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L'educatore nei laboratori protetti del CARL, quale è il suo ruolo? : indagine qualitativa sulla specificità del ruolo educativo nei laboratori protetti del CARL

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Academic year: 2021

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(1)

     

   

del CARL, quale è il suo

ruolo?

Indagine qualitativa sulla specificità del ruolo educativo nei laboratori

protetti del CARL

Studente/essa

Kevin Bernasconi

Corso di laurea Opzione

Lavoro Sociale

Educatore

Progetto

Tesi di Bachelor

Luogo e data di consegna

(2)

Un matto, Fabrizio De Andrè, Non al denaro non all'amore né al cielo, 1971

Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole, e la luce del giorno si divide la piazza

tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, e neppure la notte ti lascia da solo:

gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro E sì, anche tu andresti a cercare

le parole sicure per farti ascoltare:

per stupire mezz'ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria, e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto. E senza sapere a chi dovessi la vita

in un manicomio io l'ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri eppure c'è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole. Le mie ossa regalano ancora alla vita: le regalano ancora erba fiorita.

Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia "Una morte pietosa lo strappò alla pazzia".

Voglio ringraziare in particolar modo mia mamma e mio papà che mi hanno sostenuto dall’inizio alla fine della formazione e la Commissione di tesi che mi ha prontamente seguito e stimolato durante tutto il percorso.

“L’autore è l’unico responsabile di quanto contenuto nel lavoro”  

(3)

INDICE

1.  Descrizione  del  contesto  lavorativo  ...  5  

2.  Definizione  della  problematica  ...  8  

3.  Dissertazione  ...  10  

3.1  Approfondimento  teorico  ...  10  

3.1.1  L’approccio  inclusivo  ...  11  

3.1.2  Il  lavoro  come  strumento  di  riabilitazione  con  il  disagio  psichico  ...  13  

3.1.3  Ruolo  dell’educatore  ...  16  

3.1.4  La  progettazione  dialogica  ...  17  

3.2  Analisi  delle  interviste  ...  19  

3.2.1  La  progettualità  educativa  interna  ai  laboratori  protetti  del  CARL  ...  20  

3.2.2  Le  modalità  di  sviluppo  dei  progetti  educativi  individuali  interni  ai  laboratori  protetti  del  CARL  .  22   3.2.3  Specificità  dell’intervento  educativo  nel  quotidiano  ...  24  

3.2.4  Le  modalità  di  collaborazione  interprofessionali  interne  ai  laboratori  protetti  ...  27  

3.2.5  Le  modalità  di  collaborazione  interprofessionale  con  le  figure  esterne  coinvolte  nei  progetti   educativi  degli  utenti  dei  laboratori  ...  30  

4.  Conclusioni  ...  32  

4.1  Considerazioni  della  ricerca  svolta  ...  32  

4.2  Trasferibilità  dei  contenuti  del  lavoro  rispetto  al  ruolo  dell’educatore  nella  nostra  società  ...  34  

4.3  Risorse  e  limiti  del  lavoro  svolto  ...  35  

4.3.1  Contenuto  ...  35   4.3.2  Metodo  ...  35   5.  Bibliografia  ...  37   5.1  Testi  ...  37   5.2  Dizionari  ...  37   5.3  Sitografia  ...  37   5.4  Articoli  scientifici  ...  37  

5.5  Documenti  interni  OSC-­‐CARL  ...  38  

5.6  Indice  degli  allegati  ...  38    

   

(4)

Introduzione

Durante il mio ultimo stage formativo, che ho svolto nei laboratori protetti del CARL, nello specifico all’interno del laboratorio di legatoria, mi sono confrontato con una realtà lavorativa piuttosto particolare in quanto il campo lavorativo dell’educatore era condiviso con due artigiani legatori.

Lavorare con figure professionali diverse non è stato da subito semplice soprattutto nel capire quale fosse il ruolo dell’educatore in una realtà complessa come quella. Nonostante i numerosi scambi e confronti, sia con la mia responsabile pratica, che con il coordinatore dei laboratori protetti, ho capito che sarebbe stato interessante approfondire l’argomento della specificità del ruolo educativo nei laboratori protetti visto che allo stato attuale non esiste un documento ufficiale per i laboratori.

Nel corso dello stage mi ha incuriosito il fatto di capire quale fosse il valore aggiunto che la figura educativa ha portato, nel corso degli anni, all’interno della realtà dei laboratori protetti e come ogni educatore impiegato nei diversi laboratori del CARL agisce il suo ruolo nella quotidianità e lo rende specifico.

Non avendo trovato un mansionario per gli educatori dei laboratori protetti, ho voluto svolgere questo lavoro di ricerca centrando l’attenzione sulla specificità del ruolo educativo, al fine d’identificare quale sia il compito dell’educatore all’interno di équipe lavorative interprofessionali composte di figure professionali diverse.

Condividendo da subito la mia idea con la mia responsabile pratica e con il coordinatore dei laboratori protetti, mi è stato confermato l’interesse anche da parte dell’istituzione rispetto la tematica che ho scelto di approfondire nel mio lavoro.

I concetti teorici con i quali ho scelto di sostenere e approfondire l’argomento nel mio lavoro di tesi sono i seguenti:

- concetto di ruolo educativo con persone adulte - concetto di inclusione sociale

- la progettazione dialogica

- il lavoro come concetto di riabilitazione in psichiatria

In questo lavoro ho cercato di mettere a confronto la realtà lavorativa che ho incontrato durante questo mio ultimo stage, con i concetti teorici sopra elencati in modo da portare ai lettori una visione maggiormente chiara della figura educativa all’interno dei laboratori protetti del CARL.

In breve nel primo capitolo cercherò di descrivere quello che è stato il contesto lavorativo dell’ultimo stage formativo della SUPSI partendo dalla descrizione macro dell’OSC, identificando il ruolo e il compito di questa istituzione all’interno della nostra società, per arrivare alla specificità del CARL che gli permette di distinguersi ed avere un compito ben preciso all’interno dell’istituzione. Da ultimo cercherò di fare luce brevemente sulla storia dei laboratori protetti cercando di capire da dove nascono e come sono organizzati oggi. Nel secondo capitolo identificherò la problematica da me affrontata arrivando poi all’interrogativo di ricerca individuato per comporre questo lavoro con le rispettive

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domande di ricerca che mi hanno permesso di strutturare le interviste. In questo capitolo descriverò anche qual è stato il metodo di lavoro da me utilizzato per affrontare il mio lavoro di tesi, introducendo gli approfondimenti teorici che utilizzerò all’interno del capitolo della dissertazione, per analizzare e commentare quanto emerso all’interno delle interviste.

In questo capitolo cercherò di fare parlare i concetti teorici da me selezionati con i punti di vista delle persone che ho intervistato durante lo stage, in modo da avere un discorso che sia teorico ma che abbia soprattutto uno sguardo sulla realtà pratica che ho scelto di analizzare.

1. Descrizione del contesto lavorativo

In questo capitolo, ho descritto il contesto macro dell’OSC, istituzione alla quale sottostà il CARL, per poi arrivare a definire il contesto dei laboratori protetti, luogo di lavoro all’interno del quale ho svolto il mio ultimo stage formativo.

“Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale” (OSC) è l’istituzione statale del Canton Ticino alla quale sottostanno tutte le strutture, sia ospedaliere, sia ambulatoriali pubbliche aventi lo scopo di occuparsi e prendersi a carico le persone che presentano disturbi di tipo psichiatrico.

L’OSC nasce da una terza svolta storica della gestione della psichiatria a livello cantonale, la quale ha, di fatto, segnato la scomparsa dell'ONC (Ospedale Neuropsichiatrico Cantonale), che dal 1994 si è suddiviso in due strutture distinte a dipendenza della casistica della quale hanno il mandato di occuparsi: la CPC (Clinica psichiatrica cantonale) che ha lo scopo di riabilitare e curare i pazienti psichiatrici in fase acuta e il Centro abitativo, ricreativo e di lavoro (CARL), che ha il compito di gestire gli ospiti definiti cronici stabilizzati.

Gli utenti che usufruiscono delle prestazioni offerte dal CARL, sono persone che beneficiano di una rendita AI o che prima dell’età AVS ne hanno beneficiato.

Lo scopo principale del Centro è quello di gestire sia i disturbi del comportamento delle persone che vi risiedono, ma anche quello di mantenere l’autonomia della persona.

Le due aree di attività del CARL sono le seguenti:

1. Abitativa (circa 121 posti letto) la cui presa a carico verso l’ospite ha come obiettivo principale la gestione dei disturbi del comportamento della persona, mantenendo, e se possibile potenziando, il livello della loro autonomia.

2. Lavorativa (117 posti di lavoro), strutturata in laboratori protetti, i quali hanno lo scopo di riattivare le competenze della persona inserendo l’utente in un ciclo produttivo.

Il CARL è quindi considerato un luogo all’interno del quale le componenti che compongono l’acronimo ovvero “abitativo, ricreativo e lavoro” lo contraddistinguono,

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mettendo al servizio dell’utenza un luogo protetto che abbia tra gli scopi quello di soddisfare i bisogni fondamentali di sicurezza e di appartenenza.

In ogni unità abitativa, le équipe sono formate da professionisti con competenze sociosanitarie e educative specifiche, composte da un coordinatore, educatori, operatori socio assistenziali, infermieri psichiatrici, aiuto infermieri e assistenti geriatrici.

Nei laboratori protetti gli utenti hanno opportunità di lavoro diverse, con l’obiettivo di accogliere gli utenti indipendentemente dalla casistica, facendo riferimento al territorio dell’OSC (utenti del CARL, pazienti della CPC e ospiti provenienti dall’esterno).

All’interno dei laboratori protetti, i professionisti presenti che si occupano della gestione delle attività sono: educatori, maestri socio professionali, operai e artigiani.

“Nei Laboratori protetti a supporto dell’attività degli operai, con competenze specifiche al tipo di attività lavorativa, sono presenti dei referenti educativi che supportano il raggiungimento degli obiettivi riferiti ai singoli piani di sviluppo degli ospiti/utenti.”1

All’interno dei laboratori protetti, l’utente, attraverso l’attività lavorativa, viene integrato in un processo produttivo che considera sia i limiti che le capacità reali di ogni individuo, fornendo elementi in grado di aumentare le capacità di ciascuno.

Questo modo di operare permette di realizzare un modello d’integrazione sociale e di valorizzazione individuale della persona aiutandola a ritrovare la propria identità permettendole di assumere un ruolo specifico.

Nei laboratori protetti è attraverso l’attività lavorativa che si fanno emergere, valorizzare e stimolare nella persona le competenze manuali, ma anche le valenze che hanno a che vedere con la vita relazionale e di scambio con altre persone e con i colleghi di lavoro. Questo processo è ottenibile attraverso gli obblighi che discendono dal confronto quotidiano con gli operatori o tra utenti stessi.

All’interno del centro sono inoltre attive due figure di assistenti sociali; un responsabile delle attività creative e un operatore, il cui compito è quello di occuparsi degli inserimenti professionali degli utenti. L’animatore del centro ha il ruolo di organizzare momenti di animazione allo scopo di valorizzare in modo creativo la gestione del tempo libero. Gli assistenti sociali invece hanno il compito di assicurare l’intervento e la presa a carico sociale agli utenti del CARL e degli appartamenti protetti, al fine di favorire l’autonomia dell’individuo.

Per affrontare la sintesi della ricerca documentale in merito al ruolo dell’educatore all’interno del CARL, farò riferimento nello specifico al manuale di qualità dell’OSC e in secondo luogo al lavoro di diploma di educatore specializzato di F.Bernardi, ex direttore della struttura.

L’operatore impiegato nei laboratori ha il ruolo e il compito di trovare e assegnare “lavori” adeguati alle capacità individuali dell’utente, necessari e utili, sia al laboratorio stesso, ma                                                                                                                

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anche alla persona utente che vi lavora, in modo da permettergli di comprenderli come indispensabili nel processo produttivo.

Questo percorso che l’operatore ha il compito di seguire e sostenere, ha lo scopo, per quanto possibile, di permettere all’utente di ricavare una realizzazione maggiore di se stesso, come anche una maggiore considerazione verso la sua persona.

“Il lavoro protetto può inoltre diventare un’occasione privilegiata e un trampolino di lancio per quei soggetti di cui si prevede un ritorno a domicilio; questi possono approfittare dell’attività lavorativa per prendere coscienza dei propri mezzi e acquisire quella sicurezza necessaria per effettuare il tentativo di reinserimento sociale.”2

Nel lavoro di diploma di P. Bedulli, R.Cavadini, G.Poletti, dal titolo “L’aspetto lavorativo al CARL”, ho trovato alcuni elementi interessanti per la mia ricerca in merito alla storia dei laboratori protetti del CARL.

In breve, parte dei laboratori protetti del CARL, iniziano già la loro attività con la nascita dell’ospedale psichiatrico, allo scopo di offrire un servizio interno alla struttura e al sostentamento degli ospiti dell’ospedale stesso.

Oggi i laboratori sono ancora legati, in parte, ai lavori di funzionamento delle diverse unità abitative, come alle diverse esigenze lavorative interne all’OSC.

Nei vari laboratori sono comunque richieste, agli operatori impiegati nei laboratori, competenze e capacità lavorative e relazionali non comuni.

Le occasioni di lavoro nei laboratori sono multiple, diffuse e diversificate all’interno dell’intero perimetro del parco di Casvegno a Mendrisio, dove risiede la struttura del CARL. Oggi i laboratori sono sei: il laboratorio di assemblaggio, la legatoria, il laboratorio NAOMI, l’Offset, il laboratorio di redazione Agorà e il laboratorio che si occupa della manutenzione del parco recentemente unito al laboratorio “La serra”.

“Curare, gestire, recuperare gli ospiti con handicap prevalentemente psichici è compito specifico dell’OSC e in certi suoi aspetti, particolare del CARL che ha assorbito e integrato fra le sue mansioni quello di occuparsi delle attività lavorative all’interno di Casvegno”3

Tutto sommato posso dedurre che dalla storia dei laboratori all’interno del CARL, vi sia stata una necessità di inserire piano piano, all’interno delle équipe operative, la figura educativa allo scopo di garantire una presa a carico individualizzata, aiutando l’utente a riacquisire la valorizzazione del suo ruolo sociale nella società.

Nell’intervista al direttore del CARL, riesco a comprende il motivo per cui si è cercato, nel tempo, di inserire e potenziare la presenza educativa all’interno dei laboratori, con la seguente affermazione: “…Il grosso cambiamento che sta avvenendo oggi è quello di trasformare il progetto in una struttura di passaggio, con l’idea di un domani di reinserirle nella vita

                                                                                                               

2 BERNARDI Franco, lavoro di diploma: l’intervento educativo nell’ambito psichiatrico. Il Centro Abitativo

Ricreativo e di Lavoro, Mendrisio, 1996, pagina 36

3 BEDULLI Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma: “L’aspetto lavorativo al

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esterna (foyer, appartamenti,…). Anche i laboratori sono chiamati ad inserirsi in questo progetto offrendo la possibilità all’utenza di potenziare la propria autonomia.

Per fare questo, stiamo cercando pian pianino di sostituire artigiani con educatori all’interno dei laboratori, allo scopo di avere almeno una di queste figure all’interno di ognuno dei laboratori.”4

Sempre nel lavoro di diploma di P.Bedulli, R.Cavadini, G.Poletti, ho trovato alcune interessanti indicazioni in merito a quanto richiesto, come ruolo e mansioni, alle persone coinvolte nell’attività lavorativa del laboratorio.

“Il lavoro degli operatori, siano essi educatori, maestri socio-professionali, infermieri o altro, deve poter avere un comune denominatore, delle basi di riferimento accettate e condivise, e delle modalità operative che conducano al raggiungimento di obiettivi concordati.”5

Avendo come scopo del laboratorio quello educativo e riabilitativo dell’utente che decide d’intraprendere un’attività lavorativa, tramite l’attivazione della possibilità di cambiamento delle capacità o del comportamento della persona, la persona dovrebbe riuscire ad acquisire o mantenere una maggiore autonomia al fine di raggiungere la miglior integrazione sociale possibile. L’apprendimento delle abilità lavorative e sociali permette all’utente di ridurre il disagio, come anche il distacco dalla società.

L’atto educativo nel laboratorio, come viene descritto nel testo citato sopra, può essere riassunto nel cercare di offrire un luogo privilegiato alla persona malata per sviluppare dei processi, sfruttando l’attività lavorativa come oggetto di mediazione di molti scambi relazionali.

“L’atto educativo richiede la piena assunzione del ruolo da parte dell’operatore e là dove è possibile e indicato sarebbe bene poter allestire un percorso formativo con tutta l’équipe, prevedendo fin dall’inizio le fasi di sviluppo e i momenti valutativi di verifica. Un percorso educativo-formativo deve avere degli obiettivi realistici e partire dalle potenzialità della persona.”6

In conclusione è importante, nell’azione educativa dell’educatore del laboratorio, coinvolgere il più possibile la persona direttamente interessata nella costruzione degli obiettivi che costituiscono il suo progetto.

2. Definizione della problematica

In questo capitolo ho descritto, passo per passo, quello che è stato il percorso di ricerca sulla tematica scelta per la stesura di questo lavoro di tesi partendo dalla focalizzazione dell’argomento, arrivando poi a descrivere il metodo di lavoro da me utilizzato.

Come spiegato nell’introduzione, al mio arrivo all’interno dei laboratori protetti del CARL, è stato difficile capire quale fossero il ruolo e le mansioni educative specifiche dell’educatore                                                                                                                

4  Allegato numero 8, Intervista al direttore del CARL P.Broggi  

5  BEDULLI Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma: “L’aspetto lavorativo al

CARL”, Mendrisio, 1999, pagina 16  

6  Ibidem, pagina 17  

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che lavora in questa realtà ed è chiamato a confrontarsi con équipe multidisciplinari composte da artigiani, educatori e maestri socioprofessionali, che associano al percorso lavorativo e produttivo dell’utente del laboratorio, una crescita individuale finalizzata all’emancipazione delle competenze individuali. Questa difficoltà nel trovare documenti specifici è dovuta al fatto che la figura educativa all’interno dei laboratori del CARL è stata inserita solo negli ultimi anni, prima vi lavoravano solo artigiani e maestri socioprofessionali.

Trovandomi confrontato con questa situazione non del tutto chiara e avendo trovato poca documentazione sulle mansioni educative all’interno dei laboratori, ho pensato di approfondire, attraverso la mia ricerca, quali fossero le specificità del lavoro educativo all’interno dei laboratori protetti del CARL.

Visto che la mia intenzione era quella di svolgere un lavoro di ricerca utile anche per il contesto istituzionale in cui ho lavorato, ho da subito condiviso la mia idea sia con il coordinatore dei laboratori protetti che con il direttore dell’istituzione.

Il rimando che ho avuto è stato del tutto positivo e, riportando l’idea alla mia commissione di tesi, sono arrivato alla costruzione del seguente interrogativo di ricerca:

“Quali sono le specificità del ruolo dell’educatore sociale all’interno dei laboratori protetti di lavoro del CARL?”

Per rispondere a questo interrogativo ho di seguito formulato cinque domande guida che mi hanno permesso di focalizzare nello specifico le tematiche sulle quali costruire la ricerca teorica, la ricerca documentale, interna ai documenti dell’OSC e infine per costruire il canovaccio delle interviste.

Le seguenti domande di approfondimento sono state costruite sulla base delle nozioni teoriche apprese durante la formazione scolastica, nel corso dei tre anni accademici. Queste domande fungono da fil rouge per tutto il lavoro e permettono di intrecciare quanto raccolto presso gli intervistati con apporti di esperti e considerazioni personali.

Le domande nel concreto sono le seguenti:

1. Quale progettualità educativa è prevista nella presa a carico all’interno dei laboratori del CARL?

2. Quali sono le modalità di sviluppo dei progetti educativi individuali per gli utenti dei laboratori del CARL?

3. Quali sono le specificità dell’intervento dell’educatore a livello quotidiano?

4. Quali sono le modalità di collaborazione interprofessionale all’interno dei laboratori? 5. Quali sono le modalità di collaborazione interprofessionale con le altre figure di

riferimento esterne coinvolte nei progetti di sviluppo individuali degli utenti?

L’approccio da me utilizzato per svolgere questo lavoro di ricerca è stato quello induttivo. Questo approccio consiste nell’individuare dal contesto di lavoro la problematica da affrontare, verificandola e confrontandola poi con la realtà e con le teorie di riferimento specifiche attraverso la formulazione di domande.

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Il metodo di lavoro che ho utilizzato per affrontare questo lavoro di tesi mi ha portato in primo luogo ad attivarmi in una ricerca documentale interna ai documenti dell’OSC in merito al ruolo dell’educatore del CARL, le modalità di presa a carico della persona, come anche alla ricerca di mansionari assegnati alla figura educativa della struttura.

In un secondo momento ho definito quattro approfondimenti teorici che ho ritenuto interessante utilizzare come punto di riferimento al sostegno del mio lavoro di ricerca. I concetti sono quelli che già avevo introdotto all’inizio del lavoro, nello specifico:

- concetto di ruolo educativo con persone adulte - concetto di inclusione sociale

- la progettazione dialogica

- lavoro come concetto di riabilitazione in psichiatria

In seguito all’identificazione della parte teorica del mio lavoro, ho da subito identificato il target di riferimento da intervistare per avere del materiale concreto e delle risposte alle mie domande. Nello specifico ho deciso di intervistare tutte le figure educative che lavorano all’interno dei laboratori, come anche l’ultimo maestro socioprofessionale che è rimasto all’interno del CARL e che lavora nel laboratorio della “serra”.

Visto che i laboratori hanno anche una figura di riferimento che ha lo scopo di coordinare le diverse attività dei laboratori facendo da tramite con la direzione, mi è sembrato necessario intervistare anche questa figura centrale nell’identificazione del ruolo educativo e, non da ultimo, anche il direttore stesso dell’istituzione in modo da poter avere una visione ampia del contesto.

Il modello d’intervista da me utilizzato nella raccolta dati è quello semi strutturato. Nel concreto ho costruito tre tracce d’intervista differenziate per educatori, coordinatore e direttore della struttura, affrontando l’intervista attraverso domande aperte che lasciassero raccontare all’intervistato il suo punto di vista e il suo pensiero.

3. Dissertazione

In questo capitolo cercherò di analizzare il materiale empirico raccolto, le interviste, e la ricerca documentale per quanto concerne il sistema di premesse istituzionale, attraverso supporti teorici significativi nella specificità del lavoro educativo all’interno dei laboratori protetti del CARL.

Questo capitolo è strutturato in due parti distinte. La prima parte introdurrà un inquadramento teorico con quelli che sono i concetti teorici di riferimento per poi entrare nel cuore dell’analisi delle interviste nella seconda parte.

3.1 Approfondimento teorico

Ritengo utile per il lettore approfondire dapprima i concetti di riferimento, i quali verranno utilizzati per l’analisi del materiale empirico inerente la dimensione educativa del lavoro svolto all’interno dei laboratori protetti del CARL. Nell’economia di questo lavoro, ritengo

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che gli apporti esperienziali svolti con persone disabili adulte sono affini al lavoro e alle problematiche affrontate nell’ambito del disagio psichico. Per questo motivo nell’approfondimento teorico si troveranno riferimenti a testi che affrontano il tema della disabilità.

3.1.1 L’approccio inclusivo

Per introdurre questo capitolo, voglio riferirmi ad uno spunto di riflessione interessante da me trovato nel sito internet della cooperativa sociale ANFFAS Ticino di Somma Lombarda7 dove viene raccolta l’evoluzione che vi è stata negli ultimi anni rispetto alla considerazione e alla presa a carico delle persone diversamente abili, aventi difficoltà di adattamento di diverso tipo nella società.

Negli anni settanta, la parola d’ordine per chi operava nei servizi a favore della disabilità era “inserimento”: “L’obiettivo primario è di permettere l’accesso ai contesti di vita, di relazione e di informazione senza però mettere in discussione i cardini della loro organizzazione e cultura.”8 E’ solo alla fine degli anni ottanta che si è cominciato a parlare di ”integrazione”:

“Il concetto d’integrazione esige una serie di adattamenti reciproci del soggetto con disabilità ma anche della scuola e dell’ambiente lavorativo implicato. L’integrazione non è un fenomeno naturale o spontaneo ma il risultato del processo culturale che non va realizzato ma provocato e organizzato.”9

Da qualche anno, in particolar modo grazie alla convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2007), la società ha cominciato ad assistere ad un nuovo cambiamento, dove la nuova parola d’ordine è diventata inclusione. Il concetto d’inclusione ci invita a trovare nella pratica educativa quotidiana, delle strategie funzionali finalizzate alla rimozione delle forme di esclusione sociale a cui le persone portatrici di disabilità sono sottoposte quotidianamente.

Il percorso di vita di una persona con disabilità o che, nel corso della vita, si è confrontata con situazioni difficili subendo traumi che l’hanno costretta ad una situazione di handicap, come per esempio l’insorgere di un disagio psichico, il fallimento scolastico o professionale, spesso si confronta con una difficoltà di accettazione da parte della società stessa, portando la persona ad una situazione di scarsa partecipazione alle attività sociali, nell’occupazione del proprio tempo, richiudendo l’individuo in sé stesso o nel suo stretto nucleo famigliare.

“Percorrere le strade dell’inclusione sociale significa sostanzialmente porre la questione della disabilità nella dimensione sociale del diritto di cittadinanza, perché riguarda tutti coloro che partecipano alla vita sociale all’interno di un determinato contesto: includere vuol dire offrire l’opportunità di essere cittadini a tutti gli effetti.”10

                                                                                                               

7  http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html, Inclusione sociale, visitato il 14.07.2015   8  MEDEGHINI Roberto, gruppo di ricerca disability studies Italy, I diritti nella prospettiva dell’inclusione e

dello spazio comune

9  Dizionario delle scienze sociali, Milano, Zanichelli S.P.A, 1998

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L’affermazione non nasconde il fatto di dover negare che ogni individuo è diverso e che all’interno della società vi siano persone che hanno delle disabilità e quindi il diritto di essere gestite in maniera adeguata.

Quello che il concetto d’inclusione prevede è lo spostamento dell’attenzione nei confronti della persona disabile focalizzandola, non più unicamente sulla persona con disabilità, ma anche sul contesto che abita per individuarne gli ostacoli, cercando di trovare delle strategie atte alla loro rimozione.

“Il fine è promuovere condizioni di vita dignitose e un sistema di relazioni soddisfacenti nei riguardi di persone che presentano difficoltà nella propria autonomia personale e sociale, in modo che esse possano sentirsi parte di comunità e di contesti relazionali dove poter agire, scegliere, giocare e vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria identità.”11

La richiesta in primo luogo che viene fatta ai servizi e alle istituzioni che si confrontano con le differenze e le disabilità sociali è di sforzarsi nell’acquisizione di un pensiero e di un’apertura mentale al cambiamento ampliando l’ottica dell’intervento educativo, non finalizzandola unicamente sulla relazione operatore-utente.

“Agire per la tutela dei diritti umani delle persone con disabilità significa considerare la disabilità non come una malattia (modello medico), ma come un rapporto sociale tra le caratteristiche delle persone e l’ambiente (modello bio-psico-sociale). Un modo di pensare sancito prima dall’OMS e poi dall’ONU nell’ art. 3 della Convenzione, dove tra i principi generali viene posta “la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”.”12

Come è argomentato da Angelo Nuzzo all’interno del testo: “Inclusione sociale e disabilità”, la nuova prospettiva inclusiva pone i servizi che si occupano della disabilità, nelle sue varie forme, di fronte ad una scelta esistenziale: continuare il proprio operato seguendo il modello medico-diagnostico o accettare la sfida proposta dal modello inclusivo rimettendo in gioco il ruolo degli educatori, le idee e l’approccio verso la disabilità per rinnovarli nel nuovo concetto inclusivo.

Per poter attuare questo processo è auspicabile avere, all’interno delle istituzioni, una condivisione di fondo da parte di tutte le figure che vi operano per il raggiungimento dell’idea inclusiva dove ogni operatore, al suo interno, abbia un ruolo riconosciuto nel processo di cambiamento.

“Il ruolo di chi gestisce i servizi per la disabilità può essere rivisto in un’ottica ecologica delle relazioni e dei contesti, per comprendere potenzialità e limiti nei processi di influenzamento degli attuali equilibri che regolano la vita sociale.”13

Nel testo viene in seguito rilevata l’importanza del saper accogliere le novità, le nuove idee che partono da chi lavora direttamente a contatto con le persone disabili. Sono proprio le idee che permettono di ridefinire i problemi, le ipotesi e le scelte su come poi affrontarli                                                                                                                

11  http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html, Inclusione sociale, visitato il 14.07.2015   12  Ibidem

13  MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e

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concretamente nel quotidiano, con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita delle persone. Anche se attuare un processo inclusivo potrebbe indurre l’operatore a dover pensare di cambiare interamente la struttura stessa in cui lavora, nel testo sopraccitato viene spiegato che non è necessariamente così.

Nella pratica educativa quotidiana non basta prendersi unicamente cura della persona di cui abbiamo il compito di occuparci. Sarebbe auspicabile che all’interno del servizio-struttura si ponga attenzione anche al bisogno di appartenenza nella società delle persone che abitano il contesto. È anche attraverso la partecipazione alla società che la persona si realizza e si sente valorizzata per quello che è, come parte di un processo.

“…per dare dignità a queste richieste, occorrerebbe iniziare ad interrogarsi su quanto i linguaggi utilizzati dagli operatori, o le loro modalità per relazionarsi con le persona con disabilità, siano il frutto di rappresentazioni che rimandano una visione che riconosce l’adultità delle persone con cui si lavora, aprendosi così alla necessità di operare in senso inclusivo, per consentire loro di vivere la condizione adulta nelle sue diverse dimensioni.”14

3.1.2 Il lavoro come strumento di riabilitazione con il disagio psichico

Per introdurre questo capitolo, dove ho approfondito il tema dell’importanza del lavoro per l’individuo nella riabilitazione psichiatrica, ho trovato un primo spunto interessante nel testo di M.Ghisleni e R.Moscati.

In questo scritto vengono riportate cinque funzioni psicologiche del lavoro definite “latenti” 15(Jahoda, Lazarsfeld, Zeisel, 1986; Pombeni, 1993, p.267)

Sono le seguenti:

“- il lavoro provvede a una strutturazione del tempo quotidiano;

- il lavoro assicura regolari esperienze significative di interazione sociale al di fuori della famiglia; - il lavoro permette di rispondere al bisogno di agire sul proprio ambiente;

- il lavoro determina una diretta connessione tra mente individuale e scopi sociali

- il lavoro contribuisce a definire aspetti importanti dello status sociale e dell’identità personale”16

Le connessioni delle funzioni sopra elencate, con le dinamiche della socializzazione, sono fortissime, infatti il lavoro permette all’individuo coinvolto di essere riconosciuto come cittadino attivo, partecipe di un processo e quindi incluso in un sistema che lo valorizza per quello che fa.

Nel testo di Ghisleni e Moscati è spiegato che è soprattutto quando il lavoro viene a mancare nella vita della persona che si verificano ed emergono aspetti di “deprivazione psicologica” come la difficoltà ad organizzare il proprio tempo, l’isolamento sociale, la

                                                                                                               

14  MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e

disabilità”, Erickson, 2013, pagina 74  

15  GHISLENI Maurizio, MOSCATI Roberto, “Che cos’è la socializzazione”, Carocci, le bussole, 2001, pagina

85      

(14)

perdita di scopi significativi, l’insicurezza rispetto la propria identità e il proprio status sociale, producendo stati di apatia.

Come educatore che lavora a contatto con utenti che vivono un momento di disagio psichico, è importante considerare il lavoro nella possibilità di una loro riabilitazione.

Per capire come poter rendere efficace il lavoro nella riabilitazione psichiatrica, ho trovato alcuni spunti interessanti nel testo di C.Lepri e E.Montobbio.

“…l’inserimento al lavoro di disabili è un risultato che si ottiene attraverso una operazione di costruzione o ri-costruzione di condizioni necessarie e indispensabili.”17

La costruzione di queste condizioni prende in considerazione in primo luogo, la persona disabile, d’altro canto anche il mondo del lavoro deve essere considerato in quanto protagonista di questo processo. È soltanto facendo comunicare con strategie e in modo mirato queste due realtà complesse che è possibile ottenere il risultato dell’integrazione. Come far comunicare queste due realtà risulta essere però un processo piuttosto complesso; è frequente infatti, nei servizi riabilitativi, trovare “l’inserimento al lavoro” come una delle attività centrali e concetto chiave all’interno del progetto di vita della persona disabile.

È importante quindi evidenziare come rischio del reinserimento lavorativo l’insuccesso del progetto. Quest’ultimo ha inevitabili effetti di ritorno sull’identità della persona inserita, come anche un effetto alone negativo sugli operatori che hanno seguito il progetto. È per questo motivo che è molto importante ragionare sulla strutturazione di un progetto partecipato con le persone di riferimento nella rete in modo da diminuire il rischio d’insuccesso e suddividere le responsabilità per il raggiungimento dell’obiettivo. Nella progettazione dell’inserimento lavorativo, è fondamentale, nell’incontro dei due mondi (persone in difficoltà e lavoro), progettare una vera e propria metodologia dell’inserimento lavorativo.

Una possibile strategia su come attivare un percorso progettuale di crescita, che tende verso la relazione d’aiuto piuttosto che la diagnosi clinica dell’utente, l’ho ritrovata in un articolo scientifico di C. Meyer.18 L’obiettivo dell’autrice, che cercherò di riassumere, ha lo scopo di attivare un processo d’integrazione della persona avente un disagio psichico nella società, partendo da un contesto di comunità riabilitativa protetto inteso come “palestra”.

Il primo importante passo da fare, come educatore, quando si è confrontati con l’utente psichiatrico, è riflettere sulla diagnosi della persona, cercando di leggerla astenendosi dal giudizio, evitando di vedere i limiti e le difficoltà della persona unicamente come dei disturbi, dei sintomi di una malattia, ma piuttosto come dei comportamenti disfunzionali ed inadeguati messi in atto dall’utente in un momento di difficoltà. La diagnosi viene fatta sulla persona, è però molto importante non dimenticare che la persona e il suo                                                                                                                

17  LEPRI Carlo, MONTOBBIO Enrico, “Lavoro e fasce deboli”, FrancoAngeli, 1993, pagina 40

18  MEIER Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al

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comportamento sono due cose distinte. L’essere umano ha l’incredibile potenzialità di riuscire a generare nuove strategie di adattamento modificando i propri comportamenti ed i propri automatismi confrontandosi con un contesto di riferimento dove prevalga la relazione d’aiuto da parte di professionisti terapeuti esperti.

Un importante passo da fare, prima di iniziare a costruire un percorso riabilitativo con l’utente psichiatrico, è riuscire a definire una visione comune della problematica, con le persone significative coinvolte nella situazione individuale della persona, che vengono individuate come possibili risorse al cambiamento.

“Le esperienze diverse creano le differenze individuali, mentre una formazione o un orientamento condivisi potrebbero, attraverso l’uso di una terminologia comune, contribuire a creare delle concordanze nella percezione della stessa situazione.”19

Secondo il modello costruttivista e il costruzionismo sociale, l’individuo, in quanto osservatore, ha una percezione soggettiva della realtà, l’atto osservativo non porta quindi ad una realtà assoluta, bensì alla costruzione di una realtà.

Ecco perché è importante confrontarsi con i diversi punti di vista, allo scopo di condividere le proprie interpretazioni della realtà e definire quindi una visione della problematica comune che rappresenta il punto da cui partire per la sua risoluzione.

Il contesto riabilitativo deve quindi rappresentare una sorta di palestra relazionale, di crescita per l’utente, ovvero “un luogo protetto in cui l’utente può sperimentare le sue strategie relazionali e competenze tecniche senza subire delle conseguenze definitive se sbaglia.”20 La

palestra ha lo scopo sia di rivalutare le strategie e le capacità relazionali della persona che di insegnare alla persona le competenze adatte ai vari contesti (lavoro, abitazione e tempo libero) attraverso la costruzione di obiettivi mirati in una logica progettuale.

Anche il laboratorio protetto viene quindi visto come una palestra socio-riabilitativa che non sia idealistica, ma che riprenda il funzionamento della realtà esterna.

“Ogni contesto deve rispecchiare il più possibile il contesto reale esterno con l’unica differenza che se il giovane “sbaglia” non verrà “licenziato” dal posto di lavoro né espulso dalla sua casa.”21

L’allontanamento, l’insuccesso, come visto precedentemente, creano nella persona una sensazione di scoraggiamento e abbattimento. Si parla, infatti, di gestire gli sbagli sul posto di lavoro attraverso delle sospensioni temporanee dove si chiede alla persona, tramite l’incontro in momenti di colloquio definiti di sostegno al progetto, di riflettere sul suo progetto e sul perseguimento dei suoi obiettivi.

“…si tratta in questo momento di riflessione, di verificare cos’è che non ha funzionato. Non si tratta di scoprire le cause del suo comportamento inadeguato, quanto di discutere le conseguenze

                                                                                                               

19  MEIER Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al

Dragonato”, Bellinzona, pagina 2

20  Ibidem, pagina 16   21 Ibidem, pagina 19

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relative al raggiungimento dei suoi obiettivi e di incoraggiare delle soluzioni al problema alternative e più funzionali.”22

In seguito a queste riflessioni la persona ritorna nel laboratorio per mettersi alla prova di nuovo con altri comportamenti in vista del suo futuro.

Attenersi ad un modello di progettazione dialogica, che ho approfondito nei capitoli seguenti, è sicuramente uno strumento interessante e necessario per raggiungere dei risultati soddisfacenti.

3.1.3 Ruolo dell’educatore

Per introdurre questa complessa tematica, ho preso spunto da un pensiero di Angelo Nuzzo che descrive il complesso ruolo dell’educatore come l’artigiano della relazione.

“Per restare nella metafora, l’educatore artigiano deve ricercare continuamente le formule più adatte ai bisogni dei clienti, perché ogni volta che interviene deve sfornare lavori su misura, unici e irripetibili.”23

Parafrasando quanto contenuto nel testo, l’educatore è una figura professionale che deve continuamente centrare la propria attenzione su come ricalibrare il proprio lavoro, al fine di soddisfare le attese della persona di cui si sta occupando. Questa pratica lo rende un lavoro pesante che richiede costantemente, nel quotidiano, spazi di riflessione. In queste riflessioni non devono mancare riferimenti a metodologie diverse, con riferimenti teorici, per sostenere quanto si cerca di portare avanti nell’intenzionalità educativa.

Come visto nel corso della formazione, una buona pratica-riflessiva, deve stare alla base del lavoro educativo perché permette all’operatore di ragionare sugli interventi, evitando la casualità e finalizzandoli a qualcosa di preciso sapendo dove si vuole arrivare. Per realizzare una buona pratica educativa, è necessario, per l’educatore, avere in chiaro le finalità da perseguire nella sua quotidianità lavorativa, sia rispetto alla diversità di utenti di cui si deve occupare, ma anche rispetto allo svolgimento delle attività quotidiane, sia lavorative nel caso di un laboratorio protetto, ma anche abitative nel caso di un foyer. In breve, la finalità del lavoro educativo è rappresentato dalla realizzazione personale nello sviluppo della personalità della persona di cui si occupa l’educatore.

È attraverso la costruzione di ruoli individuali e sociali che si permette alla persona di raggiungere la propria autonomia restituendole il potere decisionale e la possibilità di scegliere. Il compito dell’educatore sociale, nel raggiungimento di questa finalità, è di ricostruire il senso del proprio agire producendo azioni, relazioni ed eventi che rivestano un significato utile a fornire gli stimoli necessari per promuovere l’autonomia della persona, rielaborando le risorse presenti o latenti, al fine di produrre un cambiamento sui modi di essere, pensare e relazionare dell’utente stesso.

                                                                                                               

22  MEIER Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”,

documentazione interna Centro “al Dragonato”, Bellinzona, pagina 19  

23  BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il

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L’educatore deve sviluppare una visione di tipo evolutivo rispetto le situazioni che osserva e dove deve intervenire, fornendo ai soggetti nuove rappresentazioni di sé, al fine di ridefinire la rappresentazione personale e sociale della persona in modo da rinforzare l’immagine sociale del soggetto o del gruppo di lavoro in cui opera.

Un passo importante che deve compiere l’educatore nei confronti dell’utente, è quello di motivarsi, essere incuriosito dalla sua storia di vita, senza entrare nel giudizio, ma dimostrandosi collaborante e disponibile. Gli interventi educativi devono essere caratterizzati da intenzionalità, al fine di ridurre al minimo il rischio d’insuccesso; questo può essere fatto se la costruzione del percorso è stata pensata prima di essere agita. L’azione educativa comprende due aspetti fondamentali, quello del fare, che racchiude il momento in cui l’educatore entra in relazione con il soggetto e quello del pensare ovvero la ricerca di un senso, in merito a quello che succede costantemente, al fine di costruire percorsi e ricercare regole di funzionamento adatte alla situazione.

Un aspetto interessante del ruolo educativo, l’ho ritrovato nel testo “Viaggiatori inattesi” di C.Lepri che ci rende attenti sulla differenza di significato e impatto tra educazione ed assistenza.

“Nell’educazione l’obiettivo principale è quello di favorire l’evoluzione della persona, nell’assistenza, quello di impedirne l’involuzione.”24

Da queste parole possiamo quindi confermare l’importanza nel ruolo dell’educatore di promuovere il cambiamento nella costruzione di un futuro con la persona, favorendo la sua crescita e rinforzando le sue capacità di autonomia al fine di raggiungere una partecipazione sociale più intensa e capace di sopportare e riconoscere la persona per quello che sa fare. Nel testo questo bisogno dell’individuo di essere accettato e riconosciuto nella società, viene descritto come bisogno di normalità, inteso come bisogno che accomuna tutti gli esseri umani e a maggior ragione le persone che percorrono il loro cammino di vita con qualche difficoltà e fragilità in più.

Se la pianificazione del cambiamento, e quindi delle scelte che l’utente deve prendere nella costruzione del proprio futuro, spetta non solo all’operatore, ma piuttosto all’utente stesso, come è possibile attivare un percorso educativo di aiuto intenzionale che sia concreto e prenda in considerazione l’interesse dell’utente e della rete a lui vicina?

Nel prossimo capitolo cercherò di approfondire il modello di “progettazione partecipata”, una buona risposta a come pianificare percorsi educativi, con i diretti interessati, efficaci e funzionali.

3.1.4 La progettazione dialogica

Per introdurre questo capitolo prendo spunto dal testo di R. Medeghini, G. Vadalà, W.Fornasa e A.Nuzzo, “Inclusione sociale e disabilità, dove viene spiegato il motivo per cui è necessario strutturare, con la persona disabile, una buona progettazione dialogica.                                                                                                                

24  LEPRI Carlo, “Viaggiatori inattesi”, Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, FrancoAngeli,

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Il testo suggerisce di relativizzare approcci di progettazione lineari, allo scopo di normalizzare la persona disabile, aprendosi a modelli progettuali che promuovano l’emancipazione e l’inclusione, rinforzando e attivando le competenze della persona e dei contesti sociali in cui abita o lavora.

“La sfida inclusiva, in pratica, chiede ai servizi di privilegiare nuove e diverse forme di progettualità, di tipo dialogico e partecipativo, che prestino attenzione alla promozione di relazioni, all’incontro tra persone e realtà differenti, privilegiando la ricerca e la costruzione di significati nuovi e condivisi da trasferire nel rapporto sia tra i singoli, sia tra i contesti, sostenendo le comunità nei processi inclusivi e valorizzandone le competenze nel costruire esperienze in grado di creare appartenenze.”25

Nonostante l’individualismo interno alla nostra società e la spersonalizzazione dell’individuo, con il quale oggi siamo confrontati costantemente, dobbiamo concentrare le nostre risorse e le nostre capacità di operatori sociali per potenziare la coesione sociale e il senso di appartenenza alla comunità, rompendo la sensazione di solitudine che le persone con disabilità e le loro famiglie conoscono molto bene.

“…il processo di progettazione è la risultante di una serie di eventi e azioni in cui il pensare assume diverse forme: dall’osservare all’ascoltare, dall’attribuire significati alla ricerca di senso, dall’elaborazione dei dati alla valutazione, dalla riunione di équipe alla supervisione, dalla formazione continua alla riflessione circa il proprio operato, dal confronto al conflitto con i diversi attori, dalla programmazione degli interventi alla co-progettazione e altro ancora.”26

La progettazione non è da intendersi unicamente come momento formale legato a scadenze annuali dove si tirano le somme ridefinendo i programmi per l’anno venturo, il progetto educativo dovrebbe essere riferito a un lavoro pensante, maggiormente complesso, composto di azioni quotidiane, ma anche di spazi di riflessività verso quello che succede giornalmente. Il mestiere educativo è quindi definibile come una pratica riflessiva.

“L’educatore professionale è, di fatto, quell’operatore che attraverso gli strumenti della progettazione educativa e soprattutto della relazione interpersonale accompagna l’utente nel suo percorso di crescita… L’intervento educativo non è semplicemente un servizio per un’altra persona; esso si identifica di più come un lavorare con l’utente per produrre un cambiamento.”27

Per perseguire quindi questo tipo di obiettivo con la persona, è inevitabile considerare, nel proprio lavoro, le dimensioni che appartengono alla persona stessa, come la sua dimensione psicologica o relazionale. L’obiettivo è quello di restituire alla persona una lettura efficace delle sue difficoltà, che permetta all’utente di avere una visione di cambiamento rispetto all’obiettivo che vuole raggiungere. In questo senso la signora

                                                                                                               

25  MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e

disabilità”, Erickson, 2013, pagina 80  

26    BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il

servizio sociale, 2004, pagina 41  

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C.Meier ci da uno spunto interessante per mettere in pratica questo importante step del lavoro di progettazione nella definizione degli obiettivi.

“Il definire le sue difficoltà in termini di comportamenti inadeguati o in termini di strategie relazionali fallite, piuttosto che come manifestazione di una malattia o di un deficit psichico, permette all’operatore ed all’utente di elencare obiettivi mancati, strategie disfunzionali e comportamenti alternativi auspicabili e vincenti per il raggiungimento dei suoi desideri.”28

Non bisogna dimenticare nel lavoro con la persona di interagire con gli aspetti legati alla globalità di ogni soggetto, come il suo contesto di vita o la comunità di appartenenza. Quando l’educatore ha come focus quello di occuparsi di una singola persona, deve essere consapevole che il suo intervento apporta, di fatto, delle modifiche nelle relazioni del soggetto stesso rispetto alla sua famiglia, amici, colleghi,…

Tutte le relazioni interpersonali, come anche il suo ambiente di vita, subiscono dei cambiamenti inevitabili.

È senz’altro importante nella relazione educativa un giusto equilibrio tra il coinvolgimento nella situazione dell’utente e il distacco. Non ci si può lasciar prendere dalle situazioni vissute dalla persona, ma nemmeno distaccarsi eccessivamente correndo il rischio di mostrarsi disinteressati.

A questo punto sembra doveroso fare riferimento al processo circolare di costruzione di un progetto dialogico partecipato, mirato e concreto che sia di supporto nella pratica educativa quotidiana.

Le cinque tappe di cui si compone il progetto, sono strettamente collegate tra loro in modo circolare. Da ogni tappa è possibile ritornare all’altra in un processo di continua co-costruzione di senso e di scelte, sviluppate coinvolgendo il più possibile tutti gli attori nell’intero processo di progettazione. Si parte dall’ideazione nella quale si trova l’analisi della situazione problema, per passare alla fase di attivazione di tutte le risorse e gli attori in gioco e solo a questo punto si formalizza nero su bianco il progetto, il quale sarà realizzato nella fase di attuazione e infine valutato. La valutazione permette di fare il bilancio di quanto sperimentato e in prospettiva riformulare nuovi obiettivi con i quali si riapre un nuovo ciclo progettuale. 29

3.2 Analisi delle interviste

In questo capitolo verranno riportate le sintesi significative delle interviste le quali verranno analizzate grazie agli apporti teorici. La struttura dei sotto capitoli riprende le cinque domande guida formulate a supporto della domanda di ricerca.

La struttura di ogni sotto capitolo comprende la sintesi e l’analisi del materiale raccolto, seguito da considerazioni che evidenziano gli elementi salienti emersi. L’analisi delle interviste segue cronologicamente la struttura gerarchica istituzionale; si parte quindi da                                                                                                                

28    MEIER Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al

Dragonato”, Bellinzona, pagina 16  

29 Allegato numero 9, MAIDA Serenella, IGLESIAS Alicia, La progettazione dialogica partecipata,

(20)

una lettura macro da parte del direttore per poi passare ad aspetti più puntuali emersi dagli operatori.

3.2.1 La progettualità educativa interna ai laboratori protetti del CARL

• Sintesi delle risposte e analisi

Nell’intervista al direttore del CARL Patrizio Broggi è emerso che, rispetto alla progettualità educativa interna all’istituzione, si sta attuando un cambiamento a livello generale. Il CARL è nato come una struttura avente lo scopo di ospitare i pazienti dell’allora ONC immaginando che per loro diventasse la casa definitiva. Inizialmente non s’immaginava un reinserimento nel territorio. L’acronimo CARL significa infatti centro abitativo, ricreativo e di lavoro ed era quindi chiaro che per l’utente psichiatrico cronico avrebbe rappresentato il suo futuro luogo di vita. In questo senso anche i laboratori si inserivano in questa progettualità statica, allo scopo di occupare la giornata all’utente. Il cambiamento che il CARL sta mettendo in atto attualmente è quello di trasformare il centro in una struttura di passaggio, con l’idea di reinserire gli utenti nella vita esterna, a seguito di un percorso di cambiamento.

“Anche i laboratori sono chiamati ad inserirsi in questo progetto, offrendo la possibilità all’utenza di potenziare la propria autonomia.”30

Il progetto dell’utente è infatti stabilito dal foyer in cui vive la persona, i laboratori prendono poi parte al progetto adattandone uno, specifico, per l’attività lavorativa.

Per l’educatore del laboratorio è quindi importante andare a capire quale è il progetto dell’utente stabilito dall’ente inviante che, come detto, può essere un foyer, sia interno che esterno al CARL, oppure un medico psichiatra, per capirne la finalità.

Lo scopo dei laboratori protetti è quindi quello dell’emancipazione nel mondo del lavoro, che tenga conto delle capacità individuali degli utenti rispetto alla capacità di assunzione delle numerose responsabilità richieste dall’attività lavorativa.

“Il lavoro del laboratorio è quello di permettere alla persona di riscoprire le sue capacità, le sue risorse per entrare nel mondo del lavoro…”31

Oggi i laboratori protetti del CARL offrono dunque la possibilità all’utente di acquisire l’identità lavorativa, in un contesto di lavoro protetto, dove viene offerta la possibilità di esercitare un ruolo attivo nella società, valido e funzionale che possa sovrastare quello del malato.

Rispetto al ruolo educativo, come specificato nel capitolo di approfondimento, e dal testo “Le competenze dell’educatore professionale”, si capisce che è attraverso la costruzione di ruoli individuali e sociali che è possibile favorire l’emancipazione dell’autonomia della persona restituendole il potere decisionale di poter scegliere. In questo senso i laboratori protetti del CARL contribuiscono alla costruzione identitaria dell’utente che vi lavora rinforzando e attivando le sue competenze pratiche e relazionali.

                                                                                                               

30  Allegato numero 8, Intervista al direttore del CARL “P.Broggi   31 Ibidem

(21)

Infatti, come sostenuto da M.Ghisleni e R.Moscati, il lavoro permette alla persona di essere riconosciuta come cittadino attivo nella società, partecipe di un processo e quindi incluso in un sistema che lo valorizza per quello che fa ed è capace a fare.

Mi sembra doveroso precisare che nei laboratori del CARL è comunque previsto un momento di condivisione e negoziazione in fase di attivazione del progetto. Infatti, come specificato dal direttore P.Broggi e come già anticipato nell’approfondimento teorico relativo alla progettazione dialogica, non sarebbe possibile un’emancipazione o un cambiamento dell’utente, se questi non è coinvolto in modo attivo nel suo cambiamento. Gli educatori impiegati nei laboratori, intendono la progettualità educativa come un processo individualizzato, costruito sulla base delle capacità e delle risorse di ogni singolo utente:

“Lo scopo è quello di andare verso la persona, a seconda delle proprie capacità individuali.”32

Come approfondito nel capitolo relativo alla progettazione dialogica, per attivare un percorso di emancipazione dell’autonomia individuale, anche interno ai laboratori protetti, bisogna considerare la soggettività di ogni individuo con le dimensioni che appartengono alla sua persona come quella psicologica e relazionale.

Le finalità del progetto individuale possono essere di tipo produttivo, professionale, per implementare delle conoscenze di base della persona o per apprendere qualcosa di nuovo. Non è comunque esclusa l’importanza della relazione e del potenziamento delle capacità di socializzazione della persona.

Come esplicitato nel capitolo inerente il contesto lavorativo, il settore lavorativo al CARL, ha lo scopo di offrire alla persona un ruolo lavorativo di valore e di importanza interno alla struttura. L’apprendimento delle abilità lavorative e sociali permette all’utente di ridurre il disagio, come anche il distacco dalla società.

È importante che la scelta del settore lavorativo appartenga alla persona, come esplicitato dal direttore. L’offerta lavorativa deve però tenere in considerazione la disponibilità dei posti di lavoro nei laboratori e le macro-finalità del progetto al quale si associa quello dei laboratori.

Il coordinatore specifica quindi che: “Il progetto è una mediazione tra le necessità della persona, il progetto che sta già seguendo e la disponibilità del laboratorio.”33

Il concetto di lavoro, come viene inteso all’interno del CARL, si può ricondurre allo scopo di evitare la “deprivazione psicologica” della persona portatrice di un disagio che decide di intraprendere un’attività lavorativa nel suo percorso riabilitativo, come viene sostenuto nel testo di M.Ghisleni e R.Moscati. Questo avviene sempre secondo l’interesse e l’obiettivo del progetto e della persona.

• Riflessioni personali e considerazioni

Da quanto emerge dall’analisi, si può considerare che la storia del CARL influisce sugli obiettivi e sul modello progettuale previsto all’interno della struttura e quindi anche nei                                                                                                                

32  Allegato numero 4, Intervista all’educatrice M.  

(22)

laboratori protetti. Il cambiamento di progetto del CARL è comunque un processo lungo che va ad influire sul modello di progettazione adottato al suo interno. Per alcuni aspetti questa istituzione ha ancora molte tracce da ospedale, sia per l’utenza, che in parte ha vissuto il grande cambiamento, ma anche nel modo di fare di alcune figure professionali, soprattutto quelle legate maggiormente agli aspetti infermieristici e biomedici della persona.

Nonostante l’istituzione, nel suo intento di trasformare sempre di più il CARL in un luogo di passaggio, tenda ad andare verso un modello di progettazione individuale, dialogico e partecipato con l’utente, in realtà appare evidente la difficoltà di attuare progetti di cambiamento. Progetti che hanno lo scopo di responsabilizzare l’utente di fronte al suo futuro permettendogli di scegliere e di riorganizzarsi. Visto che il progetto individuale nei laboratori si aggancia ad un progetto già esistente, una possibile difficoltà potrebbe essere rappresentata dal modello di progettazione dell’ente inviante che non per forza è affine a quello dialogico partecipato.

All’interno dei laboratori risulta comunque di primaria importanza l’ascolto degli interessi e delle rappresentazioni dell’idea di futuro della persona in modo, per quanto possibile, di realizzare le aspettative future dell’utenza.

Con il tempo e il cambiamento dell’utenza che usufruisce del servizio offerto nei laboratori del CARL, cambieranno anche le modalità di progettazione e le finalità nella costruzione degli obiettivi generali.

3.2.2 Le modalità di sviluppo dei progetti educativi individuali interni ai laboratori protetti del CARL

• Sintesi delle risposte e analisi

La modalità di sviluppo dei progetti educativi interni ai laboratori protetti del CARL hanno una linea generale che va a strutturare le diverse tappe della procedura di assunzione della persona nel laboratorio il più indicato possibile.

Inizialmente arriva una segnalazione da parte dell’inviante, o della persona direttamente interessata ad iniziare un’attività lavorativa, al coordinatore dei laboratori protetti, quest’ultimo effettua il primo colloquio di conoscenza con la persona interessata e la sua persona/ente di riferimento con la quale ha già strutturato un progetto e quindi un obiettivo, legato al reinserimento nel mondo lavorativo. La persona di riferimento dell’utente può essere un operatore di riferimento di un foyer o il medico psichiatra curante.

A seguito della richiesta il coordinatore effettua una prima scelta, in base alle aspettative della persona, facendo riferimento alla scheda di segnalazione che arriva al momento della richiesta, ma anche rispetto alle disponibilità dei posti di lavoro dei laboratori.

A seguito del primo colloquio, il coordinatore ha anche il compito di valutare quale potrebbe essere il percorso futuro della persona. Se non si riesce, per motivi organizzativi, ad inserire la persona nel laboratorio maggiormente adatto, si può iniziare un percorso

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