell’ambito dell’approccio multidisciplinare, la chemioterapia primaria è ad oggi sempre raccomandata in virtù dell’elevata sensibilità della neoplasia. Dopo la chemioterapia neoadiuvante, il trattamento locale dovrà essere preceduto da ristadiazione della sede di malattia, utilizzando le stesse tecniche di imaging della stadiazione iniziale, ed esecuzione della BOM se precedentemente positiva.37,38 La risposta alla rivalutazione di malattia effettuata secondo i criteri RECIST (Response Evaluation Criteria in Solid Tumors), è indicativa di miglior prognosi, soprattutto in relazione alla riduzione della componente extraossea e rappresenta l’unica risposta possibile nei pazienti inoperabili.39

La chemioterapia preoperatoria ha l’obiettivo principale di ridurre le dimensioni della lesione primitiva in modo da effettuare una chirurgia definitiva conservativa o comunque meno destruente possibile; vi sono segnalazioni che una completa scomparsa della componente tumorale a carico delle parti molli correli con una migliore sopravvivenza. Anche nelle forme localizzate all’esordio, è indicata la ripetizione di TC torace dopo chemioterapia primaria per escludere l’eventuale comparsa di metastasi polmonari, indice di mancata risposta alla chemioterapia e di progressione della neoplasia; è possibile eseguirla assieme alla PET total

body. La ripetizione della scintigrafia scheletrica è giustificata solo in caso di progressione

locale o di sintomatologia specifica, mentre risulta ridondante se viene eseguita la PET. La risposta istologica alla chemioterapia primaria (valutata sulla mappa del pezzo chirurgico) è strettamente correlata alla probabilità di sopravvivenza e costituisce il secondo motivo per cui è importante effettuare la chemioterapia pre-operatoria.40 La modalità di valutazione della risposta istologica adottata in Italia prevede, secondo la valutazione di Picci, tre gradi: il grado 1 definisce la persistenza di focolai macroscopici di cellule tumorali vitali, il grado 2 la persistenza di focolai microscopici vitali, il grado 3 l’assenza di cellule neoplastiche. La risposta istologica viene definita buona nel caso di grado due o tre, scarsa in caso di grado uno. È raccomandata la centralizzazione della valutazione della necrosi indotta dalla chemioterapia.

I regimi terapeutici chemioterapici utilizzati nel SE sono vari, ma i farmaci impiegati in prima linea sono spesso gli stessi combinati variamente tra loro. È possibile inoltre il ricorso alla terapia ad alte dosi e al trapianto di midollo osseo (TMO) con cellule staminali emopoietiche

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25 autologhe. Adolescenti e giovani adulti (fino a 40 anni) devono ricevere la terapia dei protocolli pediatrici, in quanto più aggressiva e capace di garantire risultati migliori.

Gli agenti chemioterapici correntemente utilizzati in prima linea nel trattamento del SE sono: adriamicina (ADM), ciclofosfamide (C), ifosfamide (IFO), etoposide (ETO), vincristina (V), actinomicina-D (ACT).41-43

Gli studi clinici attualmente in attività prevedono da tre a sei cicli (somministrati ogni 2-3 settimane) prima del trattamento locale e da sei a dieci cicli dopo trattamento locale, per una durata complessiva di 6-12 mesi. È stato inoltre dimostrato che un incremento dell’intensità di dose può consentire una riduzione della durata del trattamento, a parità di efficacia.44

I protocolli maggiormente impiegati hanno previsto l’uso da quattro a sei farmaci diversamente combinati fra loro; non esistono chiare evidenze circa la migliore combinazione possibile. Nell’effettuazione del trattamento è necessario considerare che l’intensità di dose correla positivamente con la sopravvivenza. Non vi sono opinioni univoche circa l’uso di terapie con alte dosi e supporto con cellule staminali emopoietiche; esiste comunque un’evidenza, proveniente da studi non randomizzati, di una loro efficacia in pazienti con SE ad alto rischio (ovvero pazienti poco responsivi alla chemioterapia primaria o pazienti metastatici all’esordio).45

Mancano ad oggi studi che dimostrino che il trattamento chemioterapico debba essere diversificato in funzione dell’età, almeno fino ai 40 anni. Il trattamento chemioterapico deve sempre essere raccomandato a prescindere dall’età di insorgenza della malattia, tenendo conto delle condizioni generali dei pazienti. Il trattamento chemioterapico dei pazienti con SE extraosseo segue gli stessi criteri delle forme ossee.46

A causa dell’elevato rischio d’infertilità successivo alla chemioterapia e alla radioterapia, si raccomanda che venga offerta la possibilità al paziente di preservazione degli ovociti o di conservazione dello sperma. In relazione al rischio di cardiotossicità (cardiopatia dilatativa) da ADM, inoltre, i pazienti debbono essere strettamente monitorati con ecocardiogrammi seriati.

A parità di trattamento chemioterapico, i pazienti con metastasi sincrone, ovvero metastatici all’esordio di malattia, presentano una probabilità di sopravvivenza inferiore rispetto ai pazienti con malattia localizzata. La strategia di trattamento dei pazienti con metastasi alla diagnosi prevede una chemioterapia più intensificata rispetto a quella dei pazienti con malattia localizzata, associata a radioterapia possibilmente su tutte le sedi di malattia e a chirurgia ove necessario.47

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26 L’intensificazione con terapia ad alte dosi di busulfano e di melfalan e il supporto con cellule staminali ematopoietiche autologhe nei pazienti metastatici all’esordio e responsivi alla terapia a dosi convenzionali, ha riportato risultati incoraggianti in diversi studi non randomizzati e comunque superiori in termini di sopravvivenza a quelli storici.48,49 Nell’esperienza italiana i vantaggi maggiori sono stati ottenuti nei pazienti con metastasi solo polmonari e/o con una singola metastasi scheletrica, e responsivi alla chemioterapia primaria. In pazienti con metastasi polmonari l’uso di radioterapia polmonare conferisce un vantaggio in termini di sopravvivenza.50 Il ruolo della chirurgia sulla malattia metastatica all’esordio è meno definito e deve essere valutato collegialmente.

In caso di recidiva di malattia, la sede di ricaduta e l’intervallo libero da malattia sono i principali fattori prognostici. In pazienti con intervallo libero da malattia maggiore di 36 mesi e con ricaduta a livello polmonare si raccomanda (ma non vi è consenso a riguardo) il solo intervento chirurgico, ove fattibile, altrimenti è indicato il ricorso alla radioterapia polmonare.51 Nelle altre situazioni si raccomanda sempre di associare il trattamento

chemioterapico. Non vi è uno standard di trattamento chemioterapico in caso di malattia recidiva; tuttavia i regimi chemioterapici attivi in pazienti recidivati sono costituiti da IFO ad alte dosi, topotecan e ciclofosfamide, gemcitabina e docetaxel, irinotecan e temozolamide.52-54 Non vi è un consenso circa l’efficacia, in pazienti ricaduti, di terapie con alte dosi e supporto con cellule staminali emopoietiche.

Follow up

Scopo del FU è quello di identificare tempestivamente la ripresa locale e/o sistemica della malattia, valutare il risultato funzionale delle procedure terapeutiche adottate e gli effetti tardivi del trattamento stesso. Altri specialisti, oltre all’oncologo pediatrico o dell’adulto, al radioterapista e all’ortopedico, devono essere coinvolti in relazione a specifiche necessità. Il FU del paziente con SE deve sempre prevedere la visita oncologica e quella chirurgica, mentre la visita radioterapica è raccomandata nei pazienti sottoposti a radioterapia. La chemioterapia e la radioterapia sono gravate da effetti tardivi che interessano in particolare il cuore, i reni, l’apparato respiratorio, l’apparato riproduttivo, il sistema endocrino ed il metabolismo.

I controlli di FU sono previsti dagli attuali protocolli chemioterapici (sia ISG/AIEOP EW1 e sia ISG/AIEOP EW2, rispettivamente riservati ai pazienti con SE non metastatico e

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27 metastatico) con cadenza trimestrale nei primi due anni, quadrimestrale nel terzo, quarto e quinto anno, semestralmente fino al decimo anno. Essi includono:

− emocromo completo con formula; fosfatasi alcalina, lattato deidrogenasi; transaminasi, creatininemia

− Rx segmento osseo interessato (nei primi tre anni, successivamente secondo valutazione ortopedica)

− TC/RM segmento osseo interessato (quando clinicamente indicato) − TC torace senza mdc

− Scintigrafia scheletrica, spirometria ed ecocardiogramma con valutazione della frazione di eiezione (frequenza annuale nei primi tre anni)

PET total body con TC torace basale, che può rappresentare una valida alternativa alla TC torace basale isolata e alla scintigrafia scheletrica.

Essendo, inoltre, noto il rischio di un secondo tumore, sia solido sia ematologico, indagini volte all’identificazione di una nuova neoplasia devono essere parte integrante del FU dei pazienti con SE. Non vi sono evidenze che supportino una particolare modalità di FU nei pazienti con SE. Utile è l’esecuzione di una ecocardiografia annuale per valutare la frazione di eiezione e mammografie nelle donne a partire dai 25 anni. Possono essere indicate indagini cliniche, laboratoristiche e di imaging in casi di alterazioni endocrinologiche ed auxologiche. Non sono stati condotti studi per verificare l’impatto sulla sopravvivenza rispetto all’uso di Rx del torace o TC del torace senza mezzo di contrasto, peraltro è evidente la maggiore sensibilità della TC rispetto all’esame radiologico diretto nell’evidenza di noduli polmonari. L’uso della TC viene dunque raccomandato per il FU del SE e deve di norma essere eseguita senza mezzo di contrasto, indicato solamente in caso di sospette metastasi mediastiniche. La sede locale, in caso di SE scheletrico, può essere valutata con Rx, salvo diversa indicazione clinica. In caso di SE extra-scheletrico sono indicate ecografia e/o RM. A causa dell’elevato rischio di metastasi scheletriche nel SE è giustificato l’uso della scintigrafia scheletrica nel FU a cadenza annuale nei primi tre anni e successivamente in caso di richiesta clinica. La scintigrafia scheletrica deve essere prevista sempre in caso di ricadute extra-scheletriche e di recidiva locale. La PET total body con acquisizione TC toracica nella stessa seduta appare essere l’indagine di imaging di scelta secondo le esperienze più recenti, anche in virtù del ridotto numero di radiazioni subite dal paziente. Il ruolo della RM total body, invece, nel FU del paziente con SE è in corso di valutazione.55,56 E’ possibile che possa dare informazioni

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28 aggiuntive in caso di pazienti sottoposti a trattamento esclusivamente radioterapico. Non vi è indicazione all’uso della TC o ecografia addominale nel FU del paziente con SE localizzato, salvo particolari condizioni cliniche. Non essendo disponibili evidenze circa i tempi e le modalità ottimali del FU, ad oggi i controlli periodici programmati e le indagini strumentali associate sono piuttosto personalizzati sul paziente, in base alle caratteristiche della neoplasia e del suo comportamento nel tempo. Solitamente ad ogni controllo vengono eseguiti: la visita clinica ambulatoriale che include l’anamnesi e l’esame obiettivo generale, gli esami ematochimici (emocromo con formula, controllo della funzionalità epatica e renale, valutazione degli elettroliti e del metabolismo) e gli esami di imaging variabili in numero e tipologia in base all’andamento della malattia. La scintigrafia ossea, la TC, la radiografia del torace, la RM e la PET possono essere combinate in vario modo. Protocolli di studio possono richiedere tempistiche e modalità differenti. I pazienti devono essere informati della possibilità di ricadute tardive (oltre i 10 anni) e di effetti tardivi dei trattamenti. Pertanto la possibilità di continuare i controlli di FU anche dopo il decimo anno deve essere offerta al paziente e allo stesso modo la decisione di interrompere i controlli di FU oltre il decimo anno deve essere condivisa.

Fattori prognostici

Alcuni dei fattori in grado di condizionare la prognosi in pazienti affetti da SE sono già emersi nel corso della trattazione precedente; tuttavia in questo paragrafo essi verranno brevemente ripresi ed approfonditi.

In epoca pre-chemioterapica, la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con SE, anche nelle forme localizzate all’esordio, era inferiore al 10%. Attualmente, il trattamento multimodale ha permesso di raggiungere una sopravvivenza a lungo termine intorno al 60%. La recidiva locale si riscontra nel 20% dei pazienti sottoposti a trattamento locale esclusivamente radioterapico associato a chemioterapia. Le metastasi, di solito multiple e disseminate, interessano in ordine di frequenza i polmoni, lo scheletro e i linfonodi. Una prognosi più favorevole può essere attesa in tumori di piccole dimensioni e/o con localizzazioni appendicolari distali, in caso di persistenza di valori normali di VES e LDH, in caso di un adeguato trattamento chirurgico e di buona risposta alla chemioterapia neoadiuvante.

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29 Lo studio di Biswas e colleghi ha analizzato 158 pazienti di età mediana quindici anni con SE delle estremità diagnosticato tra il 2003 ed il 2014 in un singolo centro, di cui 69 metastatici alla diagnosi. Nei pazienti con malattia localizzata l’analisi di regressione multivariata secondo Cox ha evidenziato che l’utilizzo esclusivo della radioterapia locale (per la inoperabilità del paziente) e la leucocitosi (>11000/µL) erano fattori predittivi di minore sopravvivenza libera da progressione (progression-free survival, PFS) e più basso tasso di controllo locale. Nei pazienti metastatici, è la presenza di secondarismi a predire un minore PFS e minore sopravvivenza globale (overall survival, OS).57

In un recente studio retrospettivo di Duchman et al. sono stati rilevati i fattori determinanti la prognosi in una coorte di 1163 pazienti con SE osseo diagnosticato tra il 1991 ed il 2010 afferenti a più centri di cura. All’analisi univariata risultavano essere fattori prognostici negativi la razza nera, la presenza di metastasi alla diagnosi, la sede assile, il diametro del tumore >10 cm, l’età del paziente superiore a 19 anni ed il sesso maschile. All’analisi multivariata, fattori prognostici indipendenti risultavano la presenza di metastasi, la sede assile, le dimensioni del tumore e l’età di insorgenza superiore a 19 anni.58

Oksuz et al. hanno condotto uno studio su 65 pazienti affetti da SE non metastatico alla presentazione, con età mediana alla diagnosi di 21 anni e afferenti ad un ad un singolo centro. L’analisi univariata secondo Cox ha mostrato che il PFS e la OS erano peggiori in pazienti con età superiore a 17 anni, con tumore di diametro > 8 cm, con sede assile, con margini chirurgici positivi o con scarsa risposta istologica alla chemioterapia neoadiuvante (necrosi <90%). L’analisi di regressione multivariata ha indicato come l’età, la sede assile ed il diametro del tumore primitivo fossero fattori prognostici indipendenti.59

Bacci et al. in uno studio retrospettivo hanno analizzato 359 pazienti con SE osseo non metastatico alla diagnosi, diagnosticato presso un solo centro tra il 1979 e il 1995. All’analisi univariata è emerso che i fattori prognostici negativi sono rappresentati dal sesso maschile, dall’età maggiore ai 12 anni, dalla presenza di febbre e/o anemia, dall’aumentata concentrazione di LDH, dalla sede assile, dall’utilizzo esclusivo di radioterapia per il controllo locale della neoplasia, dalla scarsa risposta istologica alla chemioterapia primaria. All’analisi di regressione multivariata secondo Cox il PSF era significativamente inferiore in pazienti di sesso maschile, di età maggiore a 12 anni, con febbre, con anemia, con valori aumentati di LDH e con tumore in sede assile. In pazienti trattati con intervento chirurgico esclusivo (senza radioterapia) sono stati identificati come fattori prognostici indipendenti la

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30 scarsa risposta alla chemioterapia primaria, la febbre, l’anemia, l’aumento dei valori sierici di LDH.60

Uno studio internazionale multicentrico condotto da Cotterill et al. ha descritto i fattori prognostici di 975 pazienti affetti da SE osseo. Per i pazienti non metastatici alla diagnosi, all’analisi multivariata la sede assile e l’età maggiore ai 15 anni erano fattori prognostici indipendenti. Nei pazienti metastatici, la presenza di metastasi polmonari sincrone correlava con una migliore sopravvivenza rispetto alla metastasi extra-polmonari. Nei pazienti recidivati, infine, un intervallo libero da recidiva (RFI) inferiore a 24 mesi era associato a prognosi peggiore.61

Riguardo all’analisi di pazienti affetti da SE refrattario alla terapia o recidivante in un periodo di 13 anni, un recente studio turco retrospettivo effettuato da Yildiz et al., ha incluso pazienti con queste caratteristiche e trattati con IFO e ETO, IFO e ETO e carboplatino, oppure con sola ETO. L’analisi multivariata ha messo in evidenza che la terapia con sola ETO così come la presenza di metastasi extra-polmonari erano correlate ad una minore OS.62

Uno studio retrospettivo monocentrico, pubblicato di recente, su 60 pazienti con SE extraosseo di età mediana di 16 anni, ha individuato come fattori predittori di una peggiore OS all’analisi multivariata l’anemia, le elevate concentrazioni sieriche di LDH, la leucocitosi (>11000/µL).63

Infine, nel terzo congresso europeo sui sarcomi ossei tenutosi presso the Children’s Cancer

Research Institute a Vienna nel 2015, i rappresentanti di ENCCA-WP7 (European Network for Cancer research in Children and Adolescents Work Package 7), EuroSarc (the

EUROpean Clinical Trials in Rare SARComas initiative), ECC (the European Ewing

Consortium), PROVABES (the PROspective VAlidation of Biomarkers in Ewing Sarcoma network) e EURAMOS (EURopean and AMerican Osteosarcoma Study Group), oltre a

discutere sulle attuali conoscenze biologiche, genetiche ed immunologiche sul sarcoma osseo, nonché sui risultati delle indagini precliniche e delle sperimentazioni cliniche allo stato dell’arte, hanno presentato il progetto Provabes per personalizzare la medicina traslazionale. Si tratta di una proposta congiunta dei tre principali gruppi di studio europei del SE, ECC, ISG (Italian Sarcoma Group) e GEIS (Spanish Group for Research on Sarcomas) che ha lo scopo di validare i biomarcatori predittivi e prognostici del SE, selezionati prospetticamente a tutti i livelli della biologia cellulare (genoma, trascrittoma e proteoma). Mentre i marcatori prognostici clinici infatti, quali le dimensioni e la sede della lesione primaria, l'età del

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31 paziente e la risposta istologica alla chemioterapia neoadiuvante, sono già stati ripetutamente stabiliti e utilizzati per la stratificazione terapeutica, si sa ancora poco sui fattori biologici che determinano il rischio di recidiva o progressione. Il SE è stato il primo sarcoma definito geneticamente dalla presenza di fusioni geniche EWS-ETS tumore-specifiche, principalmente traslocazioni EWSR1-FLI1. Alterazioni genetiche secondarie sono emerse come caratteristiche delle forme più aggressive di SE e potrebbero essere impiegate come biomarcatori predittivi. Questo studio potrebbe permettere di differenziare i pazienti da sottoporre ad un approccio terapeutico più aggressivo da quelli eleggibili per un trattamento meno intenso. Si prevede che non un singolo biomarker ma la loro combinazione fornirà l'algoritmo prognostico più informativo per i pazienti con SE.64

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IRINOTECAN e TEMOZOLOMIDE (TEMIRI) nel Sarcoma di

Ewing

IRINOTECAN: farmacologia, impiego clinico e tossicologia

L’Irinotecan è un farmaco chemioterapico antitumorale che rientra nella categoria degli inibitori delle topoisomerasi-I. Le topoisomerasi sono enzimi nucleari che svolgono un ruolo importante nei processi di replicazione e di trascrizione del DNA: il loro compito è quello di modificare il grado di superavvolgimento della doppia elica, mediante tagli e successive risaldature dello scheletro fosfodiesterico del DNA. Permettono in questo modo il mantenimento della struttura tridimensionale del DNA. Le topoisomerasi I, a differenza delle topoisomerasi II (distinte in α e β), provocano una rottura temporanea di un singolo filamento di DNA, formano un intermedio covalente con l’acido nucleico ed hanno un’attività non ATP-dipendente.

Erroneamente definiti inibitori, i farmaci antitumorali di questa classe sono in realtà dei

topoisomerasae interactive agents, dal momento che utilizzano in parte l’attività dell’enzima

per espletare l’effetto citotossico. Essi agiscono infatti stabilizzando l’intermedio della reazione (complesso covalente DNA-topoisomerasi), ostacolando l’attività delle proteine che scorrono lungo il DNA (elicasi, DNA polimerasi) e impedendo la rinsaldatura del DNA fino all’innesco dell’apoptosi.

Tra i composti che hanno come bersaglio la topoisomerasi I, la camptotecina (CPT), un alcaloide estratto fin dagli anni sessanta dalla corteccia della pianta Camptotheca acuminata molto comune in Cina, è il capostipite. Il prodotto naturale, usato nella forma salificata, si è dimostrato però poco attivo e altamente tossico negli studi iniziali di Fase I per evidenza di cistite, anemia e quadri imprevedibili di tossicità emopoietica; il suo sviluppo clinico è stato quindi abbandonato. Tuttavia, lo studio della struttura chimica della CPT e la delucidazione dei gruppi importanti per l'attività del composto hanno riacceso dopo anni l’interesse verso tale molecola e hanno portato alla sintesi e sperimentazione clinica di diversi derivati, ottimizzati man mano per le loro proprietà farmacologiche e caratterizzati in vivo ed in vitro da un largo spettro di attività antitumorale. I due più potenti derivati semisintetici della CPT sono: il topotecan, attualmente utilizzato nel carcinoma ovarico e polmonare, e l’irinotecan (CPT-11) impiegato soprattutto nel carcinoma colon-rettale, ma anche nei carcinomi gastrico,

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33 pancreatico e polmonare non a piccole cellule; l'ultimo derivato, l’edotecarin, è risultato infine largamente superiore nei tumori epatici, laringei, prostatici, gastrici, uterini e polmonari. A differenza del topotecan, l'irinotecan è un pro-farmaco e la sua attivazione, dopo infusione endovenosa, avviene a livello epatico grazie alla conversione, operata dall'enzima carbossiesterasi, a topoisomerasi I SN-38. Studi su linee cellulari tumorali umane e murine hanno evidenziato che l’irinotecan presenta una potenza approssimativamente 1000 volte inferiore dell’SN-38 come inibitore della topoisomerasi I,65 mantenendo comunque un buon effetto citotossico in modelli preclinici di tumori murini.66 Il meccanismo di attivazione in vivo conferisce al CPT-11 un profilo farmacologico positivo, che assieme all’elevata attività osservata nei primi studi pre-clinici, ne ha accelerato l’uso in trials clinici.

L’irinotecan, o meglio il suo metabolita attivo (SN-38), come gli altri inibitori delle topoisomerasi I, determina solitamente un danno al DNA non letale per le cellule tumorali, che tuttavia non viene riparato e si converte in una rottura irreversibile del doppio filamento a causa della collisione fra la DNA polimerasi, che sta avanzando e operando a livello della forcella replicativa, ed il complesso stabilizzato da SN-38; ciò inibisce la rilegatura del DNA, blocca la sintesi di acido nucleico e porta ad una cascata di eventi che culminano con la morte cellulare.67 A causa dell’effetto citotossico primario dell’irinotecan e in generale delle camptotecine, risultante da tale processo, i composti di questa famiglia sono considerati agenti specifici per la fase S del ciclo cellulare.

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Figura 6. Meccanismo d’azione dell’Irinotecan. Il chemioterapico, nelle cellule in divisione, si lega alla topoisomerasi I a sua volta legata al DNA, stabilizzando il complesso covalente DNA-topoisomerasi. Il danno al DNA, non letale per le cellule tumorali, non viene riparato e si converte in una rottura irreversibile del doppio filamento a causa della collisione fra la DNA polimerasi, che sta avanzando e operando a livello della forcella replicativa, e il complesso covalente stabilizzato. ciò inibisce la rilegatura del DNA, blocca la sintesi di acido nucleico e porta ad una cascata di eventi che culminano con la morte cellulare

Il metabolismo dell’irinotecan è un processo particolarmente complesso, che coinvolge numerose proteine efficaci sia nell’attivazione del profarmaco in SN-38 sia nelle reazioni che portano alla eliminazione biliare o renale del farmaco e dei suoi metaboliti.68 Dopo l’infusione endovenosa, l’irinotecan nel plasma è in equilibrio fra la forma lattonica (attiva) e quella carbossilata (inattiva), con predominanza a PH fisiologico della forma lattonica. In tale conformazione il profarmaco attraversa le membrane plasmatiche essenzialmente per diffusione passiva e una volta dentro la cellula, viene convertito nel suo metabolita attivo SN-38 per mezzo di idrolisi catalizzata dalle isoforme 1 e 2 della carbossilesterasi umana (hCES1, hCES2), enzimi microsomiali presenti nel siero, intestino, tessuto tumorale e, ad alte concentrazioni, nel fegato.69 Questa fase, a livello del fegato umano, è particolarmente lenta, probabilmente a causa della poca affinità per questa famiglia di enzimi. In genere le hCES manifestano una maggiore attività catalitica verso la forma lattonica dell’irinotecan e ciò può in parte spiegare la predominanza della forma lattonica attiva anche dell’SN-38 plasmatico di pazienti riceventi il profarmaco.70 Questa proprietà, assieme alla bassa velocità di attivazione

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