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I partiti politici nell'ordinamento italiano: criticita e prospettive alla luce delle vicende piu recenti

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Corso di Laurea Magistrale

“I partiti politici nell'ordinamento italiano: criticità e

prospettive alla luce delle vicende più recenti.”

Il candidato Il relatore

Valentina Benedetti

Chiar.mo Prof. Francesco Dal Canto

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Alla mia famiglia,

A Nuvola e Merlino.

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Introduzione

Lo scopo di questa tesi è quello di fare un excursus sul sistema dei partiti politici italiani partendo da una ricostruzione storico-giuridica della sua evoluzione per arrivare a discutere dei problemi attuali e dei possibili scenari futuri.

Ho iniziato questo mio lavoro cercando di definire l'evoluzione del sistema partitico dai lavori dell'Assemblea Costituente ad oggi ricostruendo il dibattito costituzionale relativo all'inquadramento da dare ai partiti politici e all'analisi approfondita delle norme a essi relative.

E' indubbio che l'esperienza dei partiti politici abbia costituito dal Novecento in poi l'approdo politico più avanzato nell'organizzazione dei sistemi democratici. Sono stati proprio essi, insostituibile anello di congiunzione tra il potere costituente e il potere costituito, ad aver innovato l'organizzazione degli Stati ponendo finalmente a contatto i cittadini con le istituzioni.

I lavori dell'Assemblea Costituente, analizzati all'interno del primo capitolo mettono in luce come tutte le forze partitiche avessero ben chiaro che il Fascismo aveva negato il pluralismo partitico. Per questo nell'immediato dopo guerra la maggior preoccupazione dei costituenti fu proprio l'affermazione di quel principio negato anche con l'opzione per il “metodo democratico”. Questo emerge chiaramente dalla formulazione definitiva, che emerse dopo i dibattiti interni all'Assemblea Costituente, della norma cardine relativa ai partiti politici ovvero l'Art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Dopo questa prima parte ho analizzato l'evoluzione che hanno subito i partiti politici dagli anni Novanta fino ai giorni nostri.

Questa è indubbiamente legata alla vicenda giudiziaria nota come “Tangentopoli” che ha portato una vera rivoluzione nel sistema partitico Italiano. Con la scomparsa di vecchi partiti, che hanno animato per anni la politica Italiana (come esempio la DC è stata spazzata via dalle indagini giudiziarie) e la nascita di nuovi partiti meno legati all'ideologia più

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flessibili e alla ricerca del consenso.

La tesi entra nel vivo del ragionamento analizzando due dei principali problemi legati ai partiti politici: il divieto di mandato imperativo e il finanziamento pubblico ai partiti.

Per quanto riguarda il divieto di mandato imperativo, affrontato nel secondo capitolo, il dibattito costituzionale ha portato alla nascita dell'Art 67 che è uno dei più brevi articoli della Carta costituzionale dedicato proprio a questo divieto: “Ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

All'interno del capitolo ho analizzato questo principio sia in rapporto ai partiti politici sia in rapporto ai gruppi parlamentari. In riferimento a questi ultimo ho approfondito il fenomeno del “trasfughismo parlamentare” ovvero il passaggio nel corso della legislatura di deputati e senatori dal gruppo politico del partito per cui sono stati eletti ad un altro. Questo fenomeno, sempre più in ascesa, è forse uno degli aspetti che più rappresenta la crisi del sistema partitico-costituzionale.

Un altro tema trattato è quello del “Recall”, l'istituto per cui mediante votazione popolare si possono rimuovere dal loro ufficio prima delloo spirare del termine persone investite di cariche statali o locali, e dell'ipotesi di una sua possibile applicazione in Italia, che a mio giudizio non è da escludere. Concludendo ho voluto dedicare un paragrafo ad un nuovo e importante soggetto della politica italiana ovvero il Movimento Cinque Stelle. Quest'ultimo riguardo al tema del divieto di mandato imperativo e riguardo a quello del finanziamento pubblico ai partiti ha assunto posizioni particolari e di “rottura” rispetto ai partiti tradizionali.

Il terzo capitolo della tesi è dedicato all'analisi dettagliata delle varie leggi che si sono susseguite riguardo al tema del finanziamento pubblico ai partiti. Partendo dalla legge n. 195 del 1975, che per la prima volta introdusse il finanziamento pubblico diretto, passando per la legge 659/1981 che modificò la precedente e di fatto consolidò il sistema aumentando l'entità dei contributi pubblici. Il sistema creato da queste due leggi è andato avanti fino al referendum del 1993 che con 90, 3% dei favorevoli portò

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l'abrogazione dell'articolo 3 e dell'articolo articolo 9 della legge 195 del 1975. Questi articoli riguardano il finanziamento pubblico per l'attività ordinaria dei partiti mentre rimasero in vigore le disposizioni riguardanti il contributo per le spese elettorali.

Successiva al referendum è la legge 515 del 1993 e dopo qualche anno fu approvata la legge 2 del 1997, che destò non poche polemiche, fino alla legge 157 del 1999 che segnò nella sostanza il ritorno al finanziamento pubblico diretto.

Il capitolo poi continua con le riforme più recenti ovvero la legge n. 96 del 2012 e il Decreto legge n. 149 del 2013, poi convertito nella legge 13 del 2014 che comporterà una progressiva eliminazione del finanziamento pubblico che culminerà nel 2017.

Il cuore della tesi è quindi rappresentato dall'analisi di questi due temi . Pur consapevole che non siano gli unici problemi che attanagliano i nostri partiti ho deciso di concentrarmi su questi proprio perché li ritengo molto attuali e interessanti e penso che in futuro qualsiasi siano le evoluzioni della politica non si possa prescindere da confrontarsi con essi.

In tema di fonti che sono state importanti per la buona riuscita del mio lavoro mi sento di citare, limitandomi per ragioni di sintesi a ricordare solo le più importanti. Per quanto riguarda il primo capitolo “I partiti e la democrazia” di Salvatore Buonfiglio. Per il secondo capitolo il libro “Contributo allo studio sul divieto di mandato imperativo” di Luca Pedullà e per il terzo capitolo il libro “Il finanziamento pubblico dei partiti” di Francesca Biondi.

Altrettanto interessanti e importanti per il mio lavoro sono stati anche i vari saggi che ho avuto la possibilità di visualizzare grazie ai siti specifici di diritto costituzionale come “i quaderni costituzionali.it” e i “federalismi.it”.

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Capitolo I

I partiti nella costituzione: dai Partiti di ideologia ai

“partiti personali”

1 L'inquadramento costituzionale dei partiti

1.1 Dai lavori della Costituente al testo definitivo della Costituzione del 1948.

In ogni epoca storica e in ogni comunità la lotta per il potere ha portato alla creazione di gruppi in competizione fra di loro.

Antichissima è quindi l'origine dei partiti, più recente è la loro vicenda costituzionale.

Fra le novità più importanti del dopoguerra infatti vi è la rilevanza costituzionale dei partiti politici.

Dopo l'esperienza del fascismo che aveva negato il pluralismo la maggior preoccupazione dei costituenti fu quella di affermare questo principio.

Nella nostra costituzione il richiamo ai partiti politici è contenuto in due disposizioni: nell'Art. 49 norma generale e cardine, e nell'Art. 98 che prevede la possibilità di limitare, tramite una riserva di legge, l'iscrizione ai partiti politici a determinate categorie di soggetti.

A questi due articoli bisogna poi ricollegare la XII disposizione transitoria e finale in forza della quale è “vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

La norma principale è Art.49 frutto di un dibattito svolto in assemblea costituente dove furono presentate due diverse proposte.

La prima di iniziativa degli onorevoli Umberto Merlin (democristiano) e Pietro Mancini (socialista) era così formulata:

“I cittadini hanno diritto di organizzarsi in partiti politici che si formino con metodo democratico e rispettino la dignità e la personalità umana, secondo i principi di libertà e uguaglianza. Le norme per tale organizzazione saranno dettate con legge particolare.”1

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La seconda presentata dall'onorevole Lelio Basso(socialista) era invece così strutturata:

“Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico, allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del paese. Ai partiti politici che nelle votazioni pubbliche hanno raccolto non meno di cinquecentomila voti sono riconosciute, fino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere costituzionale a norma di questa costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi.2

La prima proposta prevedeva sostanzialmente il controllo di organi costituzionali sui partiti politici.

In particolare si sarebbe dovuto fissare con legge sia il metodo con il quale si costituiscono i partiti sia il rispetto di questi della personalità umana.

In costituzione questo esplicito richiamo alla democrazia interna dei partiti fu omesso proprio perché si temeva un ingerente controllo da parte dei futuri governi sulle finalità e sull'organizzazione dei partiti di opposizione.

Fu sostanzialmente accolta invece la seconda proposta di Basso il cui significato è spiegato assai bene dalle parole dello stesso presentatore:

“E' chiaro che oggi il parlamentarismo come lo si intendeva una volta non lo si potrà più riprodurre, poiché il deputato non è più legato ai sui elettori ma al suo partito. Ciò presuppone l'esistenza dì una disciplina di partiti3

La proposta di Basso trovò immediata approvazione per quanto riguarda la sua prima parte e fu approvata dalla prima sottocommissione.

La seconda invece fu omessa nonostante alla stessa avessero aderito importanti esponenti degli altri partiti (Aldo Moro, Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti per la Democrazia Cristiana; Palmiro Togliatti per il Pci) in quanto mancavano i due relatori, Merlin e Mancini, e il presidente rinviò la discussione alla successiva seduta.

Questa però non fu mai tenuta e la seconda parte della proposta di Basso,

2 E. Rossi, I partiti politici,cit, p.7. 3 Ivi,p.7.

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molto importante per il riconoscimento di attribuzioni costituzionali ai partiti, non trovò spazio nella nostra costituzione in quanto mai discussa.

Fu approvato l'ordine del giorno Dossetti nel quale si prevedeva un successivo esame comune da parte delle due sottocommissioni per stabilire le condizioni e le modalità del riconoscimento giuridico dei partiti politici e dell'attribuzione a essi di compiti costituzionali.

Ma dopo questa approvazione la presidenza della commissione dei 75 non prese in considerazione tale esigenza e la riunione congiunta non ebbe mai luogo.

L'alternativa più forte e netta alla formulazione di Basso fu presentata da Costantino Mortati e Carlo Ruggero:

“Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell'organizzazione interna e nell'azione diretta alla determinazione della politica nazionale”.

Mortati e Ruggero argomentarono la propria proposta in riferimento alla necessità di introdurre e garantire la democraticità interna dei partiti, in conformità allo spirito stesso della costituzione.

In essa infatti illustrò Mortati era stata prevista la democratizzazione dei sindacati e delle aziende private, attraverso i consigli di gestione e persino si era parlato di spirito democratico anche per l'esercito.

Per cui per Mortati era alquanto strano prescindere da questa democratizzazione proprio per i partiti politici e per questo propose un controllo della corte costituzionale o anche di organismi formati dalle rappresentanze degli stessi partiti in condizioni di assoluta parità.

La discussione si concentrò sulla necessità o meno di introdurre la previsione di garanzie di democraticità interna.

Alla posizione di Merlin, che era nettamente contrario in quanto riteneva che era di difficile attuazione e sostanzialmente inutili, replicò con fermezza Aldo Moro:

“E' evidente che, se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere un indirizzo democratico nell'ambito della vita politica del paese”.

Alla fine prevalsero le posizioni di paura sul possibile controllo che successive maggioranze politiche avrebbero potuto esercitare sulla libertà

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interna dei partiti stessi.

Viste le posizioni assunte da comunisti,azionisti e liberali, i due presentatori ritirarono l'emendamento poi ripreso dall'onorevole Bellavista ma respinto dall'Assemblea.

1.2 L' art.49 nella Costituzione Italiana

Il testo definitivo dell'art. 49, frutto di queste complesse discussioni, fu: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

L'art. 49 deve oggi essere analizzato nella sua collocazione all'interno della costituzione.

Esso è posto nel titolo IV dei principi fondamentali dedicato ai “rapporti politici”. La Costituzione disciplina il fenomeno dei partiti come diritto di libertà dei cittadini, incentrato sulla visione dei partiti quali “libere associazioni”di cittadini. Una scelta motivata da intenti ideologici, in particolare il rifiuto del modello organico di partito-Stato che aveva contrassegnato l'esperienza fascista. Questo importante articolo quindi delinea una fondamentale prerogativa dei cittadini a influenzare la politica nazionale e proprio per questo va letto congiuntamente ad altri articoli della nostra costituzione.

Esso infatti va collocato in un quadro più complesso di partecipazione e influenza politica. L'art.39, per esempio, riconosce ai sindacati una partecipazione notevole in questa influenza; oggi più che mai sappiamo come la collaborazione fra sindacati e partiti abbia prodotto esiti importanti sulle scelte politiche .

I cittadini poi partecipano alla vita politica anche attraverso il ruolo loro riconosciuto negli enti locali.

Infine l' influenza dei cittadini sulla politica si ritrova anche in altre due norme: L'art.75 che prevede lo strumento di referendum popolare per l'abrogazione totale o parziale di una legge(quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali), e l'art.71 secondo comma che prevede la possibilità da parte di cinquantamila elettori, di presentare un progetto di legge redatto in articoli.

Per quanto l'uso di queste due norme negli anni si sia rilevato molto esiguo sono comunque entrambi importanti strumenti di democrazia diretta.

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Questi strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita politica contemperano il ruolo dei partiti e meglio ne definiscono la collocazione.

Visto alla luce di tutto questo l'art. 49 rileva ancor più la sua importante finalità: essere il tramite fra le preferenze dei cittadini e la determinazione della politica nazionale con l'uso del metodo democratico.

Il principio del pluralismo partitico, elemento chiave di questo articolo, è la condizione essenziale di una democrazia fondata sulla presenza e sul confronto di forze politiche differenti.

Questo principio, in armonia con il metodo democratico, riconosce il diritto dei cittadini a partecipare alla determinazione della vita politica in una condizione di assoluta parità di chances.

Il “metodo del concorso” infatti non postula soltanto il diritto all'esistenza dei partiti ma anche la garanzia per gli stessi di poter partecipare alla vita politica del paese in condizioni di parità.

La politica nazionale quindi è si frutto delle scelte dei partiti ma non solo di essi.

Questi ultimi, infatti, hanno una funzione di intermediari fra la politica e i cittadini; sono la struttura che deve trasformare la volontà popolare in azione concreta.

In una società come quella uscita dal secondo conflitto mondiale, in cui la partecipazione politica era stata essenzialmente ridotta all'osso, la modalità di partecipazione era essenzialmente “ la delega”degli elettori e degli iscritti ai dirigenti.

Le funzioni classiche dei partiti si dividono fra funzioni sistematiche, a beneficio della comunità nel suo complesso, e funzioni “partigiane”4 a beneficio dei propri iscritti attuali e potenziali elettori.

Fra le funzioni sistematiche la presentazione delle alternative elettorali è sicuramente la più importante.

Fra le funzioni partigiane invece emergono la selezione dei propri candidati e lo sviluppo della propria linea politica.

Le due funzioni sistematiche principali sono influenzate dal corretto svolgimento di quelle partigiane; è si vero che l elettorato ha la possibilità di scegliere fra i programmi elettorali delle diverse forze politiche, ma se i

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partiti politici non fanno un'attenta selezione dei propri candidati e dei propri programmi lo spazio della democrazia tende inevitabilmente a ridursi. Emerge chiaramente dall'art. 49 l'importanza della concorrenza alla determinazione della politica nazionale. Essa infatti non può essere frutto delle scelte di un solo partito.

Naturalmente però i programmi elettorali devono essere portati avanti da persone incaricate di attuarli e sempre questo non avviene.

Fin da subito infatti emersero i classici problemi della rappresentanza politica e del grado di fedeltà dei candidati eletti ai programmi dei rispettivi partiti e dei sistemi elettorali scelti.

Il sistema maggioritario infatti, pur nella vastità delle sue varianti, produce un effetto selettivo, mentre quello proporzionale( quando non corretto con clausole che ne snaturano l 'esistenza) tende a rappresentare tutte le forze politiche in base al loro successo elettorale.

Quindi emerge chiaramente che proprio perché ne un partito ne l'unione di essi rappresenterà mai la cittadinanza nel suo complesso, il problema della reale rappresentatività delle esigenze e delle preferenze della popolazione deve essere affrontato nei termini giusti e nella maniera più corretta possibile.

2 Il “metodo democratico”

Nella redazione finale dell'Art.49 emerge l'espressione “con metodo democratico”.

La dottrina ha variamente graduato le conseguenze derivanti per l'attività dei partiti dalla prescrizione costituzionale riguardante il metodo democratico. Conseguenze che hanno riguardato sia l'attività esterna, sia l'articolazione interna dei partiti nonché i possibili limiti allo stesso contenuto ideologico di quell'insieme di visioni del mondo e di programmi politici che definiscono l'identità delle singole formazioni politiche.

Una prima indicazione tratta da questo principio è quella riguardante l'obbligo dei partiti di astenersi da ogni azione violenta nei confronti dell'ordinamento democratico o nei confronti degli avversari politici.5

5 Anche la Corte Costituzionale nella sentenza 114/1967 affermò che: “In uno Stato di libertà, qual è quello fondato dalla nostra Costituzione, è consentita l'attività di associazioni che si propongano anche il mutamento degli ordinamenti politici esistenti, purché questo proposito sia perseguito con metodo democratico, mediante il libero

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Per questo profilo dal contenuto dell'Art. 49 non sono deducibili limiti ulteriori rispetto a quelli derivanti dall'Art. 18, che vieta a qualsiasi associazione il perseguimento , anche nei metodi e non solo negli scopi, di fini vietati dalla legge penale.

Tali divieti sono assistiti sul piano della legislazione penale ordinaria da norme di carattere generale che puniscono le associazioni aventi come fine il sovvertimento violento degli ordinamenti democratici (Art. 270 e 271-bis c.p) o la cospirazione politica (Art. 350 c.p)

Secondo l'orientamento prevalente, dalla prescrizione dell'ordinamento democratico non sarebbero derivabili ulteriori limiti sulla base dei quali sanzionare eventuali comportamenti antidemocratici propri dei soli partiti. Ancor minor fondamento potrebbero trovare limitazioni dirette a colpire particolari orientamenti ideologici professati dai partiti.6

Si sostiene infatti che l'impostazione ideologica della Costituzione è chiaramente orientata al rifiuto di opzioni di “democrazia protetta” proprie di altre realtà costituzionali.7

La scelta fatta nel modello accolto nel nostro sistema individua nel libero confronto fra le diverse posizioni politiche-ideologiche presenti nella società la risorsa più adeguata per la più ampia integrazione delle forze politiche nel sistema democratico. Viene quindi preclusa la possibilità di istituire qualsiasi forma preventiva di controllo sugli scopi e l'orientamento ideologico dei partiti.

La possibilità di rinvenire un fondamento per un simile controllo, all'interno del testo costituzionale, è stata prospetta dall'Esposito. Secondo questo autore il principio del metodo democratico dovrebbe portare ad escludere dalla competizione politica i partiti che abbiano fra i propri fini

dibattito e senza ricorso, diretto o indiretto, alla violenza.

6 Secondo un orientamento, sostenuto fra gli altri da Mortati, il principio democratico impone in primo luogo il rispetto da parte dei partiti dei diritti di azione politica delle altre formazioni politiche. Questo obbligo riguarda primi fra tutti i maggior partiti politici che devono rispettare le minoranze e consentire a queste ultime di svolgere ogni attività legale per la difesa e la diffusione del proprio indirizzo politico. Da questo punto di vista il significato maggiore dato a questo principio viene individuato nella assicurazione delle condizioni cui è collegata l'alternativa al potere tra le forze politiche. Condizioni che includono il mantenimento “delle garanzie per la libera formazione della pubblica opinione e per il pacifico svolgimento della “lotta politica” ma che esigono anche la continuità dell'azione statale pur nella successione dei vari indirizzi politici.

7 Ad esempio le Costituzioni greca e spagnola nonché le numerose Costituzioni dei paesi di nuova democrazia dell'Est Europa.

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prossimi o remoti, l'instaurazione di un regime che si ponga come scopo l'esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica, imponendo una dittatura di classe o di ceto.

Da questo punto di vista vi sarebbe quindi una stretta connessione tra tale implicito divieto e la XII disposizione transitoria finale che vieta la ricostruzione del partito fascista. La disposizione esprimerebbe un più generale divieto di ogni partito che persegua l'abbandono dei principi generali.

A questa ricostruzione, la maggior parte della dottrina, oppone il carattere effettivamente isolato della XII disposizione la cui funzione, come testimoniano i lavori preparatori, è limitata a inibire la riorganizzazione del solo partito fascista.

C'è da dire però che la legislazione ordinaria attuativa di tale disposizione abbia teso ad ampliarne la portata applicativa, vietando, oltre alla riorganizzazione del partito fascista, anche l'attività di formazioni che propagandino principi e metodo del partito fascista.

Una seconda via per rendere ammissibili, seppur in via estrema, controlli di carattere preventivo sul contenuto ideologico dell'azione dei partiti pone in collegamento i limiti ravvisabili in materia con quelli ricavabili dall'Art. 139 della Costituzione, riguardo alla non modificabilità del regime repubblicano. Vietati dovrebbero essere pertanto i partiti che si propongano fini non perseguibili neppure nelle forme della revisione costituzionale.

Rispetto all'alternativa secca tra accettazione o rifiuto di un modello di democrazia protetta, una parte della dottrina propone peraltro la possibilità di distinguere tra attività partitiche esclusivamente dirette alla diffusione di programmi e ideologie di partito, che dovrebbero essere completamente libere purché non incitino a comportamenti violento o illegali, e eventuali strategie d'azione degli stessi partiti volte sistematicamente a impedire od ostacolare il normale funzionamento delle istituzioni democratiche. In questa prospettiva il criterio del metodo democratico imposto dall'Art. 49, vieterebbe ogni tipo di azione preordinata al “sabotaggio” degli istituti democratici.

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Dalla prescrizione costituzionale, contenuta nell'articolo in questione, sono state fatte derivare conseguenze anche per quanto riguarda l'organizzazione interna dei partiti. Essendo l'istituzione partito solo strumentale rispetto al fine di assicurare la più ampia partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale, le organizzazioni partitiche debbono soddisfare nella propria articolazione interna i requisiti minimi per rispondere al concetto di democrazia fatto proprio dalla Costituzione

Da parte di altri, si sottolinea8 tuttavia la difficoltà di trasferire tali posizioni di principio in una disciplina di carattere legislativo che non si traduca in un ingerenza degli apparati pubblici nella vita interna dei partiti.

Se certamente, sulla base del principio costituzionale, si dovrebbero ritenere illegali i partiti retti da organizzazioni autocratiche che di fatto impediscano la libera partecipazione degli iscritti alla determinazione degli indirizzi di partito, per il resto l'eventuale legislazione non potrebbe spingersi molto oltre la previsione di alcuni requisiti minimi che spetterebbe all'autonomia dei partiti liberamente attuare e integrare.

A fronte di tale dibattito la legislazione ordinaria aveva optato per una linea di non intervento nella vita organizzativa dei partiti. Oggi con l'approvazione della legge n. 13/2014 si impone ai partiti di rispettare i requisiti di trasparenza e e di democraticità da essa stabiliti se vogliono beneficiare delle forme di contribuzione previste.

Per cui di fronte a questo ampio dibattito riguardo a questo principio possiamo sintetizzare ricordando le tre interpretazioni che sono emerse.

Nella prima il metodo democratico è collegato alle finalità perseguibili dal partito che sono si libere ma nel rispetto dell'assetto costituzionale.

Per questa prima interpretazione quindi è un vincolo legato agli scopi perseguibili che non possono andare ad intaccare l'insieme di valori su cui si fonda lo Stato.

La seconda interpretazione riporta il significato di questa espressione

8 Fra i quali Predieri, Cheli in “Intorno alla regolazione dei partiti”, Brunelli in “ Struttura e limiti del diritto di

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nell'ambito della parità di chances che richiede che tutti i partiti rispettino le regole che disciplinano la competizione politica in un sistema democratico. Ogni partito deve agire nel rispetto del sistema senza perseguire le proprie finalità con mezzi violenti o comunque con mezzi in contrasto con le regole del sistema rappresentativo.

Infine l'ultima interpretazione non ricollega questo mezzo ne alle finalità ne ai mezzi utilizzati, ma all'organizzazione del partito imponendo un ordinamento interno a base democratica.9

Queste tre interpretazioni non sono fra di loro alternative tanto che negli anni non è mai emersa una in maniera prevalente.

Oggi la dottrina pubblicistica sembra orientata nel ritenere che tutte e tre hanno un ambito di validità ma per molto tempo è prevalsa la tesi per la quale il costituente avrebbe inteso riferirsi al rispetto del metodo democratico soltanto in relazione all'attività esterna dei partiti.

Ciò confermato anche dal rigetto che ci fu in assemblea costituente di un emendamento esplicativo dell'Art. 49 mirante a stabilire che i partiti avrebbero dovuto aderire al metodo democratico tanto nell'attività esterna quanto nella loro organizzazione interna.

Bisogna ricordarci però che anche per l'Art. 49 vale la riflessione per cui non dobbiamo rimanere ancorati all'impostazione originaria del testo costituzionale quando risulta chiara che essa è ormai obsoleta, perché altrimenti si arriverebbe ad un inutile irrigidimento della lettura e del l'utilizzo del testo.

Questa interpretazione restrittiva del metodo democratico riferito alla sola attività esterna è ormai superata almeno a partire dagli eventi storici avvenuti a seguito della caduta del muro di Berlino.

Infatti la sua ragione politica era legata al bipartitismo imperfetto e all'assenza dell'alternanza dei partiti politici al governo, per effetto della presenza in Italia del più grande partito comunista dell'Europa occidentale e dei condizionamenti dovuti dal perdurare della guerra fredda.

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In quel contesto storico la regolamentazione giuridica dei partiti poteva essere vista con sospetto per paura di un'ingerenza dello stato sui partiti ritenuti antisistemici.

Oggi in Italia sembra prevalere la tesi secondo la quale per migliorare la qualità della democrazia c'è bisogno di partiti forti perché, in presenza di partiti deboli o con una struttura democratica cadente, prevalgono leadership personali e spinte plebiscitarie.

Questo rafforzamento comporta una disciplina giuridica di partiti che risulta necessaria almeno per due ragioni: la prima è che la costituzionalizzazione dei partiti comporta una regolamentazione giuridica degli stessi, in quanto, anche dopo l'esperienza fascista, la democrazia dei partiti non regolata non ha impedito la sovrapposizione dei modelli partitici e modelli istituzionali, anche quando la loro organizzazione e le loro finalità erano in aperto contrasto con la democrazia costituzionale.

La seconda ragione è inerente al tema della rappresentanza dei cittadini e alla loro partecipazione alla politica.

Nello stato costituzionale non vi può essere una sovranità dei partiti ne una rappresentanza politica senza partiti.

L'istituto della rappresentanza politica ha un particolare rilievo nella nostra Costituzione e quindi non si può non tener di conto dell'importanza dei partiti politici per il corretto funzionamento della democrazia rappresentativa.

Attualmente i partiti non sono più capaci, come in passato, di mobilitare le masse popolari. Si viene così a creare una sorta di separazione tra politica e società, ciò ulteriormente confermato dal fatto che fino ad oggi il sistema elettorale usato dal 2005 in poi è un sistema proporzionale a liste bloccate dove i candidati vengono scelti a tavolino dalle segreterie del partito. Quest'ultimo si rispecchia notevolmente nel suo leader, cosicché l'intero organico lavora per il successo del suo “capo”; non c è spazio per i dissidenti chi non è d'accordo lascia l'organizzazione. Ma rimanendo al contesto costituzionale dell'Art. 49 esso ha appunto previsto il metodo democratico al quale sono state date le tre interpretazioni sopra esplicate;

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per determinazione della politica con metodo democratico si intendono oggi i programmi i progetti e le opinioni dei soggetti che partecipano oggi alla politica. Tuttavia questo articolo nulla dice riguardo alla regolamentazione giuridica dei partiti (Art. 39 Cost. La prevede per i sindacati, come requisito basilare per ottenere la personalità giuridica). A livello europeo il regolamento n 2004/2003 stabilisce le procedure previste affinché i partiti a livello europeo possano ottenere un finanziamento e una di esse è proprio il riconoscimento della personalità giuridica nel stato di appartenenza; questa disposizione ha dovuto fare i conti con la realtà giuridica italiana in cui questo riconoscimento non c'è.

Spesso il legislatore si è occupato più degli aspetti strettamente economici, disciplinando negli anni le forme di finanziamento ai partiti, piuttosto che della concreta attuazione all'Art. 49. Ai cittadini indicati nel citato articolo si deve riconoscere la piena partecipazione all'attività politica non attraverso il diritto di iscrizione e tesseramento ma soprattutto nel sentirsi chiamati in causa nella scelta dei candidati.

3 Dal dibattito della commissione Bozzi alle altre proposte di riforma dell'Art. 49

Negli anni Ottanta ci fu la Commissione Bozzi, la prima bicamerale per le riforme istituzionali, che avanzò una proposta di riformulazione dell' Art. 4910, la quale non fu poi approvata, che prevedeva delle disposizioni dirette a garantire la partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti ( compresa la designazione dei candidati).

A partire dalla IX legislatura le proposte di legge di attuazione dell'articolo in questione aumentarono notevolmente; fra queste dobbiamo collocare quella presentata da Pierluigi Castagnetti e altri recante “Disposizioni per l'attuazione dell'Art 49 della Costituzione in materia di democrazia interna dei partiti”. In questa proposta, che era costituita da quattro articoli, i partiti vengono definiti come associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica. Tale acquisto era subordinato alla loro iscrizione nel registro delle persone giuridiche, e fra le tante cose la proposta

10 R. Valenti, “Il metodo democratico nell'Articolo 49”, tratto dal sito internet dell'Associazione professionale Petracci -Marin .

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prevedeva, al fine di garantire la democrazia interna dei partiti, la selezione delle candidature attraverso elezioni primarie per i candidati alle elezioni europee, nazionali, regionali e locali.

Come questa proposta molte altre furono presentate11 ma nessuna fu mai analizzata dal Parlamento.

Ad oggi, in attesa dell'approvazione della nuova legge elettorale che stabilirà le modalità di selezione dei candidati, lo strumento utilizzato da alcuni partiti per selezionare i propri candidati e contrastare cosi il fenomeno assai diffuso della scelta indiscriminata in mano ai partiti, è quello delle primarie. Esse si sono tenute per la prima volta in Italia nel 2005/2006 dove gli elettori del centro sinistra sono stati chiamati alle urne per la scelta del candidato premier12. Le primarie hanno sostanzialmente la funzione principale della selezione dei candidati, che se eletti ricopriranno cariche istituzionali13. Alle primarie possono votare i cittadini che hanno compiuto il sedicesimo anno di età nonché i cittadini dell'Unione Europea residenti in Italia e i cittadini degli altri paesi europei che hanno il permesso di soggiorno14.

Le elezioni primarie sono un ottimo strumento che è stato previsto per supplire alle deficienze della legge elettorale 270/2005. Fra i tanti problemi creati da questa legge elettorale negli anni, vale la pena ricordare quelli delle “candidature plurime”15 e sulle modalità di scelta dei candidati.

In particolare queste ultime fatte esclusivamente dai partiti cosicché il cittadino voterà un simbolo perché simpatizzante di quel partito e con esso oltre al candidato più famoso della lista anche persone che nella maggioranza dei casi non ha mai visto ne sentito; si viene così a creare un “difetto di legittimazione elettorale”.

Ci si chiede quindi come ci può essere una vera partecipazione popolare per la determinazione della politica nazionale se gli elettori non hanno in

11 Ed esempio quella presentata da Maurizio Turco e altri o quella presentata dal senatore Cutrufo. 12 Primarie vinte da Romano Prodi

13 Sono state fatte negli anni per le cariche istituzionali di Sindaco, Presidente della Regione, Presidente della Provincia.

14 Statuto del Partito democratico in www.partitodemocratico.it

15 La possibilità per un soggetto di potersi candidare in più circoscrizioni cosicché aumentavano le sue possibilità di vincita.

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mano un sistema elettorale realmente democratico16; sistema che è stato smantellato dalla consulta a seguito della bocciatura della legge elettorale 270/2005 dichiarata incostituzionale.

4 Concorso dei cittadini e concorso dei partiti alla politica nazionale

L'art. 49 fa riferimento esplicito ai cittadini; in quanto stabilisce che essi hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorre alla politica nazionale. Il principio del concorso fa da garanzia contro il rischio della cristallizzazione della competizione politica; esso appare correlato sia al profilo “collettivo”, attinente allo status di eguaglianza e libertà dei partiti, sia a quello “individuale” della libertà di associazione in partiti.

I cittadini hanno pieno diritto di dar vita a formazioni partitiche per entrare in competizione con quelle già operanti o di entrare a far parte di quelle esistenti. Questo diritto contenuto nell'Art 49 si ricollega al più generale diritto di associazione per quanto riguarda il momento formativo del partito, le fasi successive di adesione al partito, il diritto di recedere dall'accordo associativo e la cosiddetta “libertà negativa” ovvero il diritto di non iscriversi a nessun partito.

La funzione peculiare affidata ai partiti e l'appartenenza della relativa libertà di associazione alla sfera dei rapporti politici non giustifica una totale scissione fra la disciplina dei partiti e quella della libertà di associazione medesima .Questa scissione infatti porterebbe a ritenere che l'Art 18 non trova applicazione per quanto riguarda la disciplina di associazione in partiti regolata dall'Art.49.

L'art.18 deve essere quindi considerato congiuntamente all'articolo 49 qualora si voglia apprendere pienamente i concetti in esso espressi.

La libertà di associazione in partiti si traduce poi nella più estesa libertà di iscrizione ai partiti.

L'art.49 si riferisce ai cittadini; occorre osservare che anche quegli autori

16 Rosa Valenti “Le modalità di reclutamento dei parlamentari con la nuova legge elettorale” ; “Analisi di alcuni

aspetti del sistema proporzionale” “Bozza Rosa Valenti”; “Elezioni del Parlamento europeo” in

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che escludono l'interpretazione letterale e l' impedimento all'appartenenza degli stranieri ai partiti politici non sono giunti tuttavia a una completa equiparazione tra cittadini e stranieri in materia di iscrizione ai partiti politici.

Secondo questo indirizzo, sebbene non sussista un divieto di appartenenza ai partiti per gli stranieri, solo per i cittadini è prevista la copertura costituzionale di questo diritto. Per gli stranieri,invece, si tratterebbe di una libertà di fatto che il legislatore può in ogni momento limitare o escludere. Connesso a questo tema è la possibilità per gli stranieri di assumere cariche all'interno dell'organizzazione del partito. Assunzione di tali incarichi, quello di segretario di partito in particolare, conferiscono ali soggetti che li ricoprono funzioni pubbliche rilevanti che quindi richiedono il requisito della cittadinanza.

Oltre alla limitazione relativa alla cittadinanza in base all'Art. 98 il legislatore può limitare l'iscrizione ai partiti a particolari categorie di soggetti pubblici con la finalità di sottrarli dall'influenza dei partiti visto il ruolo che ricoprono. A parte queste non vi sono altre limitazioni all'iscrizione ai partiti politici.

E' stato dibattuto poi se il diritto di iscrizione ai partiti sia solo un diritto individuale riconosciuto ai singoli cittadini o se sia ammissibile per gruppi e associazioni entrare a far parte dei membri di un partito. Questo modello di “partito di associazioni” è già presente in altre realtà straniere e recentemente era stato riproposto anche in Italia con la funzione di inquadrare giuridicamente il fenomeno dell'incidenza dei gruppi di interesse sui processi decisionali dei partiti politici.

La partecipazione politica di questi gruppi associativi si snoda secondo l' andamento a catena, i cui anelli di congiunzione sono rappresentati dall'adesione individuale alla formazione associativa e dall'appartenenza di questa al partito alle cui decisioni essa sola partecipa attraverso i propri organi sociali.

Questa partecipazione genera non poche perplessità; innanzitutto per il rispetto delle regole democratiche nei processi decisionali interni al gruppo;

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ma soprattutto l'adesione dell'associazione al partito, comporterebbe un legame fra l'associato e le scelte del partito e si determinerebbe un vicolo di appartenenza necessaria a questo da parte del singolo associato. Ma la libertà negativa di associazione riconosciuta nei confronti dei poteri pubblici non può non riconoscersi anche nei confronti dell'apparato autoritativo del gruppo e è da escludere la rilevanza giuridica di accordi di diritto privato che ne comprimano l'esplicazione.

Allo stato attuale quindi è da escludere l'organizzazione federativa dei partiti italiani. Essi hanno una struttura ad “associazioni parallele” nella quale gli iscritti ai nuclei minori del partito sono al tempo stesso membri dei livelli associativi superiori; il loro legame con l' associazione nazionale per tanto non è mediato ma coesiste con il vincolo di adesione alle associazioni minori.

Si discute se la natura di associazioni di fatto, riconosciuta alle articolazioni locali, sia sufficiente a conferire ad esse oltre che un'autonomia patrimoniale e processuale, anche quell'autonomia politica necessaria affinché esse siano strumenti di dialettica democratica per il partito.

Infine l'ultimo aspetto da esaminare, relativo ai rapporti fra profilo individuale e profilo collettivo della libertà di associazione in partiti, è quello per cui la situazione soggettiva tutelata dall'Art. 49 ricomprenda o meno un vero e proprio “diritto all'ammissione”al partito politico proponibile davanti all'autorità giudiziaria.

La tendenza dei partiti a trasformasi in “entità chiuse di privata proprietà dei vecchi soci” troverebbe un contrappeso nel diritto all'ammissione al partito. Risulta però innegabile che di fronte alla pretese di un cittadino di aderire a un partito, il partito stesso per tutelare la sua identità possa rifiutarsi questo ingresso attuando quindi una sorta di discriminazione degli aspiranti all'iscrizione e nessun sindacato è possibile sulla valutazione politica che sottostà a questa decisione .

Questa tutela al diritto di iscrizione però si ridurrebbe così al solo controllo sulla regolarità formale delle decisioni.

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riconoscimento di un diritto all'ammissione contribuendo a incanalare la partecipazione politica entro i partiti tradizionali, può risultare un rimedio non del tutto appagante al fine di assicurare quell'esigenza di mobilità che rappresenta la garanzia del concorso.

Questo dibattito sul cosiddetto “diritto all'ammissione” lascia aperto il problema della tutela degli iscritti, dell'efficace ricambio all'interno delle aggregazioni partitiche e del loro diritto di organizzare il dissenso; di fronte a questi la tutela privatistica dimostra tutti i suoi limiti e richiama l'attenzione sull'esigenza di un attuazione legislativa dell'Art. 49.

5 Evoluzione dei partiti politici: dai partiti di ideologia ai partiti personali

Per capire sino in fondo la struttura e l'evoluzione dei partiti nazionali occorre ricostruire le dinamiche storiche che hanno segnato il nostro paese e gettato le basi dell'organizzazione partitica futura.

Per una lunga fase della nostra storia repubblicana, dagli anni cinquanta fino ai primi anni novanta, la riflessione giuridica sui partiti non poteva non tener conto della mancanza dell'alternarsi delle diverse forze politiche al governo. La maggioranza governativa, denunciava Calamadrei, non intendeva rispettare la costituzione perché aveva come fine il solo rimanere maggioranza.17

Dopo l'esperienza di governo del centrosinistra, caratterizzata anche da un certo dinamismo e da un progressivo rafforzamento del ruolo del parlamento, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta si ripresenta il problema della governabilità.

C'era anche la necessità di attenuare la distanza fra i due maggiori partiti. La forma di governo parlamentare fu influenzata negativamente dal sistema partitico e questo ebbe conseguenze negative arrivate fino ai giorni nostri.

Il problema del blocco politico derivante dalla guerra fredda, aveva dato vita a un parlamento consociativo le cui decisioni, man mano che si

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attenuavano le contrapposizioni ideologiche, erano orientate alla sola spartizione delle risorse materiali.

Il parlamento e le sue decisioni si reggeva sul compromesso fra i due principali partiti; DC e PCI.

E' proprio in virtù di questo compromesso che si può parlare, fino agli anni settanta, di un relativo successo della cosiddetta Prima Repubblica.18

Alla fine degli anni Settanta però iniziò il declino politico, perché dopo la raggiunta centralità del parlamento, si sarebbe dovuto arrivare a un normale funzionamento della forma di governo parlamentare secondo lo schema maggioritario. Ma così non avvenne perché rimaneva il problema della democrazia bloccata, con forti ripercussioni fino ai giorni nostri.

Oggi spesso si discute sul “bipolarismo anomalo” che si creò a partire dal 1994; vi fu una bipolarizzazione del sistema politico con un'alternanza al governo di diverse e disomogenee coalizioni. E' proprio questa disomogeneità che ha reso anomalo il bipolarismo italiano.

Non si può capire la situazione attuale se non si ha ben presente quello che è avvenuto nella nostra storia repubblicana a partire proprio dagli anni Settanta, in cui avvenne quello che Leopoldo Elia19 definì” conventio ad exludendum”

Vi era infatti un sistema di “democrazia bloccata”ovvero il rifiuto di DC-PSI-PSDI-PLI-PRI a considerare il PCI quale possibile forza democratica di governo.

Questa democrazia bloccata portò al declino e alla degenerazione del sistema partitico, ancor prima della caduta del muro di Berlino e dell'approvazione delle nuove leggi elettorali del 1993.

Il problema quindi non riguardava la costituzione, la quale aveva dettato chiaramente la struttura per il funzionamento del sistema italiano, ma riguardava i partiti sempre più miopi e incapaci di guardare all'interesse del paese.

Costantino Mortati criticò fortemente i due principali partiti, DC e PCI:

18 C Galli, “I riluttanti. Le élite italiane di fronte alla responsabilità”, Roma-Bari, 2012,P.89 19 L. Elia, “Governo (forme di) in Enciclopedia del diritto, volume XIX, Milano, 1970

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l'uno, appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli Stati uniti d'America ma incapace di trovare una nuova guida dopo De Gasperi e logorato dalle correnti interne; l'altro, estromesso nel 1947 dal governo dopo l'inizio della guerra fredda non fu in grado di diventare partito di governo per i suoi legami con l'Unione sovietica.

Mortati stesso riteneva possibile un'evoluzione del PCI tale da portare a un bipolarismo perfetto.

L'evoluzione prospettata da Mortati avvenne tanto che il PCI, nella seconda metà degli anni Settanta, si impegnò verso la Nato.

Nonostante ciò, dopo nemmeno due anni, il presidente americano Jimmy Carter, si oppose fortemente all'ingresso dei comunisti al Governo( lo fece in una dichiarazione del Dipartimento di Stato del 12 gennaio 1978)

La stessa Unione Sovietica guardava con sospetto l'evoluzione del PCI; anzi l'iniziale diffidenza divenne aperta ostilità di fronte al progetto di eurocomunismo e alle forti critiche che i comunisti occidentali riservavano alle esperienze di socialismo reale.

Il PCUS temeva più che altro che le tendenze e le critiche occidentali si diffondessero anche nell'Est europeo ; il cosiddetto “effetto contagio”.

La rottura definitiva fra PCI e Unione Sovietica avverrà nel 1981, dopo la repressione in Polonia di Solidarnosc.

Nonostante questa rottura però in Italia perdurò ancora per anni la situazione di democrazia bloccata.

Il declino del sistema politico arrivò dopo che due figure importanti della scena politica italiana come Enrico Berlinguer, segretario del più forte partito di opposizione il PCI, e Aldo Moro, segretario del maggior partito di Governo la DC, cercarono inutilmente di superare la situazione di blocco facendo confluire il maggior partito comunista occidentale nella compagine governativa.

Il successivo rapimento conclusosi con la morte di Aldo Moro, segnerà l'evoluzione del sistema politico italiano.

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accompagnata dalla tensione anche del sistema fiscale e del debito pubblico. Sempre più forte e inquietante appariva la presenza di poteri occulti di cui fu emblema la loggia massonica della P2.

Sempre più forte divenne il problema della governabilità; si rafforzò la personalizzazione della politica e il baricentro istituzionale passo dal Parlamento al governo.

In quegli anni stavano cambiando, sulla scia dell'esperienza francese in cui i socialisti erano riusciti a superare i comunisti, i rapporti di forza fra i due maggiori partiti della sinistra storica.

I socialisti pensarono di sbloccare la situazione proponendo l'elezione diretta del capo dello Stato (proposta contenuta nel libro di Amato “Una Repubblica da riformare del 1980”)

Nel 1981 a Palermo, al XLII congresso del PSI, fu modificato su proposta di Craxi, lo statuto del partito; il segretario fino ad allora scelto dalla direzione fu eletto per la prima volta dai delegati.

Questo cambiamento denota una forte personalizzazione della politica e la trasformazione del PSI in un partito del leader.

Proprio nel suo discorso al congresso Craxi rilanciò la riforma delle istituzioni: il cambiamento avvenuto a livello di partito, con la nuova elezione diretta del segretario, doveva nei piani del PSI essere accompagnato dall'evoluzione delle istituzioni verso una democrazia immediata, con l'elezione diretta del capo dello stato.

Questa proposta di cambiamento delle istituzioni risultò però fin da subito minoritaria. La necessità di un cambiamento però era chiara; è di questi anni infatti la prima commissione bicamerale per le riforme costituzionali. Questa commissione mise in luce la crisi della rappresentanza politica e la distanza dei partiti dai problemi e dagli interessi della collettività.

All'interno della commissione ci furono accesi contrasti fra le parti che la componevano e alla fine non si arrivo a nessuna decisione sostanziale. Gli alti livelli delle istituzioni statali non furono toccati, ma è di questi anni l'incipit della riforma riguardante i governi locali; riforma che portò

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all'instaurazione di forme di democrazia diretta quali l'elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia.

A partire dal1992 vi furono i primi segnali di decomposizione del sistema partitico italiano; nelle elezioni di quell'anno la democrazia cristiana ottenne il minimo storico.

La frammentazione del sistema partitico rafforzò invece l'evoluzione dei movimenti.20

Il referendum veniva visto come lo strumento per ottenere il salto di qualità, dalla partitocrazia alla democrazia immediata.

Lo slogan utilizzato dai suoi promotori era proprio: “restituire ai cittadini il potere usurpato dai partiti”.

L'istituto referendario, abdicando quasi completamente alla sua funzione di stimolo e di integrazione della politica, tenderà proprio in questi anni a assumere una inedita carica di rottura nei confronti del sistema rappresentativo.

Si consolida da più parti “il mito della sovranità referendaria”; il solo e unico modello di democrazia diretta .

Ma la democrazia referendaria degli anni Novanta tutto è stato tranne che una democrazia immediata e diretta.

Anche essa infatti è stata caratterizzata da moduli di mediazione e di etero direzione della domanda politica seppur in forme diverse da quelle classiche.

Sono di questi anni le note vicende giudiziarie che presero il nome di “Tangentopoli”: indagini giudiziarie che portarono alla luce un sistema di concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti.

La crisi della democrazia , seppur conclamata con queste vicende, aveva ragioni non solo legate a Tangentopoli.

La dissoluzione per via giudiziaria del vecchio sistema partitico costituì, come emerge chiaramente da questa ricostruzione storica, l'epilogo e la manifestazione più appariscente di questa tendenza.

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Negli anni infatti la crisi dei partiti era sempre più emorragica tanto che essi erano sempre lontani dai bisogni e dalle istanze sociali.

Gli anni Novanta rappresentano così uno spartiacque nella politica italiana; dalla disgregazione al cambiamento del sistema elettorale e alla ristrutturazione radicale dei partiti.

Il decennio si apre con la trasformazione del PCI in PDS; un processo lungo e accidentato che occupa più di un anno dal novembre del 1989 a febbraio del 1991. Un cambiamento sul quale vengono scritti fiumi di inchiostro; la ragione profonda che ha portato a dire addio al comunismo e costruire un nuovo partito è che il PCI era ormai un partito vecchio, legato a divisioni e conflitti di un epoca ormai lontana.21

Il PCI come gli altri partiti, dal MSI al PSI passando per la DC e i laici minori, erano strutturati come partiti di massa in una società ormai postindustriale; erano caratterizzati da un'arretratezza ideologica, organizzativa e culturale che li aveva portati alla catastrofe.

Con l'arrivo dell'inchiesta “Mani pulite” cadrà il castello di carta i vecchi partiti, avverrà una vera e propria “distorsione”delle dinamiche politiche; i vecchi partiti si dissolvono e mutano i luoghi dell'agire.

L'unico partito a evitare il collasso, mentre tutti gli altri si disfanno, è proprio il PCI grazie al fatto di aver avviato qualche anno prima, seppur timidamente, una trasformazione interna.

A seguito di questa vicenda giudiziaria in Italia ci saranno i referendum abrogativi del 18 e 19 aprile 1993, il cui bersaglio privilegiato furono la democrazia dei partiti22( fra i quesiti vanno ricordati quello che portò all'abrogazione del finanziamento pubblico partiti e quello e quello sull'abrogazione della legge elettorale per il Senato per l'introduzione del sistema maggioritario).

Con l'introduzione del maggioritario si voleva risolvere i problemi della democrazia italiana ma così non fu, anzi. Si iniziò con l'uso pervasivo e quotidiano dei sondaggi, il crescente peso della politica spettacolo, la

21 S. Bonfiglio, “I partiti e la democrazia”, il Mulino, Bologna, 2013

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democrazia del “gradimento” con il ruolo sempre più schiacciante dei media.

Si voleva sostituire la mediazione dei partiti politici con l'immedesimazione istintiva e spontanea tra governati e governanti.

Alla vigilia delle elezioni del 1994 nacque un nuovo soggetto politico, il quale non aveva collegamenti con i partiti del passato; Forza Italia che con il 21,01% divenne il primo partito alla Camera. I cittadini vennero chiamati alle urne con un sistema elettorale completamente diverso e ebbero di fronte un ventaglio di partiti che poco nulla aveva in comune con quello presentato appena due anni prima. Quello che colpisce di più è che scomparvero di colpo i principali partiti che avevano governato l'Italia per tutto il dopoguerra. Con il nuovo sistema elettorale maggioritario ci fu la frammentazione del sistema partitico e la nascita del “bipolarismo anomalo” caratterizzato da coalizioni disomogenee e non in grado di dare vita a una maggioranza stabile.

In questo contesto “frammentato” l'unica certezza rimane la Costituzione e l'assetto istituzionale dei poteri.

Il 1994 è considerato comunemente come l'anno di inizio della “Seconda Repubblica”; ma in termini istituzionali non è corretto perché induce a confondere il sistema politico e i suoi partiti con le istituzioni repubblicane. La fine della “Prima Repubblica” è la fine di un sistema politico ormai datato perché superato dagli eventi nazionali e non.

Sono stati enfatizzati i cambiamenti quali, la nuova legge elettorale e il cambiamento radicale dei partiti, ma questo ha finito per far perdere di vista la piena continuità del dettato costituzionale sul punto.

Dopo la caduta del muro di Berlino si è persa una buona occasione per attuare già allora l'Art. 49 con una regolamentazione legislativa sui partiti. Questo ritardo ha profonde radici storiche e culturali e ha generato negli anni la nascita di partiti, non più intesi come lo strumento attraverso il quale i cittadini partecipano alla politica, ma di macchine elettorali in mano a leadership personali.

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Questi hanno generato una classe politica incapace e spesso corrotta, alimentata da un sistema di rimborsi elettorali spesso non controllabili e utilizzati in alcuni casi anche per arricchimenti familiari.

In questo contesto due sono stati i partiti politici che in questi anni hanno dominato, con una certa continuità la scena politica; Forza Italia e Lega nord. I loro leader hanno rivestito ruoli chiave nella struttura istituzionale italiana fino alla nascita del governo Monti e alle elezioni amministrative del 2012 che hanno segnato una sconfitta dei suddetti partiti, in cui più di altri era marcata la leadership personale. In quanto all'organizzazione interna dei partiti infatti sono stati mandati in soffitta il mito dell'iscritto militante e della vita di sezione; tutti i partiti, soprattutto a destra, hanno assunto connotazioni presidenzialiste-personaliste con conseguente svuotamento della vita interna del partito e l'inceppamento della catena di collegamento dalla base al vertice. Inoltre gli eletti hanno guadagnato molto più spazio all'interno dei partiti, sia attraverso l'estensione della presenza “ex officio” negli organi deliberativi, sia grazie alle risorse che attengono direttamente dallo stato, sia grazie all'eliminazione della barriera che prima era rigidamente posta fra dirigenti di partito e rappresentati.

A seguito della legge elettorale numero 270/2005 lo svuotamento concettuale della rappresentanza politica ha raggiunto livelli ancor più elevati in quanto essa prevedeva la nomina dei parlamentari a opera dei vertici di partito23.

Vista l'adozione di questo sistema elettorale, il principio del mandato libero nazionale (Art.67 della Costituzione) costituisce almeno sul piano formale, un argine importante di fronte alla disciplina dei gruppi parlamentari.

Il 4 dicembre 2013 la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità della legge elettorale n. 270/2005 e ad oggi è in discussione alle camera la nuova legge elettorale.

L'istituto della rappresentanza politica ha un ruolo chiave nella nostra costituzione; per questa ragione non si può non tener conto dell'importanza

23 La Corte costituzionale ha avuto sino al 2006 un orientamento molto favorevole allo spoils system, se applicato alle posizioni dirigenziali apicali. A partire dalle sentenze n. 103 e 104 del 2007 vi è stata una vera e propria inversione di rotta nel cammino della giurisprudenza costituzionale sul tema, reinterpretando in modo restrittivo la nozione di posizioni apicali e dunque anche l'ambito di legittima applicabilità dello spoils system.

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dei partiti politici per il corretto svolgimento della democrazia rappresentativa.Tutto questo ci pone di fronte a una molteplicità di problemi fra loro connessi; il sistema elettorale da adottare; la scelta dei parlamentari; il controllo non solo formale dei bilanci dei partiti da parte della corte dei conti; le diverse forme di sostegno, finanziamento e di rimborso dei partiti. Alcuni di questi aspetti saranno analizzati nei capitoli successivi e saranno cuore della mia tesi.

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Capitolo II

Dal divieto di mandato imperativo al mandato di partito

1 Le origini della libertà del mandato rappresentativo; I lavori dell'assemblea costituente sull'Art. 67

I principi della rappresentanza politica nazionale e il divieto del mandato imperativo vengono definiti come gli elementi che meglio sanciscono il distacco e la differenza fra la rappresentanza degli antichi e quella dei moderni; la prima era una rappresentanza degli interessi particolari ancorata a modelli gius-civilistici mentre la seconda era una rappresentanza politica intesa quale cura degli interessi generali della Nazione. Tuttavia ridurre a una cesura così netta il senso della rappresentanza politica nelle moderne democrazie sarebbe semplicistico.

Oggi il concetto di rappresentanza che si ritrova nelle costituzioni delle democrazie occidentali è un concetto moderno che racchiude in se tanto la rappresentanza politica come “situazione” quanto la rappresentanza politica come “rapporto”.

La prima si basa sull'esaltazione dell'autonomia dei singoli rappresentanti e presuppone la sussistenza di interessi comuni, ricollegabili in maniera obiettiva al popolo nella sua interezza.

La seconda, invece, individua nei rappresentanti il tramite per dare espressione alle aspirazioni del popolo: L'interesse generale è necessariamente una mediazione fra i vari interessi particolari.

Altro caposaldo della visione liberale della rappresentanza politica moderna è rappresentato dalla scelta dell'elezione dei membri delle assemblee legislative affinché queste possano definirsi rappresentative.

In sintesi l'Art. 67 della nostra costituzione qualifica come rappresentativa la democrazia repubblicana, garantendo sul piano giuridico l'autonomia e l'indipendenza dei membri del Parlamento.

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tutelare la piena libertà del parlamentare da condizionamenti esterni; l'Art. 65 e 66 fino al 68 e 69 formano una sorta di “statuto” della libertà dei parlamentari.

Riguardo alla formazione di questo importante articolo bisogna ricordare che all'interno dell'assemblea, l'originario l'Art 64 del progetto di Costituzione oggi Art.67, fu votato senza discussione nella seduta del 10 ottobre del 1947 tanto da far pensare che i costituenti lo ritenessero meritevole di minor approfondimento. Il dibattito che si svolse di fronte alla seconda sottocommissione fu talmente sbrigativo da suggerire all'interprete odierno almeno due rilievi: Il primo, che “ Tutti i grossi nodi problematici della trasformazione della rappresentanza politica nella democrazia pluralista fossero stati appena percepiti dai costituenti”24; il secondo che la stringatezza del dibattito sui rapporti fra parlamentari e partiti politici, quale risulta dai resoconti, fosse in evidente contraddizione con la straordinaria importanza assunta dagli stessi partiti nel cosiddetto periodo costituzionale provvisorio.

Il problema della trasformazione del parlamentarismo era emerso chiaramente in tutta la sua evidenza di fronte all'Assemblea costituente. Pietro Calamandrei, ad esempio, aveva potuto osservare che la natura degli istituti parlamentari risultava profondamente mutata in virtù dell'attività e dei programmi dei partiti politici: “Vedete qui mentre io vi parlo(...) so benissimo che se arrivassi a convincervi con gli argomenti che vi espongo, essi non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito, a far si che, quando si tratterrà di votare, voi, pur avendomi benevolmente ascoltato, possiate votare con me”.25

Per il socialista Lelio Basso, invece, la disciplina di partito e di gruppo pareva l'unico elemento realmente efficace di razionalizzazione del sistema parlamentare: Egli osservava infatti che “Non si tratta più dell'opinione del singolo deputato che può mutare di volta in volta, secondo le combinazioni parlamentari o a seconda delle manovre di corridoio. Si tratta di grandi

24 P. Ridola, “Divieto del mandato imperativo e pluralismo politico”, in “Studi sulle fonti normative e altri temi di

vario diritto in onore di Vezio Crisafulli”, Padova , Cedam, 1985 p. 679.

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partiti che hanno la responsabilità di grandi masse, di milioni di elettori.”26 E' comunque difficile dire se dal dibattito dell'assemblea costituente emerga o meno il senso della trasformazione che avrebbe segnato la futura forma di governo e di stato dell'Italia repubblicana. Come è difficile dire se l'approvazione dell'Art. 67 poteva significare mera recezione di un principio tradizionale o tutto il contrario, ovvero la volontà di dare vita a una Costituzione non rigidamente “adeguata” alla realtà dei partiti e quindi priva della finzione delle assemblee legislative composte da deputati liberi, una Costituzione in cui il potere di direzione politica spetta ai partiti.

Lo status di parlamentare, in seno all'assemblea costituente, venne trattato in modo conforme alla tradizione e la questione dei rapporti fra deputati e partiti politici o gruppi parlamentari fu sostanzialmente ignorata. Solo in un occasione questa questione fu affrontata ma si ritenne opportuno non avanzare proposte in materia, in quanto i rapporti fra deputati e partiti di appartenenza doveva essere lasciata all'evoluzione del costume politico. L'idea fondamentale di questi anni è quella che i partiti costituiscono lo strumento esclusivo di collegamento fra Stato e la società civile, in quanto dotati di una capacità rappresentativa potenzialmente globale. Sul piano della rappresentazione politica invece non era la scelta dei rappresentanti ad attuare l'effettiva partecipazione del popolo ma l'adesione ai programmi elaborati dai partiti e presentati alle masse.

E' difficile stabilire, quanto di quello appena detto riguardo alla situazione esistente in quegli anni, sia poi stato realmente espresso nel breve e asettico Art. 67 .

Ciò che è certo, e che da un lato stupisce, è che i costituenti comunisti ad esempio, nulla dissero riguardo al divieto di mandato imperativo come simbolo della finzione rappresentativa, uno dei temi di fondo della critica marxista allo stato borghese. A differenza dei comunisti francesi, che in quegli stessi anni si battevano per la costituzionalizzazione del rapporto fra il parlamentari e proprio partito di appartenenza, in Italia il partito comunista elaborò un blando invito a “lasciar perdere” un principio come

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quello del divieto di mandato imperativo. Di fronte alla seconda sottocommissione, Terracini osservò infatti che qualsiasi disposizione fosse stata inserita nella Costituzione non avrebbe sciolto il legame fra eletto e il suo partito.

Dell'atteggiamento tenuto dai costituenti di impostazione marxista forse l'unica cosa da dire è che il loro disimpegno fu manifestazione della generale consapevolezza dei partiti operai del fatto che solo le forme istituzionali borghesi erano l'unico modello utilizzabile per una politica di collaborazione.

Per quanto riguarda i legami fra partito e eletto c'è da dire che essi erano tali da scoraggiare qualsiasi possibilità di formalizzazione normativa.

Costantino Mortati, tuttavia appariva maggiormente propenso a tentar un intervento normativo sull'intera questione. Essendo egli un gran conoscitore delle esperienze costituzionali europee si pose questo quesito; una volta accolto il principio proporzionalistico e considerando i deputati come rappresentanti dei partiti, se l'espulsione di un deputato dal partito avrebbe fatto cessare il rapporto elettorale, cioè la qualità di deputato in considerazione dell'equilibrio politico formatosi in seguito all'espressione della volontà popolare. Egli era giunto a configurare l'ipotesi che il deputato dimissionario o espulso dal partito fosse da considerare tacitamente revocato. Mortati però non riteneva una simile soluzione in contraddizione con il principio della rappresentanza generale; i deputati rappresentavano si correnti politiche ma le loro manifestazioni valgono a formare la volontà obbiettiva dello stato.

Al di là della posizione assunta da Costantino Mortati però la questione del divieto di mandato imperativo sarà risolta in maniera tradizionale.

Proposta dal deputato Conti, la formula sul divieto di mandato imperativo fu così formulata; “I deputati esercitano liberamente le loro funzioni. I deputati nell'esercizio del loro mandato, non possono essere arrestati.”27

Questa formulazione appariva alquanto ambigua in quanto la prima parte poteva essere considerata come una semplice premessa al principio di

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