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Che cosa vuol dire insegnare?

Sulla scorta delle premesse svolte fino a questo punto, si rende possibile operare delle riflessioni ulteriori sulla natura dell’insegnamento.

Che cosa vuol dire insegnare?

Un contributo rilevante per rispondere a tale domanda può essere rintracciato nella riflessione di E. Damiano [cit.], il quale propone di considerare l’insegnamento come azione (azione didattica, appunto) e, conseguentemente, di ricavare il suo significato a partire dal senso che esso intende realizzare attraverso la messa in opera dei suoi interventi.

Il senso dell’azione può essere ricavato a partire da una molteplicità di prospettive teoriche, ognuna delle quali contribuisce a chiarificare una o più variabili strutturali che ne connotano il significato. Nelle pagine che seguono cercheremo di operare una disamina, sia pure sintetica, di tali orientamenti teorici, allo scopo di individuare quale sia

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l’apporto che ciascuno di essi offre alla definizione della natura dell’insegnamento.

a) L’insegnamento come orientamento normativo

La prima prospettiva teorica che si può prendere in considerazione ai fini del nostro discorso è quella dell’azione come orientamento normativo, elaborata da T. Parsons [1974], importante sociologo, esponente dello struttural-funzionalismo americano.

L’apporto che tale prospettiva può offrire alla comprensione del nostro quesito si può ravvisare nel concetto di funzione, riferito ai sistemi e ai sottosistemi sociali. La società si profila, secondo Parsons, come un macrosistema generale, composto da sottosistemi più circoscritti (per esempio, la scuola, la famiglia, il mondo del lavoro, sono tutti sotto-sistemi del macrosistema più ampio, definito società). Ogni sottosistema svolge delle funzioni, ovvero un insieme di attività finalizzate sia al proprio mantenimento, sia al mantenimento del sistema più ampio.

Il concetto di funzione non si applica soltanto ai sottosistemi in riferimento al macrosistema, ma anche agli elementi che

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compongono i singoli sottosistemi. Ogni sottosistema, infatti, è composto da un insieme di soggetti singoli che operano al suo interno, i quali, con la loro azione garantiscono al sistema stesso di svolgere le funzioni alle quali è deputato.

A livello sottosistemico viene allora in rilievo il concetto di ruolo, ovvero l’insieme delle aspettative che il sottosistema avanza nei confronti dei soggetti che operano al suo interno.

Detto in altre parole, il ruolo rappresenta l’insieme delle azioni che il sottosistema si aspetta dai suoi membri, per il fatto che essi occupano particolari posizioni al suo interno. In questo senso, l’azione del singolo nel sistema acquista significato nella misura in cui essa si conforma a tali aspettative.

Quello che vale in generale, vale anche per il sottosistema scolastico. In questa prospettiva, l’azione docente ricava le sue connotazioni di senso a partire proprio dalle configurazioni di ruolo, ovvero dalla capacità dell’insegnante di adeguare il suo agire alle attese che il contesto scolastico gli rivolge. L’azione didattica si propone come tale nella misura in cui consente al sistema scuola di perseguire i suoi fini istituzionali e, di conseguenza, di contribuire allo sviluppo del macrosistema sociale considerato nel suo complesso. Nella prospettiva

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teorica in esame, si collocano tutte le azioni finalizzate alla trasmissione del sapere (è questo lo scopo principale del sistema scuola). Tutto ciò che prescinde da tale intenzionalità non è necessario alla definizione dell’insegnare e l’efficacia dell’azione stessa trova le sue garanzie unicamente nell’adempimento di tale compito.

b) L’insegnamento come funzione soggettiva dell’agire

Tale approccio teorico prende le mosse dalle riflessioni sulla semantica dell’azione elaborate dal filosofo francese P.

Ricoeur [1987]. Secondo l’autore il significato dell’azione non può essere circoscritto alle sue valenze oggettive (sociali, culturali, ecc.). In questo senso, esso non si può desumere soltanto dalle connotazioni di ruolo e dalle attese sociali cui l’azione stessa intende rispondere (come invece sostiene il funzionalismo di T. Parsons). Secondo P. Ricoeur, la riflessione sulle componenti semantiche dell’azione rileva piuttosto uno scarto tra l’azione e l’agente. Il significato dell’operare non si identifica in modo pervasivo e totalizzante con le connotazioni oggettive dell’agire. Ogni azione, infatti, presuppone un soggetto agente, il quale imprime all’azione stessa un plus di significato non riconducibile a variabili di

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natura oggettiva (sociale, economica, utilitaristica, funzionale), ma riferiti agli universi di valore soggettivi di colui che pone in essere l’agito.

Perché l’azione abbia efficacia e acquisti senso è necessario che essa inscriva in se stessa i motivi e le ragioni della persona che la compie, i quali trascendono in modo deciso e sistematico i significati pratici che possono derivare dal contesto sociale.

Anche in questo caso, ciò che vale per l’azione in generale, vale anche per l’azione docente. L’insegnamento individua il suo senso e le sue condizioni di efficacia non soltanto nella corrispondenza alle attese del sistema scuola considerato in se stesso, ma anche a partire dalle ragioni soggettive dell’insegnante. Detto in altre parole, un docente che dovesse insegnare unicamente per svolgere un ruolo (dimensione funzionale) o per guadagnare lo stipendio (dimensione pratico-utilitaristica) senza investire il suo fare di motivazioni soggettive, priverebbe il suo intervento di una importante condizione di efficacia. La riuscita stessa dell’intervento didattico esige, infatti, dal docente la disponibilità a rendere la sua attività professionale un momento imprescindibile della

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sua realizzazione personale, un’esperienza finalizzata a concretizzare il suo universo di valori nel mondo. Senza questo riferimento alla dimensione soggettiva, qualunque intervento scolastico, secondo la prospettiva di P. Ricoeur, è destinato a rimanere senza effetti. Per tali ragioni, il riferimento alla dimensione di senso personale non è soltanto una scelta opzionale, ma è un requisito fondamentale della professionalità docente, un elemento senza il quale tale professionalità rimane sostanzialmente priva di fondamento.

c) L’insegnamento come agire comunicativo

Questo approccio all’azione fa riferimento alla teoria dell’agire comunicativo di J. Habermas. Secondo questo autore, il senso dell’azione va ravvisato non tanto in variabili di natura sociale (T. Parsons) o personale (P. Ricoeur), ma soprattutto in dimensioni di natura relazionale. Secondo questa prospettiva teorica il significato dell’operare è strettamente correlato alla disponibilità dei soggetti a confermarsi reciprocamente nella rappresentazione che ciascuno offre di sé, quando entra in relazione con l’altro.

Tutto ciò riverbera conseguenze di fondamentale importanza sull’esercizio stesso del ruolo. Secondo Habermas, infatti,

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perché un soggetto risulti legittimato a ricoprire ed esercitare un ruolo, non basta che questo gli venga esplicitamente riconosciuto dal sistema sociale (T. Parsons), ovvero che egli trovi in se stesso una qualche motivazione a svolgerlo (P.

Ricoeur). Al contrario, è necessario che anche gli altri soggetti che si collocano nel sistema riconoscano e confermino la persona nel ruolo medesimo. Quando questo non accade, l’azione che scaturisce da quel ruolo rimane priva di effetti, anche se esso è sancito dal sistema sociale e/o dagli universi di valore della persona.

Quel che vale in generale, trova altresì riscontro nel sistema scolastico, soprattutto per quanto attiene all’esercizio dell’azione docente. Alla luce di tale prospettiva teorica, infatti, l’azione dell’insegnare trova le sue condizioni di efficacia nella disponibilità degli allievi a riconoscere nell’insegnante un soggetto legittimamente deputato a svolgere quella funzione.

Detto in altre parole, l’azione docente può evolvere positivamente verso i suoi esiti soltanto nel caso in cui gli allievi siano disponibili a confermare il docente nell’esercizio della funzione. Sotto tale profilo, l’efficacia dell’intervento didattico esige non soltanto che l’insegnante sia riconosciuto

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nel suo ruolo dal sistema in cui agisce, né è sufficiente che egli investa tale compito del suo universo motivazionale. La riuscita del suo intervento si profila altresì correlata al fatto che egli si conquisti la fiducia degli allievi e agisca in modo tale che questi lo riconoscano come il loro insegnante. Senza questo riconoscimento l’azione didattica rimane priva di fondamento, e dunque senza conseguenze produttive sul piano dei processi di apprendimento.

In virtù della reciprocità dei ruoli comunicativi, il discorso svolto in riferimento alla posizione di insegnante si pone in maniera perfettamente speculare anche nei confronti della posizione di allievo. Perché un soggetto assuma il ruolo di discente, non basta che questo gli sia riconosciuto dall’istituzione o trovi corrispondenza nei suoi sistemi motivazionali. Le condizioni di efficacia dell’azione didattica richiedono, infatti, che egli sia confermato in questa posizione anche dal corpo docente. In assenza di questo riconoscimento, l’azione didattica non potrà avere luogo e, con tutta probabilità, sarà orientata verso esiti fallimentari. Il dinamismo appena descritto può rappresentare una valida chiave di lettura per rendere conto di alcuni fenomeni

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particolarmente diffusi nella scuola, primo fra tutti quello della dispersione scolastica. Senza voler operare indebite generalizzazioni, non è raro che molti allievi escano dal sistema formativo in seguito alla mancata disponibilità del corpo docente di riconoscerli e di confermarli nel ruolo di studenti. Fenomeni di questo tipo si verificarono in passato in seguito alle prime applicazioni della legge sull’istruzione obbligatoria. Per il Ministro dell’Istruzione dell’epoca, ma anche per larga parte del corpo docente di allora, dopo quella riforma le aule scolastiche si riempirono di una moltitudine “di traditori della zappa e della cazzuola”. Sicuramente le difficoltà di applicazione incontrate dalla legge in esame non possono circoscriversi a questo atteggiamento, ma è lecito pensare che i problemi posti dall’intervento furono sicuramente incrementati dalla mancata disponibilità del sistema a valorizzare la presenza di questi soggetti all’interno delle aule scolastiche.

d) L’insegnamento come sillogismo pratico

Il senso dell’azione docente può essere ricavato anche dai presupposti impliciti nei criteri organizzatori del cosiddetto sillogismo pratico.

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In termini generali, il sillogismo rappresenta un percorso conoscitivo di natura razionale che, utilizzando gli strumenti della logica e partendo da premesse di natura universale immediatamente evidenti, giunge all’affermazione di conoscenze certe, stabilite senza il ricorso alla verifica dell’esperienza.

Una variante particolare del sillogismo è il sillogismo pratico, il quale si distingue dalla forma pura precedentemente definita perché, mentre il primo “conclude” affermando la necessità di una conoscenza, il secondo conclude affermando la necessità di una azione.

Le due forme di sillogismo si distinguono non soltanto per il tipo di conclusioni prodotte, ma anche per il diverso rilievo epistemologico associato a ciascuna di esse. Mentre le conclusioni del sillogismo puro esprimono una verità, quelle del sillogismo pratico esprimono invece una verosimiglianza.

Di conseguenza, mentre il sillogismo puro esprime una necessità, ovvero un principio valido in ogni tempo e in ogni luogo (l’impossibilità che vi siano tempi e luoghi dove possa verificarsi il contrario), il sillogismo pratico esprime invece una ragione sufficiente, ovvero un principio che ammette la

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possibilità che vi siano dei tempi e dei luoghi in cui si può verificare il contrario. La formula epistemica del sillogismo puro si può risolvere nella frase: le cose stanno cosi, e non è possibile che si verifichi il contrario; la formula del sillogismo pratico può essere invece riassunta nell’affermazione: vi sono ragioni sufficienti per affermare che le cose vadano in questo modo, ma non si può escludere che, in taluni casi, esse possano andare anche in modo diverso.

Intendere l’insegnamento come espressione del sillogismo pratico significa sottolineare come insegnamento e apprendimento, anche se presentano delle implicazioni reciproche, non sono correlati tra loro da un vincolo di necessità. L’apprendimento dell’allievo non è una conseguenza necessaria del processo di insegnamento, né l’organizzazione funzionale di quest’ultimo garantisce necessariamente il conseguimento dei risultati, nemmeno nel caso in cui esso sia improntato al rispetto dei criteri di razionalità didattica.

L’insegnamento, anche quando viene impostato su premesse epistemologicamente fondate, non produce analiticamente (necessariamente) apprendimento. Esso promuove soltanto delle buone ragioni perché vi sia apprendimento, lasciando

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comunque aperta la possibilità che in taluni casi (e nonostante la fondatezza del suo intervento) esso possa invece provocare conseguenze diverse da quelle attese. Tutto questo significa che, in caso di insuccesso, la causa del fallimento non può essere ascritta univocamente a carenze dell’allievo (a questa conclusione porterebbe una concezione dell’insegnamento fondata sui presupposti del sillogismo puro). Il riferimento al principio del sillogismo pratico lascia, infatti, aperta la possibilità che, in taluni casi, tale insufficienza possa essere ricondotta anche a limiti e insufficienze inscritte nel fare docente. Di conseguenza, il modello in esame colloca la responsabilità dei processi di apprendimento non soltanto sul versante dell’allievo, ma anche su quello del fare docente, sicché quanto avviene nel campo dell’azione didattica non può essere univocamente ascritta alla responsabilità o dell’uno o dell’altro, ma chiama in causa un processo di allineamento e di revisione che esige disponibilità al cambiamento non soltanto sul versante dell’allievo ma anche sul versante dell’azione didattica posta in essere dall’insegnante. Il modello del sillogismo pratico rappresenta il presupposto che consente, in sede didattica, il recupero della cosiddetta valutazione formativa, ovvero di quel

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processo docimologico che mette sotto osservazione non le prestazioni dell’allievo, ma gli interventi dell’insegnante, al fine di monitorare la loro capacità di perseguire gli scopi e di operare quegli aggiustamenti e quelle modifiche capaci di conferire agli stessi maggiori livelli di efficacia.

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