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p e r u n a s t o r i a d e l l e d o t t r i n e

Historical Materialism Conference:

Revolution and Restoration

Università di Roma Tre -

Roma 17 - 19 settembre 2015

Niccolò Cuppini

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BOLLETTINO –Historical Materialism Conference

La conferenza organizzata dalla rivista «Historical Materialism», intitolata

Revolution and Restoration, ha riunito una gran numero di ricercatori per

di-scutere di alcuni dei maggiori temi oggi al centro del dibattito politico e teori-co. L'iniziativa è stata strutturata attorno a quattro assi tematici: Marxism and

Philosophy: The Italian Debate and its International Effects; New World Disor-der: Crisis, Conflicts and Transformations of Class Struggles; Powers, Organiza-tional forms, New Institutions e The right to the City. Per evidenti questioni di

spazio si riportano solo due delle decine di panel organizzati, chiamati «Insti-tutions and Governance» e «Rivoluzione/Restaurazione».

Nel primo Alessandro Arienzo ha presentato una relazione dal titolo

Ma-naging the Crisis: Governamentality and Governance in Austerity Europe,

orga-nizzata attorno a tre punti: l’esistenza di una governance economica della poli-tica; l'idea di un diritto europeo dell'emergenza; la riflessione attorno all'eco-nomia sociale di mercato. Arienzo ha invitato a non considerare le discussioni economiche che agitano il dibattito pubblico come mere questioni specialisti-che. Egli infatti ritiene che esse, inscrivendosi nell'idea stessa dell'economia sociale di mercato, siano un aspetto fondamentale della «governamentalità neoliberale». Tale ipotesi indica nella vera e propria costruzione di una diffe-rente società il fine ultimo delle scelte economiche. Riprendendo il noto afori-sma di Margaret Thatcher «l'economia è il metodo, l'anima l'obiettivo», Arienzo ha richiamato il lavoro di Michel Foucault a partire da una delle sue più celebri affermazioni: «l'Unione Europea non è che una peripezia del go-verno». A partire da questi temi il relatore ha invitato dunque a inquadrare il nucleo della costruzione di una società europea come vero terreno sul quale impostare l'analisi, piuttosto che sugli elementi che comunemente sono di-scussioni nel dibattito pubblico. Ritenute rilevanti ma non cruciali sono infatti le riflessioni sul deficit democratico nell'UE, sulla «guida tedesca» o sul tema della spesa pubblica. Arienzo, analizzando l'autonarrazione che alcuni tra i più influenti attori europei propongono (dai documenti della Commissione Europea alle prese di parola pubblica di varie personalità delle istituzioni eu-ropee), ha argomentato attorno al tentativo del fare dell'Europa un modello di civilizzazione autonoma, affermando che il mercato è oggi una variabile indi-pendente, mentre il governo è solo una variabile dipendente. Per questo per Arienzo è possibile ritenere che si sia prodotto un ribaltamento storico: men-tre in passato si definiva una governance politica dell'economia, oggi ci tro-viamo di fronte a una governance economica della politica.

La relazione successiva di Paolo Napoli aveva come titolo «Back to Insti-tuere». Riprendendo la prima tesi su Feuerbach e il prologo del Diciotto Bru-maio di Luigi Bonaparte di Karl Marx, Napoli ha mostrato come da quei testi emerga un'idea della praxis come una «oggettività pensante», e non come di

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quindi analizzato vari approcci al problema “istituzione”. Il primo è quello che considera l'istituzione come una persona, un moloch. Questa concezione, ri-conducibile alla linea che da Max Weber passa per Erving Goffman e Michel Foucault, disegna le istituzioni essenzialmente quali apparati di costrizione. Il secondo approccio è quello, derivato soprattutto dalla storia sociale, che pensa l'istituzione come una cosa locale prodotta dal basso. Il terzo pensa l'istituzio-ne come soggetto, come personificaziol'istituzio-ne di una posiziol'istituzio-ne di potere, che ri-conduce a una visione per la quale l'agire collettivo sarebbe determinato dall'insieme delle persone e di forme di modellizzazione, mentre la tradizione hobbesiana propone una visione in negativo dell'istituzione come un filtro, o meglio un freno, alle pulsioni altrimenti distruttive degli individui. Vi sono infine impostazioni che considerano l'istituzione quale presenza empirica con effetti di potere e di dominazione; accezioni articolate attorno alla coppia anarchismo pneumatico/gerarchia; il cosiddetto pragmatismo, che svuotando l'autonomia delle istituzioni ipostatizza una sorta di accordo implicito nella società. In contrasto con ciò che accomuna queste visioni Napoli sostiene che non è l'accordo, bensì il disaccordo, il dissidio, la disputa a fungere da elemen-to qualificante delle istituzioni. Esse sono esseri senza corpo, il cui ruolo va colto primariamente nella loro capacità di dire e confermare ciò che importa per una società. Detta in altre parole: si istituzionalizzano le presenze orga-nizzate in grado di influire rispetto all'indicazione di ciò che conta nella socie-tà. Facendo riferimento alla concezione giuridico-istituzionale di Maurice Hauriou, Napoli propone una concezione dell'«istituzione come cosa» che si propaga e vive, ma non ha effettivi processi di incorporamento, o quantomeno se si incorpora mantiene comunque un'autonomia. Essa sarebbe immanente alla storia e non sarebbe un puro riflesso della società, conducendo a una cri-tica dell'interpretazione di stampo marxista che inquadra il diritto come puro riflesso dei rapporti di classe. Si può dunque concepire una relativa autonomia dalla legge delle regole del diritto, in modo da delineare un campo di norma-tività con una propria autonomia che può venir di volta in volta appropriato.

Il terzo intervento del panel, «Istituzioni senza prospettiva?», è toccato a Pierangelo Schiera, che ha definito le istituzioni come strutture governamen-tali legittime, in quanto legittimanti. Schiera ritiene vecchia e conclusa la pro-spettiva weberiana e liberal-borghese che fa della legittimazione un principio di misurabilità allo scopo, laddove quest'ultimo si inscrive quale elemento co-stitutivo dell'idea di progresso nella modernità europea. Secondo Schiera oggi

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BOLLETTINO –Historical Materialism Conference

ci confrontiamo invece con un pulviscolo strutturato di istituzioni globali in-visibili. Il problema è infatti quello di una produzione istituzionale in conti-nua crescita che sfugge ai tentativi di classificazione, e questo terreno può es-sere letto a partire dallo sfumare del potere legislativo, luogo nel quale una volta si definiva la linea di sviluppo dell'ordinamento. Il problema è quello di ripensare un criterio di «misura» per le istituzioni contemporanee. Schiera in-dica tre livelli nell'uso del concetto. Il primo, inteso come momento finale di applicazione della misura alla vita civile, rimanda a un provvedimento norma-tivo. Il secondo, quello intermedio, inquadra la misura come dottrina, ossia come sistema di conoscenza. A riprova di questo livello Schiera ricorda il fatto che alla base dei provvedimenti legislativi vi sia sempre la necessità di una mi-sura, di una conoscenza dei fenomeni sui quali si intende prendere tali prov-vedimenti. L'ultimo livello è quello definito come misura di sé, punto di par-tenza seminale. Secondo Schiera sarebbe oggi necessario ribaltare l'ordine di questa gerarchia. Partendo da questa impalcatura teorica Schiera sostiene che l'alternativa al globale non sia il nazionale, quanto il locale. Se infatti il globale è lo «smangiamento» della sovranità, il locale è ciò che lo Stato moderno ha annientato costituendosi. Se storicamente lo Stato si è definito contro le for-me universali dell'Impero e della Chiesa da un lato, e contro signorie locali e città dall'altro, l'attuale crisi dello Stato riapre il rapporto tra alto e basso fissa-to in epoca moderna. L'intervenfissa-to di Schiera si conclude sulla necessità di conquistare oggi una presenza nella propria vita a partire della misura di sé che si traduca nel produrre un riequilibrio del legislativo associato a un esecu-tivo partecipato. Ciò significa, riprendendo il linguaggio spaziale, una possibi-lità di guardare alle istituzioni amministrative locali come a potenziali per una democratizzazione del procedimento amministrativo che si componga come una freccia che vada in orizzontale, e non dall'alto al basso e viceversa com'era nel passato.

La questione della misura è ritornata nel tavolo di riflessione su «Rivolu-zione/Restaurazione», grazie a Ida Dominijanni, che in un intervento intitola-to «La misura del cambiamenintitola-to» ha affermaintitola-to che il rapporintitola-to tra rivoluzione e restaurazione non è affatto pacifico. Non a caso è possibile che rispetto alla loro interpretazione emergano letture assolutamente contrastanti, come ad esempio per il 1968: «tramonto del grande Novecento» per Mario Tronti e ini-zio di una nuova alba per Antonio Negri. Per Dominijanni, che segue un per-corso che va da Michel Foucault e Wendy Brown fino a Pierre Dardot e Chri-stian Laval, dopo il ‘68 c’è stato senza dubbio un cambio di egemonia da una «stagione sovversiva» a una liberale. Le istanze di libertà e di autogoverno emerse nel ventennio sovversivo sono state contrastate grazie a una rivoluzio-ne discreta, passiva, nascosta che ha condotto a un cambiamento

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dell'antropo-sono sempre più tesi ad adeguare le condotte a determinati obiettivi; la co-struzione di un neo-soggetto interamente determinato dalla sua esistenza corporeo/psichica . Per Dominijanni, dunque, il neoliberalismo punta sulla psiche individuale facendo leva sulle logiche del desiderio, della libertà, dell'autogoverno e del protagonismo piegandole alle logiche di mercato. Si tratta di un progressivo svuotamento del lessico del Sessantotto che conduce a un dispositivo prestazione/godimento quale nocciolo di autodisciplinamento. Una tensione che conforma i soggetti alla logica del «produrre sempre di più, godere sempre di più» che la relatrice inquadra all'interno di una possibile equivalenza, o meglio un isomorfismo tra l'idea marxiana di plusvalore e quel-la quel-lacaniana di pluspotere. Attorno a questo «diquel-lagare del godimento», un pia-cere oltre il piapia-cere, contrassegnato da un desiderio di morte, si produce una crisi radicale dell'ordine simbolico. Di fronte alla costituzione apparentemente euforica del soggetto neoliberale si materializza infatti una sintomatologia at-traversata da perversione, depressione, senso di colpa e dipendenze: una ordi-naria infelicità. Dominijanni ritiene che ciò sia stato possibile perché il '68, pur avendo messo al centro la soggettività, non è stato in grado di analizzarla per davvero, complice in ciò il materialismo e l'ontologia del soggetto tout

court. Si sarebbe dunque manifestata una contraddizione tra il vivere di

un'e-splosione di soggettività, posizionandola sul trono dell'agire politico, ma senza riuscire successivamente a metterla sufficientemente a fuoco. La progressiva moltiplicazione delle istanze di lotta non è una garanzia di rottura, in quanto mima il funzionamento stesso del neoliberalismo nel moltiplicare le istanze di autogoverno. Per Dominijanni è allora necessario recuperare l'idea secondo la quale la politica necessiti di un surplus di senso, di una verticalità, di una teo-logia. Questo riferimento va però inteso a partire da un lavoro su un doppio registro, su una doppia indisponibilità: un rifiuto della performance produttiva cui la soggettività è sottoposta nel neoliberalismo, ma anche un rifiuto rispet-to alle vecchie forme politiche, siano esse il partirispet-to o la forma-movimenrispet-to in-tesa come sinusoide che alterna momenti di illusione ad altri di depressione.

Giacomo Marramao ha aperto la sua relazione dal titolo «Per una critica della ragione biopolitica», sostenendo che la «rivoluzione passiva neolibera-le», sortilegio fantasmagorico che oggi ha la configurazione spettrale del capi-tale globale, è finita. Egli ha messo in evidenza come oggi vi sia un abuso del concetto di «vita», e come in effetti l'idea stessa di biopolitica sia un qualcosa che «c'è sempre stato», mentre la stessa distinzione foucaultiana tra società

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BOLLETTINO –Historical Materialism Conference

disciplinare e società della normalizzazione deve essere arricchita dalla criti-che successive di Micriti-cheal Hardt e Antonio Negri, come pure di Gilles Deleuze e Felix Guattari, che lo correggono parlando invece di un «controllo» che non opera più grazie alla repressione, bensì alimentando gli eccessi e il godimento. Facendo un ampio riferimento a Mario Tronti, Maramao ha quindi segnalato come lo Stato non punti più a mediare il rapporto tra capitale e lavoro, dive-nendo piuttosto stabile rappresentate del primo. Non c'è più un fuori rispetto al capitale globale, o al «gigantesco intero globale» come dice Peter Sloterdijk. Detta in altro modo: il sociale è oggi produttivo nel mantenimento delle zone di riproduttività, non c'è un sociale indipendente, un isolamento sociale di durkheimiana memoria. Non ci troviamo dunque per il relatore di fronte a un potere «omnifagocitante», ma a un contesto che già Hannah Arendt aveva se-gnalato, dicendo che nel momento in cui l'Occidente si è rapportato al mondo in termini di dominio, ha «perduto il mondo». Questo rapporto di dominio conduce a una perdita di senso e valore dell'oggetto della relazione, sottolinea Marramao, tema che vale in politica come in amore. E da questa perdita del mondo è necessario ripartire per il relatore, non rimanendo dunque irretiti nel sortilegio del capitale globale, ma riprendendo una visione del disordine, della «grande confusione sotto al cielo», fissata sulla progressiva sconnessione del rapporto tra come vivono gli individui nel mondo e il registro di normalizza-zione del capitale e sulla necessità di recuperare uno dimensione di compren-sione della costituzione del soggetto, della quale possediamo la grammatica ma non la sintassi.

L'intervento conclusivo del tavolo è affidato a Mario Tronti, il quale si con-fronta direttamente col tema «Rivoluzione/Restaurazione» riportandolo a un impianto generale, storico-teorico. Per Tronti Europa e Occidente come nati e cresciuti all'interno di una modernità come rivoluzione permanente, un moti-vo prospettico nel quale si determinavano incessantemente rotture e una pro-spettiva aperta sul futuro. Tale dinamica si è imposta grazie alla separazione, o meglio alla dialettica, tra potere religioso e potere secolare. E' in questa sepa-razione che emerge il mito rivoluzionario, ma la rivoluzione è anche rottura con il tempo ciclico del pensiero politico antico, è un escatologismo secolariz-zato. Un «tempo-freccia» che passa attraverso delle rotture. Un tempo mitico, rispetto al quale la restaurazione si presenta come «tempo-reale», come un ritorno dal cielo alla terra e come lotta al mito stesso. In questa prospettiva la rivoluzione viene definita come un «disordine intervenuto» e la restaurazione come un «ordine ri-costituito». Tronti pone a questo punto della riflessione il fatto che tutte queste dimensioni appartengono ormai a un tempo passato, in quanto il processo di secolarizzazione non permette più un tempo mitico. In secondo luogo e di conseguenza, non è più possibile parlare in termini

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classi-tempo perché non sono a esso più adeguate. Siamo di fronte al dominio del concetto di «innovazione», «parola magica» che ha omogeneizzato il rapporto tra destra e sinistra, nascondendo un altro termine, quello di «trasformazio-ne». Tronti ritiene che la data di cesura a riguardo sia il 1975, rispetto alla qua-le è possibiqua-le tracciare molti equa-lementi di continuità. A partire da taqua-le anno è venuta definendosi una «continuazione con altri mezzi» più che una restaura-zione. Si interrompono i «trent'anni gloriosi» e si definisce un riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. La minaccia operaia avrebbe condotto «il capitale a suicidarsi». O meglio: a suicidarsi sarebbe stato il capitale indu-striale, producendo con ciò l'omicidio della classe operaia. Il riformismo come bandiera storica della sinistra è stato preso in mano e sostituito da un riformi-smo di destra, determinando una sconfitta della prima ipotesi. Si è in altre pa-role determinato un «esproprio» del riformismo da parte del capitalismo, che ha praticato la riforma in prima persona. Tronti ritiene in conclusione che og-gi sarebbe da approfondire la coppia tradizione/rivoluzione, ma la sua coppia, il suo punto teorico di elaborazione, è quella anomala (perché contrastante, «dialetticamente improponibile») rivoluzione/conservazione. Riflettere su questo nodo significa ripensare il mito della rivoluzione come immediata rot-tura, frattura e distruzione di tutto ciò che c'era. Partendo dall'assunzione dell'attuale assenza di un rapporto riforma/rivoluzione, Tronti è convinto che tale coppia andrebbe rovesciata. Essere rivoluzionari, ma con la consapevolez-za che dopo la rottura bisognerà essere riformisti, è l'invito a immaginare un gradualismo che possa consolidare nuove forme di potere. Tronti ritiene infat-ti che l'errore della Rivoluzione d'Ottobre sia stato il fare il socialismo subito, mentre lo stesso Lenin avrebbe compreso prima di morire che bisogna co-struire le condizioni della costruzione della nuova società. Questo esempio viene portato per sostenere che un pensatore (politico) che non pensa la storia non possa essere considerato tale, in quanto è necessario trarre gli insegna-menti che essa offre per poter pensare cosa fare dopo.

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