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Fides ex Audio Incontro di formazione per Diaconi. straordinari della comunione e operatori della liturgia

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Academic year: 2022

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“Fides ex Audio” – Incontro di formazione per Diaconi permanenti, lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione e operatori della liturgia

“FIDES EX AUDITO”

ASCOLTATE E VOI VIVRETE. IL DINAMISMO DELLA PROCLAMAZIONE DELLA PAROLA

Iniziamo il nostro incontro, inserendoci nel cammino pastorale della nostra Diocesi, leggendo dalla Lettera pastorale, Chiamati a rispondere a pag. 35, per una rinnovata pastorale vocazionale,

quanto segue:

Quali sono i tratti decisivi per il rilancio della pastorale vocazionale?

Scrivo a voi educatori: la pastorale vocazionale riparte dalla centralità della Parola di Dio, dall’incontro vivo con la Scrittura, sia a livello personale che comunitario. Perché non promuovere l’approccio alla Scrittura in chiave vocazionale?

Si tratta di valorizzare la funzione “appellativa” della Parola! Essa, infatti, ci testimonia una storia di chiamati.

Ci testimonia l’iniziativa di Dio che raggiunge l’uomo, p e r f o r a n d o l a r i c e r c a d i D i o d a p a r t e d e l l ’ u o m o . L’accompagnamento educativo della comunità cristiana si attua n e l l a C a t e c h e s i . N e l l ’ a m b i t o d e l l a s u a m i s s i o n e

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evangelizzatrice, la comunità cristiana accompagna la crescita, dall’infanzia all’età adulta, e ha come sua specifica finalità non solo di trasmettere i contenuti della fede, ma di educare ad una “mentalità di fede”, di iniziare alla vita ecclesiale, di integrare fede e vita, per educare a rispondere alla chiamata di Dio. La Liturgia è il luogo per eccellenza dell’educazione al rapporto con l’Invisibile, al senso del mistero, dello stupore e della rivelazione. Nella Liturgia della Parola siamo chiamati ad entrare nel mistero della Parola, per impulso della grazia e per mozione dello Spirito, più che per le vie della ricerca scientifica, che ne sono supposte. E’ la Liturgia che restituisce la Parola viva, colta quasi sulla bocca dell’interlocutore presente, lì si percepisce quasi il suono della voce. E’ lui infatti che parla quando nella Chiesa si leggono le scritture (cfr. SC 7). La presenza di Cristo raggiunge il suo vertice: la Parola è davvero un ascoltare Qualcuno. La celebrazione del giorno del Signore senza questo tipo di ascolto risulterebbe vuota, e un ascolto al di fuori del contesto ideale della Parola del Signore rischierebbe di mancare di quel contatto con Cristo Risorto e con lo Spirito che rende la Parola viva. Per questo la Chiesa, proclamando la Parola, vi legge le pagine che fissano i grandi momenti della salvezza, chiamando l’uomo a rispondere e a ravvivare la sua fede. Come le nostre comunità proclamano la Parola di Dio? Che attenzione e quale ministerialità si esprime intorno alla Parola proclamata? Il luogo della proclamazione e i Lezionari sono dignitosi? I lettori della Parola sono ben disposti spiritualmente e preparati per questo alto ministero? E’ necessario un impegno particolare perché le nostre chiese e le nostre liturgie favoriscano forti esperienze di spiritualità. Dalle riflessioni delle Zone pastorali emerge che le nostre liturgie sono ancora improvvisate, la partecipazione distratta, anonima, chiassosa nella proposta dei canti; soprattutto in occasione della celebrazione dei Matrimoni e delle Prime Comunioni, il rito liturgico rischia di essere ridotto a spettacolo e cerimonia. Quale dimensione vocazionale emerge

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dal nostro agire liturgico?

In questo contesto si inserisce la nostra riflessione.

Quale è il giusto significato del rapporto della Parola di Dio nel contesto liturgico?

SCRIPTURA CRESCIT CUM LEGENTE l’espressione usata più volte dall’ultimo dei Padri della Chiesa in Occidentale, Gregorio Magno, il quale se ne serviva per riassumere un atteggiamento interpretativo e già antico al suo tempo.

Tale espressione suppone ovviamente la convinzione che il momento celebrativo liturgico sia o uno dei modi con i quali crescit scriptura o addirittura il modo per eccellenza, o per lo meno il culmine della crescita stessa.

Ma se modifichiamo la stupenda espressione di San Gregorio Magno, valorizzandola maggiormente nella direzione indicata dal grande maestro di preghiera: SCRIPTURA CRESCIT CUM ORANTE. La preghiera liturgica non potrebbe neppure aver luogo e saremmo costretti all’afasia se non avessimo la possibilità di “dire” attraverso la Parola e la Parola non avrebbe la forza attualizzante che le pertiene se non fosse ritradotta nei testi liturgici.

Ecco allora due movimenti: dalla Parola alla liturgia, ma anche: dalla liturgia alla Parola-, dalla Parola nasce la liturgia, ma anche: dalla liturgia è generata la Parola.

All’origine di Israele non stanno le Scritture, ma sta l’evento fondante, un’esperienza radicale vissuta da uomini e donne attraverso la quale Dio ha parlato, ha fatto conoscere se stesso. L’evento dell’esodo è paradigmatico, ma è soprattut- to fondante, è insieme l’evento della creazione del popolo di Dio e l’evento salvifico della sua liberazione dalla schiavitù dell’Egitto.

Innanzitutto c’è un evento storico vissuto da uomini e donne

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che è l’uscita dall’Egitto, lotta contro gli egiziani e fuga dal paese di schiavitù, di cui il testo dà testimonianza: «I figli di Israele partirono da Ramses verso Succot in numero di seicentomila uomini capaci di camminare senza contare i bambi- ni e con loro una grande massa di gente promiscua partì con greggi e armenti in grande numero» (Es 12,37-38).

Ma subito dopo noi abbiamo l’interpretazione dell’evento storico e la sua collocazione nella storia di salvezza: «In quel giorno il Signore fece uscire i figli di Israele dal paese di Egitto, ordinati secondo le loro schiere» (Es 12,51).

Nell’evento dell’uscita dall’Egitto il popolo dei salvati, sotto la guida del profeta Mosè, giunge a riconoscere l’azione di Dio che lo libera e lo salva, giunge cioè all’ascolto di una Parola che origina la sua fede in Jhwh. L’interpretazione dell’evento genera perciò una Parola, un annuncio che è il fon- damento della fede-adesione al Signore che ha tratto fuori il popolo dall’Egitto e questa Parola obbliga Israele ad una cele- brazione dell’evento, celebrazione obbediente e derivante dalla Parola, ma anche rigenerante la Parola stessa per cui questa sarà detta e ripetuta, cantata e trasmessa di generazione in generazione attraverso la liturgia del popolo del Signore. In tal modo si apre un’accessibilità del passato al presente e l’evento fondante è riattivato come realtà del presente per il popolo santo. In Es 15,21 si testimonia subito la celebrazione dovuta a Maria e alle donne: «Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare»; ma anche Mosè e gli israeliti cantarono un canto al Signore facendo esplodere la lode, la confessione di fede, il ringraziamento (Es 15,lss) e l’antica confessione di fede collocata nel rito della presentazione delle offerte (Dt 26,5-9) ridirà nuovamente la salvezza trasmessa come memoriale nella celebrazione. Dall’esperienza radicale (evento storico pubblico) all’interpretazione dell’evento (la Parola), alla celebrazione dell’evento (la liturgia). Il Dio della storia parla nella storia, è riconosciuto nella storia e la

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sua celebrazione sta nella storia, determinando la storia. Le espressioni della fede nella vita e nella celebrazione sono non solo strettamente connesse e complementari, ma si giustificano l’una nell’altra. Lo stesso paradigma evento, interpretazione dell’evento, celebrazione dell’evento si ritrova in molti altri testi dell’Antico Testamento, ma anche nel Nuovo: propongo qui soltanto l’evento fondante la fede cristiana nell’incarnazione del Verbo e nella sua Pasqua.

In Lc 2 è narrato l’evento storico della nascita di un bambino: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7), ma l’interpretazione dell’evento data dall’angelo diventa Parola per i pastori: «Oggi vi è nato nella città di David un salvatore, che è il Cristo Signore!» (Lc 2,11). Alla rivelazione risponde poi la celebrazione delle schiere celesti e dei pastori: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 3,14) proclamano le schiere celesti «lodando Dio» (ainoùnton tòn theón, Lc 2,13), mentre dei pastori si dice che «se ne tornarono glorificando e lodando Dio (ainoùntes tòn theón) per quel che avevano udito e visto» (Lc 2,20). La stessa dinamica evento-interpretazione- celebrazione si ritrova in Lc 24 nella presentazione dell’evento centrale della nuova Alleanza: la Pasqua. In Lc 24,2 c’è l’evento costituito dal ritrovamento della tomba vuota: «(Le donne) trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù»; segue l’interpretazione dell’evento che è data dai due uomini: «Non è qui, è risorto» (Lc 24,6) e infine troviamo la celebrazione embrionale dell’evento che sarà espressa dalla comunità radunata: «Veramente il Signore è risorto ed è ap- parso a Simone» (Lc 24,34).

E’ significativo che questo paradigma si ritrovi in molti cantici dell’AT e del NT: non mi dilungo, ma mi pare chiaris- simo che la Parola si fa celebrazione, eucologia, per necessità intrinseca, a motivo della comune fonte da cui sono

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generate e la Parola e la liturgia. La parola di Dio tende di per se stessa verso l’azione liturgica e la liturgia procedente dalla Parola è l’atto in cui si rivela la presenza divina ma questa presenza efficace suggerisce la Parola. Non che la liturgia sia il fine della Parola ma è il luogo di questo misterioso passaggio di Dio, il luogo in cui Dio si manifesta al suo popolo.

Qualche elemento per fondare la proclamazione della Parola di Dio.

Nell’Assemblea Liturgica la Chiesa trova, il segno rituale espressivo del suo Mistero.

Nel radunarsi insieme c’è qualcosa di più che una esigenza di ordine pratico.

C’è l’epifania della Chiesa, ma soprattutto la Chiesa trova lì la sua attuazione più piena, perché in quella Assemblea locale c’è la Chiesa universale.

Questa presenza di Cristo nella Parola è sottolineata nel Rito dagli onori resi all’Evangelario: il libro è preso sull’Altare, (su cui viene collocato il corpo e sangue del Signore), c’è la processione all’Ambone con il libro, si benedice l’Assemblea, si bacia il libro, lo si accompagna con i ceri, mentre si canta l’Alleluia. E’ come una apparizione del Signore in mezzo all’Assemblea. Bisogna recuperare l’esperienza di questa presenza del Risorto, senza la quale non si raggiungerà il senso della Parola Viva.

La comunità cristiana si stringeva intorno a Cristo invisibilmente presente: da questa presenza sgorgava la gioia che si sente ad esempio vibrare nelle preghiere eucaristiche della Didachè. Ma è solo in questo clima che hanno valore la parla di SC 7. “E’ ben lui che parla quando nella Chiesa si leggono le scritture”.

Allora attraverso la lettura si ascolta qualcuno.

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Così nell’atto liturgico, rivive tutta l’opera biblica: vi si condensano le dimensioni dell’Economia divina, dalla Creazione alla parusia. La celebrazione è insieme memoriale e profezia, storia di ciò che si è compiuto e di quella che deve compiersi in noi ora e di ciò che si compirà alla fine dei tempi.

Ma il segno sacramentale che non cambia non è in grado di esprimere completamente tutta la ricchezza del Mistero che rende presente. Per questo la Chiesa vi legge le pagine che fissano i grandi momenti della salvezza.

La chiesa non “rilegge”, celebra una Parola di cui vive, perché una commissione con il Rito, essa si incarna e continua a compiersi nel suo seno.

L’azione storica di Cristo è resa misteriosamente presente in me, oggi, perché io presbitero sia toccato dalla sua forza salvifica. La lettura inserita nella celebrazione viene così a partecipare del carattere di proclamazione che è proprio del Prefazio.

E’ il genere biblico della confessione, nel senso che la Scrittura dà a questo termine: proclamazione nella lode dei mirabilia Dei, accettazione gioiosa e riconoscente del disegno divino, dei suoi interventi nella storia della salvezza, di cui ogni lettera rivela un episodio o un aspetto.

Con il testo Sacro ci vengono incontro sillabe preziose, segno che Qualcuno ci ha cercato, ci ha trovato. Sillabe che ripetute notte e giorno fanno ritrovare il cammino dell’amore, cammino che con la fretta non s’accorda. Sillabe che chiedono la sosta dell’ascolto, del silenzio, della preghiera:

concretamente quel sostare che è la celebrazione.

Le sillabe del Lezionario sono davvero preziose perché trasformano la vita di chi, rinnegando l’idolo della fretta, culto moderno ma incompatibile con l’amore, nello scorrere del tempo sempre uguale, investe la voce, la mente, il cuore in questo dialogo con l’Eterno.

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Cosa rappresenta, allora, il nostro Lezionario?

Certamente la Rivelazione è più ampia della Scrittura e ne è il fondamento. Ma c’è anche un preciso senso e valore della Scrittura come libro. Si potrebbe quasi affermare che il libro è un evento nella storia della Rivelazione. Il testo scritto infatti è sempre chiamato testo “sacro”, traccia di Dio nella storia, ancor prima che se ne conoscano i contenuti.

In che senso? Il testo è certamente una fissazione, ma proprio in quanto tale esprime e realizza una duplice trascendenza:

trascende l’io dell’autore e trascende il suo tempo.

Quando il testo è scritto l’autore se ne stacca per consegnarlo, per metterlo nelle mani di altri; il lettore di ogni tempo può incontrarlo. La fissazione scritta è un’offerta, una consegna ad altri. Non solo. Anche il destinatario, il lettore del libro fa un’esperienza di tra- scendenza: percepisce-che il libro è stato prodotto prima di lui e si sente rimandato a un’anteriorità.

La fissazione scritta opera una seconda trascendenza: sottrae il testo alla prigionia del presente; in quanto permette di a c c e d e r v i i n o g n i t e m p o . S i p o t r e b b e d i r e c h e contemporaneamente afferma e abolisce il tempo. Il testo scritto narra di avvenimenti passati, ma a differenza di ciò che narra dura nel tempo. La storia che il libro racconta si è conclusa prima di esso o al suo apparire; la storia del libro, invece, comincia con lui. Nella oralità la parola è legata al presente, nella Scrittura sfida il tempo: la Scrittura impone la propria permanenza contro il divenire della storia. In tal modo è posto a disposizione di tutti e di tutte le epoche quello che è stato di qualcuno e di un tempo circoscritto. Ac- cade una “disseminazione”: il testo scritto continua a produrre effetti anche imprevisti, può incarnarsi in diverse situazioni. Ecco l’effetto del libro scritto: tutto può aver luogo oggi, ma ciò può accadere solo nell’uso, quindi nell’oggi del lettore e dell’uditore.

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Il Lezionario: un testo per l’azione rituale

II Lezionario, scrittura ritagliata in sillabe preziose, invita all’incontro con l’origine eloquente, perché graziosa e generosa, cioè invita alla relazione con Dio, autore della rivelazione. Tale incontro si realizza nell’atto liturgico d e l l a p r o c l a m a z i o n e d e l l a p a r o l a , i n q u a n t o a t t o corrispondente alla natura della rivelazione stessa. Il processo infatti che ha portato alla fissazione scritta ha avuto il suo inizio nella grazia dell’Evento, ma è stato reso possibile dal riconoscimento di fede e dalla narrazione testimoniale. La celebrazione della parola, mediante l’atto della proclamazione e l’accoglienza riconoscente, decristal- lizza la fissità della Scrittura e in tal modo rende possibile la relazione con l’Evento originario. Quando nella liturgia la parola è proclamata essa risuona e così permette a chi l’ascolta di custodire l’emozione dell’evento e di aprirsi, mediante la risposta riconoscente, all’ esercizio della gratitudine. Il testo scritto custodisce l’inizio, l’atto liturgico della proclamazione ne libera il lato promettente, impedisce che la generosità e la graziosita dell’origine siano trattenute.

La proclamazione è il momento in cui il narratore scompare, mentre la sua voce lascia risuonare qualcosa che proviene dall’origine; gli uditori, raccolti nel silenzio, dimenticano se stessi nell’ascolto nudo. Una parola appare finalmente come non prodotta da nessuno, ma destinata a tutti e per tutti abbraccio di vita. Qualcosa del nostro radicamento originario traspare, e l’immaginazione si apre. Si capisce perciò la necessità e l’urgenza di superare la tentazione diffusa e ricorrente di ritenere insignificanti i passaggi attraverso le forme della scrittura e della proclamazione, con l’illusione di vivere in modo immediato il rapporto con l’Evento originario.

La forma rituale, nel nostro caso la Scrittura pro- clamata, non è uno strumento da attraversare per giungere al

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mondo di cui si parla, non è uno strato estrinseco s o v r a i m p o s t o , m a c o n c o r r e i n m o d o i n s o s t i t u i b i l e all’istituzione dell’evidenza stessa della fede. I passaggi dalla parola viva alla Scrittura e di nuovo alla parola proclamata operano una “trasgressione” che in quanto tale ha funzione rivelante. In ogni passaggio accade infatti come un’esplosione del livello precedente, così che un mondo nuovo si dispiega. Da qui la insensatezza di tralasciare il testo dopo che si è colto il mondo nuovo da esso dischiuso. Occorre sempre passare attra-verso il testo. La dimensione originaria infatti non è dietro-oltre il testo, ma dischiusa davanti ad esso, anche se non è risolta in esso È possibile dunque accedere all’evento originario non nonostante il testo, ma attraverso il testo.

Come celebrare la Parola?

La parola nella liturgia è un evento di grazia: non è il preludio al sacramento, ma è sacramento essa stessa, ma non può essere avvenimento di salvezza se non è celebrata. La celebrazione infatti restituisce alla parola-scrittura la sua natura originaria di parola-evento. È il contesto celebrativo che permette alla scrittura di divenire ancora, qui e ora, parola di Dio viva ed efficace. Ma, quando la parola nella liturgia è realmente celebrata? Quali sono gli elementi che fanno di essa una autentica celebrazione?

La proclamazione ministeriale

La parola nella liturgia non deve essere letta, ma

“proclamata”. Affermava già Romano Guardini:

La Liturgia non vuole che la Parola sia ridotta alla lettura: basterebbe distribuire libretti-foglietti e la liturgia sarebbe come un club del libro. Non deve essere assolutamente così. La Parola deve salire alle labbra dal Libro Santo, deve risuonare nello spazio ed essere ascoltata da orecchie attente e cuore aperto. La Parola solo letta è una

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parola che manca di qualcosa, è priva del suo carattere concreto e vivente: si trascura un carattere essenziale dell’avvenimento liturgico.

È l’atto della proclamazione che suscita l’avvenimento, che crea le condizioni per l’incontro, per la relazione fra il credente e il suo Signore.

La Parola proclamata infatti penetra nell’orecchio del credente-convocato che, perciò, istintivamente cerca Colui che parla, cerca la relazione, l’incontro, prima ancora dei singoli contenuti. L’atto di proclamazione stabilisce un io che si indirizza a un tu, a un voi, e crea un noi. È in se stesso chiamata, appello, provocazione. Impedisce di fermarsi al livello della informazione.

Ma è necessario accedere a un livello ancora più radicale:

l’avvenimento deve essere riconosciuto come opera di Dio. La Parola deve essere riconosciuta come Parola di un Altro proveniente dall’Alto. Anche questo può essere realizzato mediante l’attenzione alla dimensione “celebrativa”. Cioè:

proclamazione sì, ma proclamazione ministeriale. Il lettore deve proclamare in modo “distaccato”, come uno che dice quello che è impossibile dire, come uno che offre quello che è im- possibile dare. Il lettore vive così un duplice servizio: a Dio, autore della Parola; alla Assemblea, destinataria della stessa Parola. Come ci si dispone a questo tipo di proclamazione? Con il ricreare un “ambiente di teofania”.

Quando ci si avvicina alla proclamazione della Scrittura, ci si trova in presenza di un evento che si può paragonare alla esperienza del roveto ardente: il fuoco della Parola arde nei testi degli evangelisti, di Paolo, dei profeti; e lettori e ascoltatori, anziché girargli intorno per vedere come funziona, sono chiamati a togliersi i sandali. Concretamente, questo avviene anzitutto con una preghiera di invocazione allo Spirito affinchè la “teofania avvenga”, affinchè Dio nella sua libertà faccia risuonare la sua Parola nella parola dei suoi testimoni.

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Noi cattolici possiamo, in questo, imparare da una buona tradizione della Chiesa riformata che, prima della proclamazione, invita a pregare così: Chiedo a Dio la grazia del suo santo Spirito, perché la sua Parola sia fedelmente proclamata ad onore del suo Nome e a edificazione della Chiesa, e sia accolta in umiltà e obbedienza.

Se si pongono in atto queste condizioni rituali, quando si proclama la Parola succede davvero qualcosa di fondamentale: una specie di risurrezione della Scrittura, che si alza per prendere la Parola. Questo evento è possibile per l’intervento dello Spirito Santo invocato da colui che proclama.

Il silenzio raccolto e accogliente

La Parola, proprio perché di Dio, è sempre parola che va al di là delle previsioni, delle attese, spesso contesta e contrasta le nostre deduzioni e impostazioni. È Parola che interseca la vita e la contraddice, perché portatrice di una luce più ampia.

Di fronte ai diversi e misteriosi modi con cui Dio si presenta, noi rimaniamo senza “voce”, senza “nomi”. Come Elia, che conosceva la voce del vento, del fuoco, dell’uragano, ma non la voce del silenzio. Il silenzio custodisce la novità, la dismisura della Parola. Come sospensione della Parola, infatti, il silenzio non è “assenza della parola”, ma parola che prende le distanze dall’uso ordinario. Proprio per questo crea le condizioni per poter accogliere la Parola originaria.

Con il silenzio si confessa di non sapere dire il Nome, si deve ancora imparare a parlare e perciò ci si mette in ascolto di chi sa già parlare, cioè della Parola originata.

Così, il silenzio diviene casa capace di ospitare una Parola nuova perché crea nel soggetto quell’apertura che lo rende disponibile ad accogliere una Parola che non è già tra le parole, ma è una Parola Creatrice. Così, quando non

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solo una parte della comunità tace per lasciare parlare l’altro, ma l’intera comunità tace, può avvenire l’ascolto- riconoscimento di un Altro rispetto alla comunità tutta.

Davvero nel silenzio « ciò di cui non si può parlare comincia a dirci qualcosa ».

Infine, il silenzio libera dalla tentazione di annacquare la Parola, di appiattirla sui nostri schemi e sui nostri bisogni. Impedisce anche risposte o commenti falsamente edificanti, percorsi troppo brevi che non si lasciano attraversare dalla scandalosa contraddizione che è intrinseca ad una Parola che viene dalla Sapienza della Croce e non dalla sapienza dei discorsi umani.

La risposta orante

La Parola di Dio, prima di essere spiegazione o de- nominazione, è vocazione, è appello. È invito ad aprire il proprio essere ad una possibilità diversa.

Al Dio che interpella, il popolo risponde, ma nella liturgia il rispondere autentico è un “corrispondere”. La liturgia sa che la Parola chiama a vivere una esistenza impossibile, perciò la liturgia non invita subito al fare, ma a partecipare ad un’opera già in corso. È per questo che, oltre al silenzio, la Parola celebrata fa appello ad un’altra singolare modalità dell’accogliere-raccogliere: il dialogo responsoriale. Per rispondere alla chiamata di Dio siamo in primo luogo chiamati a trasformare il nostro parlare nella lingua che Dio ci ha ri- volto. È questa la vera natura della preghiera: parola umana plasmata dalla Parola proclamata. Ed è questa la prima risposta alla Parola. Si tratta di una risposta singolare perché corrispondente alla natura della Parola: ma è la condizione perché la successiva e conseguente risposta esistenziale sia rispettosa della differenza della proposta di Dio.

Salmi, acclamazioni, canti, intercessioni che accompagnano o

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seguono la proclamazione della Parola sono la espressione- attuazione rituale di una verità fondamentale: la Parola si ascolta veramente e soltanto nella risposta, non si da infatti rivelazione senza relazione. La corsa della Parola si conclude nella risposta. Ma perché il rispondere non si trasformi in un mortificare la Parola, la risposta più vera, quella corrispon- dente alla Parola, è la preghiera che nasce dalla Parola stessa.

Qui si da l’evento di una relazione che, però, non interrompe il fluire sempre nuovo della rivelazione. Come non si da rivelazione senza relazione, così non si da vera relazione senza lasciare aperto lo spazio a sempre nuove rivelazioni. E ciò si attua nella Parola pregata, cantata, acclamata, venerata. Quando il popolo si raduna, Dio parla.

Anche il popolo parla, ma in risposta a ciò che Dio gli ha detto. Grazie a questa Parola che precede, la risposta può essere una Parola vera.

Esiste uno strettissimo rapporto, un rapporto di reciprocità- connaturalità fra rito e Parola: la celebrazione permette alla Parola di divenire Avvenimento; la Parola permette alla celebrazione di non essere né una ricerca a tentoni, né una cupidigia, né una pia illusione. Il rito senza la Parola diventa vago, incomprensibile, e può scadere nel ritualismo;

la Parola senza rito diviene falso moralismo, vuoto didatticismo.

Per concludere: non soffocare la Parola!

La tendenza oggi più diffusa è di soffocare il rito con molte parole. Le parole appaiono prepotenti, arro- ganti e invadenti. Siamo alla ricerca di parole chiare, spiegate. Il rito viene respinto indietro a favore della parola facile, delle istruzioni, del commento didascalico, dell’esortazione.

Ma, in tal modo, non si mortifica per via di soffo-

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camento ciò che si vorrebbe salvare, ossia la celebrazione della Parola?

E’ altamente dannoso “scaricare” sulla liturgia le nostre carenze formative (etiche e catechistiche) e perciò voler “caricare” la liturgia di compiti che non le competono e rischiano di snaturarla.

La liturgia della Parola deve prima di tutto rimanere “liturgia” per poter essere fonte di vita nuova.

Quando viene vissuta come “occasione” per fare tutt’altro, si perdono tutte le occasioni.

E poi esiste la necessità di “lasciare spazio”

agli angeli e lasciare che essi volino ancora nel nostro cielo, con il loro canto e con le loro parole che hanno conservato il sapore e la musica dell’Unica Parola.

In sintesi:

La Parola celebrata ci inserisca tra quei servitori e profeti che compresero il mistero di Dio e l’ hanno annunciato con coraggio.

La Parola proclamata ci assimili a Cristo nel pensare e nell’agire; ci renda “lettera di Cristo…scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (2 Cor 3,3)

La Parola ascoltata meditata e pregata che non può essere “incatenata”, (2 Tm 2,9) è la vera protagonista del cammino della Chiesa: le dia energia vitale e slancio al suo cammino missionario.

La Parola amata e custodita porti in noi frutto, si rompa il guscio del caldo seno materno, e si permetta agli altri di poter attingere a quella stessa Parola che ci ha trasformato finalmente il cuore.

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Incontro di formazione per Diaconi permanenti, lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione e operatori della liturgia

11 marzo 2015 Incontro di formazione per

Diaconi permanenti, lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione e operatori della liturgia.

Si è tenuto mercoledì 11 marzo alle ore 17:00 presso la sala parrocchiale della Chiesa Madonna di Loreto in Castrocielo, il secondo incontro di formazione per Diaconi permanenti, lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione e operatori della liturgia.

L’incontro di formazione è stato pensato in questo momento quaresimale sia per vivere un momento di riflessione e di comunione, sia per approfondire e migliorare il prezioso servizio di animazione delle nostre comunità parrocchiali, soprattutto nel mistero della proclamazione della Parola di Dio a cui, come spesso richiamato, siamo sollecitati anche dal nostro Vescovo negli Orientamenti del Progetto Pastorale

“Chiamati per rispondere”.

L’incontro, diretto da Don Alfredo e Don Benedetto, rispettivamente Direttore e Vicedirettore uld, intitolato “La fede viene dall’ascolto”, ha avuto come obiettivo principale

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quello di invitare tutti i fedeli ed in particolare gli operatori della liturgia, a riflettere sull’importanza dell’Ascolto della Parola di Dio e a porla come fondamento della propria vita cristiana. Dopo il saluto e la preghiera iniziale, la prima parte dell’incontro, “Dinamismo liturgico della proclamazione della Parola”, è stata diretta da Don Alfredo che, con un breve viaggio nelle Sacre Scritture, ha sottolineato come viene proclamata la Parola di Dio e quale sia il giusto significato, interrogativi che spesso noi tutti ci poniamo. È stato bene evidenziato come la preghiera liturgica faccia si che la Parola possa vivere e crescere in noi, nei nostri cuori. leggendo le Sacre scritture non si fa la semplice lettura di un libro, ma la Scrittura, all’interno della liturgia ci riporta ad un Evento, Interpretato e poi Celebrato… Nella Liturgia della Parola, la presenza di Cristo è forte e significativa perché quei gesti che noi facciamo ci dicono che Lui è presente veramente. Evidenziando come l’importanza della Liturgia della parola ,nelle varie realtà parrocchiali, viene spesso dimenticata dalle varie circostanze di fatto e del momento, è importante prendere coscienza che proprio in quel rito della Parola, la comunità si stringe intorno a Cristo e, vissuta bene, come si dovrebbe, ci permette di proclamare anche noi nelle Lode ciò che Dio ha compiuto.

La liturgia non vuole che La Parola sia ridotta a lettura, ma d e v e r i s a l i r e d a l l i b r o a l l e l a b b r a , a l c u o r e dell’interlocutore che sia in ascolto con orecchi attenti e cuore docile.

Nella seconda parte dell’incontro tenuto da Don Benedetto,

“Proclamare la Parola – Metodologia e passi”, in modo molto tecnico e preciso siamo stati riportati, tramite la lettura dei punti fondamentali del Messale Romano,relativi alla parte sul Lettore e la celebrazione del rito della Parola, a riflettere su due punti 1- “Ma io il mio servizio come lo svolgo?” 2– “Come l’ho imparato?” E da qui l’invito personale

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e a tutte le comunità, di rifondare la consapevolezza e la responsabilità collegata alla Proclamazione della Parola, perché se non c’è Ascolto non c’è conversione, se non c’è conversione non c’è fede e se non c’è fede quando si riceve la Comunione nella nostra vita non cambia nulla perché Essa non agisce in automatico e indipendentemente da quello che trova, ma la Comunione può agire solo quando trova un animo in stato di conversione, conversione come disponibilità ad Ascoltare e Custodire.

Al termine del percorso formativo non poteva mancare un intenso momento di preghiera con la celebrazione dei Vespri presieduta dal nostro Vescovo, il quale in brevi cenni ha ribadito e confermato l’importanza della Centralità della Parola di Dio nella nostra vita, nella vita di un vero Cristiano. Senza l’Ascolto attento e meditato della Parola di Dio, ogni altra pratica perde di senso e di importanza.

– Aurora Capuano

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Ingresso di don Erwin a San

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Vittore del Lazio

Foto dell’ingresso di don Erwin a San Vittore del Lazio.

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V Edizione del Premio

internazionale San Tommaso

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d’Aquino

La quinta edizione del Premio internazionale Tommaso d’Aquino e l’annuncio del vincitore del concorso internazionale Veritas et Amor, si sono svolte l’otto marzo 2015 presso la chiesa della Madonna della Libera ad Aquino.

L’evento, accompagnato da canti liturgici composti da San Tommaso stesso, ha avuto come ospiti autorità politiche e religiose, nazionali e internazionali che hanno ripercorso la vita del “doctor humanitatis”.

Tommaso di Ruzza, presidente del Circolo San Tommaso d’Aquino, ha ricordato il pellegrinaggio di Paolo VI nella città del santo, con la celebre frase «dove se non ad Aquino lo studio della nostra religione, anche nella formazione elementare, ma necessaria e sapiente, deve essere tenuto in onore, e deve essere compiuto da tutti con particolare impegno?». In seguito, illustrando il titolo delle attività in programma Tommaso d’Aquino 1225-2015: la profezia della verità ha sottolineato la ricorrenza dei 790 anni dalla nascita del santo. Mons. Gerardo Antonazzo, ha evidenziato l’importanza dell’umanizzazione, già esposta dal santo, facendo dei riferimenti anche a Papa Francesco e San Giovanni Paolo II. Il sindaco della città di Aquino, Libero Mazzaroppi si è rivelato entusiasta del Circolo San Tommaso d’Aquino, che esalta la figura del santo in tutto il mondo .

Vincitore della sezione cultura di quest’anno è stato il giovane padre domenicano Innocent Smith, da Washington, con la tesi: “Orazione come autorità teologica in Tommaso d’Aquino”, mentre la sezione arte è stata appannaggio di un gruppo di disegnatori che sta realizzando una vita illustrata di Tommaso d’Aquino.

Le borse di studio sono state finanziate dalla Banca Popolare del Cassinate, quindi il circolo ha conferito la “fiaccola

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d’oro” per il grande lavoro compiuto sul territorio a Donato Formisano, presidente della banca, che è intervenuto fuori carica istituzionale.

Il premio internazionale è stato conferito a Pasquale Porro, professore della Sorbona di Parigi, studioso del pensiero medievale con una particolare predilezione per Tommaso. Nella sua “lectio magistralis”, con esempi semplici, ha trattato temi come la libertà, il male, il senso dell’agire umano secondo Tommaso.

L’evento è stato concluso dall’intervento di Mons. Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Segreto della Biblioteca Apostolica Vaticana. Questo sottolinea il legame con le istituzioni ecclesiastiche che ha sempre caratterizzato l’operato del Circolo San Tommaso d’Aquino.

Marianna Tanzi

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Festa di San Tommaso ad Aquino con il Card. Mamberti

Anche quest’anno la città di Aquino ha reso onore a San Tommaso nelle giornate del 6-7-8 Marzo. Come da tradizione il 6 Marzo, dopo la celebrazione della Santa Messa, un corteo si è diretto verso la Piazzetta dei Conti di Aquino per il falò.

La Santa Messa del 7 Marzo, giorno in cui si ricorda la morte di San Tommaso, nella Basilica Concattedrale di Aquino è stata presieduta dal cardinale Dominique Mambertì e dal vescovo mons. Gerardo Antonazzo. La casualità ha voluto che proprio in questo giorno ricorresse il 63° compleanno del Cardinale Mambertì, a cui il Vescovo e il parroco don Tommaso Del Sorbo hanno rivolto un augurio speciale e al quale hanno chiesto di riportare a Papa Francesco tutto l’affetto della comunità di Aquino. Nell’omelia il Cardinale ha definito San Tommaso “il grande San Tommaso” e uno dei suoi Patroni. Grazie alla sua

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esistenza le terre di Aquino sono considerate benedette, terre in cui si respira “odore “ di Santità. San Tommaso, ha continuato citando qualche aneddoto della sua vita, è stato uno dei più grandi benefattori dell’Umanità, un uomo dal talento eccezionale per nulla ostentato, umile, generoso, misericordioso, lottatore con la sua fede verso le resistenze e gli ostacoli che ha incontrato; un uomo, un Santo, in cui è incarnata la sintesi straordinaria di sapere teologico, scientifico e umanistico. Sua Eminenza ha colto un’assonanza particolare e del tutto pertinente col Vangelo di Matteo (5,13-16) proclamato durante la Santa Messa: così come Gesù disse ai suoi discepoli «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo» anche San Tommaso è stato la luce e il sale della Chiesa, il faro di tutta l’umanità. In lui si realizza la presenza del Vangelo, in lui che ha fatto della Verità del Vangelo la sua ragione di vita. Noi, ha aggiunto, possiamo essere la luce e il sale del mondo per perseguire la Verità, che è Dio. La Verità per essere conosciuta deve essere contemplata con la preghiera. Ha esortato tutti, quindi, a pregare per essere luce, quella luce di cui il mondo, oggi, ha bisogno. Questo tempo di Quaresima, nel periodo storico che ci travolge, è particolarmente favorevole per meditare, per lasciare che la luce si faccia misericordia e conquisti tutte le terre al fine di abbattere l’egoismo e di scovare il male dai suoi nascondigli. Il segreto di San Tommaso e della sua Santità, ha concluso, è stato credere in Gesù e riporre in lui le sue speranze, i suoi talenti, la sua sapienza e la sua intera vita. Queste doti che Dio ha concesso a San Tommaso sono state un dono che Lui stesso ha voluto mettere al servizio di tutti gli uomini. Dopo la Santa Messa i fedeli hanno percorso in processione le vie del centro. Domenica 8 Marzo le festività di San Tommaso si sono concluse con la V edizione del “Premio Internazionale Tommaso d’Aquino” nella Chiesa S. Maria della Libera a cura del Circolo San Tommaso d’Aquino.

– Martina Petrilli

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Incontro di Formazione del

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Clero con Mons. Domenico Sigalini

L’evangelizzazione: una gioia che il popolo di Dio comunica, assieme, per tutta la persona, tutta la società.

Premessa

In questa seconda riflessione tenterei, a partire dalla Evangelii Gaudium, di porre le basi per una pastorale condivisa da tutta una chiesa diocesana, che va alla persona e non alle specificazioni degli uffici o del ruolo del singolo prete (giovani, bambini, adulti, coppie, famiglie…) che debbono assolutamente collaborare ed essere corresponsabili della figura di un cristiano maturo sia per la sua età e il suo ruolo, ma per la vita soprattutto, in maniera globale.

In quale contesto socio religioso viviamo?

Togliamoci l’idea che sia in atto ancora una secolarizzazione come l’abbiamo patita dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni’80, quando si vedeva che la gente si allontanava sempre più dalla chiesa e da ogni forma di religione. La nostra crisi non avviene in un contesto di secolarizzazione o dentro un declino della religione, anzi siamo in un boom religioso (religious booming), un momento di crisi della laicità. E’ una religiosità diversa dal cattolicesimo classico, che nella religione vedeva un ancorarsi a principi validi anche per la vita pubblica.

Dalla fine degli anni ’60 è trascorsa un’era, non mezzo secolo. Il Concilio con le indicazioni di Montini ha capito questo cambiamento. E la chiesa si è rimessa a trascrivere nel concreto le indicazioni conciliari; ma oggi oltre al

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cattolicesimo sta avanzando una forma religiosa detta anche

“religione a bassa intensità” (low intensity religion) che tende a svuotare i sentimenti religiosi, della bellezza della fede cattolica.

Che è questa religione a bassa intensità?

Ha davanti a sé delle persone che sono viste come consumatori di religione e allora ne assume tutti gli elementi che li caratterizzano e li accontenta come si fa con tutti i consumatori.

Concede al consumatore religioso una infinita capacità di scelta, come facile ricombinazione tra beni e servizi che ci sono sul mercato religioso

Offre grandi possibilità e occasioni anche alle autorità religiose, se queste sanno abbassare le pretese normative.

Concede estrema flessibilità, grande indulgenza nei confronti della espressività, una riserva di simboli e riti, a patto che si liberino dei vecchi scrupoli dell’ortodossia e della orto prassi. Non ci sono quindi principi teologici obbligatori, comportamenti morali definiti, verità grandi donate da Dio e accolte con stupore e gratitudine

Si accetta di avere meno rilevanza in cambio di ottenere maggiore visibilità.

Il punto di arrivo è una facile e larga omologazione.

La sociologia studia questa religione a bassa intensità come quando studia fenomeni di intrattenimento e di divertimento;

quindi sono proprio parenti stretti

Non ci meravigliamo allora se nella mentalità di molta della nostra gente che va in chiesa o che le gira attorno si adottano forme di una religione a bassa intensità. Alcuni esempi:

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il matrimonio cristiano con la sua fedeltà, unicità, apertura alla vita, per sempre è inconcepibile per questa religione a bassa intensità. E’ troppo rigida questa impostazione; oggi i consumatori desiderano altro!

i laici non sono più da aiutare a farsi corresponsabili della chiesa e dell’evangelizzazione, ma solo dei consumatori; ne va di mezzo il profilo del prete che diventa uomo in solitudine a reggere un marketing faticoso

vanno in crisi le vocazioni alla vita religiosa soprattutto femminile. Che cosa fanno di utile le suore in convento, non parliamo delle contemplative in clausura!

La nostra gente non è tentata da fondamentalismo o da tradizionalismo radicale, non si stabilisce in essa una contrapposizione tra progressisti e conservatori, come si dice sempre, ma siamo tutti trapassati da correnti religiose a b a s s a i n t e n s i t à . T u t t i i n o s t r i p r o b l e m i n a s c o n o dall’assimilare il cattolicesimo solo a religione e per di più a bassa intensità.

L’affermarsi di un cattolicesimo in Italia solo come religione e per di più a bassa intensità non è immediato, ma molto più vicino di 10 anni fa. L’Italia centrale, proprio dove viviamo noi, appare in difficoltà molto maggiori della media, i suoi confini si stanno allargando a Nord e a Sud.

Una controtendenza sta in alcune “isole” del Nord e del Sud, che tra l’altro usano metodi molto diversi per le loro configurazione storico-culturale. Questo significa che non c’è un’unica ricetta pastorale che ci porta fuori dal guado, che ci permetta di rinnovare la forma ecclesiale della dimensione religiosa del cattolicesimo perché non diventi religione a bassa intensità.

Qui allora occorre assolutamente che il clero operi un

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profondo discernimento ecclesiale. Non sottostimiamo la diminuzione progressiva del clero, ma è più importante leggere, approfondire, ricercare le cause del declino del profilo istituzionale del clero. Capite che l’ordinazione delle donne o di uomini sposati non cambia il problema e soprattutto non lo risolve. Il prete è un uomo di marketing o un uomo di fede?

L’insegnamento del Vaticano II e del magistero successivo, per le loro implicazioni sociali sono consapevoli e attrezzati per questa sfida. L’insegnamento e la prassi di Papa Francesco sono assolutamente necessarie per questo prospettiva

Il tutto è superiore alla parte

Un altro elemento da chiarire per il nostro tema che vuole mettere le basi o aiutare una pastorale integrata è il superamento della frammentazione. Prendiamo per aiutarci meglio uno dei quattro principi che il papa propone: il tutto è superiore alla parte. Viene introdottoper sciogliere il dilemma tra globalizzazione e identità locale, evitando due estremi opposti: da un lato che «i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante; dall’altro, «che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini» (EG, 234).

L’invito alla sintesi corrisponde, nella migliore tradizione cristiana, al principio del bene comune. C’è un dibattito oggi sui cosiddetti «beni comuni» (come l’acqua, l’ossigeno, l’atmosfera, il verde…), o meglio dei beni di uso collettivo.

Bene comune si dice solo al singolare, per indicare il bene nella sua massima portata inclusiva e universalista.

Papa Francesco ci ricorda che le parti «partecipano»

dell’intero solo nella misura in cui c’è un bene che accomuna.

Il bene che accomuna, a livello umano, è soprattutto un bene morale, più che un insieme di beni naturali; in tal senso esso

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investe primariamente la qualità delle relazioni tra persone.

Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa lo intende chiaramente «come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (n. 165). Certamente ci sono dei beni di uso collettivo, che tuttavia potremmo usare anche in maniera individualistica, addirittura selvaggiamente egoistica. Il bene comune è la qualità delle relazioni che trasformano tanti

«io» in un unico «noi».

Evangelii gaudium ci offre altresì un’indicazione di metodo per metterci su questa strada, utile anche per l’azione pastorale: si tratta di puntare non a una «parzialità isolata che rende sterili» né ad un «sfera globale che annulla» (EG, 235); dunque non una mera sommatoria di punti di vista né una sintesi omologante (come suggerisce la metafora della sfera, nella quale si perdono le differenze), ma una capacità di fermentare la massa, assumendo come modello «il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (EG, 236).

Solo a partire da un esercizio reale di discernimento comunitario, possiamo entrare in dialogo con la domanda o voglia di comunità che è al fondo del nostro cuore, in nome di più autentiche esperienze di partecipazione civile che riescano a sconfiggere i populismi dilaganti. Il comune non è il globale, la vera partecipazione non è quella che comincia da me o da te o da lui; è quella che comincia da noi, da un noi che ci precede e ci supera, al quale la fede riconosce un volto trinitario. Come dicevamo nel primo intervento, il presbiterio è un noi assieme al vescovo, non è la somma di tanti individui. Articolare in modo polifonico e comunitario la società delle differenze, impedendo che degeneri nel d e s e r t o d e l l ’ i n d i f f e r e n z a o n e l l a r o c c a f o r t e dell’intolleranza: ecco uno dei compiti di una cultura del futuro, in cui i credenti non potranno occupare posizioni di retroguardia. Le nostre parrocchie devono essere significative al riguardo e possono dare questo necessario contributo alla

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società. Le nostre comunità cristiane devono essere non solo esempio, ma anche operatori attivi di comunione tra le persone aiutandole a superare particolarismi assurdi. I paesi più piccoli, le parrocchie più piccole sono quelle che hanno maggior litigiosità. Non è possibile!

Proprio per questo, Evangelii gaudium ci è affidato non come un documento da leggere e archiviare, ma prima di tutto come un testo programmatico, generativo, di cui dobbiamo esplorare, attraverso una sorta di work in progress a livello pastorale, le potenzialità ancora latenti e inespresse.

Entro questo grande quadro c’è una visione di chiesa che papa Francesco spesso ci offre, verso la quale ci stimola, e che è il gioco nuovo che dobbiamo inventarci dentro le strutture, le comunità, i gruppi, le aggregazioni di cristiani.

Sopra tutto c’è un imperativo:

“Uscire ” per incontrare

La Gaudium et Spes vedeva le antinomie, ma non parlava di una civiltà alla deriva e diceva che c’era una generale aspirazione a Dio nell’umanità con un mondo visto sempre in crescita verso una maggiore autonomia e responsabilità.

Papa Francesco invece coglie nel mondo una sofferenza che lo rende triste. Il mondo soffre perché è triste; è come il lago di Genezareth in cui si alzerà il vento, creerà sconquasso, ma Dio ci riserverà grandi cose.

Il lavoro della chiesa è creare comunità, fare Eucaristia. Se la società è una giungla e lo stare insieme è finalizzato all’imbroglio, al sopruso, sia maledetto chi compie questo. La mafia, la ndrangheta è scomunicata proprio per questo. La scomunica gridata alla ndrangheta è un programma di governo alternativo. La Bibbia è più forte e più decisa di quanto si pensi.

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Il suo pontificato è giocato nella metà del campo avversario.

Papa Francesco vuol mettere in movimento una chiesa bloccata[1].

Ieri, per esempio, qualsiasi discorso dei vescovi era una ingerenza. Oggi tutti si sentono di ingerire nella chiesa, proprio perché papa Francesco sta con tutti, nel loro campo.

La chiesa è vista come un grande ospedale da campo che ha questi reparti:

psichiatria: Dio si rivela un po’ per volta nelle acque profonde e oscure. E’ un errore convincere il mondo della razionalità di Dio. Le idee classificano, ma non coinvolgono.

Occorre raccontare le meraviglie della salvezza

ortopedia, ridurre la frattura, il mondo sarà redento dalla pazienza di Dio. La risurrezione si compie a Emmaus. Così papa Francesco ha tentato di ridurre la frattura tra ebrei e palestinesi, tra corea del Nord e del Sud. E’ un lavoro paziente e che non sempre riesce.

cardiologia, le arterie del mondo sono bloccate, occorre inserire nuova linfa, usare cardioaspirine come il rosario e la misericordina per esempio. Se il cuore è grave, prima curo quello, poi passerò ad altre cure. Se la moralità è sballata prima tento di portarla in equilibrio, poi farò la cura intera.

omeopatia, assume a dosi omeopatiche il veleno per poterlo poi combattere definitivamente; così è della barbarie del relativismo, della dissolutezza di tante situazioni di peccato, dei matrimoni gay.

Occorre intercettare il cammino di chi è scappato, scendere nelle loro oscurità e portarli lentamente a riconoscersi nello s p e z z a r e i l p a n e . N o n i n t e r e s s a n o m o m e n t i d i destabilizzazione, basta che si riesca a comunicare la verità che si rapporta e chiede conferma nella dignità della persona

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e nella libertà di essa, come dice la GS. Prima di fare la battaglia occorre confondersi per ascoltare e farsi ascoltare come ha sempre fatto la chiesa con le nuove culture (barbari, romani, orientali…)

Un nuovo modo di pensarci come persone e come cristiani

Siamo arrivati alla fine di una grande illusione, che forse era necessaria. Molti hanno spinto a sostenere che la libertà è immaginare l’uomo, se stessi, come un io: concepire persona e individuo come degli equivalenti. La persona non è l’individuo. E non è l’io. La persona, nella lingua italiana, nella lingua latina e nel 95% delle lingue del mondo, è almeno tre persone (pronomi) singolari e tre persone plurali e noi, come minimo, siamo sei e l’io è una delle cose più complicate e difficili da definire. L’esperienza che ognuno fa di sé innanzitutto è quella di essere un tu. Il marito è un tu per la moglie, il papà è un tu per il figlio; il prete è un tu per il vescovo, è un egli per i parrocchiani o per gli alunni, se è insegnante. L’io è definito se ci sono il tu e gli altri.

Esistiamo come un io perché siamo un tu e un egli. A un certo punto siamo entrati in una specie di follia dal punto di vista dell’immaginario di noi stessi. Lo dicono spesso nella pubblicità: «Il mondo gira intorno a te», «La banca gira intorno a te», “Siamo qui solo per te, siamo la tua salute”.

Un padre, tempo fa, uccise le due figlie e la moglie e portava come motivo che con loro si sentiva in prigione. Ed era sincero, perché, se si cresce con questa idea dell’io, è chiaro che l’altro è sempre una prigione. Si creano nelle persone questi stranissimi bisogni che ruotano, che si spostano, a cui devi sempre dare soddisfazione immaginando che sei potente, che devi agire con questa boria e che l’unico modo di agire è fare una esperienza tutta tua espandendo il tuo io. La base antropologica su cui si è fatta l’espansione economica è quella che si orienta a un modello infinito, perché si immagina che il nostro io si espanda all’infinito.

Tutti noi abbiamo a cuore la famiglia; ne siamo convinti e

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facciamo di tutto per sostenerla, difenderla, promuoverla, ma occorre assolutamente uscire dalla retorica. E questo esige che si viva la famiglia proprio con un cambiamento di mentalità, che non mette al centro l’io, ma rifonda le relazioni, la gioia dello stare assieme e crescere assieme, dove tutti riconoscono questo essere altro rispetto agli altri ed essere altro con gli altri: la famiglia non può essere la stanza degli egoismi, ma la decisione di dono. La famiglia è collegata e vive con le altre famiglie. Altrimenti sarà difficile La prima causa di omicidio oggi è la famiglia.

Abbiamo superato il 37% di omicidi in famiglia. Siamo a due omicidi alla settimana. «Ah, ma erano bravissimi». Si dice sempre così. «Erano normali». Una considerazione va fatta anche sulle abitazioni in cui vive la maggior parte della famiglie soprattutto in grossi centri urbani. Il nostro ideale è che ciascuna famiglia si chiuda nel suo appartamento. Che cosa vuol dire la parola appartamento? Separazione. Immaginare la famiglia come un nucleo chiuso che sta dentro un luogo chiuso è una follia, con l’io tra l’altro che vuole espandersi in quel modo che dicevamo sopra. Prima o poi scoppia. È come metterci una bomba a orologeria. Non stiamo facendo una azienda che costruisce abitazioni, ma come chiesa è necessario che riflettiamo anche su questo. Non è nostalgia delle vecchie aie, dei cortili dove ogni uscio dava su uno spazio di comunicazione immediata, ma almeno a delle abitazioni che permettano solidarietà, aiuto reciproco, non paura, difesa, isolamento, liti di condominio. Più crea comunicazione, più la parrocchia è luogo di vita.

Grazie a Dio, però, anche questo eccessivo concentrarsi sull’io, sull’isolamento è in crisi perché ha troppi costi.

Troppi costi in farmaci: non abbiamo mai avuto al mondo un così alto consumo di psicofarmaci. Troppi costi alimentari:

non abbiamo mai avuto al mondo un numero così grande di obesi.

Troppo alto il costo (economico) in termini di divorzi, di separazioni.

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E’paradossale che siamo costretti a ragionare sul bene delle persone e a cambiare mentalità a partire dall’economia, ma noi cattolici sappiamo di essere in una fraternità ispirata dalla Trinità come esempio, forza e traguardo. Il nostro Dio è comunità, non è un single, un individuo, tanto meno la somma di tre individui. La parola fraternità può cominciare ad assumere qualche connotato di senso, se in essa si riconosce l’alterità e il tuo prossimo come te stesso. E se i presbiteri si fanno guerra l’uno contro l’altro? Se vivono ciascuno a fare il papa, re e profeta nella sua parrocchia? Questo non è un tema solo religioso, ma è un grande tema di convivenza civile.

Verso quali scelte orientare la nostra presenza cristiana che ha sanissimi principi di vita comune, di comunione, di comunità, ma che non riesce a permeare di questo spirito la nostra realtà? Purtroppo come cristiani ci siamo adattati, non solo, ma siamo diventati noi attori di assurde economie, di fallimentari investimenti economici, di demissione di nostre responsabilità allo stato.

Tanti errori li abbiamo prodotti anche noi perché abbiamo perso per strada gli ideali; quando si fa carità verso il terzo mondo e non verso i concittadini, quando non si compiono cammini di ricupero delle nostre responsabilità. Non siamo riusciti ad essere fermi e abbiamo svenduto. Oggi serve non essere accomodanti al ribasso, ma schietti e esigenti.

Liturgia, catechesi, carità: una unità necessaria per educare cristiani maturi e cittadini onesti

Chiamerei queste tre dimensioni della vita di una comunità cristiana con termini più comprensibili anche al di fuori dei nostri ambienti, invertendo l’ordine come avviene in pratica nel nostro lavoro di evangelizzazione: annuncio, celebrazione, testimonianza della carità, dove la carità non è la Caritas intesa come aiuto alle povertà materiali, ma l’attenzione a tutte le povertà umane, comprese quelle culturali e

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spirituali.

La scelta di questi tre ambiti non è un privilegiare alcuni uffici pastorali e dimenticare o sottovalutare gli altri, forse anche quelli più concreti e più percepiti dalla gente;

non è dimenticare i giovani, o il lavoro o le missioni, ma mettere in evidenza le forme che devono investire ogni attenzione educativa e di conseguenza ogni azione della chiesa.

Annuncio, celebrazione e testimonianza sono da declinare in ogni struttura pastorale, in ogni soggetto o condizione del cristiano e non sono esclusiva degli uffici liturgico o catechistico o della Caritas. Non ci confrontiamo con tre uffici, ma con tre dimensioni che stanno alla base di un progetto educativo specifico di una comunità cristiana. Che cosa fa la pastorale giovanile se non si definisce nell’annuncio, nella celebrazione e nella testimonianza? E così la famiglia, il lavoro, le missioni… Ciascuno con il suo taglio, la sua riscrittura intelligente, mette a disposizione di tutti la sua peculiarità e stana da giovani, famiglie, lavoratori, operatori dei mass media, tutto quanto di bello possono mettere a disposizione di tutti. E’ importante però che l’unità progettuale parta da queste tre dimensioni.

L’unità è possibile, attuabile, e, ancor prima di essere codificata in testi o programmi che si elaborano assieme, è scritta nella formazione di ogni credente che deve assolutamente farsi convertire dall’annuncio, essere vivo nella celebrazione e decidere di mettersi a disposizione nella carità. Se il percorso educativo globale che abbiamo scelto è sintesi di queste tre dimensioni non è possibile pensare l’educazione se non in una continua mutua relazione di annuncio, celebrazione e testimonianza, in una logica reticolare, in cui il punto di partenza è lasciato alla vita, alla creatività delle persone, alla complessità dei tempi moderni, alla liquidità della nostra società, dentro la quale lo Spirito esprime tutta la sua libertà. A noi tocca

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presidiare e dedicarci alle connessioni tra i diversi punti, garantire il massimo di relazioni e di passaggi. Non è importante oggi un prima e un poi temporale, assolutamente standardizzato, ma il processo completo nella sua globalità e quindi aperto a tutte le varie impostazioni culturali, che la comunità discerne. Il punto di arrivo è sempre questo conformarsi a Cristo; e, geneticamente, non temporalmente, il primo passo è l’annuncio.

La distinzione delle tre dimensioni è necessaria perché ciascuna deve esprimere non solo un suo punto di vista, ma la ricchezza che le viene consegnata per costruire un autentica esperienza credente. Annuncio, che già in se stesso non può non contenere l’unità con la celebrazione e la testimonianza, è oggi soprattutto primo annuncio, come dimensione normale nella quotidianità dei cammini formativi parrocchiali e no.

Ogni intervento formativo non deve dare per scontata l’adesione di fede, ma deve continuamente renderla incandescente, perché così lo esige la nostra vita, la complessità e il cumulo di distrazioni della nostra società.

La celebrazione è farsi convertire dai sacramenti e non solo prepararsi ai sacramenti, è tenere l’uomo al suo posto e aiutarlo a farsi accogliente di un mondo altro che illumina il suo, che lo aiuta a dare senso al suo presente. E’ investire del dono di Dio la persona anche nella sua corporeità. E’

presidiare la vita cristiana perché l’annuncio cristiano non si trasformi in propaganda, l’impegno di testimonianza non perda il suo vero sapore e la preghiera o la liturgia non degeneri in evasione. E’ collocare nella vita un giorno del Signore, assoluto, indisponibile, ma tanto decisivo nel costruire persone mature e nuove e non cristiani a intermittenza. La carità è dono di Dio da accogliere proprio contestualmente all’uomo da servire, è impostare al vita sulla logica del dono e non dello scambio. Lo scambio misura ogni cosa, persone comprese; il dono le accoglie e dimentica pesi e misure.

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Allegato

Due grandi tentativi di fare pastorale integrata: il convegno di Verona e il convegno di Firenze

Il Convegno di Verona Vita affettiva 1.

Comunicare il Vangelo dell’amore nella e attraverso l’esperienza umana degli affetti chiede di mostrare il volto materno della Chiesa, accompagnando la vita delle persone con una proposta che sappia proporre e motivare la bellezza dell’insegnamento evangelico sull’amore, reagendo al diffuso

“analfabetismo affettivo” con percorsi formativi adeguati e una vita familiare ed ecclesiale fondata su relazioni profonde e curate. La famiglia rappresenta il luogo fondamentale e privilegiato dell’esperienza affettiva. Di conseguenza, essa deve essere anche il soggetto centrale della vita ecclesiale, grembo vitale di educazione alla fede e cellula primaria della vita sociale. Ciò richiede un’attenzione pastorale privilegiata per la sua formazione umana e spirituale, insieme al rispetto dei suoi tempi e delle sue esigenze. Per questo siamo chiamati a rendere le comunità cristiane maggiormente capaci di curare le ferite dei figli più deboli, dei diversamente abili, delle famiglie disgregate e di quelle forzatamente separate a causa dell’emigrazione, prendendoci cura con tenerezza di ogni fragilità e nel contempo orientando su vie sicure i passi dell’uomo.

Lavoro e festa 1.

Il rapporto con il tempo, in cui si esplica l’attività del lavoro dell’uomo e il suo riposo, pone forti provocazioni al credente, condizionato dai vorticosi cambiamenti sociali e tentato da nuove forme di idolatria. Occorre pertanto chiedere che l’organizzazione del lavoro sia attenta ai tempi della famiglia e accompagnare le persone nelle fatiche quotidiane, consapevoli delle sfide che derivano dalla precarietà del

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lavoro, soprattutto giovanile, dalla disoccupazione, dalla difficoltà del reinserimento lavorativo in età adulta, dallo sfruttamento della manodopera minorile, degli immigrati e delle donne. Anche se cambiano le modalità in cui si esprime il lavoro, non deve venir meno il rispetto dei diritti inalienabili del lavoratore: “Quanto più profondi sono i cambiamenti, tanto più deciso deve essere l’impegno dell’intelligenza e della volontà per tutelare la dignità del lavoro”[2]. Altrettanto urgente è il rinnovamento, secondo la prospettiva cristiana, del rapporto tra lavoro e festa: non è soltanto il lavoro a trovare compimento nella festa come occasione di riposo, ma è soprattutto la festa, evento della gratuità e del dono, a ‘risuscitare’ il lavoro a servizio dell’edificazione della comunità, aiutando a sviluppare una giusta visione creaturale ed escatologica. La qualità delle nostre celebrazioni è fattore decisivo per acquisire tale coscienza. Occorre poi favorire una maggiore conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli dedicati alle relazioni umane e familiari, perché l’autentico benessere non è assicurato solo da un tenore di vita dignitoso, ma anche da una buona qualità dei rapporti interpersonali. In questo quadro, grande giovamento potrà venire da un adeguato approfondimento della dottrina sociale della Chiesa, sia potenziando la formazione capillare sia proponendo stili di vita, personali e sociali, coerenti. Assai significative sono in proposito le risorse offerte dallo sport e dal turismo.

Fragilità umana 1.

In un’epoca che coltiva il mito dell’efficienza fisica e di una libertà svincolata da ogni limite, le molteplici espressioni della fragilità umana sono spesso nascoste ma nient’affatto superate. Il loro riconoscimento, scevro da ostentazioni ipocrite, è il punto di partenza per una Chiesa consapevole di avere una parola di senso e di speranza per ogni persona che vive la debolezza delle diverse forme di sofferenza, della precarietà, del limite, della povertà

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relazionale. Gesù Cristo, infatti, ci mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della sofferenza e della morte nella luce della risurrezione. La vera forza è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato e donato a noi nel Mistero pasquale. All’annuncio evangelico si accompagna l’opera dei credenti, impegnati ad adattare i percorsi educativi, a potenziare la cooperazione e la solidarietà, a diffondere una cultura e una prassi di accoglienza della vita, a denunciare le ingiustizie sociali, a curare la formazione del volontariato. Le diverse esperienze di evangelizzazione della fragilità umana, anche grazie all’apporto dei consacrati e dei diaconi permanenti, danno forma a un ricco patrimonio di umanità e di condivisione, che esprime la fantasia della carità e la sollecitudine della Chiesa verso ogni uomo.

Tradizione 1.

Nella trasmissione del proprio patrimonio spirituale e culturale ogni generazione si misura con un compito di straordinaria importanza e delicatezza, che costituisce un vero e proprio esercizio di speranza. Alla famiglia deve essere riconosciuto il ruolo primario nella trasmissione dei valori fondamentali della vita e nell’educazione alla fede e all’amore, sollecitandola a svolgere il proprio compito e integrandolo nella comunità cristiana. Il diffuso clima di sfiducia nei confronti dell’educazione rende ancor più necessaria epreziosa l’opera formativa che proprio la comunità deve svolgere in tutte le sedi, ricorrendo in particolare alle scuole e alle istituzioni universitarie. In modo del tutto peculiare, poi, la parrocchia costituisce una palestra di educazione permanente alla comunione, e perciò anche un ambito di confronto, assimilazione e trasformazione di linguaggi e comportamenti. In tale prospettiva, essa è chiamata a interagire con la ricca e variegata esperienza formativa delle associazioni, dei movimenti e delle nuove realtà ecclesiali.

La sfida educativa tocca ogni ambito del vissuto umano e si

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serve di molteplici strumenti e occasioni, a cominciare dai mezzi della comunicazione sociale e dalle possibilità offerte dalla religiosità popolare, dai pellegrinaggi e dal patrimonio artistico. Nella valorizzazione dei diversi apporti, alle Chiese locali è chiesto di coniugare l’elaborazione culturale con la formulazione di un vero e proprio progetto formativo permanente.

Cittadinanza 1.

Il bisogno di una formazione integrale e permanente appare urgente anche per dare contenuto e qualità al complesso esercizio della testimonianza nella sfera sociale e politica.

A tale riguardo, sarà opportuno far tesoro della riflessione e delle opere maturate in cento anni dalle Settimane sociali dei cattolici italiani. Come ricorda il documento preparatorio della prossima 45ª Settimana sociale: “Agli occhi della storia non si può non riconoscere che i cattolici hanno dato un apporto fondamentale alla società italiana e alla sua crescita, nella prospettiva del bene comune. È necessario alimentare la consapevolezza, non solo fra i cattolici ma in tutti gli italiani, del fatto che la presenza cattolica – come pensiero, come cultura, come esperienza politica e sociale – è stata fattore fondamentale e imprescindibile nella storia del Paese”[3]. Se oggi il tessuto della convivenza civile si mostra lacerato e deteriorato, ai credenti si chiede di contribuire allo sviluppo di un ethos condiviso, non limitandosi alla pur doverosa enunciazione dei principi, ma esprimendo nei fatti un approccio alla realtà sociale ispirato alla speranza cristiana, capace di guardare con simpatia al cambiamento. Ciò esige l’elaborazione di una seria proposta culturale, condotta con intelligenza, fedele ai valori evangelici e al Magistero. Implica una rivisitazione costante dei diritti individuali nella ricerca del bene comune e dovrà promuovere occasioni di confronto tra uomini e donne dotati di competenze e professionalità diverse. Un’attenzione particolare dovrà essere dedicata alle conseguenze che

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