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MARCO PICCINNO. Concetti e costrutti di DIDATTICA GENERALE

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(1)

Concetti e costrutti

di DIDATTICA GENERALE

(2)

1.

Che cos’è la didattica p. 3

2.

I modelli didattici p. 7

3.

Modelli di insegnamento – apprendimento p. 18

a) Il quadrante prodotto/oggetto p. 20

b) Il quadrante processo/oggetto p. 26

c) Il quadrante prodotto/soggetto p. 27 d) IL quadrante processo/soggetto p. 30

4.

Che cosa vuol dire insegnare? p. 33

a) L’insegnamento come orientamento normativo p. 34 b) L’insegnamento come funzione soggettiva

dell’agire p. 36

c) L’insegnamento come agire comunicativo p. 38 d) L’insegnamento come sillogismo pratico p. 41

5.

La natura dell’insegnamento p. 45

6.

La mediazione didattica p. 51

a) L’attività di mediazione sull’allievo p. 51 b) Attività di mediazione sull’oggetto culturale p. 54

7.

La mediazione nell’insegnamento p. 55

a) I mediatori attivi p. 55

b) I mediatori iconici p. 59

c) I mediatori analogici p. 60

d) I mediatori simbolici p. 61

8.

I mediatori analogici p. 63

a) La simulazione come cambiamento di cornice p. 63 b) La simulazione e l’esplorazione del possibile p. 69 c) Simulazione e decontestualizzazione p. 77

9.

La programmazione educativa e la didattica

per obiettivi p. 84

10.

La valutazione p. 91

Riferimenti bibliografici p. 98

(3)

Marco Piccinno, concetti e costrutti di Didattica Generale, Dispense per il corso di Didattica Generale.

1. Che cos’è la Didattica

In termini molto generali, possiamo definire la Didattica come la scienza che studia il rapporto tra insegnamento e apprendimento scolastico.

L’affermazione, così come è formulata, appare decisamente generica e necessita pertanto di una ulteriore specificazione.

Nell’accezione sopra riportata, la Didattica propone una riflessione intorno ai nessi che correlano tra loro l’attività di insegnamento ed i processi di apprendimento. Essa si profila perciò come una scienza sostanzialmente dinamica, volta a cogliere e a sistematizzare la complessità dei processi che si svolgono nel contesto scolastico.

La scienza didattica non si focalizza pertanto sull’insegnamento o sull’apprendimento singolarmente considerati, ma sulle tensioni che correlano tali variabili nel perimetro del sistema scuola.

Insegnamento ed apprendimento, benchè si possano considerare due facce della stessa medaglia, non sono naturalmente e necessariamente associati tra loro. Essi non si implicano vicendevolmente.

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Nella concretezza delle situazioni esistenziali si verificano infatti esperienze di apprendimento (o comunque dichiarate tali da una molteplicità di studiosi) che prescindono dall’esperienza di insegnamento. Si pensi, per esempio, all’apprendimento per condizionamento, per prove ed errori, ecc. In tutti questi casi, l’apprendimento realizzato dal soggetto prescinde infatti da una qualsivoglia attività di insegnamento intenzionale, specificatamente rivolta allo scopo.

Allo stesso tempo, l’attività di insegnamento, per quanto possa rispondere a criteri di sistematicità e di intenzionalità, non è in grado di produrre automaticamente esiti di apprendimento nei suoi destinatari. L’insegnamento non produce apprendimento semplicemente perché è stato posto in essere.

Eppure, per lungo tempo, una certa cultura didatticista diffusa nella mentalità comune ha sostenuto questa equivalenza, con la conseguenza di imputare i fallimenti nell’apprendimento non tanto ad insufficienze inscritte nel processo di insegnamento, quanto piuttosto a carenze ascritte alla personalità o alla volontà degli allievi. La conseguenza ultima di questa posizione, è stata quella di considerare

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l’insuccesso scolastico come una variabile da imputare all’inadeguatezza dello studente (che, pertanto, veniva escluso dal percorso didattico) e non anche come una variabile in qualche modo dipendente da insufficienze implicite nelle procedure didattiche attivate dal sistema scolastico.

In ogni caso, anche se insegnamento ed apprendimento si costituiscono l’uno come reciproco dell’altro, in realtà essi non sono necessariamente correlati.

Il compito della didattica è, appunto, quello di studiare i processi che consentono di costruire tale connessione, in modo tale che ognuno di questi due poli (insegnamento- apprendimento) possa contribuire al potenziamento dell’altro e, insieme, possano servire i bisogni formativi ed educativi dell’allievo.

Il fatto di individuare la didattica come scienza dei nessi tra insegnamento e apprendimento consente di superare una visione metodologia, o peggio, meramente metodica, di tale disciplina.

L’azione didattica, infatti, non si risolve riduttivamene nella mera elaborazione e/o applicazione di un metodo. Essa si

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definisce, piuttosto, all’incrocio di due particolari competenze:

una competenza legata all’organizzazione dei processi di apprendimento ed una competenza connessa ai contenuti disciplinari che formano oggetto di apprendimento.

La riflessione didattica appare pertanto rivolta alla formalizzazione dei legami che consentono di tenere unite tali dimensioni, nella duplice consapevolezza che esse sono entrambe necessarie allo svolgimento di una azione didattica efficace e che l’assolutizzazione di una di esse a discapito dell’altra produce la dissoluzione dell’azione didattica medesima.

Conoscere una disciplina non implica necessariamente il fatto di saperla insegnare; allo stesso modo, saper organizzare i processi di apprendimento in funzione delle capacità mentali dell’allievo non è necessariamente garanzia di un intervento didattico efficace.

Riprenderemo più avanti, quando affronteremo il tema dei modelli didattici, gli argomenti qui evidenziati. Tuttavia, una definizione preliminare della didattica pone l’esigenza di chiarire che un intervento formativo svincolato dai contenuti disciplinari (e focalizzato unilateralmente sui processi di

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apprendimento dell’allievo) nega all’allievo l’accesso a quei saperi che garantiscono un proficuo inserimento nella cultura;

così come una trasmissione dei saperi che sia indifferente al potenziamento delle risorse cognitive e personali dell’allievo si traduce in un approccio omologante che ostacola l’umanizzazione del soggetto e, di conseguenza, azzera alla radice la ragione stessa dell’istituzione scolastica.

2. I modelli didattici

La scienza didattica formalizza i nessi tra insegnamento e apprendimento attraverso i modelli.

In termini molto generali, il modello può essere concepito come la rappresentazione formale (e, per questo, sostanzialmente astratta) dei rapporti che si istituiscono tra le diverse variabili che concorrono a definire un medesimo campo di esperienza.

Considerato in questa accezione, il modello non è retaggio della sola scienza didattica, ma molte altre scienze cercano di formalizzare i loro costrutti ricorrendo allo strumento epistemico del modello. In ambito educativo, per esempio, si

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ricorre al modello anche nei casi in cui si cerca di dare corpo ad una teoria educativa della famiglia. In questo caso, il modello tenta di stabilire quali siano le relazioni che si instaurano tra i diversi aspetti dell’istituzione familiare: quello coniugale, quello genitoriale, quello filiale, i legami con le famiglie di origine, ecc.

Nel campo didattico, il modello rappresenta pertanto una rappresentazione delle relazioni che correlano tra loro i diversi elementi che caratterizzano l’esperienza scolastica:

l’insegnante, l’alunno, le discipline, il contesto sociale, ecc.

Il modello didattico conserva, tuttavia, una sua peculiarità, che lo distingue dai modelli utilizzati nell’ambito delle altre scienze.

Nell’ambito della didattica, infatti, il modello non si traduce in una semplice descrizione e formalizzazione delle prassi che attraversano la vita scolastica. Nella misura in cui istituisce una rappresentazione degli scambi tra le diverse componenti del sistema scuola, esso assume senz’altro una valenza pratica ed operativa, senza tuttavia esaurirsi in essa. Nel modello didattico, infatti, le prassi istituite al suo interno ineriscono sempre alla specificità dei fini educativi, sicchè

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assumono una valenza a tutti gli effetti teleologica ed axiologica.

Detto in altre parole, nel modello didattico i fini ed i mezzi, gli scopi e gli strumenti dell’azione non sono connessi per giustapposizione o per semplice associazione estrinseca. Al contrario, le prassi istituite dal modello rappresentano processualità dense di valori, non semplicemente degli strumenti messi al servizio di questi ultimi. In questo senso, le risorse operative prescritte o indicate dai diversi modelli, non sono “semplici strumenti, in quanto, mentre questi ultimi sono utilizzabili per scopi diversi, le prime sono espressione e realizzazione di valori…perciò i valori ed i fini educativi non devono essere visti come collocati in una dimensione trascendente rispetto alla pratica educativa…ma devono essere considerati come immanenti alle tecniche didattiche stesse” [Baldacci, 2008, p. 16].

Le prassi didattiche desumbili dai modelli non sono perciò mai asettiche. Esse sono inscritte in un sistema di valori e, di conseguenza, attivarle in sede didattica vuol dire anche promuovere presso gli allievi destinatari le visioni del mondo e le dimensioni di valore correlati ad ognuno di essi. Così, per

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esempio, sarebbe riduttivo considerare la lezione frontale (strumento didattico principe all’interno delle aule scolastiche) un semplice strumento per la trasmissione del sapere.

Quando l’insegnante ricorre ad essa, infatti, egli non media soltanto dei contenuti, ma interi universi di significato, che attengono al valore della scuola, al valore del sapere, all’identità che l’allievo riconosce a se stesso e anche alla posizione che gli si vuol fare occupare nel sistema formativo e, più in generale, nel contesto sociale. In questo senso, la lezione frontale non trasmette soltanto dei contenuti, media piuttosto un sistema di valori, ovvero un modo di posizionarsi nei confronti del mondo, degli altri, di se stessi.

In ogni caso, il modello didattico non esprime in modo puntuale la realtà e i dinamismi concreti dei contesti scolastici.

Esso va considerato, piuttosto, alla stregua di un idealtipo weberiano, il quale costituisce un criterio di analisi utile a rendere maggiormente intelligibili i contesti di intervento. In questo senso, il modello didattico costituisce un criterio ordinatore non tanto della realtà didattica, quanto piuttosto dei discorsi sulla realtà didattica. Esso non è uno specchio; è

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una lampada [E. Damiano, 1991]; non è una riproduzione del contesto, bensì una sua rappresentazione e, di conseguenza, serve per conoscere non soltanto quanto della realtà scolastica ricade al suo interno, ma anche quei segmenti di essa che se ne discostano e che, tuttavia, senza di esso, non potrebbero essere individuati, né potrebbero formare oggetto di riflessione.

Il modello didattico si propone dunque come un criterio di interpretazione delle prassi e degli interventi che si collocano nel contesto scolastico.

In quanto criterio ordinatore esso definisce i suoi costrutti sulla base di alcune dimensioni, le quali rappresentano gli assi categoriali sulla cui base vengono definite le diverse prassi formative.

Tali assi assumono caratteri di natura bipolare, si presentano cioè come criteri di classificazione caratterizzati da polarità. I poli, che si collocano all’estremità degli assi, rappresentano delle coppie antinomiche (soggetto/oggetto;

processo/prodotto, caso/necessità, ecc.) e costituiscono atteggiamenti e prospettive che, considerate in se stesse, si presentano come opposizioni reciproche. In realtà la natura

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complessa dei contesti didattici non consente uno schiacciamento degli interventi su una delle due polarità. La prassi didattica si presenta infatti sempre come mescolanza e compresenza di tensioni che in se stesse appaiono antitetiche, sicchè tali polarità indicano più che altro un modo per individuare in quale misura l’una e l’altra di esse sono presenti nella specifica organizzazione di un modello o di una prassi.

Allo stesso tempo, sempre la complessità dell’azione didattica fa sì che le sue caratteristiche non si esauriscano all’interno di un asse. Tanto il modello quanto l’azione didattica assumono tratti che si possono desumere da una molteplicità di assi.

Sotto tale profilo, la specificazione del modello esige allora la descrizione più analitica di tali assi, fermo restando che la classificazione proposta di seguito ricalca le formalizzazioni più diffuse nella prassi e nell’epistemologia, ma in nessun modo può considerarsi esaustiva della varietà dei modelli esperibili nel contesto didattico.

Il primo asse che specifica le componenti complesse del modello didattico è quello relativo alla tensione che si instaura

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tra soggetto che apprende e oggetto di apprendimento (asse soggetto/oggetto).

Sotto tale profilo, i modelli didattici si distingono tra modelli culturocentrici e modelli puerocentrici. I primi organizzano l’azione di insegnamento-apprendimento attorno ai contenuti disciplinari ed alla loro struttura concettuale, ma riservano scarsa attenzione alle caratteristiche personali del soggetto che apprende. In questo modo, “l’insegnamento, per quanto concepito secondo profili culturalmente alti, rischia di difettare di adeguatezza rispetto agli alunni” [Baldacci, cit., p.

22]. Al contrario, i modelli puerocentrici strutturano l’intervento didattico sulla base delle caratteristiche cognitive e personali degli allievi, anche se tendono a relativizzare la natura e la struttura concettuale dei contenuti da apprendere (fino al punto da relativizzare la dimensione stessa dei contenuti). In questo caso, il rischio che si corre è quello di strutturare interventi didattici privi di riferimento a contenuti validi. Le tracce del primo modello sono riscontrabili nei presupposti teorici e nelle prassi diffuse dell’insegnamento tradizionale, sostanzialmente orientato alla trasmissione dei saperi codificati e strutturati, e sostanzialmente indifferente al

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sistema cognitivo e motivazionale degli allievi. Al contrario, i segni del secondo modello sono individuabili nei presupposti e nelle prassi delle impostazioni attivistiche più estreme, le quali sostengono la necessità di un insegnamento che lasci l’allievo libero di organizzare da solo i suoi percorsi di apprendimento, indipendentemete dai contenuti e dalle discipline, considerate come un ostacolo all’autentico dipanarsi della personalità del soggetto.

L’altro asse attorno al quale si organizzano i modelli didattici è quello relativo alla tensione tra processo e prodotto.

La focalizzazione sul prodotto è tipica delle azioni di insegnamento che pongono molta enfasi sui risultati, ma si rivelano sostanzialmente indifferenti alle procedure attraverso le quali essi sono raggiunti. In questa prospettiva, le procedure messe in atto dal docente per mediare le conoscenze sono considerate come ininfluenti rispetto al conseguimento degli esiti finali. In questa prospettiva, i livelli di apprendimento conseguiti dall’allievo alla fine del percorso rappresentano l’esito di variabili interamente ascrivibili all’atteggiamento del discente nei confronti dei compiti di apprendimento (impegno, buona volontà, diligenza,

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attenzione, ecc.). Il modello, al contrario, non ammette la possibilità di correlare tali esiti alla qualità delle procedure e degli interventi messi in atto per mediare quei contenuti. E questo vale tanto nel caso in cui i risultati siano positivi, quanto nel caso in cui i risultati siano negativi. In entrambi i casi, infatti, il modello correla il successo o l’insuccesso esclusivamente a dimensioni che fanno capo alle disposizioni personali dell’allievo.

Di matrice decisamente opposta si pone la focalizzazione del processo, l’altro polo dell’asse in questione. Questa dimensione correla la struttura dell’intervento unicamente alle caratteristiche cognitive e disposizionali dei soggetti in apprendimento, mostrandosi al contempo sostanzialmente indifferente alla mediazione dei saperi ed alla formazione delle competenze di base. L’enfasi posta dal modello sulle strutture mentali del discente ha portato le configurazioni estreme di tale approccio didattico ad ammettere la legittimità di un insegnamento sostanzialmente svincolato dai conetnuti disciplinari. Ciò che conta, in questa prospettiva, è un intervento didattico che sia in sintonia e che formi le disposizioni mentali degli allievi. Sono pertanto legittimi tutti

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gli interventi che servono questo scopo, anche quando chiedono all’allievo di impegnare le sue risorse su oggetti di conoscenza diversi da quelli di natura culturale. Il rischio di tale approccio è la messa in atto di processi di insegnamento- apprendimento puramente formali, privi di contenuti rilevanti e che, per questo, negano altresì gli stessi scopi per i quali sono posti in essere.

L’ultimo asse che prendiamo in considerazione è quello che oppone il caso e la necessità. Come nota M. , “questa antinomia prende le mosse da una diversa concezione circa l’educabilità dell’individuo” [cit., p. 23].

I modelli didattici focalizzati sul caso ritengono il successo didattico come l’esito di variabili che si collocano nel soggetto e che si distribuiscono tra la popolazione secondo criteri statistici (cioè casuali). I limiti alla capacità dei singoli di apprendere sono collocati nelle loro disposizioni personali, sono naturali e hanno un carattere intrascendibile. Gli esiti che l’allievo consegue nei compiti di apprendimento trovano la loro origine nelle sue inclinazioni e nei suoi talenti, i quali sono incontrovertibilmente inscritti nella sua natura e, perciò, sono intrascendibili. Le conseguenze estreme di questo

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modello è quello di distinguere nettamente gli allievi che sono naturalmente portati per i compiti scolastici da quelli che, per natura, sono incompatibili con tali compiti (i quali vanno, di conseguenza, esclusi dal percorso didattico). Le forme più attenute di tale modello sono invece individuabili nella teoria delle formae mentis del Gardner, il quale ritiene che il successo scolastico sia l’esito della corrispondenza tra le catteristiche inscritte nella struttura cognitiva dell’allievo ed i compiti di apprendimento nei quali egli è chiamato ad investire le sue risorse [Gardner, 1987].

Al contrario, il paradigma della necessità ritiene che gli esiti dell’educazione siano interamente ascrivibili alle condizioni contestuali entro le quali essa si svolge. Per tali ragioni, non esistono limiti interni alla educabilità del soggetto, perché, modificando il contesto in modo adeguato, qualunque persona può conseguire il successo in ambito formativo. Come nota M.

Baldacci [cit.], una visione più moderata di tale concezione la si può rinvenire nella riflessione didattica di J. Dewey, il quale sostiene che gli esiti dell’intervento educativo e didattico siano da ascrivere non a fattori interni o esterni singolarmente considerati, bensì alla loro interazione. A tal riguardo, egli

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sottolinea il rilievo della progettazione didattica, intesa come un processo che innesta l’insegnamento della cultura sulle caratteristiche personali degli allievi, in modo che il primo, senza subire distorsioni e semplificazioni, possa risultare sintonico alle capacità cognitive degli studenti e soprattutto rilevante ai fini del loro sistema motivazionale.

3. Modelli di insegnamento-apprendimento.

La riflessione didattica, nel corso degli anni, ha proceduto ad una puntale formalizzazione di una molteplicità di modelli didattici, i quali hanno influito, spesso in maniera rilevante, sull’organizzazione delle prassi scolastiche.

I principi dell’attivismo, dello strutturalismo, della ricerca, della didattica per obiettivi, ecc, hanno ispirato di volta in volta l’organizzazione dell’insegnamento, anche se le peculiarità associate a ciascuna di tali concezioni hanno spesso comportato una loro marcata contrapposizione, piuttosto che una convergenza degli sforzi formativi che attraversano il sistema scuola.

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La comprensione adeguata di tali modelli esige non soltanto la spiegazione dei presupposti epistemologici e pratici associati a ciascuno di essi, ma anche la costruzione di un quadro interpretativo sintetico che disponga le peculiarità di ciascuno all’interno di una tipologia più ampia, capace di mettere in evidenza quelle dimensioni che la loro semplice descrizione strutturale non è in grado di restituire.

In questo senso, i singoli modelli didattici possono essere considerati come la risultante delle tensioni dinamiche che si stabiliscono tra gli assi prima descritti. Le polarità tipiche di ciascun asse si intersecano all’interno dei singoli modelli, dando luogo alle caratteristiche strutturali proprie di ciascuno di essi.

In questo senso, una tipologia di elevato valore euristico è quella che scaturisce dalla combinazione delle polarità proprie dei primi due assi (fig. 1), la quale (evitando comunque pretese di esaustività) è in grado di rendere conto di gran parte dei modelli didattici diffusi nella cultura e nella prassi scolastica [M. Baldacci, cit.].

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OGGETTO SOGGETTO

PRODOTTO Competenze di base;

Strutturalismo Talenti personali;

PROCESSO Arricchimento

culturale Processi cognitivi superiori;

Did. Della ricerca Fig. 1

Nelle pagine che seguono si procederà all’analisi più articolata di ciascuno di tali modelli, evidenziando per ciascuno di essi tanto le caratteristiche peculiari, quanto il riferimento alle polarità che lo definiscono.

a) Il quadrante Prodotto/Oggetto

Lo strutturalismo si presenta come un modello didattico foocalizzato sulle polarità del prodotto e dell’oggetto di apprendimento.

Al centro di tale modello si collocano le discipline, intese non tanto come un corpus di concetti definiti, quanto piuttosto come una struttura, ovvero come un insieme di elementi correlati tra loro da nessi invarianti e sostanzialmente indipendenti dal contesto o da apparati concettuali specifici.

La caratteristica fondamentale della struttura è la sua natura non sommativa. Il criterio che ne governa l’organizzazione si ravvisa nel principio per il quale il tutto supera la somma delle

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parti. Questo vuol dire che la struttura presenta caratteristiche emergenti rispetto alle parti che la compongono. Nel suo insieme, infatti, essa presenta tratti specifici, che non si riscontrano negli elementi di partenza e che, di conseguenza, sono indipendenti da questi ultimi.

L’oggetto di apprendimento nel quale l’idea di struttura si rivela con maggiore evidenza è il linguaggio (del resto, lo stesso strutturalismo, come corrente di pensiero, prende corpo in ambito linguistico). Le lingue presentano infatti una infinita varietà di manifestazioni e, tuttavia, esse rispondono tutte ad un medesimo criterio organizzatore. Al di là delle molteplici forme lessicali e grammaticali, infatti, ciascuna lingua si definisce in base ad un asse paradigmatico (che esprime un medesimo criterio di classificazione delle forme lessicali) e ad un asse sintagmatico (che stabilisce le regole in base alle quali le forme lessicali possono connettersi tra loro). In questo senso, dal punto di vista paradigmatico ciascuna lingua, indipendentemente dalle sue peculiarità, presenta forme che servono per esprimere l’oggetto (sostantivo), la quantità (articolo), l’azione (verbo), le caratteristiche dell’oggetto (aggettivo), le caratteristiche dell’azione (avverbio). Allo stesso

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modo, sull’asse sintagmatico, ogni lingua presenta una sintassi, che stabilisce quali siano le associazioni di parole e di frasi legittime (distinguendole, di conseguenza, da quelle che non possono considerarsi tali).

Sul piano del discorso didattico, i modelli di ispirazione strutturalista propongono un processo di insegnamento- apprendimento interamente focalizzato sulla struttura. Alla luce di tali premesse, oggetto dell’inervento didattico devono essere non tanto i singoli concetti, quanto piuttosto la dimensione strutturale dalla quale essi prendono origine. In questo senso, per esempio, il compito dell’insegnante di biologia non è quello di insegnare i singoli fenomeni biologici, quanto, piuttosto, le strutture invarianti di qualunque fenomeno biologico. Tale principio vale per qualunque disciplina scolastica. L’insegnante di Filosofia deve insegnare non tanto il pensiero dei singoli autori, quanto piuttosto le strutture invarianti e generative del pensiero filosofico. Lo stesso dicasi per l’insegnante di Storia, che al di là dei singoli avvenimenti e periodi, deve avviare l’allievo alla conoscenza delle strutture invarianti del divenire storico; o per l’insegnante di lingua che non deve insegnare l’utilizzo del

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linguaggio nei diversi contesti, bensì le strutture invarianti di qualunque fenomeno linguistico. Così come il docente di matematica non deve porre al centro del suo intervento la conoscenza dei singoli assiomi, ma i fondamenti del sapere matematico, che ritornano identici a se stessi in ciascun assioma.

La forte focalizzazione sulla struttura rende ragione di quanto il modello didattico in esame sia sostanzialmente posizionato attorno alle componenti dell’oggetto e dei prodotti. La struttura infatti non rappresenta un criterio organizzatore della mente, né esprime un insieme di elementi categoriali o linguistici che organizzano il discorso sui contenuti di apprendimento. Essa si pone, piuttosto come un criterio organizzatore dell’oggetto che agisce all’interno dell’oggetto medesimo. E’ un elemento oggettivo che deve essere appreso in quanto tale, senza riferimento alcuno alle caratteristiche cognitive, personali ed evolutive dell’allievo.

Il modello delle competenze di base si profila anch’esso come un approccio didattico centrato sulle dimensioni dell’oggetto e del processo. L’intenzionalità di fondo che anima questo modello si riscontra nel tentativo di fornire all’allievo le

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competenze necessarie ad apprendere il sapere e a svolgere le normali attività della vita quotidiana. Sotto tale profilo, compito dell’insegnante è quello di fornire all’allievo sia le conoscenze fondamentali, necessarie all’apprendimento delle conoscenze più complesse, sia quello di dare al ragazzo quei riferimenti culturali ed operativi che gli consentono di gestire in modo autonomo i problemi della vita quotidiana. Come nota M. Baldacci [cit.], le diverse declinazioni di tale modello dipendono dal locus nel quale vengono individuati i limiti dei processi di apprendimento. Nel caso in cui il processo di apprendimento si consideri limitato (e condizionato) dalle caratteristiche personali del soggetto, allora il modello didattico in esame si orienta verso interpretazioni decisamente minimali. L’insegnamento viene allora circoscritto alla trasmissione delle semplici competenze elementari (leggere, scrivere e far di conto). Il processo di scolarizzazione si ferma ai livelli più bassi, poiché si ritiene che soltanto alcuni allievi (e non la maggior parte di essi), dispongono delle capacità necessaria ad accedere ai livelli conoscititivi più elevati. Per tali ragioni, il processo didattico si organizza attorno all’obiettivo di distribuire presso ampi strati della popolazione le competenze di base che consentono al soggetto di svolgere

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le funzioni essenziali della vita quotidiana e, al massimo, lavorativa. In virtù di tali premesse, i sistemi formativi si organizzano attorno a percorsi distinti, che contemplano curricula (per molti) che si fermano alla formazione professionale e curricula (per pochi) che invece proseguono fino al completamento degli studi.

Nel caso in cui i limiti al processo di apprendimento vengono collacati in variabili esterne al soggetto, di natura economico- sociale, allora la dimensione elitaria dell’impostazione precedente cede il passo ad una versione più democratica del modello. Poiché si presuppone che non esiste un limite alla capacità del soggetto di apprendere - e che i risultati scolastici sono correlate a variabili di natura sistemica - allora il modello si indirizza attorno a finalità che sanciscono la piena scolarizzazione per tutti. In tal caso, l’intervento didattico deve essere rivolto non alla trasmissione delle competenze di base necessarie agli apprendimenti successivi, ma alla completezza degli apprendimenti disciplinari, i quali devono essere rivolti alla totalità della popolazione scolastica.

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b) Il quadrante processo/oggetto

Il modello didattico che si colloca in questo quadrante è quello dell’arricchimento culturale. Alla base di questo modello vi è l’idea che l’insegnamento debba fondarsi sulla trasmissione di contenuti disciplinari di elevato contenuto culturale, i quali si ritengono dotati di un intrinseco valore formativo.

Apprendendo tali contenuti, lo studente apprende allo stesso tempo la struttura conoscitiva e valoriale che li sorregge ed in questo modo modella la sua mente sulla base dei presupposti che hanno determinato lo sviluppo dell’umanità. In termini più generali, tale modello didattico intende lo sviluppo della persona come una variabile collocata all’interno della cultura, la quale contiene i simboli e le dimensioni di senso che hanno governato il percorso di umanizzazione. Tali simboli agiscono all’interno degli apparati concettuali delle singole discipline, sicché l’allievo, confrontandosi con esse e facendole proprie, innesta il sul percorso di crescita sul cammino del divenire umano ed in questo modo forma e modella la sua mente, la sua anima, il suo modo di essere.

I presupposti impliciti nella prospettiva dell’arricchimento culturale sono individuabili nella concezione del sapere così

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come viene proposta dall’idealismo di Giovanni Gentile, ma si riscontrano anche nelle premesse educativa della Paideia classica. Per il Gentile, infatti, le diverse forme del sapere incarnano le diverse forme assunte dallo Spirito Universale nelle diverse tappe del suo divenire, sicché il soggetto, quando apprende una disciplina, si appropria altresì della forma universale dello Spirito Assoluto che agisce in essa. Per il filosofo idealista, la disciplina che incarna lo Spirito assoluto è la filosofia.

c) Il quadrante prodotto/soggetto

Il focus concettuale di questo modello risiede nella priorità che esso assegna alle attitudini mentali del soggetto in formazione. Scopo fondamentale dell’azione didattica è quello di consentire all’allievo lo sviluppo dei talenti personali, i quali si esprimono nelle diverse forme di intelligenza di cui ciascuno dei soggetti stessi è portatore.

I riferimenti concettuali ed epistemologici dell’approccio in esame si rintracciano nella teoria delle formae mentis del Gardner [H. Gardner, cit.] e nella teoria degli stili cognitivi dello Sternberg [Sternberg, 1997].

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La visione del Gardner supera la visioni unitarie della mente (che intendono le strutture mentali come facoltà sostanzialmente uniche ed indifferenziate, che ritornano sempre uguali a se stesse nella totalità dei soggetti), a vantaggio di una concezione modulare, che intende le risorse mentali come un insieme di facoltà specifiche, che variano da soggetto a soggetto e che, di conseguenza, conferiscono a chi le possiede capacità ed inclinazioni particolari. Secondo il Gardner, dunque, non esiste un’unica forma di intelligenza.

Egli sostiene, invece, l’esistenza di intelligenze multiple, ciascuna delle quali si distingue sia per la specificità dell’oggetto su cui esercita le sue funzioni, sia per i processi che attiva nell’ambito della attività conoscitiva. Secondo l’autore, le forme di intelligenza sono sette: logico-razionale, linguistica, cinestesica, spaziale, musicale, in terpersonale ed emotiva.

Allo stesso modo, la riflessione dello Sternberg [1997] rileva l’esistenza si stili cognitivi, intesi non tanto come specifiche modalità conoscitive, quanto piuttosto come specifiche modalità soggettive di apprendere e di riferire la conoscenza.

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Al riguardo, lo Sternberg individua tre stili cognitivi particolari:

a) lo stilo creativo, tipico di soggetti che particolarmente inclini a svolgere compiti di apprendimento nei quali devono creare ex novo, quasi dal nulla, un prodotto conoscitivo (elaborare un tema, costruire un oggetto, ecc.).

b) lo stile critico, proprio di soggetti che si sentono a loro agio nello svolgere compiti di apprendimento nei quali devono costruire un discorso critico o elaborare considerazioni personali su prodotti culturali costruiti da altri (es: il commento di una poesia, ecc.).

c) lo stile esecutivo, proprio di soggetti che si dimostrano particolarmente inclini a svolgere compiti di apprendimento in cui devono eseguire consegne date da altri (es: eseguire un test a risposta multipla).

In questo senso, un soggetto dotato di uno stile creativo avrà buone possibilità di svolgere con successo un tema, ma potrà avere non poche difficoltà a commentare una poesia o eseguire un test a risposta multipla. Così come un soggetto con stile

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esecutivo riuscirà particolarmente bene in quest’ultimo compito, ma presenterà difficoltà a comporre un tema o un saggio breve.

Il nucleo fondamentale del modello fondato sui talenti personali risiede dunque nei seguenti assunti:

- l’azione didattica deve potenziare le inclinazioni e le capacità specifiche di ciascun allievo, le sue particolari formae mentis o i suoi stili cognitivi.

- Il successo scolastico può essere conseguito dall’allievo nella misura in cui egli è messo nella condizione di investire le sue risorse in consegne didattiche sintoniche ai suoi stili cognitivi o alla sua forma mentis.

d) Il quadrante processo/soggetto

Rientra in questo quadrante il modello didattico fondato sui processi cognitivi superiori. Questa accezione, al di là delle

sue diverse varianti, trova il suo punto di sintesi in una visione dell’azione didattica sostanzialmente orientata a sviluppare nell’allievo le attitudini mentali superiori (capacità di analisi, di sintesi, di deduzione, di induzione, ecc.). Il

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compito della scuola è non soltanto quello di trasmettere alle nuove generazioni i contenuti disciplinari, ma anche di promuovere la formazione di quelle competenze mentali che gli consentono di organizzare veri e propri percorsi di ricerca, ovvero di pervenire ad una autonoma costruzione del sapere.

Tracce di tale modello si rinvengono nella riflessione di E.

Morin [2007], in particolare nell’esigenza, posta dal filosofo, di un intervento scolastico che invece di promuovere una “testa ben piena”, sia invece finalizzato a promuovere una “testa ben fatta”, ovvero una mente capace di gestire in autonomia i percorsi generativi del sapere.

Alcune varianti del modello portano alle estreme conseguenze tali premesse e propongono un intervento didattico sbilanciato su varianti di natura prevalentemente formale. La focalizzazione sulle attitudini mentali superiori orienta verso una visione didattica sostanzialmente estranea o indifferente al tipo di contenuti sulle quali esse vengono esercitate. In questo senso, secondo tale concezione “i contenuti non [devono] essere necessariamente di carattere disciplinare ma [possono] essere attinti anche dall’esperienza dell’alunno, dall’ambiente extrascolastico. L’importante non è il contenuto,

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ma il genere di lavoro mentale che lo studente compie su di esso e che di solito assume la forma generale di soluzione di un problema di varia natura, compiuto in maniera largamente autonoma da parte di questi” [Baldacci, cit., p. 34].

All’interno di tale modello rientrano anche gli approcci della cosiddetta didattica metacognitiva, la quale ha per oggetto non soltanto la focalizzazione sui contenuti disciplinari, ma anche la riflessione, condotta dall’allievo, sui percorsi e sulle strategie mentali che egli attiva quando investe le sue risorse nei compiti di apprendimento. Tale intervento ha lo scopo di rendere l’allievo consapevole dei suoi schemi cognitivi, al fine di potenziare la sua capacità di tenerli sotto controllo e di finalizzarli non soltanto all’assimilazione dei contenuti, ma anche alla costruzione personale di autonomi quadri interpretativi dell’esperienza.

Si rende necessario rilevare come tale modello si distingua da quelli focalizzati sull’oggetto di apprendimento, poiché mentre in questi ultimi le strutture conoscitive sono considerate interne ai contenuti da apprendere, in questo caso esse vengono invece collocate nella soggettività dell’allievo e, di

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conseguenza, sono considerate indifferenti alla specificità dei contenuti.

4. Che cosa vuol dire insegnare?

Sulla scorta delle premesse svolte fino a questo punto, si rende possibile operare delle riflessioni ulteriori sulla natura dell’insegnamento.

Che cosa vuol dire insegnare?

Un contributo rilevante per rispondere a tale domanda può essere rintracciato nella riflessione di E. Damiano [cit.], il quale propone di considerare l’insegnamento come azione (azione didattica, appunto) e, conseguentemente, di ricavare il suo significato a partire dal senso che esso intende realizzare attraverso la messa in opera dei suoi interventi.

Il senso dell’azione può essere ricavato a partire da una molteplicità di prospettive teoriche, ognuna delle quali contribuisce a chiarificare una o più variabili strutturali che ne connotano il significato. Nelle pagine che seguono cercheremo di operare una disamina, sia pure sintetica, di tali orientamenti teorici, allo scopo di individuare quale sia

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l’apporto che ciascuno di essi offre alla definizione della natura dell’insegnamento.

a) L’insegnamento come orientamento normativo

La prima prospettiva teorica che si può prendere in considerazione ai fini del nostro discorso è quella dell’azione come orientamento normativo, elaborata da T. Parsons [1974], importante sociologo, esponente dello struttural- funzionalismo americano.

L’apporto che tale prospettiva può offrire alla comprensione del nostro quesito si può ravvisare nel concetto di funzione, riferito ai sistemi e ai sottosistemi sociali. La società si profila, secondo Parsons, come un macrosistema generale, composto da sottosistemi più circoscritti (per esempio, la scuola, la famiglia, il mondo del lavoro, sono tutti sotto-sistemi del macrosistema più ampio, definito società). Ogni sottosistema svolge delle funzioni, ovvero un insieme di attività finalizzate sia al proprio mantenimento, sia al mantenimento del sistema più ampio.

Il concetto di funzione non si applica soltanto ai sottosistemi in riferimento al macrosistema, ma anche agli elementi che

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compongono i singoli sottosistemi. Ogni sottosistema, infatti, è composto da un insieme di soggetti singoli che operano al suo interno, i quali, con la loro azione garantiscono al sistema stesso di svolgere le funzioni alle quali è deputato.

A livello sottosistemico viene allora in rilievo il concetto di ruolo, ovvero l’insieme delle aspettative che il sottosistema avanza nei confronti dei soggetti che operano al suo interno.

Detto in altre parole, il ruolo rappresenta l’insieme delle azioni che il sottosistema si aspetta dai suoi membri, per il fatto che essi occupano particolari posizioni al suo interno. In questo senso, l’azione del singolo nel sistema acquista significato nella misura in cui essa si conforma a tali aspettative.

Quello che vale in generale, vale anche per il sottosistema scolastico. In questa prospettiva, l’azione docente ricava le sue connotazioni di senso a partire proprio dalle configurazioni di ruolo, ovvero dalla capacità dell’insegnante di adeguare il suo agire alle attese che il contesto scolastico gli rivolge. L’azione didattica si propone come tale nella misura in cui consente al sistema scuola di perseguire i suoi fini istituzionali e, di conseguenza, di contribuire allo sviluppo del macrosistema sociale considerato nel suo complesso. Nella prospettiva

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teorica in esame, si collocano tutte le azioni finalizzate alla trasmissione del sapere (è questo lo scopo principale del sistema scuola). Tutto ciò che prescinde da tale intenzionalità non è necessario alla definizione dell’insegnare e l’efficacia dell’azione stessa trova le sue garanzie unicamente nell’adempimento di tale compito.

b) L’insegnamento come funzione soggettiva dell’agire

Tale approccio teorico prende le mosse dalle riflessioni sulla semantica dell’azione elaborate dal filosofo francese P.

Ricoeur [1987]. Secondo l’autore il significato dell’azione non può essere circoscritto alle sue valenze oggettive (sociali, culturali, ecc.). In questo senso, esso non si può desumere soltanto dalle connotazioni di ruolo e dalle attese sociali cui l’azione stessa intende rispondere (come invece sostiene il funzionalismo di T. Parsons). Secondo P. Ricoeur, la riflessione sulle componenti semantiche dell’azione rileva piuttosto uno scarto tra l’azione e l’agente. Il significato dell’operare non si identifica in modo pervasivo e totalizzante con le connotazioni oggettive dell’agire. Ogni azione, infatti, presuppone un soggetto agente, il quale imprime all’azione stessa un plus di significato non riconducibile a variabili di

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natura oggettiva (sociale, economica, utilitaristica, funzionale), ma riferiti agli universi di valore soggettivi di colui che pone in essere l’agito.

Perché l’azione abbia efficacia e acquisti senso è necessario che essa inscriva in se stessa i motivi e le ragioni della persona che la compie, i quali trascendono in modo deciso e sistematico i significati pratici che possono derivare dal contesto sociale.

Anche in questo caso, ciò che vale per l’azione in generale, vale anche per l’azione docente. L’insegnamento individua il suo senso e le sue condizioni di efficacia non soltanto nella corrispondenza alle attese del sistema scuola considerato in se stesso, ma anche a partire dalle ragioni soggettive dell’insegnante. Detto in altre parole, un docente che dovesse insegnare unicamente per svolgere un ruolo (dimensione funzionale) o per guadagnare lo stipendio (dimensione pratico- utilitaristica) senza investire il suo fare di motivazioni soggettive, priverebbe il suo intervento di una importante condizione di efficacia. La riuscita stessa dell’intervento didattico esige, infatti, dal docente la disponibilità a rendere la sua attività professionale un momento imprescindibile della

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sua realizzazione personale, un’esperienza finalizzata a concretizzare il suo universo di valori nel mondo. Senza questo riferimento alla dimensione soggettiva, qualunque intervento scolastico, secondo la prospettiva di P. Ricoeur, è destinato a rimanere senza effetti. Per tali ragioni, il riferimento alla dimensione di senso personale non è soltanto una scelta opzionale, ma è un requisito fondamentale della professionalità docente, un elemento senza il quale tale professionalità rimane sostanzialmente priva di fondamento.

c) L’insegnamento come agire comunicativo

Questo approccio all’azione fa riferimento alla teoria dell’agire comunicativo di J. Habermas. Secondo questo autore, il senso dell’azione va ravvisato non tanto in variabili di natura sociale (T. Parsons) o personale (P. Ricoeur), ma soprattutto in dimensioni di natura relazionale. Secondo questa prospettiva teorica il significato dell’operare è strettamente correlato alla disponibilità dei soggetti a confermarsi reciprocamente nella rappresentazione che ciascuno offre di sé, quando entra in relazione con l’altro.

Tutto ciò riverbera conseguenze di fondamentale importanza sull’esercizio stesso del ruolo. Secondo Habermas, infatti,

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perché un soggetto risulti legittimato a ricoprire ed esercitare un ruolo, non basta che questo gli venga esplicitamente riconosciuto dal sistema sociale (T. Parsons), ovvero che egli trovi in se stesso una qualche motivazione a svolgerlo (P.

Ricoeur). Al contrario, è necessario che anche gli altri soggetti che si collocano nel sistema riconoscano e confermino la persona nel ruolo medesimo. Quando questo non accade, l’azione che scaturisce da quel ruolo rimane priva di effetti, anche se esso è sancito dal sistema sociale e/o dagli universi di valore della persona.

Quel che vale in generale, trova altresì riscontro nel sistema scolastico, soprattutto per quanto attiene all’esercizio dell’azione docente. Alla luce di tale prospettiva teorica, infatti, l’azione dell’insegnare trova le sue condizioni di efficacia nella disponibilità degli allievi a riconoscere nell’insegnante un soggetto legittimamente deputato a svolgere quella funzione.

Detto in altre parole, l’azione docente può evolvere positivamente verso i suoi esiti soltanto nel caso in cui gli allievi siano disponibili a confermare il docente nell’esercizio della funzione. Sotto tale profilo, l’efficacia dell’intervento didattico esige non soltanto che l’insegnante sia riconosciuto

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nel suo ruolo dal sistema in cui agisce, né è sufficiente che egli investa tale compito del suo universo motivazionale. La riuscita del suo intervento si profila altresì correlata al fatto che egli si conquisti la fiducia degli allievi e agisca in modo tale che questi lo riconoscano come il loro insegnante. Senza questo riconoscimento l’azione didattica rimane priva di fondamento, e dunque senza conseguenze produttive sul piano dei processi di apprendimento.

In virtù della reciprocità dei ruoli comunicativi, il discorso svolto in riferimento alla posizione di insegnante si pone in maniera perfettamente speculare anche nei confronti della posizione di allievo. Perché un soggetto assuma il ruolo di discente, non basta che questo gli sia riconosciuto dall’istituzione o trovi corrispondenza nei suoi sistemi motivazionali. Le condizioni di efficacia dell’azione didattica richiedono, infatti, che egli sia confermato in questa posizione anche dal corpo docente. In assenza di questo riconoscimento, l’azione didattica non potrà avere luogo e, con tutta probabilità, sarà orientata verso esiti fallimentari. Il dinamismo appena descritto può rappresentare una valida chiave di lettura per rendere conto di alcuni fenomeni

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particolarmente diffusi nella scuola, primo fra tutti quello della dispersione scolastica. Senza voler operare indebite generalizzazioni, non è raro che molti allievi escano dal sistema formativo in seguito alla mancata disponibilità del corpo docente di riconoscerli e di confermarli nel ruolo di studenti. Fenomeni di questo tipo si verificarono in passato in seguito alle prime applicazioni della legge sull’istruzione obbligatoria. Per il Ministro dell’Istruzione dell’epoca, ma anche per larga parte del corpo docente di allora, dopo quella riforma le aule scolastiche si riempirono di una moltitudine “di traditori della zappa e della cazzuola”. Sicuramente le difficoltà di applicazione incontrate dalla legge in esame non possono circoscriversi a questo atteggiamento, ma è lecito pensare che i problemi posti dall’intervento furono sicuramente incrementati dalla mancata disponibilità del sistema a valorizzare la presenza di questi soggetti all’interno delle aule scolastiche.

d) L’insegnamento come sillogismo pratico

Il senso dell’azione docente può essere ricavato anche dai presupposti impliciti nei criteri organizzatori del cosiddetto sillogismo pratico.

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In termini generali, il sillogismo rappresenta un percorso conoscitivo di natura razionale che, utilizzando gli strumenti della logica e partendo da premesse di natura universale immediatamente evidenti, giunge all’affermazione di conoscenze certe, stabilite senza il ricorso alla verifica dell’esperienza.

Una variante particolare del sillogismo è il sillogismo pratico, il quale si distingue dalla forma pura precedentemente definita perché, mentre il primo “conclude” affermando la necessità di una conoscenza, il secondo conclude affermando la necessità di una azione.

Le due forme di sillogismo si distinguono non soltanto per il tipo di conclusioni prodotte, ma anche per il diverso rilievo epistemologico associato a ciascuna di esse. Mentre le conclusioni del sillogismo puro esprimono una verità, quelle del sillogismo pratico esprimono invece una verosimiglianza.

Di conseguenza, mentre il sillogismo puro esprime una necessità, ovvero un principio valido in ogni tempo e in ogni luogo (l’impossibilità che vi siano tempi e luoghi dove possa verificarsi il contrario), il sillogismo pratico esprime invece una ragione sufficiente, ovvero un principio che ammette la

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possibilità che vi siano dei tempi e dei luoghi in cui si può verificare il contrario. La formula epistemica del sillogismo puro si può risolvere nella frase: le cose stanno cosi, e non è possibile che si verifichi il contrario; la formula del sillogismo pratico può essere invece riassunta nell’affermazione: vi sono ragioni sufficienti per affermare che le cose vadano in questo modo, ma non si può escludere che, in taluni casi, esse possano andare anche in modo diverso.

Intendere l’insegnamento come espressione del sillogismo pratico significa sottolineare come insegnamento e apprendimento, anche se presentano delle implicazioni reciproche, non sono correlati tra loro da un vincolo di necessità. L’apprendimento dell’allievo non è una conseguenza necessaria del processo di insegnamento, né l’organizzazione funzionale di quest’ultimo garantisce necessariamente il conseguimento dei risultati, nemmeno nel caso in cui esso sia improntato al rispetto dei criteri di razionalità didattica.

L’insegnamento, anche quando viene impostato su premesse epistemologicamente fondate, non produce analiticamente (necessariamente) apprendimento. Esso promuove soltanto delle buone ragioni perché vi sia apprendimento, lasciando

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comunque aperta la possibilità che in taluni casi (e nonostante la fondatezza del suo intervento) esso possa invece provocare conseguenze diverse da quelle attese. Tutto questo significa che, in caso di insuccesso, la causa del fallimento non può essere ascritta univocamente a carenze dell’allievo (a questa conclusione porterebbe una concezione dell’insegnamento fondata sui presupposti del sillogismo puro). Il riferimento al principio del sillogismo pratico lascia, infatti, aperta la possibilità che, in taluni casi, tale insufficienza possa essere ricondotta anche a limiti e insufficienze inscritte nel fare docente. Di conseguenza, il modello in esame colloca la responsabilità dei processi di apprendimento non soltanto sul versante dell’allievo, ma anche su quello del fare docente, sicché quanto avviene nel campo dell’azione didattica non può essere univocamente ascritta alla responsabilità o dell’uno o dell’altro, ma chiama in causa un processo di allineamento e di revisione che esige disponibilità al cambiamento non soltanto sul versante dell’allievo ma anche sul versante dell’azione didattica posta in essere dall’insegnante. Il modello del sillogismo pratico rappresenta il presupposto che consente, in sede didattica, il recupero della cosiddetta valutazione formativa, ovvero di quel

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processo docimologico che mette sotto osservazione non le prestazioni dell’allievo, ma gli interventi dell’insegnante, al fine di monitorare la loro capacità di perseguire gli scopi e di operare quegli aggiustamenti e quelle modifiche capaci di conferire agli stessi maggiori livelli di efficacia.

5. La natura dell’insegnamento

Nel paragrafo precedente si è cercato di definire il significato dell’insegnare alla luce delle teorie che spiegano il fondamento generativo dei significati dell’agire. Il presupposto epistemologico su cui si è fondata la riflessione, è che l’insegnamento sia essenzialmente azione e, che in quanto tale, esso ricavi il suo significato sulla base dei presupposti che definiscono le connotazioni semantiche dell’agire.

In realtà, le posizioni illustrate nelle pagine precedenti hanno focalizzato aspetti dell’insegnare che ne denotano senz’altro le componenti di senso, ma che, tuttavia, esprimono soltanto ciò che esso condivide con altre forme di azione. In altre parole, tali posizioni non indicano quale sia la natura specifica dell’insegnamento, ovvero quali siano i segmenti di significato

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che lo caratterizzano in se stesso e che esso non condivide con altre forme di azione.

Secondo E. Damiano [cit], la specificità dell’agire docente è espressa con chiarezza nella dimensione etimologica del lemma insegnare, il quale, nella sua letteralità, significa esattamente mettere in segno.

L’attività dell’insegnare si definisce pertanto come una azione finalizzata a produrre segni ed è in questa prospettiva che essa identifica il suo quid.

A questo livello di articolazione, la definizione appare tuttavia troppo generica e necessità di ulteriori specificazioni.

Per comprendere le valenze didattiche di tale affermazione si rende infatti necessario chiarire in via preliminare che cosa sia un segno e quale funzione esso svolga nel processo conoscitivo.

In termini molto generali, possiamo definire segno qualunque oggetto che ricade sotto la percezione dei sensi (significante) e che è idoneo ad indicare un altro oggetto che non è presente nel contesto attuale (significato). Segni sono le parole (suoni vocalici che indicano oggetti) o le immagini (stimoli visivi che

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rinviano a cose). Per esempio, la parola “cane” o l’immagine di un cane sono tutti segni che servono per evocare l’animale in questione in contesti comunicativi in cui non vi sia traccia alcuna di esso.

In termini più specifici e più utili al nostro discorso si può allora dire che il segno è la ricostruzione di un oggetto reale, che mantiene i caratteri dell’oggetto originale, e che consente di trasferire tale oggetto in contesti nei quali esso è assente o nei quali, per qualche ragione, esso non può essere trasferito.

Nella società contemporanea, l’esigenza di qualificare l’intervento didattico come un’azione finalizzata alla costruzione di segni si giustifica in funzione della particolare struttura assunta dal sistema formativo. L’istituzione scolastica si qualifica infatti come uno spazio di intervento sostanzialmente separato dai contesti reali di vita. I processi di formazione non collocano lo studente a diretto contatto con l’oggetto di apprendimento, come avviene, invece, nelle società tradizionali, dove i contenuti da assumere vengono appresi direttamente in situazione, ovvero nella bottega dell’artigiano.

Per tali ragioni, gli allievi che partecipano alla vita scolastica non hanno la possibilità di fare esperienza diretta dei

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contenuti da apprendere, sia per le ragioni prima evidenziate, ma anche perché gli oggetti culturali che sono alla base dei processi di apprendimento rivelano un grado di complessità che non li rende immediatamente fruibili nel contesto spazio- temporale in cui si svolge l’azione didattica (l’aula scolastica).

Come già rilevato in precedenza, è proprio tale specifica articolazione del contesto didattico che rende ragione del bisogno di qualificare l’insegnamento come attività finalizzata alla costruzione di segni. La distanza esistente tra la scuola ed i contesti in cui ricorrono gli oggetti di apprendimento pone, infatti, l’esigenza di una attività di mediazione che sia in grado di trasportare quegli oggetti medesimi nel perimetro spazio- temporale in cui si svolge l’insegnamento, al fine di poterli rendere disponibili ai processi di apprendimento degli allievi.

L’insegnamento, in quanto attività finalizzata alla costruzione di segni, rappresenta, appunto, la dimensione processuale che opera tale intervento di mediazione. In termini più specifici, tale attività trova il suo focus nella costruzione dei cosiddetti analogati dell’oggetto culturale. Sotto tale profilo, essa comporta la trasformazione dell’oggetto di apprendimento in un analogato, ovvero in una copia ricostruita dell’oggetto

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reale che, tuttavia, conserva le caratteristiche dell’originale e che può essere agevolmente implementato nei contesti entro i quali si svolge l’insegnamento.

Il processo di mediazione garantito dalla presenza dell’analogato agevola i processi di apprendimento non soltanto per le ragioni pratiche prima evidenziate (rendere presente nel contesto didattico un oggetto che, per sua natura si colloca altrove), ma anche perché viene incontro a specifiche esigenze insite nel dinamismo che correla insegnamento e apprendimento.

L’analogato rende disponibile l’oggetto culturale ai processi di apprendimento anche perché esso conserva le medesime caratteristiche dell’oggetto reale, ma le ricostruisce entro un sistema di segni coerente con il livello di sviluppo mentale conseguito dall’allievo. In altre parole, esso mette in connessione il versante oggettivo dell’insegnamento (il contenuto da apprendere) con il versante soggettivo dell’apprendimento (la struttura mentale dell’allievo), operando sul primo tutta una serie di trasformazioni (ricostruzioni segniche) che lo rendono accessibile alle risorse conoscitive proprie del secondo.

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Il discorso svolto fino a questo punto riverbera conseguenze di fondamentale importanza sul modo di concepire l’azione docente, poiché mette in discussione l’assunto tipico della didattica tradizionale, per il quale conoscere una disciplina significa anche saperla insegnare.

La professionalità docente richiede, al contrario, una competenza che trascende in maniera decisa la sola conoscenza disciplinare, e che si ancora, invece, a presupposti epistemologici che la collocano nel punto di intersezione tra conoscenze disciplinari e conoscenze metodologiche. Le prime offrono senz’altro i contenuti sui quali deve costruirsi l’insegnamento e sicuramente trascurare questo aspetto (come pure fanno certi approcci formali, che mostrano uno sbilanciamento sovradimensionato sulle risorse mentali dell’allievo), significa privare l’azione didattica di una componente fondamentale della sua efficacia. Le seconde garantiscono invece l’efficace svolgimento dell’attività di mediazione, la quale non si pone come un correlato analitico (una conseguenza necessaria, automatica) della conoscenza disciplinare, ma richiede la formazione di abilità e di attitudini

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