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La neuromodulazione elettrica nel dolore cronico pelvico-perineale

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI PATOLOGIA CHIRURGICA, MEDICA, MOLECOLARE E DELL’AREA CRITICA Direttore: Prof. Francesco Forfori

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN ANESTESIA RIANIMAZIONE, TERAPIA

INTENSIVA E DEL DOLORE

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

LA NEUROMODULAZIONE ELETTRICA

NEL DOLORE CRONICO PELVICO-PERINEALE

Relatori

Prof. Francesco Forfori

Dott. Giuliano De Carolis

Candidato

Dott.ssa Valentina Tedeschi

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SOMMARIO

1. Introduzione... 1

2. Il dolore... 4

3. La radiofrequenza nella terapia del dolore... …...19

4. La nevralgia del pudendo: come riconoscerla e come trattarla... 31

5. La radiofrequenza pulsata nel dolore pelvico-perineale: la nostra esperienza

clinica... 46

6. Conclusioni... 59

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1. INTRODUZIONE

Si stima che in Italia circa 15 milioni di persone soffrano di dolore cronico, di cui solo il 10% legato a malattia oncologica. Le cause più comuni sono patologie vertebrali, artrosi, cefalea, neuropatie periferiche e, direttamente o indirettamente, tumori. (65)

Il dolore incide notevolmente sulla vita quotidiana: secondo recenti indagini il 23% delle persone con dolore dichiara di aver dovuto cambiare la propria posizione sociale, il 14-17% di aver perso il lavoro; il 20% di aver cambiato lavoro, il 28% ha avuto un cambio di responsabilità della propria mansione. Anche le conseguenze psicologiche non sono trascurabili: nel 18% dei casi, le persone con dolore cronico dicono di vivere un senso di abbandono e la sensazione di perdere il proprio ruolo all’interno della famiglia; al 22% è stata diagnosticata depressione, mentre il 50% prova un senso di sfiducia e malessere.

Il peso economico, sociale e psicologico del dolore è pesantissimo. Ogni anno vengono persi almeno 3 milioni di ore lavorative per problemi riconducibili al dolore cronico.

Nonostante questo, il dolore è considerato molo spesso sia dai medici che dagli stessi pazienti, una condizione da accettare e sopportare.

Eppure esiste una legge, approvata nel 2010, che tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, ma non tutti ne sono a conoscenza e chi la conosce, non sempre ne tiene conto.

L’attenzione al trattamento del dolore è maggiormente sentita nell’ambito del chirurgico, quando ci si assicura che nel postoperatorio il paziente abbia la sua terapia antalgica prescritta in cartella accompagnato dalla rilevazione dell’intensità del dolore insieme ai parametri valutati di routine. Tuttavia quando il dolore perdura nel tempo, l’impegno nel suo trattamento si indebolisce e inizia la fase di accettazione e convivenza.

Abbiamo molti farmaci per trattare il dolore, alcuni nuovissimi, altri più datati ma ancora efficaci, ma quando abbiamo provato con vari principi attivi, di fronte al paziente che continua a lamentare la persistenza del dolore, spesso non si sa cosa fare.

La medicina del dolore è una branca ancora poco conosciuta, spesso i pazienti, ma anche i medici di altre specialità, non sanno di cosa si tratta. Il dolore si presenta in molte forme e non sempre si riesce a sconfiggerlo, ma lo sviluppo di conoscenze e nuove tecnologie permette di attuare

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strategie terapeutiche, con o senza impiego di farmaci, che possono portare sollievo a chi convive con il dolore da anni.

Lo scopo di questo lavoro è mostrare quali sono i vantaggi e alcune delle possibilità terapeutiche di una tecnica in uso in terapia antalgica da molti anni: la radiofrequenza pulsata. Il razionale consiste nell’applicazione di una corrente a radiofrequenza direttamente nella sede del dolore, o in altri punti chiave, con lo scopo di ottenere una neuromodulazione in grado di riprogrammare l’anomala attività elettrica del nervo danneggiato che sta alla base del dolore neuropatico.

La radiofrequenza pulsata viene impiegata soprattutto per i dolori a livello della colonna e del trigemino, tuttavia la relativa semplicità di utilizzo, associata a effetti collaterali praticamente assenti o poco rilevanti, ne ha favorito l’impiego anche in altre discipline con risultati incoraggianti.

Prendendo spunto dagli studi in ambito urologico, abbiamo deciso di condurre un piccolo studio sull’efficacia della radiofrequenza pulsata nel dolore cronico pelvico-perineale riportato da alcuni pazienti che si sono sottoposti a interventi di emorroidectomia, i cui sintomi rientrano nel capitolo più vasto della nevralgia del nervo pudendo. Si tratta di una patologia rara, ma molto invalidante, caratterizzata da un forte dolore nell’area perineale che impedisce al paziente di star seduto, raggiungendo intensità anche molto elevate. Tipicamente si tratta di pazienti che nel tentativo di risolvere la condizione dolorosa si rivolgono a molti specialisti, medici, chirurghi, agopuntori, fisioterapisti, osteopati e altri, provando una serie infinita di trattamenti senza risolvere il problema. Passa così molto tempo, spesso anni, prima che il paziente giunga alla terapia del dolore, con un notevole carico di sfiducia, stanchezza e depressione.

Una delle principali difficoltà nel trattare la nevralgia del pudendo risiede nella sua complessità, poiché chiama in causa tanti specialisti diversi, ognuno dei quali offre la propria ricetta limitata, però, al proprio ambito specialistico.

Un grosso passo avanti nell’approcciare questa patologia è stato fatto con l’istituzione delle Unità pelviche, presenti da anni in Europa e recentemente comparse anche in Italia, all’interno delle quali si costituisce un team multidisciplinare in cui convergono tutti gli specialisti e professionisti che lavorano nell’ambito della pelvi. Così il paziente viene valutato in modo congiunto da proctologo, urologo, algologo, fisioterapista, neurologo, psicologo e altre figure permettendo un confronto diretto in base al quale decidono il percorso più idoneo per quel paziente.

Quando il problema è puramente antalgico, viene indirizzato all’algologo, il quale può decidere se iniziare con una terapia farmacologica specifica per il dolore neuropatico, basato su

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anticonvulsivi, oppioidi, antidepressivi triciclici e SSRI, talora anche la cannabis, oppure passare a terapie non farmacologiche, come la radiofrequenza.

Naturalmente non si tratta della terapia perfetta, alcuni pazienti riescono finalmente a trovare sollievo dopo un lungo periodo ininterrotto di dolore, altri hanno risposte parziali e altri ancora non rispondono affatto.

La trattazione che segue vuole essere una finestra su un mondo ancora poco conosciuto, ma che potrebbe rivelarsi fonte di grandi possibilità terapeutiche, rimarcando l’importanza di non sottovalutare il dolore cronico e di familiarizzare con il concetto che qualcosa si può fare, prima di arrendersi e accettare una condizione cronica di sofferenza.

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2. IL DOLORE

Nell’esperienza quotidiana tutti siamo abituati a sentir parlare di dolore e sicuramente lo abbiamo provato su noi stessi, ma se dovessimo definirlo, quali termini useremmo?

La definizione storica della IASP (International Association for the Study of Pain), prodotta nel 1979 e rimasta in uso fino ad oggi, descriveva il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a danno tessutale, in atto o potenziale, o descritto in termini di tale danno”, evidenziando il carattere pluridimensionale del dolore. (1)

E’ un’esperienza individuale e soggettiva, a cui convergono componenti puramente sensoriali (nocicezione) relative al trasferimento dello stimolo doloroso dalla periferia alle strutture centrali, e componenti esperenziali e affettive, che modulano in maniera importante quanto percepito. Il segnale doloroso, una volta generato, viene modulato (limitato o amplificato) a vari livelli (segmentario e centrale) da stimoli provenienti da strutture nervose (sensoriali, psichiche, della memoria…) e non (metaboliche, immunologiche..). Si spiega così come il dolore sia il risultato di un complesso sistema di interazioni, dove diversi fattori (ambientali, culturali, religiosi, affettivi, fisici,...) ne modulano, entità e caratteristiche.

A livello clinico, il dolore è un sintomo trasversale e frequente: spesso segnale importante per la diagnosi iniziale di malattia, fattore sensibile nell’indicarne evoluzioni positive o negative durante il decorso, innegabile presenza in corso di molteplici procedure diagnostiche e/o terapeutiche e costante riflesso di paura e ansia per tutto quello che la malattia comporta. E’ fra tutti il sintomo che più mina l'integrità fisica e psichica del paziente e più angoscia e preoccupa i suoi familiari, con un notevole impatto sulla qualità della vita.

Recentemente la stessa IASP ha messo insieme una Task Force internazionale con l’obiettivo di descrivere in modo più esaustivo la complessità del fenomeno dolore, allo scopo di migliorarne la valutazione e la gestione nella pratica clinica. Ecco che nel 2020 viene pubblicata la nuova definizione, che vede il dolore come “un'esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a (o simile a quella associata a) un danno tissutale potenziale o in atto”, alla quale fanno da

complemento alcune note:

- il dolore è sempre un’esperienza personale che viene influenzata in grado variabile da fattori biologici, psicologici e sociali;

- dolore e nocicezione sono due fenomeni distinti, il dolore non deriva unicamente dall’attività dei neuroni sensitivi;

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- gli individui imparano in concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita; - quando una persone riferisce la propria esperienza come dolore, deve essere rispettata;

- sebbene il dolore abbia un ruolo adattativo, può avere effetti avversi sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico;

- la descrizione verbale è solo uno dei tanti modi per esprimere il dolore; l’inabilità a comunicare non nega la possibilità che una persona o un animale provi dolore. (2)

Dunque il dolore esiste ogni volta che il paziente lo esprime e, come evidenzia l’ultima nota, non necessariamente si tratta di un’espressione verbale, dettaglio importante che permette di includere neonati e anziani, persino gli animali.

La nuova definizione sottolinea nuovamente come il dolore non sia una semplice sensazione, ma anche un’emozione. Mentre le altre sensazioni (tatto, olfatto, udito, vista, gusto) possono essere affettivamente neutre, il dolore ha sempre una connotazione affettiva spiacevole e questo può avere ripercussioni negative sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico.

Significato biologico del dolore

Le modalità sensoriali possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre. La nocicezione provoca sempre una emozione sgradevole del dolore e proprio per questo non può essere ignorata. È così che il dolore induce ad evitare gli stimoli che lo provocano, esaltando la funzione protettiva del dolore fisiologico. Da questo punto di vista il dolore è considerato un “sintomo” che aiuta nella diagnosi e nella cura di altri stati patologici. Il dolore è un segnale d’allarme di un danno che si è già instaurato (attuale) o che è imminente ma non ancora in atto (potenziale), come nel caso della cute con un oggetto ustionante che evoca il dolore un po' prima che la cute sia lesa. In senso evolutivo il dolore ha quindi un’importanza fondamentale nell’autoconservazione dell’individuo, segnalando la presenza di un danno e attuare di conseguenza un comportamento adeguato. Infine può essere un danno ipotetico, quando il danno non è nel tessuto dov’è avvertito il dolore, ma è insito nel dispositivo di segnalazione e di elaborazione della nocicezione in emozione dolorosa; questo è l’ambito del dolore patologico, neuropatico o psicogeno.

Ecco perché nocicezione e dolore non sono sinonimi: si può avere dolore senza nocicezione oppure, seppur più raramente, nocicezione senza dolore (ad esempio nell’analgesia congenita).

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Quando il dolore non è più segnale di allarme, diventa un disturbo inutile e le sue conseguenze psicologiche, comportamentali e biologiche provocano una condizione dolore-dipendente che si aggiunge alla causa iniziale del dolore stesso. Un esempio è la coxartrosi, in cui il paziente cammina mantenendo in scarico l’anca e va incontro a spasmi muscolari che sono a loro volta causa di nocicezione e dolore.

Nel 1981 Sternbach scriveva che “se nel dolore acuto il dolore è sintomo di malattia, nel dolore cronico il dolore è esso stesso la malattia”. Quando il problema risiede nella via di segnalazione, siamo nella condizione in cui oltre al dolore non ci sono altri disturbi rilevanti.

Questo è il campo squisitamente algologico. (3)

I modi di essere del dolore

La classificazione del dolore è ancora oggetto di vivace dibattito. Oltre alla grande suddivisione in acuto e cronico, vi sono molti aspetti da considerare e che accomunano alcuni tipi di dolore e non altri e su tali criteri ancora non si è trovata una visione unica. (3)

Una prima distinzione è tra dolore fisiologico o adattativo e patologico o maladattativo:

- il dolore fisiologico rappresenta un sistema di difesa che mette in guardia da stimoli

potenzialmente dannosi per l’organismo, dunque la sua presenza è necessaria per sopravvivere. Si parla di dolore adattativo quando in presenza di una lesione, il ruolo del dolore cambia da protezione dal danno, a promozione della guarigione del tessuto danneggiato, rappresentando una corretta risposta di adattamento. Ad esempio nel caso di un dolore infiammatorio, legato ad una reazione tissutale, vengono prodotte sostanze sensibilizzanti che riducono la soglia di stimolazione dei nocicettori. La sensazione algica nella sede del processo infiammatorio determina immobilità della parte lesa, in modo che il soggetto possa prevenire ulteriori danni. Con la guarigione del tessuto, il dolore si riduce fino a scomparire.

- il dolore patologico o maladattativo implica invece un’alterata risposta di adattamento ad un

insulto tissutale, nervoso o non nervoso. Non esiste correlazione diretta tra dolore e danno tissutale, poiché l’anomalia risiede nel sistema di segnalazione. Il dolore neuropatico ne è un esempio.

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- dolore nocicettivo: dovuto alla stimolazione dei recettori ad alta soglia di stimolazione,

solitamente termina con la fine dello stimolo. Può essere somatico superficiale o profondo, viscerale, neurogeno.

- dolore neuropatico: l’origine del dolore risiede in una lesione o disfunzione del sistema nervoso periferico o centrale. È caratterizzato da fenomeni negativi, quali assenza di sensibilità tattile o termica, e fenomeni positivi come iperalgesia e allodinia che possono mascherare i primi. - dolore misto: nocicettivo e neuropatico insieme, molto frequente

- dolore psicogeno: ha origine psicosomatica, più raro

La classificazione secondo durata è una delle più dibattute. La classica distinzione tra acuto e cronico appare molto riduttiva, poiché non è sufficiente dire che un dolore duri più di sei mesi per esser definito cronico, in quanto la cronicità sottende dei meccanismi di plasticità neuronale che hanno una notevole importante sulle scelte terapeutiche.

Scrive Orlandini: “mentre la letteratura parla di dolore acuto e cronico e considera sinonimo di cronico l’aggettivo persistente, a mio parere vanno distinti come realtà separate il dolore acuto (nocicettivo), il dolore persistente (nocicettivo o disnocicettivo) e il dolore cronico (non nocicetivo), soprattutto in vista delle implicazioni prognostiche e terapeutiche. Infatti il dolore nocicettivo è più facile da trattare, quello disnocicettivo può essere trattabile, mentre il dolore non nocicettivo è pressochè intrattabile”. (3)

Al fine di capire meglio quello che l’autore suggerisce, è opportuno precisare alcuni concetti. L’attività elettrica nelle fibre nervose è la stessa sia quando è prodotta da stimoli nocicettivi sia da stimoli di altro tipo, ad esempio tattili o pressori. A determinare le differenze fra dolore e tatto è la

Fig. 1 Interdipendenza delle lesioni algogene nocicettive. Tratta da Orlandini, La semeiotica del dolore. I presupposti teorici e la pratica clinica. 2014

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diversa integrazione centrale delle afferenze, non la qualità elettrica afferente; pertanto si può definire nocicezione lo stimolo in grado di attivare i nocicettori (che quindi si chiama stimolo nocicettivo) e, per estensione del concetto, l’attività elettrica che percorre le fibre A delta e C. (4) Si definisce “lesione algogena” la condizione essenziale per la produzione del dolore, che può esser sostenuto da stimoli nocicettivi o da meccanismi non nocicettivi, di conseguenza anche la lesione algogena può esser prodotta da nocicezione, meccanismi algogeni disnocicettivi oppure non nocicettivi.

Le lesioni algogene nocicettive possono essere di tre tipi, sebbene in ultima analisi tutte si riconducono alla flogosi, considerata la lesione algogena nocicettiva fondamentale.

- Lesioni algogene di 3° ordine: soluzioni di continuo, compressione, danno termico, discinesia di viscere cavo, trazione di legamento viscerale, distensione della capsula di rivestimento di un parenchima, spasmo muscolare. Possono dare luogo a ischemia o direttamente a flogosi.

- Lesioni algogene di 2° ordine: ischemia. Comporta uno squilibrio del metabolismo locale che conduce a flogosi.

- Lesioni algogene di 1° ordine: FLOGOSI. È la lesione algogena nocicettiva fondamentale, responsabile della produzione di sostanze chimiche in grado di eccitare direttamente i nocicettori e di renderli più sensibili agli stimoli esogeni. È il comune denominatore del danno tissutale verso cui convergono direttamente o indirettamente le lesioni algogene di secondo e terzo ordine. Le lesioni algogene disnocicettive richiedono uno stimolo nocicettivo o non nocicettivo applicato in qualche sede ectopica della rete neurale afferente, in grado di attivare le stesse vie che normalmente sono attivate dalla nocicezione. Le cause sono principalmente:

- attivazione di nocicettori che restano patologicamente eccitabili dopo la risoluzione del danno tessutale

- attivazione degli ipereccitabili neorecettori del neuroma ( proliferazione iperplastica di cellule di Schwann e di fibre nervose, che segue ad un trauma ad un nervo periferico che abbia comportato la sua completa interruzione e che rappresenta l'esito di un tentativo inefficace di rigenerazione del nervo stesso)

- attivazione degli ipereccitabili focolai dismielinosici

- effetti del rimaneggiamento morfofunzionale della DREZ (dorsal root entry zone) - attivazione di neuroni centrali ipereccitabili

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Infine le lesioni algogene non nocicettive, la cui caratteristica essenziale è l’attivazione senza stimoli, includono:

- modificazioni plastiche del SNC responsabile dell’ipereccitabilità centrale e dell’eccitazione spontanea di neuroni centrali deafferentati;

- meccanismi della memoria del dolore;

- meccanismi psicopatologici responsabili del dolore psicogeno.

Fatta questa premessa, possiamo tornare alla definizione di dolore acuto, persistente e cronico. Il dolore acuto è il dolore nocicettivo, di breve durata, localizzato, nel quale è bene evidente il rapporto causa/effetto, di conseguenza si esaurisce quando viene meno lo stimolo che lo ha generato. Per questo risponde bene alle misure antinocicettive. Gli esempi più comuni sono dati dal dolore postoperatorio, dal dolore delle coliche renali e biliari, oppure il dolore da trauma. Si può presentare anche come dolore acuto ricorrente, con episodi della durata di ore o giorni che si ripetono a intervalli più o meno regolari, dovuti ad una patologia cronica sottostante che si esprime periodicamente.

Il dolore acuto evoca risposte riflesse che si esprimono con spasmi muscolari, che a loro volta aumentano la nocicezione, e aumento del tono simpatico, di conseguenza aumentano pressione arteriosa, frequenza cardiaca e consumo di ossigeno del miocardio, mentre si riduce il tono muscolare del tratto gastrointestinale e delle vie urinarie, causando stipsi e ritenzione urinaria. Si associa di solito un aumento della ventilazione, tranne nei casi in cui ciò peggiora il dolore, come nel trauma toracico, dove la ventilazione si riduce. Vi sono inoltre le risposte endocrine: attraverso le vie spinotalamiche, gli stimoli nocicettivi raggiungono l’ipotalamo e inducono iperincrezione di ACTH, cortisolo, vasopressina, GH e catecolamine. Queste ultime a loro volta provocano aumento del catabolismo proteico che risulta nell’iperazotemia. A completare la complessa risposta allo stress, il dolore determina la ridotta produzione e secrezione di insulina, con conseguente iperglicemia.

Tutto ciò ha chiaramente un impatto negativo sul paziente, ancor più se è un paziente fragile, per questo si pone grande attenzione al trattamento del dolore postoperatorio.

Il dolore persistente è caratterizzato dal permanere della lesione algogena, sostenuta da causa nocicettiva o da un meccanismo disnocicettivo. Si noti come si mantenga il rapporto di causa/effetto, esattamente come nel dolore acuto, sebbene le cause possano essere diverse,

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pertanto anche la scelta terapeutica sarà diversa. Il dolore persistente infatti risponde bene agli analgesici così come il dolore acuto, oppure ai farmaci antidisnocicettivi, quali triciclici, anticonvulsivanti e anestetici locali quando si tratta di dolore neuropatico.

La caratteristica del dolore cronico invece è il suo perdurare dopo la risoluzione della causa, perciò viene meno il rapporto causa-effetto che contraddistingue il dolore acuto e persistente. Il dolore non è più un sintomo ma diventa una malattia.

La letteratura considera cronico il dolore che dura da più di sei mesi o, in alternativa, quello che dura un certo tempo dopo la risoluzione della causa (IASP 1986).

Ciò che si osserva nel dolore cronico è una modificazione plastica, stabile dei circuiti neuronali centrali che facilita l’elaborazione degli stimoli nocicettivi e non nocicettivi in emozione dolore, indipendentemente dalla durata, la distribuzione topografica non è precisa e può variare di volta in volta: si può dire che il paziente ha “imparato il dolore”.

A questo si associano profonde modificazioni della personalità, dello stile di vita inducendo l’apprendimento del “comportamento del dolore”.

Le risposte biologiche del dolore cronico provoca disturbi del sonno e dell’appetito, calo ponderale stipsi (da farmaci e da ridotto movimento), disturbi dell’umore, irritabilità, depressione, riduzione della libido, rallentamento psicomotorio.

Dunque il motivo di disaccordo di alcuni autori risiede nella corretta collocazione del dolore neuropatico: mentre per alcuni rientra nel dolore cronico, per altri è da considerarsi un dolore

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persistente, poiché mantiene il rapporto causa-effetto, caratteristica assente nel dolore cronico, anche se la causa è nella disnocicezione.

Nel tentativo di conciliare le opinioni, Orlandini propone una distinzione tra dolore cronico di primo tipo (dolore persistente disnocicettivo) e dolore cronico di secondo tipo (non nocicettivo, o dolore cronico propriamente detto).

secondo questa classificazione il dolore persistente disnocicettivo, causato dal danno delle vie della nocicezione (che scaricano per attivazione ectopica o autoeccitazione), quindi neuropatico, con distribuzione topografica definita e potenzialmente trattabile con farmaci e tecniche che agiscono sull’attivazione ectopica e autoeccitazione (triciclici, anticonvulsivanti, blocco nervoso, interruzione delle vie della nocicezione, neuromodulazione), viene definito dolore cronico di I

tipo.

Il dolore cronico propriamente detto, ovvero quello in cui si perde la connessione causa-effetto e perciò intrattabile, si può definire dolore cronico di II tipo.

Si evince quindi che il dibattito su che cosa sia il dolore e quali siano le sue caratteristiche è ancora in fermento, mentre si cerca di capire sempre meglio quali siano i meccanismi che lo generano e lo mantengono, al fine di studiare trattamenti farmacologici e non sempre più efficaci.

Fisiopatologia del dolore neuropatico

Il dolore neuropatico è definito come “il dolore causato da una lesione o da una malattia del sistema nervoso somatosensoriale” e può interessare il sistema nervoso periferico o centrale. (5) (6)

Schematicamente si possono distinguere tre grandi sistemi: un sistema afferente che conduce gli impulsi nocicettivi dalla periferia ai centri superiori, un sistema di riconoscimento che decodifica e interpreta l’informazione, valutandone la pericolosità e attivando la risposta motoria, neurovegetativa, endocrina e psico-emotiva, e un sistema di modulazione e controllo che invia impulsi al midollo spinale al fine di modulare gli impulsi in entrata.

Le terminazioni nocicettive possiedono recettori specifici che convertono l’energia associata a stimoli meccanici, termici o chimici in una variazione del potenziale di membrana. (7) Uno di questi recettori è il TRPV1, un canale non selettivo per cationi, di natura eccitatoria, che viene

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attivato da diversi stimoli: termici, chimici e dagli agonisti vanilloidi (come la capsaicina). I TRPV1 possono essere attivati da diversi mediatori chimici, che sono rilasciati in seguito a una lesione tissutale, e comprendono ioni potassio, ioni idrogeno, ATP, PG, leucotreni, serotonina e bradichinina. Queste molecole causano un’attivazione diretta dei terminali nocicettivi e l’insorgenza di potenziali d’azione, tramite i quali il segnale viene trasmesso alle strutture centrali. La depolarizzazione dei nocicettori a seguito di una lesione periferica può anche causare il rilascio di neuropeptidi (quali la sostanza P e il peptide associato al gene per la calcitonina, CGRP) dalle stesse terminazioni nocicettive. I neuropeptidi sono sintetizzati a livello del soma neuronale e poi trasferiti mediante trasporto assonale a livello del terminale; la loro liberazione conduce alla degranulazione dei mastociti, che rilasciano istamina, la quale è in grado di causare una ulteriore attivazione dei terminali nocicettivi. Inoltre le fibre nocicettive possono essere sensibilizzate, cioè rese più eccitabili, da mediatori dell’infiammazione come le prostaglandine. Il segnale dolorifico, una volta generato a livello della branca periferica del nocicettore, viene codificato in potenziali d’azione (generati da canali sodio voltaggio-dipendenti), che consentono la trasmissione dell’informazione a livello centrale. L’impulso doloroso cessa rapidamente nel momento in cui viene rimossa la noxa patogena.

E

ffetti sulle terminazioni nocicettive

Quando le terminazioni nocicettive sono esposte a stimoli ripetuti, o a stimoli di lunga durata, non si ha un adattamento, ma un potenziamento della risposta agli stimoli nocivi, detto “sensibilizzazione”. Questo fenomeno crea un’area intorno alla lesione primaria, in cui i nocicettori sono sensibilizzati e si attivano più facilmente provocando iperalgesia e allodinia. (8) Tali modificazioni sono dovute a:

- abbassamento della soglia di attivazione - aumento dell’intensità di risposta agli stimoli - sviluppo di attività spontanea

- presenza di attività residua una volta cessato lo stimolo

L’infiammazione è finalizzata a facilitare la guarigione della lesione, ma dopo una parziale lesione nervosa (di fibre C non mielinizzate e fibre A delta mielinizzate), che ha indotto una

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sensibilizzazione periferica, alcuni assoni danneggiati vanno incontro a degenerazione walleriana, che si associa alla produzione di NGF (Nerve Growth Factor).

Il Nerve Growth Factor è una proteina neurotrofica essenziale per la crescita e la differenziazione neuronale e vari studi mostrano un ruolo anche nella modulazione della nocicezione dell’adulto, compreso lo sviluppo del dolore cronico. (9) Legandosi al proprio recettore TrkA tirosina-kinasi, attiva una cascata di eventi che porta all’aumento della traslocazione di TRVP1 dal citoplasma alla membrana plasmatica e anche a una sua maggiore attività. (10)

I TRPV1 sono chiusi a riposo; quando interagiscono con il proprio legando diventano permeabili a Na+ e Ca2+ e una volta attivati (aperti), causano depolarizzazioni che si propagano lungo le fibre sensoriali afferenti di tipo A delta e C.

La soglia di attivazione è inoltre modulata da ioni H+, che agiscono esternamente, e anandamide (AEA), che agisce a livello intracellulare. L’AEA e i suoi derivati (endovanilloidi) sono sostanze endogene prodotte dal metabolismo dei lipidi e sono rilasciate dai tessuti periferici in risposta a un danno tissutale.

In sintesi, le modificazioni biochimiche che si realizzano in corso di infiammazione inducono un aumento dell’acidosi locale, la quale contribuisce a sensitizzare i TRPV1, facilitando di conseguenza la trasmissione ai centri sopramidollari. (7)

Effetti sul primo neurone afferente

Quando i neuroni periferici sono coinvolti da fenomeni neurolesivi, tossici o meccanici, le fibre nervose possono andare incontro ad alterazioni quali:

1) perdita del rivestimento mielinico (come nel caso delle fibre A delta) in prossimità della lesione nervosa, sia sul tratto prossimale sia su quello distale;

2) produzione di gemmazioni, indotte dai fattori trofici, che attorcigliandosi, formano il neuroma. Ciò si verifica quando la fibra nervosa è interrotta, compreso l’assolemma, e la distanza tra i due monconi è eccessiva;

3) dalle gemmazioni del neuroma partono una serie di prolungamenti nervosi diretti verso l’altro moncone. È il fenomeno dello “sprouting” longitudinale, processo di crescita che dovrebbe come obiettivo il ripristino della fibra lesa con neoformazione di sinapsi. Molto

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spesso, però, i filamenti neogenerati non raggiungono l’altro moncone e non determinano la ricostruzione della fibra.

Tutti questi fenomeni rappresentano una base importante per la genesi del dolore neuropatico, in quanto possono diventare sede di genesi ectopica di segnali elettrici. (11)

Anche se le fibre coinvolte da un fenomeno neurolesivo sono numerose, possono coesistere con fibre indenni, o presentare diversi livelli di lesione e di alterazione funzionale.

Sia in caso di lesione dell’assone, sia durante i processi infiltrativi di cellule tumorali, aumenta la liberazione di alcuni fattori di crescita neuronali e gliali (NGF, GDNF e altri) che stimolano la sintesi dei TRPV1. Inoltre NGF modula il traffico e l’espressione delle proteine strutturali che costituiscono i canali ionici voltaggio-dipendenti. Tali canali, quando iperespressi, si distribuiscono a elevata concentrazione lungo l’assone e la membrana cellulare del neurone a livello gangliare, dove si osserva una conseguente iperattività, ubiquitaria ed ectopica, dei TRPV1 e dei canali ionici (in particolare i canali del sodio voltaggio-dipendenti), da cui deriva una massiccia depolarizzazione neuronale con conseguente elevato firing in partenza dal primo neurone afferente sensitivo, diretto verso il sistema nervoso centrale.

Un fenomeno parallelo, e non meno importante, è l’aumento dei recettori adrenergici lungo le fibre nervose, che rendono possibili sia un’aumentata sensibilità alle catecolamine circolanti sia un aumento delle sinapsi con le fibre efferenti del sistema nervoso autonomo. L’aumento complessivo dell’attività adrenergica, che è di tipo eccitatorio, rientra nel fenomeno definito “adrenosensibilità”. (11)

Effetti a livello spinale

A livello delle sinapsi tra primo e secondo neurone, quando il dolore è acuto in risposta a stimoli nocivi, viene liberato glutammato, che agisce sui recettori ionotropi AMPA, determinando l’entrata del sodio e la depolarizzazione del II neurone, facendo proseguire la trasmissione

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Quando il “firing” di impulsi persiste a causa di una lesione o per le componenti infiammatorie o per i potenziali ectopici neuropatici, esso induce la liberazione continua di glutammato o di sostanza P a livello della membrana presinaptica e causa l’attivazione di canali “sensibilizzanti” a livello post-sinaptico come i canali NMDA (N-metil-D-aspartato) normalmente bloccati da un atomo di Mg++ che viene rimosso dall'aumento della concentrazione interna di ioni calcio. (12)

Si realizzano così modificazioni nei neuroni del ganglio della radice dorsale e del midollo spinale che portano allo sviluppo di una “sensibilizzazione centrale” legata all’aumento dell’attività biochimica ed elettrica, capace di amplificare gli stimoli dolorosi provenienti dalla periferia. (14) In diversi studi si è evidenziato come anche la microglia sia coinvolta nel rimodellamento dei circuiti neuronali, soprattutto a livello del corno dorsale, suggerendo anche un ruolo dei monociti nello sviluppo del dolore neuropatico. (13)

Vie ascendenti

Raggiunto il midollo spinale, viaggiando su fibre A delta e C, lo stimolo doloroso deve raggiungere i centri superiori. Le principali vie che trasmettono l’informazione nocicettiva dal midollo spinale al cervello sono:

• La via neospinotalamica, o spino-talamo-corticale diretta: le fibre di questo fascio partono dalle corna dorsali del midollo spinale, arrivano direttamente al talamo e da qui proiettano alla corteccia. Le informazioni che percorrono questa via consentono di discriminare la localizzazione, la natura e l’intensità dello stimolo doloroso.

• La via paleospinotalamica, o spino-reticolo-talamo-corticale: queste fibre partono sempre dalle corna posteriori del midollo spinale, ma lungo il loro decorso verso il talamo, inviano collaterali alla formazione reticolare, all’ipotalamo e alle strutture limbiche. Dal talamo partono poi fibre che si proiettano alla corteccia cerebrale. Il sistema paleospinotalamico contribuisce agli aspetti affettivi e motivazionali del dolore e modula l’attività relativa ai riflessi somatici e vegetativi.

(18)

Nei centri superiori il segnale nocicettivo viene percepito e codificato in dolore. Le regioni coinvolte nel riconoscimento e codifica sono sinteticamente:

- formazione reticolare: integrazione globale dell’esperienza dolorosa

- sistema limbico: meccanismi dell’ansia associati al dolore e connotazione affettiva - ipotalamo: risposte vegetative e neuroendocrine

- talamo: consapevolezza del dolore, emozioni e reazioni ad esso associate

Ruolo delle vie discendenti

Quando gli stimoli delle vie ascendenti nocicettive si proiettano a livello del midollo rostro-ventro-mediale (RVM), costituito dal nucleo del rafe magno (NRM) e dal nucleo gigantocellulare, il suddetto distretto anatomico (RVM) svolge un’azione modulatoria sugli stimoli dolorosi in ascesa di duplice natura. É ben nota ormai l’attività di modulazione del dolore esercitata dai centri nervosi stessi. A tal proposito si deve ricordare il lavoro pubblicato da Melzack e Wall nel 1965 sulla

gate control theory, nota anche come teoria del cancello. (15) Il concetto fondamentale si basa sull'interazione e sulla modulazione reciproca tra le fibre nervose nocicettive e quelle

non-Fig. 6. Teoria del

cancello. Melzack

R, Wall PD, Pain Mechanisms: A New Theory . Science. 1965 Fig. 5 Circuiti di modulazione del dolore

(19)

nocicettive, in particolare le fibre dolorifiche di tipo Aδ e C e le fibre non dolorifiche di tipo Aβ, di maggior calibro delle precedenti e responsabili della percezione degli stimoli tattili e pressori. In sintesi, la teoria stabilisce che se prevale l'attività lungo le fibre di grosso calibro (cioè le Aβ), la percezione del dolore sarà ridotta, mentre se a prevalere sono le scariche delle fibre di piccolo calibro (cioè le Aδ e le C), il dolore verrà percepito in maniera più acuta. Per attuare questo meccanismo sono necessari gli interneuroni, cioè piccoli neuroni localizzati nella sostanza gelatinosa del Rolando, intercalati nel circuito di trasmissione dell'impulso dalla fibra proveniente dal nocicettore al neurone midollare. Tutte le fibre che prendono contatto con il neurone midollare (cioè sia le Aβ che le Aδ e le C) rilasciano, prima della sinapsi con il neurone stesso, un collaterale assonico che prende sinapsi con l'interneurone encefalinergico, con effetti diversi: le fibre Aβ infatti ne stimolano l'attività, mentre le fibre di piccolo calibro lo inibiscono. In questo modo, si possono configurare due situazioni diverse:

1. se la fibra Aβ è attivata per uno stimolo non dolorifico, essa andrà ad attivare l'interneurone inibitorio, che quindi bloccherà la trasmissione di eventuali segnali dolorifici fino al cervello. In questa configurazione, il cancello è chiuso e lo stimolo doloroso non passa;

2. viceversa, se la fibra Aδ o C trasmette uno stimolo dolorifico, essa va contemporaneamente ad inibire l'azione dell'interneurone encefalinergico, per cui quest'ultimo non potrà inibire a sua volta la trasmissione dell'impulso doloroso al cervello. In questa configurazione, il cancello è aperto e lo stimolo doloroso viene percepito.

Ciò comporta che, se uno stimolo dolorifico e uno stimolo meccanico vengono trasmessi simultaneamente (ad esempio, se si picchia la testa e si strofina la parte lesa), la trasmissione dello stimolo dolorifico sarà attenuata per via dell'azione eccitatoria svolta dalla fibra Aβ sull'interneurone encefalinergico.

Questa forma di inibizione cessa dopo che la stimolazione condizionante è cessata e può avere un ruolo nell’analgesia durante la stimolazione a bassa intensità delle afferenti, come avviene con la TENS (parestesica) e con gli stimoli vibratori.

Oltre al controllo nervoso del dolore a livello spinale, la modulazione della trasmissione dolorosa si avvale di un sistema discendente, che origina dal mesencefalo, più precisamente dalla PAG (Sostanza Grigia Periacqueduttale) che riceve l’informazione dal cervello e proietta al bulbo. Nella PAG e nel midollo allungato si trovano recettori per gli oppioidi.

(20)

Dal midollo allungato originano poi fibre discendenti che arrivano al midollo spinale dove viene inibita la trasmissione ascendente dell’informazione dolorosa. Il neurotrasmettitore prevalente di queste vie è la serotonina. Al midollo spinale arrivano anche fibre noradrenergiche provenienti dal Locus Ceruleus (gruppo di neuroni situati tra il bulbo e il ponte), anch’esse con funzioni di inibizione sulla trasmissione del dolore.

Dunque i neurotrasmettitori maggiormente coinvolti nella inibizione del dolore sono quindi gli oppioidi, la serotonina e la noradrenalina. La risposta della sensibilizzazione neuronale può essere reversibile all’inizio, ma le trasformazioni che sottendono al dolore neuropatico possono renderla irreversibile.

Per questo motivo è importante controllare qualsiasi tipo di dolore, in modo da prevenire la sua eventuale “cronicizzazione”.

Gli oppioidi agonisti dei recettori mu possono svolgere un’azione doppiamente inibitoria, sia potenziando il sistema discendente inibitorio, sia bloccando il sistema discendente facilitatorio. Alla terapia oppioide si può associare quella che prevede il target dei recettori NMDA e dei TRPV1 nel controllo del dolore neuropatico per prevenire l’insorgenza della sensibilizzazione centrale, tuttavia gli antagonisti attuali dei TRPV1 possono causare ipertermia; bisognerà quindi agevolare lo sviluppo di potenziali farmaci con minori effetti collaterali e proprietà farmacologiche più favorevoli, che tengano conto delle suddette vie neuropatiche. (7)

(21)

3. LA RADIOFREQUENZA NELLA TERAPIA DEL DOLORE

La ricerca scientifica degli ultimi anni ha esplorato vari aspetti del dolore e dei suoi meccanismi. La scoperta della plasticità del sistema nervoso, la sua capacità di adattarsi in seguito a ripetuti stimoli periferici ci ha permesso di comprendere il fenomeno della “memoria del dolore” e di ridefinire il dolore cronico non più come un dolore che dura per più di 3 o 6 mesi consecutivi, ma come la capacità che ha il nostro cervello di imparare il dolore in seguito alla formazione di nuovi circuiti neuronali. (16)

Con l’avanzare delle conoscenze sul dolore, anche i nostri mezzi per contrastarlo si fanno più raffinati e d efficaci. Non solo i farmaci sono più tollerati e sicuri, ma anche le tecniche interventistiche si sono fatte più sofisticate. L’alcol e in parte in calore lesivo sono stati sostituiti dalle tecniche che sfruttando la corrente elettrica riescono a modulare gli impulsi nocicettivi piuttosto che distruggere le fibre nervose con le quali vengono a contatto. C’è ancora molto da ottimizzare, ma non c’è dubbio che la neuromodulazione sia l’evoluzione della neurolesione. L’impiego di correnti elettriche con finalità antalgica sono al centro di questo percorso. Nate per sfruttare il calore lesivo sulle fibre nervose, interrompendo il passaggio dello stimolo nocicettivo, a metà degli anni Novanta si sono evolute nella variante neuromodulatoria della radiofrequenza pulsata (PRF). I meccanismi e l’effettiva efficacia di tale metodica è ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica e ci si chiede se si possa davvero ottenere un pain relief senza lesione nervosa attraverso un’applicazione di pochi minuti su un bersaglio ancora difficile da individuare con esattezza. (16)

Paradossalmente la scarsità di complicanze della metodica, unita alla mancata comprensione dell’esatto meccanismo di azione, ha reso la radiofrequenza una tecnica da usare nelle situazioni cliniche più disparate senza però godere di sufficiente rispetto. La relativa innocuità della tecnica è forse alla base di un approccio talvolta superficiale dell’operatore, il quale non sempre ha chiari i fondamenti tecnici perché lontani dalla propria competenza, con la conseguenza di un risultato modesto che fa dubitare dell’efficacia della tecnica stessa. L’acquisizione di una migliore conoscenza dei principi alla base della PRF permette sicuramente di farne un uso più attento e produrre risultati più consistenti. (17)

In ogni caso la domanda che deve guidare l’applicazione della PRF deve sempre essere “Qual è la diagnosi patogenetica del dolore di questo paziente?”. Poiché senza diagnosi senza terapia può considerarsi sterile, ma una terapia senza diagnosi può essere pericolosa.(16)

(22)

Le correnti antalgiche a radiofrequenza

La corrente elettrica alternata a radiofrequenza oscilla a una frequenza relativamente alta di 500 Khz. Per uso medicale terapeutico questa corrente è erogata da un generatore e trasmessa a un sottile ago-elettrodo che è inserito in un ago guida completamente isolato tranne che nella sua parte distale, detta punta attiva, la cui lunghezza varia mediamente da 2 a 10 mm. Di solito la punta attiva misura 4 o 5 mm, ed è attraverso di questa che fluisce la corrente elettrica e il campo elettrico.

La corrente elettrica è un flusso di elettroni che fluisce soprattutto ai lati della punta attiva e molto poco al davanti della punta stessa. La sua diffusione è direttamente proporzionale alla lunghezza della punta attiva e al calibro dell’ago.

Il campo elettrico invece si può considerare la somma di forze elettriche vettoriali e fluisce prevalentemente al davanti della punta e molto poco ai lati. Esso decresce rapidamente oltre 0,5 mm di distanza dalla punta ed è inversamente proporzionale al diametro della punta. Quindi un ago un ago appuntito e sottile genera un campo elettrico di maggiore forza.

Grazie ad un sensore di temperatura posto all’estremità dell’ago, termocoppia, viene monitorata la temperatura dei tessuti nei quali si trova l’ago. Durante l’applicazione della radiofrequenza, la corrente fluisce attorno alla punta dell’ago e si diffonde nel tessuto circostante il quale possiede

Fig. 1 (sopra). Generatore per radiofrequenza.

Fig. 2. (sotto). Ago con punta attiva e mandrino in alto, probe per erogare corrente in basso.

Fig. 3. Kit procedurale per radiofrequenza.

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una propria resistenza, detta impedenza elettrica R e misurata in Ohm. l’impedenza fisiologica dei tessuti varia da 200 a 800 Ohm. Il tessuto attraversato dalla corrente si riscalda per “effetto Joule”, in quanto la corrente facendo resistenza con il conduttore, produce calore. Tradizionalmente il calore così formato era sfruttato per produrre lesioni termiche nel tessuto nervoso a scopo antalgico.

Da notare che la punta dell’ago non è riscaldata dalla corrente elettrica, al contrario è il tessuto

che, attraversato dalla corrente, si riscalda per effetto Joule e riscalda di conseguenza l’ago con cui è a contatto. Il sensore a termocoppia all’interno dell’ago rileva la variazione della temperatura e la rende visibile sul display del generatore. La temperatura raggiunta è un elemento fondamentale che distingue la radiofrequenza pulsata, nella quale non si superano mai temperature lesive, dalla radiofrequenza continua dove il raggiungimento di temperature elevate, con conseguente neurolesione, è il target desiderato.

Altro concetto chiave è il rapporto tra punta e struttura nervosa.

La corrente si distribuisce alla periferia dell’ago e poco alla punta, perciò la struttura nervosa bersaglio dovrebbe trovarsi a lato dell’ago, non al davanti. Per definizione quando la temperatura raggiunta nei tessuti supera i 44°C si verifica una lesione irreversibile. La termolesione viene riservata a strutture sensitive, in modo da non creare disturbi motori. In particolare si utilizza nella termorizotomia trigeminale, dove la lesione avviene a livello della radice retrogasseriana del nervo trigemino, nervo quasi esclusivamente sensitivo, e la cordotomia cervicale percutanea, dove la lesione avviene sul tratto spinotalamico, nel quale non esiste componente motoria. La denervazione delle faccette articolari, attraverso la lesione della branca mediale, rappresenta una

(24)

eccezione, grazie alle conseguenze irrilevanti sulla componente motoria di un piccolo ramo terminale.

Arrivati a questo punto sembra logico che l’effetto antalgico della radiofrequenza sia dovuto alla lesione termica nervosa che impedisce il passaggio dell’input nocicettivo. Tuttavia i risultati clinici fanno pensare all’esistenza di un meccanismo aggiuntivo poiché il pain relief dura più a lungo della perdita di sensibilità del dermatomero interessato, oppure alcuni pazienti hanno pain relief senza alcuna alterazione della sensibilità. Si può pensare ad una lesione selettiva sulle fibre amieliniche che risparmia le più grosse fibre Aβ del tatto, ma quando si esegue la lesione le fibre vengono coinvolte tutte senza distinzioni.

Inoltre da uno studio di Slappendel emerse che non vi era differenza di risultati tra pazienti sottoposti a radiofrequenza con temperatura alla punta dell’ago di 40°C o di 67°C. (18)

La radiofrequenza pulsata

Nel 1996 Slujiter, ipotizzando l’esistenza di un altro meccanismo alla base degli effetti della radiofrequenza diverso dal calore, nel tentativo di ottenere gli effetti antalgici senza le potenziali complicanze legate alla lesione termica, mise a punto una diversa forma di corrente a radiofrequenza la radiofrequenza pulsata (PRF). (19) Il principio fisico è semplice: in un secondo si succedono due cicli, della durata di 500 msec ciascuno, durante ognuno dei quali viene erogata la radiofrequenza per soli 20 msec, cui fanno seguito 480 msec di silenzio elettrico, creando una pausa che permette al calore di esser dissipato attraverso il circolo ematico e la conduttività termica,

così che la punta dell’ago non superi i 42°C, limite della lesività. Il voltaggio in uscita è limitato ai 45 V, tuttavia se la temperatura rilevata tende a superare i 42°C, il voltaggio viene automaticamente ridotto.

Ricapitolando la PRF viene utilizzata con parametri più o meno standard:

(25)

- frequenza 2 Hz

- impulso attivo 20 msec - pausa 480 msec

- temperatura non superiore a 42°C - voltaggio non superiore a 45 volt - durata erogazione 120 sec (modificabile)

La radiofrequenza pulsata si è dimostrata efficace nel dolore neuropatico,(20) in particolare se applicata ai gangli della radice dorsale (GRD) a vari livelli del

rachide cervicale, toracico, lombosacrale, considerate sedi in cui non era applicabile la radiofrequenza continua. Buoni risultati si sono avuti anche su alcuni gangli autonomici, sebbene sul ganglio di Gasser non abbia la stessa efficacia della radiofrequenza continua. (21)

Su nervi periferici quali soprascapolare e occipitale, la PRF ha dato prova di efficacia, con il vantaggio di essere più sicura della CRF su strutture miste sensitive e motorie, dove il danno nervoso non è auspicabile. (22) (23) (24)

Dunque la PRF mostra la sua efficacia antalgica in molte situazioni, ma ancora non è chiaro con quale meccanismo. Sluijter dimostrò che la risposta non è il calore, poiché confrontando gli effetti della radiofrequenza continua a 42°C con la radiofrequenza pulsata a 42°C, trovò migliori risultati in quest’ultima. (25)

In un articolo del 2002, Cahana e Muller descrivono una transitoria neuromodulazione della trasmissione sinaptica nelle cellule esposte a radiofrequenza pulsata tra 38°C e 42°C, ma non in quelle esposte a RF continua a 42°C. (26)

Per una migliore comprensione si devono indagare gli effetti fisici e biologici.

Effetti fisici della radiofrequenza

Come già ampiamente esposto, la caratteristica della radiofrequenza pulsata è l’alternanza di brevi impulsi di 20 msec, ciascuno dei quali oscilla con una frequenza di circa 420 KHz, la stessa

(26)

della RF continua, ma grazie alla pausa di silenzio elettrico che segue, il calore prodotto durante l’impulso, a parità di voltaggio, viene rapidamente dissipato; si possono perciò utilizzare voltaggi più elevati senza il rischio di aumentare la temperatura oltre i 42°C. Si noti che durante i 20 msec di attività, la temperatura può raggiungere un picco anche di 50°C in funzione dell’impedenza dei tessuti; tale picco può essere ridotto riducendo la durata dell’impulso da 20 a 10 msec.

Non è chiaro se questo sia responsabile di un minimo effetto neurolesivo che possa spiegare la scomparsa del dolore nell’immediato postoperatorio.

L’elemento principale per ottenere l’effetto antalgico è il campo elettrico, che raggiunge 185.000 V/m alla punta dell’ago ed è molto più forte nella PRF che nella CRF. L’intensità del campo decresce in modo esponenziale allontanandosi dalla punta.

L’intensità del campo elettrico (I) risponde alla prima legge di Ohm

I = V/R

dove V è il voltaggio e R l’impedenza. L’intensità è direttamente proporzionale al voltaggio ma inversamente proporzionale all’impedenza, la quale ostacola la corrente che scorre nei tessuti. Il campo elettrico induce sulle cellule un elevato potenziale transmembrana, che può causare deformazione, creazione di pori fino alla rottura della membrana cellulare. Si ammette così che, anche nella PRF, i brevi picchi di attività possano effettivamente creare una piccola lesione, la quale potrebbe essere la spiegazione dell’immediato pain relief nell’immediato postoperatorio.

Questa fase è quella che Sluijter chiama dello "stordimento". Superate le prime 24/48 ore solitamente il dolore ritorna per circa 2-3 settimane, fase del "disagio post operatorio", per poi ridursi nuovamente con la comparsa degli effetti clinici benefici. Quindi prima di poter valutare il risultato definitivo occorre attendere solitamente 3-4 settimane. (16)

Un'altra considerazione pratica a margine di quanto esposto è che estendendosi il campo elettrico al davanti della punta dell'ago, e non intorno come la corrente, un ideale posizionamento di questo rispetto alla struttura bersaglio dovrebbe essere perpendicolare.

L’effetto antalgico duraturo, che arriva fino a 6-8 mesi o più, sottintende una altro meccanismo. Sembra che il campo elettrico induca una maggiore espressione del gene c-fos, marker di metabolismo cellulare, nei gangli delle radici dorsali e nelle lamine superficiali del corno dorsale. (27) Visto l’effetto antinocicettivo della PRF, l’aumento di c-fos potrebbe essere ascritto agli interneuroni inibitori. Inoltre la bassa frequenza degli impulsi e gli alti voltaggi della PRF indurrebbero la “long term depression” della trasmissione sinaptica al midollo spinale,

(27)

antagonizzando la long term potentiation, probabile meccanismo sottostante molti dolori cronici. (28) (29)

Secondo alcuni autori la PRF può rinforzare il controllo discendente inibitorio noradrenergico e serotoninergico, che è intimamente coinvolto nella genesi del dolore neuropatico. (35)

Gli effetti biologici della radiofrequenza

Erdine e colleghi studiarono gli effetti della PRF su nervi sciatici di ratti e li osservarono dopo 10 giorni, rilevando anomalie nella morfologia dei mitocondri, distruzione e disorganizzazione di microtubuli e microfilamenti, soprattutto a carico delle fibre amieliniche C rispetto alle fibre mieliniche. Questo spiegherebbe l’effetto antalgico con risparmio della sensibilità, condotta da fibre A-delta, ma non l’efficacia nei pazienti con dolore neuropatico, dove vengono coinvolte spesso anche le fibre A-delta. (30)

Molti studi hanno analizzato le variazioni dell’espressione genica, produzione di fattori e anomalie strutturali in seguito a radiofrequenza pulsata. In alcuni casi si sono rilevati danni a carico degli assoni mielinici, con evidenza di separazione della mielina dopo PRF di 120 secondi. (31) Si pensa che il danno causato alle membrane dal campo elettrico possa interferire con le generazione di potenziali d’azione e firing ectopici. (32) Grande interesse suscita il ruolo del gene c-fos, intorno al quale sono stati sviluppati diversi lavori. In uno di questi è stata rilevato un incremento dell’espressione del gene c-fos nel corno dorsale dopo 3 ore dall’applicazione della RF pulsata ma non della RF continua, tuttavia dopo 7 giorni questa differenza scompare, suggerendo la possibilità che PRF e CRF abbiano effetti diversi nella fase precoce ma non nella tardiva. (33) Molti altri studi rilevano alterazioni a carico delle strutture esposte a l’una o all’altra metodica, ma nessuno riesce a spiegare realmente il meccanismo. Il riscontro dell’aumento di met-enkefalina nel corno dorsale del midollo spinale nelle prime 24 ore dopo PRF, come riportato da Wu, suggerisce inoltre un ruolo degli oppioidi endogeni. (35)

Applicazione clinica della radiofrequenza

Per essere efficace, la radiofrequenza deve essere correttamente applicata sul target. Abbiamo visto come l’efficacia della terapia dipenda dal campo elettrico generato al davanti della punta, per cui il raggio d’azione è molto stretto. La punta dell’ago deve essere il più vicino possibile al

(28)

sito da trattare e possibilmente con direzione perpendicolare, pena la mancata efficacia della terapia.

Per orientarci sul corretto posizionamento dell’ago ci possiamo avvalere di alcuni strumenti facilmente misurabili.

L’impedenza è la resistenza offerta dai tessuti al passaggio di corrente e si misura in Ohm. Collegando l’ago-elettrodo al generatore di corrente, il valore di impedenza compare sul display e permette di orientarci sul bersaglio; la mancata visualizzazione significa che il circuito elettrico non è funzionante. Il target ideale è < 400 Ohm; valori troppo alti indicano che siamo lontani dal bersaglio, troppo bassi (< 200 Ohm) segnalano l’eccessiva vicinanza dell’ago alla struttura nervosa. Alcune sedi fanno eccezione: nella termorizotomia trigeminale un’impedenza inferiore ai 200 Ohm indica che la punta è immersa nel liquor, obiettivo non desiderabile visto che il liquor dissipa il calore rendendo la lesione troppo lieve. Al contrario nello spazio epidurale sacrale, la stretta vicinanza dell’osso al canale fa salire l’impedenza oltre i 400 Ohm. Nella cordotomia spinale un valore di 800 Ohm indica invece il raggiungimento del target, ossia il midollo spinale. Il passo successivo è la valutazione delle parestesie sensitive evocate nel dermatomero interessato, utilizzando una corrente a 50 Hz in un range compreso tra 0,3 – 0,6 volt. Le parestesie evocate sotto 0,3 V indicano che l’ago è troppo vicino al nervo, con rischio di lesione, sopra 1 v significa che è troppo lontano e la terapia sarà inefficace. Anche in questo caso vi sono eccezioni: ci si aspetta che vicino al trigemino le parestesie vengano evocate anche < 0,3 V, mentre nelle neuropatie serviranno voltaggi superiori.

Successivamente si deve controllare che l’ago non sia troppo vicino a qualche struttura motoria. Erogando correnti a 2 Hz si dovrebbero evocare clonie ad un voltaggio almeno doppio rispetto a quello necessario per evocare le parestesie sensitive. Se la clonia si elicita a voltaggi inferiori, significa che siamo vicini a fibre motorie.

La valutazione della distanza dalle strutture motorie è sicuramente necessario nel caso della radiofrequenza continua, ma è una corretta abitudine da mantenere anche nella pulsata, poiché se è vero che il rischio di danno nervoso è minore, la doppia valutazione consente di capire meglio dove si trova il bersaglio ed e essere quindi più precisi su come direzionare l’ago. Nel caso della RF sulle faccette articolari, l’evocazione di clonie indica che siamo vicini al nervo spinale misto, mentre l’obiettivo è il ganglio della radice dorsale.

(29)

Una differenza importante tra RF continua e pulsata è la parte dell’ago utilizzata per la terapia.

Nella RF continua la dimensione della lesione è direttamente proporzionale alla lunghezza della punta attiva e al diametro dell’ago (oltre a temperatura e tempo di esposizione).

Nella RF pulsata la forza del campo elettrico è massima alla punta e oltre gli 0,5 mm decade rapidamente man mano che ci si allontana da essa, essendo inversamente proporzionale alla distanza del bersaglio e inversamente proporzionale al diametro dell’ago, ecco perché l’ago per RFP è sottile e appuntito. La proporzionalità diretta che lega il campo elettrico suggerisce di utilizzare voltaggi superiori ai 45 V per una maggiore efficacia.

Una volta verificate queste condizioni, si può iniziare l’erogazione di corrente. La durata della terapia è variabile, di solito tra 120 e 300 secondi, la frequenza classica è impostata su 2 Hz, ma alcuni generatori consentono di modificare la durata dell’impulso da 20 a 10 msec (aumentando la pausa da 480 a 490 msec) così da aumentare il voltaggio oltre 45 V, a patto di non superare i 42°C, che per definizione è la temperatura limite della RF pulsata.

In teoria anche la posizione dell’ago relativa al nervo differisce nelle due metodiche.

Poiché la RF continua sfrutta il calore, il quale viene sviluppato maggiormente ai lati dell’ago, ne consegue che posizionare l’ago parallelo al nervo lo renderebbe più efficace.

Nella RF pulsata l’elemento chiave è il campo elettrico che si sviluppa alla punta dell’ago, perciò l’ago dovrebbe essere posizionato perpendicolare al nervo. Naturalmente pur cercando di avvicinare la punta al nervo il più possibile, non si può avere la certezza di come siano realmente disposti l’uno rispetto all’altro.

In un recente articolo, Chang e colleghi confrontano gli effetti della stimolazione monopolare e bipolare su pazienti con dolore lombosacrale cronico. In entrambi i casi si ha riduzione del dolore a 1, 2 e 3 mesi dal trattamento, ma con un lieve vantaggio per la stimolazione bipolare. (36)

Fig. 6. Configurazione della lesione termica e del campo elettrico in relazione alla punta attiva dell'elettrodo.

a) la formazione del calore è maggiore intorno alla punta attiva ed è minima al davanti.

b) il campo elettrico si proietta davanti alla punta ed è debole ai lati

c) la dimensione della lesione è direttamente proporzionale alla lunghezza della punta.

(30)

Radiofrequenza pulsata e neuromodulazione

Lo studio pubblicato da Vallejo e colleghi nel 2013 mostra alcuni interessanti effetti del PRF sull’espressione genica e sulla neuromodulazione. Lo studio prende in esame la risposta alla PRF, rispetto al gruppo placebo, di alcuni ratti sottoposti a resezione del nervo sciatico. Il danno produce neuroinfiammazione sufficiente per attivare la nocicezione e le alterazioni geniche nei neuroni afferenti. Il sistema immunitario, in particolar modo la glia, stimola l’espressione di geni proinfiammatori che portano alla produzione di IL-1, Il-6, TNFα. Si è visto che agire su questi mediatori porta al pain relief. (37)

In letteratura sono stati identificati circa 15 geni coinvolti nella modulazione, nello sviluppo e potenziamento del dolore neuropatico. (42) In alcuni studi è stato rilevato l’incremento nell’espressione di c-fos dopo PRF ma non dopo CRF, evidenza che però non viene sempre confermata in altri studi.

La presenza di un danno periferico determina aumento della produzione nel sito di lesione sia di citochine proinfiammatorie sia di fattori immunomodulanti come TNFα che, mediante trasporto

retrogrado, raggiungono i DRG; alcuni studi dimostrano anche l’esistenza di un analogo flusso anterogrado dai DRG al sito di lesione. Questo trasporto di fattori potrebbe spiegare le alterazioni del sistema ascendente/discendente nell’espressione genica tra sito di lesione e DRG. (43)

(31)

TNFα è uno dei fattori chiave nello sviluppo e mantenimento del dolore neuropatico. Oltre alle modificazione nel sito di lesione, sono state osservate alterazioni anche a livello dei DRG, nella quale si verifica down-regulation di TNFα, GABAB-R1, 5HT3-r receptors, Na/K ATPasi. Nel gruppo di ratti sottoposti a PRF, non solo si determina una riduzione delle citochine proinfiammatorie TNFα e IL-6 a livello del sito di lesione, ma anche a livello dei DRG, nella quale l’espressione di fattori implicati nella riduzione del dolore tornano a livelli basali, compreso il gene c-fos. Ciò rende i corpi cellulari presenti nei DRG dei punti chiave nella modulazione della trasmissione dolorifica. (41)

L’evidenza sostiene che i campi elettromagnetici applicati a nervi centrali o periferici possono modulare la neuroinfiammazione o possono rappresentare nuove strategie terapeutiche. (40) Affinché la PRF diventi realmente una possibilità di trattamento è necessario approfondire le conoscenze sul meccanismo di azione e di induzione della risposta genica, selezionare bene i pazienti e ricercare parametri ottimali di trattamento, ma accanto a tutto questo è necessario capire meglio i meccanismi di danno

Il trattamento del dolore neuropatico si avvale di vari tipi di farmaci oppiodi e non oppioidi, quali gabapentin, pregabalin, antidepressivi triciclici, inibitori del reuptake di serotonina e noradrenalina, i quali tuttavia hanno buona efficacia solo in un gruppo limitato di pazienti. l’utilizzo di anticitokinici è molto limitato per lo sviluppo di effetti avversi.

Ecco che la PRF rappresenta una ulteriore possibilità di pain relief, sebbene il meccanismo d’azione non sia ancora ben chiaro. (38) Dal punto di vista clinico si riscontra una buona analgesia la cui cui durata varia in base al tipo di dolore e naturalmente in base al paziente, tuttavia alcuni dati sono promettenti:

• 5 msi per il dolore di caviglia • 3 mesi per dolore toracico • 9 mesi per dolore inguinale

• 1,5 anni per nevralgia del pudendo

Lo studio di Hagiwara pubblicato nel 2008 suggerisce l’interazione delle correnti della RFP con le vie inibitorie discendenti. La somministrazione intratecale di antagonisti dei recettori α2

(32)

adrenergici e antagonisti dei recettori della serotonina (5HT1, 5HT2, 5HT3) si associano ad una minore efficacia analgesica della PRF, almeno nel breve termine. (39)

Nell’ambito della medicina il calore della radiofrequenza è stato utilizzato per oltre 30 anni in vari sindromi dolorose. Tuttavia l’efficacia si accompagna al rischio di sviluppare neuriti, dolore da deafferentazione, oppure di lesionare involontariamente altre fibre nervose con conseguenti deficit.

L’articolo pubblicato da Sluijter nel 1998, nel quale dimostra che la RF a basse temperature è efficace come quella che impiega alte temperature, apre la strada alla ricerca di altri modi di sfruttare la radiofrequenza, che da continua diventa pulsata. Si è capito che il calore non è l’unico responsabile di un pain relief clinicamente significativo, in quanto il campo elettrico prodotta dalla RF pulsata è sufficiente per indurre una neuromodulazione reale dimostrata dai tanti lavori che riportano modifiche nell’espressione genica, nella struttura cellulare e delle fibre nervose, sebbene i meccanismi d’azione non siano ancora stati definiti con chiarezza.

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4. LA NEVRALGIA DEL PUDENDO: come riconoscerla e come trattarla

La nevralgia del pudendo (PN), o sindrome di Alcock, consiste in un dolore neuropatico cronico, che si aggrava quando il paziente è seduto. Gli studi basati sulle immagini diagnostiche non hanno permesso di individuare alcuna causa organica, anche se spesso si associa ad una disfunzione pelvica. (45)

In genere la malattia esordisce tra i 50 e i 70 anni, con sintomi insidiosi, come il dolore neuropatico di intensità variabile localizzato nella regione perineale. I pazienti descrivono un dolore intenso, acuto, una sensazione di bruciore e, occasionalmente, insensibilità. È stata descritta anche la sensazione di un corpo estraneo presente a livello del retto o della vagina (simpatalgia). Il dolore è monolaterale o, spesso, mediale ed è più intenso durante il giorno, quando il paziente è seduto o indossa abiti aderenti. Spesso il dolore si associa alla sensibilizzazione della pelvi, che spiega le problematiche urinarie (pollachiuria, disuria), anorettali (dischezia, aumento del dolore dopo la defecazione), sessuali (dispareunia, intolleranza al contatto vulvare, esacerbazione del dolore post-coitale, eccitazione genitale persistente, disfunzione erettile) e il dolore miofasciale

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localizzato alle natiche. Spesso è presente una sciatalgia a livello del tronco. Esistono diverse forme di PN: benigna, regressiva, evolutiva con riacutizzazioni, stabile, oltre a forme molto debilitanti con aggravamento progressivo dei sintomi. (44)

Il dolore si localizza al perineo, nelle zone innervate dal nervo pudendo. Sebbene le cause della sindrome dolorosa siano variabili e il meccanismo non completamente noto, l'elemento comune è la compressione o "intrappolamento" del nervo nel suo canale, detto canale di Alcock, da cui il nome della sindrome.

A

natomia del nervo pudendo

Il nervo pudendo è un nervo misto che origina dal plesso pudendo. È formato da fibre provenienti da S2, S3 e S4. La componente sensitiva innerva la cute di perineo e genitali esterni e i corpi cavernosi. La componente muscolare innerva i muscoli trasverso superficiale del perineo, ischiocavernoso e bulbocavernoso. Sono inoltre presenti fibre parasimpatiche per le arterie dei genitali che stimolano l'erezione dei corpi cavernosi (pene e clitoride).Il nervo origina

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dalle branche ventrali del secondo, terzo e quarto nervo sacrale (S2-S3-S4); decorrendo al di sotto del muscolo piriforme, il nervo abbandona la cavità pelvica attraverso il grande forame ischiatico, gira attorno alla spina ischiatica passandole anteriormente, poi passa attraverso il piccolo forame ischiatico, adeso al muscolo otturatore interno, ed entra dunque nella fossa ischioanale. A questo livello accompagna i vasi pudendi interni lungo la parete laterale della fossa ischiorettale, contenuto all'interno dello sdoppiamento della fascia del muscolo otturatore interno, detto canale di Alcock, che si trova a circa 5 cm dalla superficie cutanea.

A livello della tuberosità ischiatica si divide nei suoi rami terminali: il nervo perineale e il nervo dorsale del pene/della clitoride.

Il nervo perineale rappresenta la continuazione diretta del nervo pudendo. Può dare origine al nervo emorroidale inferiore, che più spesso nasce direttamente dal plesso pudendo. Dietro al trigono urogenitale si divide in un ramo superficiale e uno profondo.

- Ramo superficiale: si fa sottocutaneo e innerva la cute di perineo, scroto, faccia inferiore del pene e grandi labbra

- Ramo profondo: innerva i muscoli del piano pelvico (ischiocavernoso, bulbocavernoso, trasverso superficiale del perineo); fornisce rami sensitivi per bulbo e uretra.

Il nervo dorsale del pene/della clitoride decorre lungo la parete laterale della fossa ischiorettale, raggiunge la sinfisi pubica e prosegue lungo il dorso del pene o della clitoride. Nel maschio

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raggiunge il glande, mentre nella femmina termina quasi subito. Si distribuisce ai corpi cavernosi di pene e clitoride e alla cute di pene e piccole labbra.

Il canale di Alcock contiene il nervo pudendo e i vasi inglobati in uno spazio libero di tessuto areolare. Spesso all'interno del canale si formano tre rami: il nervo rettale inferiore, il nervo perineale e il nervo dorsale del clitoride.

Il nervo rettale inferiore innerva la cute attorno all'ano e comunica con il ramo perineale del nervo cutaneo femorale posteriore e col suo ramo terminale, il nervo delle grandi labbra. Il ramo rettale inferiore fornisce l’innervazione sensitiva alla porzione distale del canale anale e alla cute perianale. Questo ramo fornisce anche innervazione motoria allo sfintere anale esterno.

Sebbene l'anatomia del nervo pudendo sia ben delineata, sono molto frequenti varianti anatomiche, specialmente all'interno della fossa ischiorettale, dopo che i suoi rami escono dal canale di Alcock. Poiché i rami del nervo decorrono superficialmente lungo la pelvi, questo li rende molto vulnerabili alle lesioni.

Eziopatogenesi

La causa della nevralgia del pudendo non è nota. Il danno si realizza perché il nervo può essere compresso o intrappolato. (54)

Vi sono numerose potenziali zone di compressione nervosa: pizzicamento da parte dei legamenti pelvici posteriori (compresi i legamenti sacro-tuberosi e sacro-spinali), pizzicamento nel canale di Alcock (causato dalla divisione dell'aponeurosi del muscolo otturatore) e nel processo falciforme del legamento sacro-tuberoso.

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