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Predittori di mortalita intraospedaliera e a un anno nei pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST all'interno della rete integrata dell'area nord-ovest della Toscana

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di laurea in Medicina e Chirurgia

TESI DI LAUREA

Predittori di mortalità intraospedaliera e a un anno nei pazienti

con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST

all'interno della rete integrata dell'area nord-ovest della Toscana

Candidato:

GIACOMO TADDEI

Relatore:

CHIAR.MO PROF.SERGIO BERTI

(2)

“nana korobi ya oki”(cadi sette volte, rialzati otto volte),

(3)

RIASSUNTO

Razionale. La gestione e il trattamento del paziente con STEMI hanno subito numerosi

progressi nel corso degli ultimi anni. Nonostante lo sviluppo di reti integrate territoriali e interospedaliere abbia contribuito a ridurre la mortalità, il ritardo tra l’esordio dei sintomi e l’inizio del trattamento assieme ad altri parametri sono ancora fattori che influenzano la prognosi a breve e a lungo termine. Scopo dello studio è valutare quali sono i fattori che hanno un impatto sulla mortalità precoce e tardiva all’interno della rete integrata dell’area nord-ovest della Toscana.

Materiali e metodi. Dall’aprile 2006 al 31 dicembre 2012 sono stati arruolati all’interno

della rete 1342 pazienti con STEMI e indicazione a PCIp (età media 66,6 ± 12,5 anni). Per ogni paziente sono stati registrati in un database, integrato col sistema informatico ospedaliero, i parametri anamnestici, clinici, strumentali, angiografici e di laboratorio dalla fase preospedaliera fino alla dimissione ed eseguito un follow up a un anno. Sono stati valutati i fattori che incidevano sulla mortalità intraospedaliera e al follow up di un anno.

Risultati. Sottoponendo i dati ad analisi statistica univariata e multivariata, età, pregressa

rivascolarizzazione all’anamnesi, tempo ischemico totale, shock cardiogeno e FE<40% all’ingresso e grado TIMI post-PTCA ≤ 2 si sono dimostrati predittori indipendenti di mortalità intraospedaliera. I casi di decesso ospedaliero hanno avuto un tempo d’ischemia medio più lungo rispetto ai sopravvissuti (301 vs 253 min; p<0,003). La mortalità intraospedaliera cresceva del 3,5% ogni 2 ore di ritardo nella riperfusione (p<0,01). Età, pregressa rivascolarizzazione ed FE<40% alla dimissione, insieme al diabete mellito, sono risultati anche predittori indipendenti di mortalità entro un anno dalla dimissione.

Conclusioni. Alla luce dei nostri risultati, una migliore educazione sanitaria della

popolazione e una maggiore “capillarizzazione” della rete sono i punti chiave per un’auspicabile riduzione del tempo ischemico e quindi della mortalità precoce. Oltre al “fattore tempo”, i risultati dell’analisi sottolineano l’importanza dell’individuazione dei predittori di outcome con particolare attenzione al monitoraggio ambulatoriale del paziente una volta dimesso. Il paziente colpito da STEMI appare essere un continuum clinico che, a partire dalla fase preospedaliera, non si esaurisce con la dimissione del soggetto ma prosegue nel tempo una volta superata la fase acuta.

(4)

S

OMMARIO

INTRODUZIONE ... 1!

CAPITOLO 1 – CENNI DI CARDIOPATIA ISCHEMICA ... 3!

Epidemiologia ... 3!

Basi fisiopatologiche dell’ischemia miocardica ... 5!

Il ruolo dell’aterosclerosi ... 8!

La placca vulnerabile ... 11!

CAPITOLO 2 - SINDROMI CORONARICHE ACUTE ... 13!

Classificazione e aspetti fondamentali ... 13!

Manifestazioni cliniche delle SCA: il dolore toracico ... 15!

Infarto miocardico acuto ... 22!

Definizione e classificazione ... 22!

Fattore tempo e modificazioni istologiche ... 27!

Fisiopatologia dello STEMI ... 30!

Percorso diagnostico dello STEMI ... 32!

CAPITOLO 3 - GESTIONE DELLO STEMI ... 43!

Importanza del problema ... 43!

Terapia riperfusiva ... 44!

Il fattore tempo ... 47!

Rete territoriale e interospedaliera ... 51!

Problemi ancora aperti e sviluppi futuri ... 54!

CAPITOLO 4 – STUDIO SPERIMENTALE ... 55!

Razionale ... 55!

Finalità dello studio ... 56!

La “rete” dello STEMI nella provincia di Massa-Carrara ... 57!

Materiali e metodi ... 59!

Popolazione dello studio ... 59!

Metodologia della raccolta dati ... 59!

Follow up clinico ... 62!

Analisi statistica ... 63!

Risultati ... 64!

Discussione ... 78!

Limiti dello studio ... 81!

CONCLUSIONI ... 82!

(5)

INTRODUZIONE

Una diagnosi precoce e un rapido trattamento riperfusivo del vaso coronarico occluso sono i punti fondamentali per ridurre la mortalità e migliorare la prognosi del paziente colpito da STEMI. Nonostante la gestione e il trattamento del paziente con STEMI abbiano subito numerosi progressi nel corso degli ultimi anni, grazie soprattutto allo sviluppo di reti integrate territoriali e interospedaliere, con beneficio in termini di riduzione della mortalità, il ritardo tra l’esordio dei sintomi e l’inizio del trattamento (stima del tempo ischemico totale) insieme a altri parametri sono ancora fattori che influenzano la prognosi a breve e a lungo termine.

Il ruolo prognostico del tempo ischemico totale è stato dimostrato nei pazienti trattati con angioplastica primaria (PCIp), specialmente nei pazienti ad alto rischio1,2 e/o per quanto riguarda la mortalità complessiva a un anno3,4. Oltre al “fattore tempo”, numerosi studi in letteratura hanno dimostrato come la mortalità nei pazienti con STEMI si concentra in determinate categorie di pazienti. Lo studio GUSTO-I già 20 anni fa aveva identificato i predittori di mortalità a 30 giorni sulla base delle caratteristiche del paziente rilevabili all’ingresso in ospedale5. Dieci anni dopo, il documento di consenso della FIC relativo alle reti integrate per l’emergenza coronarica precisò i criteri di alto rischio per lo STEMI, contestualizzandoli in un modello assistenziale di rete territoriale e interospedaliera. Fino a quel momento, infatti, la letteratura

(6)

aveva proposto un numero eccessivo di predittori prognostici, riscontrando nei registri italiani di quegli anni6 un numero eccessivamente elevato (fino al 75% del totale) di pazienti classificati come ad alto rischio. Ciò si scontrava con gli obiettivi e con le esigenze di una rete per lo STEMI efficiente. Così, la classe Killip > 1, l’ipotensione, la tachicardia, l’età avanzata (> 75 anni) e l’estensione elettrocardiografica dell’infarto (sopraslivellamento del tratto ST in almeno sei derivazioni) vennero ritenute le variabili con maggior impatto prognostico valide per la definizione di STEMI ad alto rischio in un contesto di rete integrata. Nello studio BLITZ7 la presenza di almeno una delle suddette condizioni identificava un sottogruppo pari al 40% della popolazione totale con mortalità del 20% contro il 2,5% nel restante 60% dei pazienti, in cui non era presente nessuna di tali condizioni. Kent et al., al fine di valutare il rischio di morte, applicando i risultati di analisi di meta-regressione su studi su PTCA e trombolisi a una popolazione di 1058 pazienti con STEMI osservarono che il 68% della mortalità stimata si aveva nel quartile di pazienti a rischio più alto mentre nel 50% della popolazione ad alto rischio si concentrava ben l’87% della mortalità complessiva8.

E’ evidente quindi come all’interno di una rete STEMI sia importante limitare il più possibile il ritardo e compiere una stratificazione prognostica precoce, individuando i pazienti ad alto rischio (in cui il beneficio della PTCA primaria è maggiore), perché ciò ha ripercussioni importanti sul raggiungimento degli obiettivi preposti da tale modello assistenziale9.

(7)

CAPITOLO 1 – CENNI DI CARDIOPATIA ISCHEMICA

Il termine cardiopatia ischemica (CHD) definisce uno spettro di malattie a diversa eziologia, in cui il fattore fisiopatologico unificante è rappresentato da uno squilibrio tra la richiesta metabolica e l’apporto di ossigeno ad una porzione di miocardio. Il tessuto ischemico si viene a trovare in una situazione di debito di ossigeno e substrati metabolici da una parte, mentre dall’altra si accumulano progressivamente cataboliti e scorie che partecipano al danno.

La più comune causa di cardiopatia ischemica è la malattia aterosclerotica, attraverso la formazione di placche sub-intimali a livello di una o più arterie coronarie epicardiche che possono andare incontro a rottura e determinare la formazione di trombi con ostruzione acuta del lume coronarico, con le relative conseguenze cliniche.

Epidemiologia

Nonostante la mortalità nel corso degli ultimi 40 anni si sia ridotta notevolmente, le malattie cardiovascolari sono ancora oggi la prima causa di morte nei paesi industrializzati10,11. Tuttavia, stratificando per età, negli ultimi 10 anni si sta assistendo a un cambiamento riguardo le cause di morte nella

(8)

popolazione over 65. La patologia tumorale eguaglia e supera la patologia cardiovascolare in termini di mortalità nei soggetti compresi tra 65-85 anni mentre le malattie cardiovascolari restano la prima causa di morte nei soggetti più anziani12.

La cardiopatia ischemica tra le malattie cardiovascolari ha un ruolo predominante, in termini di mortalità ma anche di morbidità, e a essa è associata una maggiore spesa sanitaria rispetto ad altre patologie diffuse nei paesi industrializzati.

Secondi i dati più recenti dell’AHA13 negli USA circa 15 milioni di persone con età maggiore di 20 anni soffrono di CHD, la cui prevalenza si aggira intorno al 6,4% (7,9% negli uomini e 5,1% nelle donne). Si stima14 che nel 2014 circa 600.000 persone avranno un attacco cardiaco per la prima volta mentre 300.000 saranno i soggetti con attacco ricorrente.

Approssimativamente ogni 34 secondi un individuo negli USA ha un evento acuto coronarico con un decesso ogni 1 minuto e 23 secondi.

Per quanto riguarda la mortalità, secondo dati AHA15, nel 2010 la CHD ha causato negli USA circa 400.000 decessi, di cui 122.000 secondari a infarto del miocardio.

La larga prevalenza di questa patologia è sicuramente connessa all’aumento della vita media da una parte e alle modificazioni nello stile di vita dall’altra (aumento dei fattori di rischio a esso collegati). Con l’urbanizzazione dei paesi in via di sviluppo anche in queste aree geografiche si sta verificando un

(9)

aumento della prevalenza dei fattori di rischio, con la previsione che entro il 2020 la cardiopatia ischemica sarà la principale causa di morte a livello mondiale16,17.

I soggetti più a rischio di cardiopatia ischemica sono quelli di sesso maschile di età medio-avanzata, anche se dopo la menopausa l’incidenza nel sesso femminile aumenta, fino a eguagliare quella maschile18-20.

Esistono anche delle differenze geografiche: in Europa per esempio la mortalità per CHD è più alta nei paesi dell’est (Russia, Germania) e più bassa nel Sud-Ovest europeo (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia): questo suggerisce l’importanza di fattori genetici, climatici e dietetici21.

Basi fisiopatologiche dell’ischemia miocardica

Due sono i fattori che intervengono nella genesi dell’ischemia miocardica: da una parte la riduzione dell’apporto e dall’altra l’aumento del fabbisogno e quindi del consumo miocardico di ossigeno (MVO2). Nella maggior parte dei casi entrambi i meccanismi agiscono simultaneamente nel determinare ischemia, con possibile variabilità nello stesso soggetto in presentazioni successive; tuttavia, didatticamente possiamo definire un’ischemia da apporto e un’ischemia da richiesta. I singoli determinanti che influenzano apporto e richiesta miocardica di O2 sono rappresentati in figura 1.1.

(10)

Figura 1.1 Determinanti della richiesta e dell’apporto miocardico di ossigeno.

La gravità e la durata dello squilibrio tra apporto e richiesta di ossigeno determinano la reversibilità del danno, che si manifesta con alterazioni della contrattilità (acinesie e discinesie) e dell’attività elettrica (i segni elettrocardiografici dell’ischemia), nonché con alterazioni dell’emodinamica generale (scompenso cardiaco). La sequenza di tali modificazioni configurano la cascata ischemica (figura 1.2).

• Autoregolazione • Controllo metabolico • Funzione endoteliale • Fattori neuroumorali • Controllo miogeno • Fattori di compressione extravascolare RICHIESTA APPORTO • Frequenza cardiaca • Contrattilità • Tensione di parete • Resistenze coronariche • Flusso diastolico • Capacità trasporto/rilascio di O2

(11)

Figura 1.2

Cascata Ischemica

Dolore Toracico Modifiche all’ECG Disfunzione Sistolica Disfunzione Diastolica Alterazioni metaboliche

Alterazione del flusso

Tempo dall’inizio dell’ischemia

Alterazioni meccaniche

(12)

Il ruolo dell’aterosclerosi

Nella grande maggioranza dei casi la patologia ischemica sottende alla presenza di un processo aterosclerotico a livello dei vasi coronarici. Tale patologia è condizionata dalla presenza di numerosi fattori di rischio, la cui importanza venne già stabilita da Dr S.Levine nel 192922 e poi confermata dal Framingham Heart Study23. Essi agiscono in modo sinergico a formare un danno alle normali funzioni dell’endotelio vasale: elevati livelli plasmatici di lipoproteine LDL, bassi livelli di lipoproteine HDL, fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa e diabete mellito sono i principali ma non gli unici responsabili di questi fenomeni lesivi endoteliali.

L’aterosclerosi è una patologia infiammatoria che coinvolge gli strati intima e media della parete arteriosa con decorso progressivo secondo 5 fasi, come descritto da Fuster nel 199224, iniziando a partire dall’infanzia e potendosi manifestare nelle decadi successive. L’American Heart Association Committee on vascular lesions25 ha delineato le caratteristiche morfologiche dei diversi tipi di lesioni caratterizzanti le diverse fasi, basandosi in parte sulla classificazione di Stary26,27 (figura 1.3).

I meccanismi patogenetici dell’aterosclerosi esulano dalla trattazione e si rimanda ad altre fonti28-30.

(13)

9

Figura 1.3. Rappresentazione schematica delle fasi e delle corrispondenti

lesioni morfologiche dell’aterosclerosi coronarica (Lewis A.Conner memorial

lecture. Mechanisms leading to myocardial infartction: insights form studies of vascular biology. Circulation, 1994).

Le placche ateromasiche tendono a formarsi in punti in cui il flusso sanguigno muta da laminare a turbolento, ad esempio nei punti di diramazione delle arterie epicardiche. La presenza di una lesione aterosclerotica a questo livello determina, a valle della stenosi, una caduta di pressione che è proporzionale alla riduzione del calibro vasale: il gradiente pressorio che così si crea, stimola la dilatazione dei vasi di resistenza, allo scopo di mantenere un flusso adeguato in condizioni basali, e questo spiega l’assenza di qualsiasi segno clinico ed elettrocardiografico d’ischemia anche in presenza di significativa aterosclerosi coronarica.

Fuster Lewis A. Conner Memorial Lecture

2127

process

FIG 1. Schematic of staging (phases) and lesion morphology of

the progression of coronary atherosclerosis according to the gross pathological and clinical findings. (See text for details.) Modified from D. Steinberg (Circulation. 1991;84:1420.) with

permission.

about

two

thirds

of

coronary occlusions

are

the

result of

this late

stenotic

type of

plaque

and

are

unrelated

to

plaque

disruption. Unlike

the rupture of

less-stenotic

lipid-rich

plaques,

leading

to

occlusion and

subsequent

infarction

or

other

acute

coronary

syndromes,

this

pro-cess

of

occlusion from late stenotic

plaques

tends

to

be

silent because the

preceding

severe

stenosis and

isch-emia

enhance

protective

collateral circulation.22,23

Lesion

Morphology

of

the

Progression

of Coronary Atherosclerosis

The

American Heart Association Committee

on

Vas-cular

Lesions has

outlined

the

morphological

characteris-tics of the various lesions in each of the five

phases

of

progression

of coronary

atherosclerosis

(Figs

1

and

2).24

Such

morphological

classification

is

based in part

on

Stary's

recent

classification.2526

Phase

1

of the

original

classification

of

progression usually

involves

a

slow

se-quential

progression (decades)

of three lesion types-type

I,

type

II,

and type

III-which

are

differentiated

by

their

proportions

of

lipids, macrophages,

and smooth muscle

cells and

by

whether the

lipid

is intracellular

or

extracel-lular. The

potential

for

clinical

problems, however,

begins

when the process continues. That

is,

if the

influx

of

lipids

Macrophages- Macrophages-SMC SMC

Lipid Droplets Lipid Droplets Extrac Lipid

1-SLOW

PROGRESSION

Confl Extra- Collag&SMC

Collagt&

SMc v Occlusion CellularLipid CapLipidCore LayerLipid Collagen -Reocclusio

I

3-INTERMEDIATE

PROGRESSION

12-RAPID

PROGRESSION -DISRUPTION&THROMBOSIS

morphology

of the

progression

of

and/or accumulation into the vessel wall continues and is

more

significant

than their

effiux,

then the process evolves

with a continuously slow progression of these lesions, or

phase 2 of the original

classification

of progression, into

types IV and Va lesions. The type IV lesion has a

predominance of extracellular lipid, mainly diffuse, and

the

type Va lesion has a high lipid content, mainly

localized, and a very thin capsule. Types IV and Va lesions

can

evolve at an

intermediate

rate (months to a few years)

into the more stenotic and fibrotic types Vb and

Vc

lesions. However, it appears that more often and acutely,

these lesions rupture, and then a change in their geometry

and

subsequent

thrombus formation may lead to the type

VI

complicated lesions-phase 3 of the original

classifica-tion of

progression

if

the

thrombus is mural or phase 4 if

the thrombus is occlusive. Organization of thrombi by

connective tissue

contributes

to a rapid evolution into the

types Vb and Vc severely stenotic or occlusive fibrotic

lesions, or phase 5.

Because the focus of this review is myocardial infarction

mechanisms and

prevention,

the first part addresses how

the

early

mechanisms of coronary atherosclerotic plaque

progression lead to acute plaque disruption, mural or

occlusive

thrombi,

and acute

myocardial infarction

(Figs

1

and

2).

The

second part addresses current strategies for

prevention

of

myocardial infarction through regression

and

stabilization of coronary atherosclerotic plaques. The

remaining mechanisms of coronary

atherosclerotic

plaque

progression outlined in Figs 1 and 2-the frequent rapid

progression

from

acute mural

or

occlusive

thrombi

to its

organization by

connective

tissue,

and the more

infrequent

intermediate rate of

progression by continuous

intimal

proliferation and synthesis of extracellular matrix-will be

addressed

as

part of the 1994

Bishop

Lewis Lecture of the

American

College

of

Cardiology

in a future report.

Pathogenesis

of

Phase 1

of

Progression: Lesion

Types

I,

H,

and III

The universal small lesions of

phase

1

(Fig

1)

are

seen

from the first decade of life

on

and

usually progress slowly

and in sequence.24 Type I lesions

(Figs

1

and

2),

which

are

not

grossly

apparent,

are

characterized

by

isolated

macro-phages containing oxidized lipid droplets,

the "foam

cells";

type II

lesions, grossly appearing

on

Sudan

IV

staining

as a

flat

fatty streak,

are

characterized

by

signifi-cant

intracellular lipid droplets

in foam cells and smooth

muscle

cells;

and type III

lesions,

grossly appearing

on

Sudan

IV

staining

as a

raised

fatty streak,

are

character-ized by

multiple

but small extracellular

lipid

cores as

well

as

lipid droplets

in

foam

cells and in

an

increasing

number

of smooth muscle

cells.

These

three types

of

lesions evolve

(1)

as a

result of chronic endothelial

injury

and risk

factors,

(2)

as

a

result of

an

increased vascular

permeabil-ity

to

lipids

and

monocyte-macrophages,

and

(3)

as a

result

of an

active smooth muscle cell

proliferative

response.

Chronic Endothelial

Injury

and Risk Factors

In

spontaneous

atherosclerosis,

the

tenet

is

that

chronic

minimal injury

to the

arterial endothelium is caused

mainly

by

a

disturbance

in

the

pattern

of blood

flow in

certain parts

of

the

arterial tree, such

as

bending

points

and areas

near

branching

vessels

(Fig

3).27

In

addition

to

(14)

hyper-La coronarografia permette una valutazione delle stenosi in termini di riduzione percentuale del diametro del vaso; attualmente, una stenosi coronarica è considerata emodinamicamente significativa se determina una riduzione del diametro luminale di oltre il 75%. Come dimostrato da Lance Gould31, stenosi coronariche sequenziali ciascuna inferiore al 50% oppure un restringimento diffuso del vaso possono produrre ischemia nei territori distali, quindi anche un vaso esente da stenosi emodinamicamente significative alla coronarografia può produrre ischemia miocardica. Inoltre l’importanza emodinamica di stenosi comprese tra il 40 e il 70% non è sempre chiara e può richiedere il ricorso al calcolo della fractional flow reserve (FFR), che rappresenta un indice funzionale utilizzato per valutare la severità funzionale della stenosi32-34.

Una stenosi del 60-70% della sezione vasale impedisce il pieno incremento del flusso per rispondere alle aumentate richieste miocardiche; se la stenosi riduce la sezione di oltre l’85-90%, si ha una riduzione del flusso anche in condizioni basali, e in questa situazione l’albero coronarico è costretto a impegnare gran parte della sua “riserva” per mantenere un apporto metabolico adeguato. Se la richiesta metabolica aumenta, il circolo coronarico non è più in grado di far fronte alle richieste, avendo esaurito la propria “riserva”, e quindi compare l’ischemia. Essa interessa inizialmente il versante di miocardico più suscettibile, quello subendocardico per poi via via interessare l’epicardio.

(15)

La placca vulnerabile

Generalmente le placche vanno incontro a un processo di evoluzione, aumentando progressivamente le loro dimensioni; tuttavia l’importanza clinica della placca va al di là dell’impatto emodinamico legato all’entità della stenosi. Anzi, il fattore più importante che correla con la gravità delle manifestazioni cliniche è rappresentato dal tipo di lesione, che riflette la diversa combinazione delle componenti della placca35. Quest’ultime possono essere riassunte in 3 gruppi: elementi cellulari (cellule muscolari lisce, macrofagi e altri leucociti), matrice extracellulare (collagene, fibre elastiche, proteoglicani, enzimi), depositi intra e extracellulari di lipidi.

La presenza di abbondante contenuto lipidico, elementi infiammatori (macrofagi) ed enzimi quali metalloproteinasi rappresentano gli elementi che configurano le lesioni vulnerabili o ad alto rischio36-38, cioè predisposte a complicazione (stadio VI della classificazione AHA), responsabili delle manifestazioni della CHD con maggior impatto in termini di mortalità, le sindromi coronariche acute.

Le complicanze che possono sopraggiungere su una placca e che configurano una lesione di tipo VI sono: 1) rottura, ulcerazione o erosione, con conseguente esposizione di materiale altamente trombogenico che innesca la formazione di trombi o la liberazione di microemboli; 2) trombosi, che generalmente si sovrappone a 1); 3) emorragia, in seguito a rottura della

(16)

cappa fibrosa sovrastante o di uno dei sottili capillari che vascolarizzano la placca, con possibile formazione di un piccolo ematoma che determinando espansione della placca può favorire la rottura; 4) lesioni aneurismatiche della parete, per atrofia della tonaca media, con perdita di tessuto elastico e indebolimento parietale.

Oltre agli aspetti meramente strutturali sopra esposti altri fattori quali lo stress indotto dalla pressione intraluminale (shear stress), il tono vasomotore coronarico, la tachicardia possono contribuire a tale processo39.

La rottura, l’ulcerazione o l’erosione della lamina fibromuscolare della placca (il cappuccio fibroso) determinano l’esposizione di sostanze che promuovono sia l’attivazione e l’aggregazione piastrinica che la cascata della coagulazione con formazione di trombina che culmina nella formazione del trombo40. E’ sufficientemente documentato che il fattore precipitante nella sindrome coronarica acuta è rappresentato dalla trombosi intracoronarica41, al punto che alcuni autori hanno definito il processo alla base delle sindromi coronariche acute (SCA) “aterotrombosi”42. Il fenomeno di trombosi può rimanere confinato o estendersi oltre la placca, provocando una riduzione del lume che si somma a quella causata dalla placca stessa. Se il trombo che si viene a formare è di tipo non occlusivo e/o transitorio, la rottura della placca può essere asintomatica o dar luogo a sintomi ischemici episodici (angina instabile); i trombi occlusivi determinano assenza acuta di flusso a valle della lesione con quadro d’infarto acuto del miocardio.

(17)

CAPITOLO 2 - SINDROMI CORONARICHE ACUTE

Classificazione e aspetti fondamentali

Per sindrome coronarica acuta (SCA) s’intende un quadro clinico imputabile a riduzione acuta del flusso sanguigno miocardico come conseguenza generalmente di una trombosi intracoronarica, effetto della complicazione (rottura o fissurazione) di una placca aterosclerotica vulnerabile (capitolo 1 – la placca vulnerabile).

Le SCA si dividono in due grandi gruppi, con patogenesi differente ma connessa: 1) infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST all’ECG (STEMI); 2) angina instabile/infarto miocardico acuto senza

sopraslivellamento del tratto ST all’ECG (UA/NSTEMI).

Questa suddivisione è importante in quanto presenta notevoli implicazioni terapeutiche: se nell’ UA/NSTEMI l’obiettivo del trattamento è rappresentato dalla risoluzione dell’ischemia e dei sintomi43, nello STEMI l’obiettivo del trattamento è rappresentato dalla ricanalizzazione coronarica e dalla riperfusione miocardica precoce44.

(18)

Tabella 2.1. Schema riassuntivo delle caratteristiche fondamentali delle sindromi coronariche

acute.

Nello STEMI il flusso è generalmente assente nel territorio di distribuzione della coronaria perché questa è ostruita da un trombo che occlude completamente il lume coronarico. Al contrario, nell’NSTEMI, alla rottura di una placca coronarica vulnerabile consegue la sovrapposizione acuta di un trombo che però va incontro a lisi prima che la necrosi si faccia transmurale; di conseguenza la necrosi è spesso limitata al terzo interno della parete miocardica (subendocardio) o comunque non si estende a tutto spessore nella parete ventricolare; la regione subendocardica è infatti quella meno efficacemente perfusa e quindi la più vulnerabile in caso di riduzione del flusso coronarico.

Angina instabile NSTEMI STEMI

Patogenesi

Grave ostruzione coronarica non totale o

occlusione totale reversibile

Rottura placca con trombosi (occlusione completa e

stabile)

Necrosi Assente o parcellare Subendocardica Transumurale

Marcatori di

necrosi Non aumentati Elevati Elevati

Alterazioni ECG

Alterazioni del tratto ST-T

(19)

Manifestazioni cliniche delle SCA: il dolore toracico

Il quadro clinico generale delle sindromi coronariche acute comprende: - Dolore toracico;

- Segni e sintomi di compromissione emodinamica (astenia, dispnea nei vari gradi, shock cardiogeno);

- Aritmie (conseguenti all’instabilità elettrica che l’ischemia determina) - Sincope (strutturale da deficit di pompa o aritmica);

- Segni e sintomi di stimolazione vagale (nausea, vomito), più frequentemente negli infarti della parete inferiore o diaframmatici.

Il dolore toracico, causa molto frequente di presentazione al pronto soccorso (PS) o di chiamata del servizio di emergenza (in alcuni studi circa 25% dei casi45,46), è correlato a un vastissimo spettro di patologie, con varia rilevanza clinica, ma pur sempre compromettenti la qualità di vita del soggetto per il disagio fisico e il coinvolgimento psicologico che ne deriva. Si rende quindi necessario eseguire un’ampia diagnosi differenziale (tabella 2.2) e identificare i pazienti con patologie ad alto rischio in termini di mortalità e morbilità, cioè che hanno bisogno di un trattamento immediato avendo “il fattore tempo” un ruolo centrale nel determinare la prognosi47.

Il pericolo di fronte a un soggetto con dolore toracico è commettere errori di valutazione, di sovrastima (con aumento delle ospedalizzazioni non

(20)

necessarie e quindi dei costi) o di sottostima (tassi di mortalità due volte più elevati nei soggetti con IMA erroneamente dimessi dal PS rispetto a ciò che si sarebbe osservato se fossero stati ricoverati48,49): rappresenta per il medico di pronto soccorso (ma non solo) una sfida diagnostica.

Tabella 2.2. Cause cardiache ed extracardiache di dolore toracico.

Dolore toracico cardiaco Dolore toracico non cardiaco

Ischemico

- Cardiopatia ischemica cronica - Sindromi coronariche acute

Non ischemico - Pericardite - Prolasso mitralico - Dissezione aortica Gastroenterico - MRGE - Spasmo esofageo - Ulcera peptica - Colecistopatia - Pancreatite Polmonare-pleurico - Embolia polmonare - Pneumotorace - Polmonite o pleurite - Neoplasia polmonare Mediastinico Neuromuscolare - Discopatia cervicale - Herpes zoster - Sindromi condrocostali e condrosternali

- Sindrome dello stretto toracico superiore

Psicogeno-psichiatrico

Il dolore toracico acuto di origine ischemica ha una connotazione tipica: è spesso descritto come un forte senso di oppressione o costrizione toracica

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(angina pectoris), con conseguente mimica del paziente (segno di Levine) e tipicamente cresce d’intensità in pochi minuti (ma essa varia in base al tipo di manifestazione e alla suscettibilità individuale del soggetto). E’ un dolore viscerale e come tale ha carattere diffuso (indicato spesso con la mano a piatto), localizzato prevalentemente (75% dei casi) in sede retrosternale bassa o medio-bassa, più raramente in sede precordiale, epigastrica, a livello della spalla destra o sinistra o a livello della regione dorsale interscapolare. Presenta spesso irradiazione lungo il versante ulnare dell’arto sinistro; più raramente l’irradiazione è a livello della spalla destra con estensione variabile al versante ulnare dell’arto superiore destro; sedi ancora meno frequenti d’irradiazione sono la base del collo, con senso di costrizione alla gola e coinvolgimento dell’angolo mandibolare e dei denti, l’emitorace destro, la regione epigastrica e la regione interscapolare.

E’ interessante notare come donne con IMA abbiano più frequentemente rispetto all’uomo una localizzazione a livello di dorso, collo e mandibola50-53. Inoltre è possibile anche avere una sintomatologia dolorosa isolata nelle sole sedi d’irradiazione e ciò può complicare notevolmente la diagnosi.

Nelle sindromi coronariche acute il dolore compare spesso imprevedibilmente (improvvisamente e/o a riposo), essendo precipitato da un’occlusione coronarica acuta, completa e stabile in caso di STEMI, incompleta o completa reversibile in caso di NSTEMI/UA.

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Il dolore che si associa all’infarto (presente nell’85% dei casi) ha una durata per definizione maggiore di 20 minuti (entro tale intervallo di tempo non è ancora presente la necrosi), non è alleviato dalla somministrazione di nitroglicerina s.l. e può far parte di un quadro clinico composito, con possibili segni e sintomi di scompenso cardiaco o aritmie.

La valutazione clinica del soggetto, pur rappresentando il cardine e il punto di partenza nella valutazione diagnostica e nella stratificazione prognostica non ha sufficiente sensibilità e specificità per identificare l’origine ischemica del dolore, potendo avere connotazioni atipiche o essere percepito in modo molto differente da soggetto a soggetto, che non consentono di escludere un’origine cardiaca di tipo ischemico54. A dimostrazione di ciò è importante sottolineare che non esiste nessuna correlazione tra la severità della sintomatologia soggettiva e la gravità della manifestazione e dell’outcome55; si consideri che circa il 15% degli IMA avviene in totale assenza di sintomi (infarto “silente”): in questi pazienti l’infarto miocardico è diagnosticato a posteriori, più o meno occasionalmente, mediante indagini strumentali (ECG, ecografia o scintigrafia) o in seguito ad una complicanza acuta che può compromettere la prognosi.

Sono state quindi delineate delle linee guida per avere un corretto approccio al paziente con dolore toracico in modo da ridurre gli errori di valutazione e

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indirizzare il soggetto nel giusto percorso diagnostico-terapeutico. Tuttavia, a oggi non esiste un algoritmo diagnostico universale affidabile applicabile nel paziente con dolore toracico. Il giudizio clinico permane il fattore più importante per il corretto inquadramento e per l’adeguata gestione del paziente.

In accordo con quanto stabilito dalla Task force on the management of chest

pain del 200256 la valutazione iniziale del soggetto con dolore toracico acuto deve basarsi su:

1. Esame clinico (anamnesi ed esame obiettivo): valutare innanzitutto lo stato emodinamico e respiratorio e, qualora fossero compromessi, iniziare subito un trattamento adeguato. Nel paziente stabile indagare sulle caratteristiche del dolore, eseguire una breve visita che valuti segni vitali e status cardiovascolare, focalizzando l’attenzione sulle condizioni potenzialmente fatali più comuni (IMA, embolia polmonare, dissecazione aortica). Sebbene le informazioni sui fattori di rischio coronarico possano aiutare il medico a valutare se il paziente ha una patologia coronarica a oggi esse hanno dimostrato una bassa capacità di stratificazione del rischio nei soggetti con dolore toracico acuto (ad eccezione forse dell’età), essendo la prognosi influenzata da altri fattori57.

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2. ECG standard a 12 derivazioni: esame di primo livello, essenziale negli adulti con dolore toracico acuto non dovuto a un’evidente causa traumatica e da eseguire entro 10 minuti dal primo contatto medico. Permette di identificare alterazioni elettrocardiografiche compatibili con ischemia o infarto miocardico; tuttavia un ECG normale non esclude la diagnosi di IMA avendo una sensibilità per ischemia di circa il 50%58. La prevalenza di IMA è pari all’80% tra i pazienti con 1 mm o più di sopraslivellamento del tratto ST di nuova comparsa e al 20% fra i pazienti con sottoslivellamento dell’ST o inversione dell’onda T non preesistenti. Tuttavia, se l’elettrocardiogramma non mostra alterazioni compatibili con ischemia il rischio di IMA è circa il 4% tra i pazienti con storia di coronaropatia nota e del 2% fra coloro che non hanno un tale precedente anamnestico59.

3. Marker biochimici di danno miocardico, con ruolo cardine delle troponine T e I cardiospecifiche nella diagnosi di sindrome coronarica acuta e nella stratificazione del rischio60,61. Esse sono i biomarcatori di necrosi più sensibili e specifici a oggi disponibili e un loro innalzamento è indicativo di IM. Tuttavia, elevazione delle troponine cardiache può verificarsi anche in altre condizioni non correlate a infarto miocardico: questo riflette l’alta sensibilità nell’identificare il danno miocardico e non devono essere considerate causa di falsi

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positivi; come conseguenza dell’elevata sensibilità è stato stabilito un cut off diagnostico per la diagnosi di infarto del miocardio pari all’aumento sopra il 99° percentile dell’intervallo di riferimento.

4. Esami di imaging (in casi selezionati): l’ecocardiografia per la rapidità di esecuzione e l’ampia disponibilità è il più importante ausilio diagnostico di imaging potendo aiutare la diagnosi differenziale con condizioni extracardiache da una parte e dare indicazioni riguardo importanti fattori prognostici (es. funzione sistolica ventricolo sinistro) dall’altra62.

Figura 2.1. Rappresentazione schematica del corretto approccio al paziente con dolore toracico da

sospetta sindrome coronarica acuta (tratto da ESC Guidelines for the management of acute

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Infarto miocardico acuto

Definizione e classificazione

Il termine infarto miocardico indica l’evidenza di necrosi miocardica che si verifica nell’ambito di un contesto clinico di ischemia miocardica prolungata. L’infarto del miocardio è quindi una sindrome clinica a carattere evolutivo che dalla lesione ischemica porta a un’alterazione anatomica miocardica irreversibile; tale situazione si manifesta con disturbi (della meccanica, della conduzione e dell’emodinamica) che definiscono il quadro clinico.

Sono diverse le modalità che possono contribuire alla diagnosi: patologica (evidenza di necrosi dei miocardiociti), biochimica (incremento tipico e significativo dei marker di necrosi miocardica), elettrocardiografica (variazioni elettrocardiografiche suggestive di nuova ischemia e/o di evidenza di perdita di tessuto cardiaco elettricamente funzionale), imaging (nuove alterazioni della cinesi parietale e/o nuovi deficit irreversibili di perfusione), e infine, ma non in ordine di importanza, clinica (anamnesi ed esame obiettivo suggestivi).

E’ importante ricordare/sottolineare che la sensibilità e la specificità dei diversi strumenti clinici per la diagnosi di IM cambiano considerevolmente, non è assoluta e varia con il tempo dopo l’esordio dell’infarto.

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Le ultime linee guida della Società Europea di Cardiologia, della American Heart Association e della American College of Cardiology63 hanno recentemente rielaborato i criteri per la diagnosi di infarto miocardico acuto, rimarcando il ruolo chiave della troponina (cTn) quale biomarcatore sensibile in grado di svelare lo sviluppo di necrosi miocardica, in un contesto clinico compatibile.

Secondo l’attuale definizione universale di IMA, la diagnosi può essere posta in presenza di un incremento e/o decremento dei marcatori cardiaci (preferibilmente la cTn) con almeno un valore al di sopra del 99° percentile dell’intervallo di riferimento e almeno una delle condizioni seguenti:

• Sintomi d’ischemia miocardica;

• Modificazioni elettrocardiografiche di nuova comparsa indicative

d’ischemia (alterazioni del tratto ST-T o blocco di branca sinistra di nuova insorgenza);

• Sviluppo di onde Q patologiche all’ECG;

• Evidenza all’imaging di nuova perdita di miocardio vitale o nuove

anomalie della motilità regionale;

• Identificazione mediante esame angiografico o autoptico di un trombo

intracoronarico.

Diversamente, per la diagnosi d’infarto miocardico pregresso:

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assenza di cause non ischemiche;

• Evidenza all’imaging di una perdita di vitalità e di contrattilità

regionale miocardica, in assenza di cause non ischemiche; • Reperti anatomopatologici di precedente infarto miocardico.

La classificazione dell’infarto può essere fatta secondo diversi criteri.

La classificazione universale considera, sulla base di differenze patologiche, cliniche, prognostiche e di strategie terapeutiche, sei tipi di infarto:

• Tipo 1: infarto miocardico spontaneo associato alla complicazione di

una placca vulnerabile che esita in una trombosi intraluminale con conseguente riduzione del flusso di sangue in una o più arterie coronarie o provoca una embolizzazione distale.

• Tipo 2: infarto legato a squilibrio tra offerta e domanda miocardica di

ossigeno secondario a condizioni quali disfunzione endoteliale coronarica, spasmo arterioso coronarico, embolizzazione coronarica, tachi/bradiaritmie, anemia, insufficienza respiratoria, ipotensione e ipertensione con o senza ipertrofia ventricolare sinistra.

• Tipo 3: morte cardiaca improvvisa, inaspettata, spesso con sintomi

suggestivi di ischemia miocardica, e accompagnata da presumibile sopraslivellamento del tratto ST o BBsx di nuova insorgenza ma in cui la morte si manifesta prima del prelievo dei campioni ematici per la valutazione dei marker cardiaci o prima che essi compaiano nel sangue.

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• Tipi 4a, 4b e 5: infarti associati a procedure di rivascolarizzazione

(periprocedurali): 4a) secondario a angioplastica coronarica (PTCA), 4b) secondario a trombosi intrastent documentata al controllo angiografico o all’autopsia, 5) correlato a intervento bypass aortocoronarico (BPAC).

Secondo rilievi elettrocardiografici possiamo identificare con buona approssimazione la sede della lesione e la sua estensione intramurale; questi aspetti, impattando sulla prognosi sia in acuto sia per le potenziali complicanze, hanno portato a classificare l’infarto in base alle alterazioni del tratto ST-T: NSTEMI e STEMI (figura 2.2). E’ bene ribadire come tale distinzione, oltre ad avere una valenza per la stratificazione prognostica, sia importante anche per la decisione terapeutica.

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In passato, la presenza di onde Q di necrosi era associata esclusivamente a STEMI (come segno di IMA transmurale), mentre si pensava che l’infarto subendocardico non producesse onde Q. Accurati studi di correlazione tra ECG e quadri patologici hanno indicato invece che infarti transmurali possono manifestarsi senza onde Q e che infarti subendocardici possono alcune volte essere associati a onde Q; quindi, la presenza di onde Q all’ECG non permette di distinguere in maniera affidabile tra IM transmurale e non transmurale (subendocardico)64; per questo motivo gli infarti sono attualmente indicati come “Q” e “ non Q” in aggiunta alla dicitura STEMI e NSTEMI (figura 2.3).

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Fattore tempo e modificazioni istologiche

Gli aspetti macroscopico e microscopico dell’area infartuata variano in base al tempo passato dall’insorgenza dell’ischemia65-67. La morte cellulare si verifica dopo circa 20 minuti dall’interruzione acuta e totale del flusso: tale tempo rappresenta un tempo limite entro il quale tutte le alterazioni sono reversibili. Trascorsi i 20 minuti compare un danno irreversibile che dipende dalla durata dell’occlusione, dalla domanda di ossigeno e dalla presenza, estensione e efficienza di circoli collaterali.

L’infarto non si manifesta simultaneamente in tutta l’area a rischio ma evolve secondo una particolare sequenza temporale e spaziale: la necrosi inizia sul versante endocardico della parete, nella zona centrale dell’area a rischio, per poi estendersi progressivamente verso la periferia e verso la superficie epicardica68. Tra i 20 e i 90 minuti dall’occlusione le alterazioni irreversibili evolvono rapidamente, andando a interessare la maggior parte dell’area a rischio nell’arco di 1-2 ore. Intervenendo in tale finestra temporale si può salvare e avere un buon recupero di miocardio. Dopo i 90 minuti si ha una perdita di vitalità che diviene totale in 6-12 ore. Vi è quindi un periodo di tempo piuttosto limitato per intervenire efficacemente ripristinando una normale perfusione al fine di ridurre l’estensione della necrosi. L’andamento temporale della necrosi è tale per cui la quota di miocardio danneggiata in maniera irreversibile cresce rapidamente nelle fasi iniziali per raggiungere un

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plateau dopo 3-4 ore. Le fasi iniziali sono perciò quelle più critiche e solo nelle prime 1-2 ore muore il 60% dell’area a rischio e per questo la gestione dell’infarto rappresenta una vera e propria corsa contro il tempo: quanto prima si interviene tanto maggiore è la quota di tessuto salvabile69,70.

In figura 2.4 è rappresentata l’evoluzione del fronte d’onda della necrosi dal versante subendocardico a quello subepicardico e dal centro alla periferia dell’area interessata.

Figura 2.4. Fronte d’onda della necrosi in assenza di circoli collaterali

(modificata da Kloner RA, Jennings RB. Circulation 2001; 104:2981).

La sede dell’infarto è correlata alla coronaria occlusa mentre la sua estensione, in assenza di altri fattori, dipende dal punto in cui l’occlusione è avvenuta (quanto più prossimale tanto maggiore è l’estensione); quindi, conoscendo il territorio di distribuzione dei vasi coronarici, in base a ECG e/o

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ecocardiografia possiamo identificare con buona approssimazione quale coronaria è interessata e a quale livello.

Si distinguono infarti apicali, anteriori, antero-settali, anteriori estesi, laterali, antero-laterali, inferiori, infero-laterali, posteriori. Circa il 50% dei pazienti con infarto inferiore ha un coinvolgimento del ventricolo destro71; quasi sempre l’infarto del ventricolo destro si associa a infarto del ventricolo sinistro ma è isolato nel 3-5% dei casi; esso si associa a un coinvolgimento della coronaria destra indipendentemente dall’interessamento del ventricolo sinistro. Tuttavia, l’infarto del ventricolo destro è più raro di quanto si potrebbe prevedere dalla frequenza di lesioni occlusive della coronaria destra. Questo può essere spiegato in vari modi: 1) per la minor richiesta basale di ossigeno (infatti l’infarto si verifica più spesso in presenza di condizioni che aumentano il fabbisogno quali ipertensione polmonare e ipertrofia ventricolare), 2) per la presenza di un circolo collaterale più sviluppato rispetto al sinistro, 3) per il minor spessore di parete che permette un nutrimento più efficace da parte del sangue contenuto nella cavità ventricolare destra. In definitiva il ventricolo destro tollera meglio l’ischemia.

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Fisiopatologia dello STEMI

Dopo l’interruzione del flusso coronarico, la zona di miocardio interessata dalla necrosi perde le proprie proprietà meccaniche, con lo sviluppo sequenziale di 4 anomalie contrattili: dissincronia, ipocinesia, acinesia, discinesia72,73. Nel miocardio sano circostante si sviluppa invece un’ipercinesia temporanea (che si risolve nell’arco di due settimane circa), probabilmente come meccanismo compensatorio, anche se tale meccanismo è in parte inefficace perché causa della discinesia nella zona infartuata.

Se una determinata quantità di miocardio è compromessa la funzione di pompa dell’intero ventricolo si deteriora: si riducono la portata cardiaca, la gittata sistolica (in parte compromessa dalla dilatazione sistolica paradossa dell’area infartuata), la pressione arteriosa, l’incremento massimale di pressione in funzione del tempo (dP/dt) e aumenta il volume telesistolico. L’entità di aumento del volume telesistolico è tra i fattori predittivi di mortalità più significativi in caso di STEMI74.

Esiste una stretta relazione tra la percentuale di massa ventricolare sinistra interessata dall’infarto (estensione della necrosi) e conseguenze sulla meccanica cardiaca, emodinamiche e cliniche. Una necrosi < 10 % (infarto di piccole dimensioni) non determina anomalie della cinesi globale, ad eccezione di una riduzione della distensibilità diastolica, l’anomalia più precoce che si osserva in infarti che interessano solo l’8% della massa

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ventricolare sinistra; una necrosi tra il 10-25 % (infarto di medie dimensioni) comporta una diminuzione della frazione di eiezione ventricolare sinistra di entità variabile e se maggiore del 15 % si verificano i presupposti per il rimodellamento ventricolare; invece una necrosi > 25 % (infarto di grandi dimensioni) determina uno scompenso cardiaco clinicamente manifesto e se interessa più del 40% della massa miocardica si ha shock cardiogeno.

La funzione ventricolare, in assenza di estensione dell’infarto, migliora durante la guarigione per il recupero di funzione del miocardio stordito. Se tuttavia persistono anomalie della cinesi parietale nel 20-25% di miocardio il soggetto verosimilmente presenterà insufficienza ventricolare sinistra.

Anche la funzione diastolica è compromessa nel miocardio infartuato, con aumento iniziale della pressione telediastolica: il deficit di rilasciamento diastolico è la prima anomalia contrattile a seguito dello STEMI. La pressione telediastolica scende nel corso di alcune settimane a spese di un aumento del volume. Come per la funzione sistolica, uno dei determinanti principali del danno della funzione diastolica è rappresentato dalle dimensioni dell’infarto.

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Percorso diagnostico dello STEMI

Nonostante i progressi nella diagnostica strumentale, l’esame clinico mantiene un ruolo importante nella fase diagnostica. Come affermato in precedenza, l’elemento principale del quadro clinico alla base del sospetto di STEMI è il dolore toracico, presente in circa l’85% dei casi. Tuttavia, in una discreta quota di soggetti, che in alcuni registri arriva al 30%, la sintomatologia è atipica75. In particolare, in alcune categorie di pazienti quali gli anziani, i diabetici76, gli ipertesi e i soggetti senza precedente angina pectoris, può non manifestarsi con dolore toracico ma direttamente con sintomi d’insufficienza ventricolare sinistra o passare misconosciuto (IMA silente) e/o essere diagnosticato in base alle anomalie elettrocardiografiche che residuano a distanza di tempo dall’evento. Frequentemente il dolore si associa a: nausea e vomito, astenia, vertigini, palpitazioni, dispnea, sudorazione fredda e senso di morte imminente. Quando il dolore si localizza a livello epigastrico e quando si associano sintomi quali nausea e vomito il quadro clinico può essere confuso con una patologia addominale.

Gli elementi obiettivi rilevabili in un paziente con STEMI sono riassunti in tabella 2.3. A tal riguardo, di particolare importanza è la classificazione di Killip (1967)77: tale classificazione (tabella 2.4), basata su criteri clinici, considera 4 classi (in base alla presenza o meno di terzo tono cardiaco e alla

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presenza ed estensione sui campi polmonari dei rantoli) e correla con la prognosi. Nonostante i miglioramenti in termini di mortalità in tutte le classi, come evidenziato da numerosi studi nel corso degli anni78-82, continua oggi ad assumere un significato importante nella valutazione prognostica del paziente con STEMI e rappresenta un criterio per la definizione di STEMI ad alto rischio.

Tabella 2.3

OBIETTIVITÀ GENERALE

Agitazione psicomotoria

Frizione del torace e pugno contro lo sterno (segno di Levine) Sudorazione fredda e pallore cutaneo

Tosse con escreato schiumoso, roseo o striato di sangue (in caso di edema polmonare) Cute marezzata (in presenza di shock cardiogeno)

Reazione febbrile aspecifica (compare entro 24-48 h e si risolve in 4°-5° giornata).

OBIETTIVITÀ CARDIOVASCOLARE E RESPIRATORIA

Pressione arteriosa: Nei soggetti con STEMI non complicato è generalmente normale, con una risposta

ipertensiva iniziale; ipotensione può verificarsi negli infarti inferiori. Nei soggetti con shock per definizione Psist < 90 mmHg

Polso arterioso: Generalmente tachicardico, piccolo, debole. In caso di infarti con stimolazione vagale è

invece bradicardico e se presente insufficienza ventricolare sinistra può essere alternante.

Respiro: Frequente tachipnea, che può avere due origini, effetto dell’ansia o legata alla disfunzione

ventricolare sinistra. Nei soggetti anziani e in shock può essere presente respiro di Cheyne-Stokes.

Auscultazione cardiaca:

• Negativo (non infrequentemente)

• I tono debole (minor escursione delle valvole AV per aumento del volume telesistolico) • Sdoppiamento paradosso del II tono (in caso di insufficienza ventricolare sx o BBS) • Galoppo atriale (conseguente la riduzione della compliance ventricolare sinistra) • Galoppo ventricolare (espressione di insufficienza ventricolare sinistra)

• Soffio sistolico apicale da rigurgito mitralico • Soffio sistolico mesocardico da perforazione del SIV • Sfregamenti pericardici (in genere evidenti in 2°-3° giornata)

• Aritmie (nel 95% dei pazienti sono presenti battiti prematuri ventricolari entro 4 h dall’esordio)

Auscultazione toracica:

• Negativa

• Rantoli crepitanti/subcrepitanti (espressione di aumento acqua extravascolare polmonare per effetto dell’aumento della pressione telediastolica che si ripercuote a monte del ventricolo sinistro)

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Tabella 2.4. Classificazione di Killip.

Classe Clinica Mortalità

I Assenza di rantoli sui campi polmonari e di S3 6-8 % II Rantoli presenti < 50% campi polmonari +/- S3 30% III Rantoli presenti > 50% campi polmonari (frequente edema polmonare) 44%

IV Shock cardiogeno 80-100%

L’elettrocardiogramma a 12 derivazioni rappresenta uno strumento essenziale nel percorso diagnostico dello STEMI83,84. L’alterazione caratteristica è rappresentata dal sopraslivellamento del tratto ST, indicativo di “stato di lesione” subepicardico, espressione di corrente di lesione diastolica e classificabile in tre gradi (figura 2.5).

Figura 2.5. Gradi di sopraslivellamento del tratto ST: grado I (punto J sopraslivellato

senza deformazione del QRS), grado II (parziale deformazione del QRS), grado III (totale deformazione del QRS: sopraslivellamento ingloba branca discendente QRS, segmento ST e onda T e prende il nome di onda monofasica di Pardee, patognomonica di STEMI e presente nelle prime fasi successive all’infarto).

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Nello STEMI è possibile individuare un’evoluzione tipica delle modificazioni ECG, sebbene queste possano comparire interamente o in parte. Quanto più consueta sarà l’evoluzione di tali modificazioni tanto più potremo essere sicuri della diagnosi e del tempo trascorso dall’inizio dell’infarto.

Tuttavia bisogna tenere presente che i segni elettrocardiografici non sono stabili (la necrosi miocardica è fenomeno dinamico che evolve nel tempo per cui le alterazioni ECG si modificano di conseguenza in base all’evoluzione dell’infarto), che la sensibilità non è assoluta (un ECG normale o non diagnostico non esclude lo STEMI) e che molte situazioni possono causare un sopraslivellamento ST (es. pericardite acuta, aneurisma ventricolare sinistro, angina di Prinzmetal, sindrome di Brugada)85.

Inoltre l’ECG non ha una valenza solamente diagnostica ma permette:

- L’identificazione approssimativa della sede dell’infarto, del vaso colpevole e del livello di ostruzione;

- La stima della dimensione dell’infarto;

- La stratificazione prognostica: l’estensione e l’entità del

sopraslivellamento ST, l’infarto in sede anteriore, la durata del QRS hanno valenza prognostica negativa86,87;

- La selezione dei soggetti candidati a una strategia riperfusiva;

- La valutazione del successo e del grado della riperfusione88,89: l’entità e la

velocità di risoluzione del sopraslivellamento dopo trattamento riperfusivo sono espressione d’integrità del microcircolo e correlano con

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gli indici TIMI (thrombolysis in myocardial infarction) e MBG (myocardial blush grade). Di contro, una persistenza o risoluzione inferiore al 50-70 % del sopraslivellamento rispetto al basale ad un’ora dal trattamento è un attendibile indicatore di mancata riperfusione sia dopo PTCA che dopo terapia trombolitica90-92).

I criteri elettrocardiografici di STEMI63 che indirizzano verso il trattamento riperfusivo sono:

- Sopraslivellamento del tratto ST in almeno due derivazioni contigue; - Blocco di branca sinistra (BBS) di nuova insorgenza;

- Sottoslivellamento in V1-V3 (STEMI posteriore).

Esistono diverse situazioni clinicamente suggestive di STEMI in cui la presentazione elettrocardiografica è atipica e che richiedono un’attenzione particolare:

- Blocco di branca sinistra: può mascherare il sopraslivellamento ST per cui necessita di una corretta interpretazione93-95; se il BBS è pregresso o di origine incerta in assenza di alterazioni del tratto ST la diagnosi è supportata dal test della troponina e dal contesto clinico;

- Pacing ventricolare: può inficiare la corretta interpretazione delle alterazioni del tratto ST e richiedere direttamente la valutazione invasiva;

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- ECG non diagnostico (normale o con alterazioni aspecifiche): l’esecuzione di tracciati seriati può evidenziare la comparsa in un secondo momento di alterazioni diagnostiche, altrimenti l’indicazione a eseguire coronarografia è supportata da contesto clinico, biomarcatori ed eventuali reperti ecocardiografici;

- Infarto posteriore isolato: la presenza di un sottoslivellamento ≥ 0,05 mV in V1-V3 è suggestivo di STEMI della porzione infero-basale. In tal caso è raccomandata la registrazione delle derivazioni che esplorano tale regione (V7-V9) per identificare il sopraslivellamento;

- Sopraslivellamento ST isolato in aVR: tale reperto in aggiunta a un marcato sottoslivellamento (> 0,1 mV in otto o più derivazioni) e a compromissione emodinamica del soggetto suggerisce uno STEMI da occlusione del tronco comune della coronaria sinistra o da interessamento multivasale.

In definitiva, nei casi dubbi, l’esecuzione di ECG seriati e la registrazione di derivazioni addizionali in determinate situazioni96 possono aumentare la capacità diagnostica dell’elettrocardiogramma.

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Oggi, in considerazione del fatto che le alterazioni elettrocardiografiche tipiche di STEMI si osservano solo nella metà dei casi, che circa il 25% dei soggetti non ha dolore toracico tipico, che meno del 25% dei soggetti ricoverati per dolore retrosternale ha poi uno STEMI, la misurazione seriata di marcatori sierici ha un ruolo fondamentale nello stabilire o escludere la diagnosi. Essi sono proteine intracellulari liberate in seguito alla perdita d’integrità della membrana cellulare del miocardiocita; rilevano quindi la presenza di un danno miocardico. Si ritrovano nel siero con rapidità variabile, raggiungono un picco e poi ritornano ai valori basali in funzione della cinetica del singolo marcatore (tabella 2.5).

Il marker ideale dovrebbe essere dotato di elevata sensibilità (cioè comparire precocemente in seguito a un danno minimo e livelli sierici con una relazione stechiometrica nei confronti dell’estensione del danno), avere specificità nei confronti del tessuto miocardico, avere un’elevazione moderatamente persistente dei livelli circolanti (ampia finestra diagnostica), basso costo dell’esame, esecuzione semplice e rapida, ottenimento veloce dei risultati97.

Tabella 2.5. Cinetica dei principali biomarcatori sierici di danno miocardico.

CK-MB Troponine cardiache Mioglobina

Latenza di comparsa di valori

anomali dai sintomi 3-8 ore 3 ore 0-3 ore

Picco 10-30 ore 15-25 ore 16-18 ore

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In passato sono stati utilizzati biomarcatori quali LDH, miosina, transaminasi AST/SGOT, in seguito abbandonati per la scarsa utilità diagnostica (bassa specificità e aumento tardivo).

Per molto tempo il marker di riferimento è stata la creatinchinasi (CK), e ancora oggi rappresenta il marcatore con cui vengono confrontati tutti i potenziali indicatori di danno miocardico proposti. La CK nonostante sia un sensibile rilevatore enzimatico di IM ha scarsa specificità per il tessuto miocardico generando un elevato numero di falsi positivi, ritrovando nel siero valori sopra la norma in presenza di numerose condizioni patologiche e non (patologie muscolari, intossicazione alcolica, diabete mellito, convulsioni, embolia polmonare, attività fisica vigorosa, iniezioni intramuscolari per citarne alcune). L’introduzione della misurazione dell’isoenzima MB della CK ha aumentato il suo valore diagnostico: livelli particolarmente elevati di CK-MB possono essere considerati, a scopo clinico pratico, il risultato di un infarto miocardico (eccetto in caso di trauma o intervento chirurgico sul medesimo organo). Livelli più bassi possono ritrovarsi anche in condizioni non cardiache (una quota pari a 1-3% di CK-MB è presente nel muscolo scheletrico); per tale motivo, nonostante non vi siano evidenze fisiologiche e l’accuratezza non sia assoluta, la valutazione del rapporto tra CK-MB e CK totale è un indice che può chiarire l’interpretazione: valori > 2,5 % sono suggestivi di danno miocardico98.

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Il marker che più si avvicina ai criteri di marker ideale è la troponina: essa è un complesso proteico che regola la contrazione muscolare ed è formato da tre subunità (TnC, TnI, TnT). Grazie ad anticorpi monoclonali si possono identificare le isoforme cardiospecifiche delle troponine I e T. La specificità nei confronti del miocardio delle cTnI e cTnT è del 100% (in realtà la cTnT ha specificità leggermente inferiore potendo aumentare anche in caso di malattie muscolari scheletriche, connettivopatie e malattia renale99,100) e questo le configura attualmente come i biomarker preferiti per la diagnosi di IM101-103. Anche la sensibilità è elevata (e maggiore della CK-MB: le cTn sono in grado di riconoscere episodi di necrosi miocardica che sono al di sotto delle capacità di riconoscimento della CK-MB, tanto che in tali situazioni si parla di microinfarto104) e possiedono un’ampia finestra diagnostica: compaiono entro 3 ore dal danno, con picco a 15-25 ore e ritornano nei limiti della norma dopo circa 7 giorni. La persistenza prolungata dei livelli ematici è vantaggiosa per la diagnosi tardiva d’infarto.

L’elevatissima sensibilità in associazione alla specificità per miocardio ma non per infarto ha stabilito la necessità di definire un cut off diagnostico, pari a un valore al di sopra del 99° percentile rispetto a un gruppo di controllo di riferimento105,106. Tipicamente in caso di STEMI aumentano venti volte oltre l’intervallo di riferimento. In accordo con la necessità di abbreviare i tempi decisionali (“il tempo è muscolo”) le troponine cardiache presentano anche la possibilità di un rapido dosaggio qualitativo al letto del malato, con risultati in

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stretto accordo alle misurazioni derivanti dalla valutazione immunoenzimatica standard107-109.

Un altro indicatore che merita di essere ricordato è la mioglobina, proteina citosolica presente nel muscolo scheletrico e cardiaco: l’interesse verso tale proteina deriva dalla rapidità di comparsa in circolo in seguito al danno miocardico raggiungendo valori anomali entro 30 minuti. Tuttavia la bassa specificità per il tessuto miocardico non la configura come marker diagnostico ideale e la sua misurazione deve essere accompagnata da marker cardiaci più specifici (cTn).

E’ essenziale che la misurazione dei marker sia ripetuta a intervalli di tempo perché l’accuratezza diagnostica dei singoli dosaggi è scarsa e notevolmente influenzata dal tempo trascorso dalla comparsa dei sintomi110.

Il dosaggio dei biomarker di necrosi ha assunto oggi anche un valore prognostico (in particolare per la troponina111,112), direttamente legato ai valori di picco raggiunti e alla quantità totale liberata del marcatore, che correla con le dimensioni dell’infarto.

La costruzione della curva enzimatica è quindi fonte d’importanti informazioni. Bisogna però fare una precisazione: valori di picco più elevati e precoci si ottengono in caso di rivascolarizzazione ma i livelli decadono più precocemente e la quantità totale liberata è inferiore. Quindi la rivascolarizzazione interferisce con la valutazione prognostica basata sui marcatori e ne va tenuto di conto nell’interpretazione113,114.

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Tra le tecniche di imaging, per la rapidità di esecuzione e per la sua sempre più ampia disponibilità, l’ecocardiografia rappresenta oggi un valido ausilio diagnostico nel soggetto con STEMI anche nella fase acuta, a patto che l’esecuzione non sia responsabile di ritardo del trattamento62.

Essa consente di identificare e quantificare in modo semiquantitativo le anomalie della cinesi parietale e le alterazioni in termini di spessore del miocardio infartuato, caratterizzandolo in sede ed estensione, di valutare la funzione ventricolare sinistra e, attraverso la tecnica doppler, di dare indicazioni circa la presenza e la gravità di eventuali complicanze meccaniche, quali insufficienze valvolari e rottura di cuore.

Rappresenta uno strumento che permette, qualora disponibile, non solo una conferma diagnostica ma può favorire la diagnosi precoce di infarto, la diagnosi delle complicanze meccaniche dell’infarto e svolgere un ruolo decisionale determinante nelle situazioni di clinica compatibile per STEMI ma ECG non diagnostico e nelle situazioni con sospetto coinvolgimento infartuale del ventricolo destro, la cui diagnosi secondo criteri clinici e elettrocardiografici può risultare molto complessa.

Inoltre, la stima della funzione ventricolare sinistra attraverso il calcolo della frazione di eiezione si correla bene con le informazioni ottenute all’angiografia e contribuisce alla valutazione prognostica.

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