• Non ci sono risultati.

Napoli magica, 5 è il suo numero

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Napoli magica, 5 è il suo numero"

Copied!
5
0
0

Testo completo

(1)

Napoli magica, 5 è il suo numero

– Virginia Tonfoni, 24.08.2019

Venezia 76 Intervista a Igort che presenta il suo film d’esordio alle Giornate degli Autori Esce la prossima settimana nelle sale il tanto atteso film di “5 è il numero

perfetto”, un lavoro fondamentale per la tua carriera e per la storia del graphic novel contemporaneo. Hai dichiarato spesso che l’idea dell’adattamento risale a 15 anni fa, è di poco successiva all’uscita del libro, ma sembra che solo nel

momento in cui hai preso le redini della regia, il film sia diventato realtà: com’è andata esattamente?

È una lunga storia, il libro ha avuto molta fortuna ed è stato richiesto da tanti produttori, italiani e internazionali. Primo tra questi Marco Muller, critico, intellettuale, direttore di festival, produttore, visionario. Il suo intuito ha visto in questo romanzo a fumetti un possibile film, sin dal 2004, due anni dopo che il libro era stato pubblicato, stimolato da Egidio Eronico, regista che per primo ha pensato un adattamento cinematografico. A lui si sono succedute varie ipotesi di regia, tra cui una collaborazione dietro la macchina da presa, tra me e Johnnie To.

Johnnie, cineasta di Hong Kong che girava con la stessa attenzione per geometrie e simmetrie che io ponevo nella creazione delle scene disegnate, si è rivelato una bella prospettiva, una via possibile insomma. C’era molta sintonia tra noi.

Andare a Hong Kong e vedere dal di dentro la macchina di produzione dei sogni su pellicola è stata un’esperienza meravigliosa. Ho capito perché amo tanto il cinema asiatico. Là tutto sembra possibile. Anche l’invenzione più pazza. Meno convenzionale.

Ma Johnnie poi è partito per altri progetti (realizza tre o quattro film all’anno e finiva proprio in quei mesi un film con tematiche simili, un vecchio che torna in pista dopo l’omicidio di sua figlia) e io, che avevo deciso di non occuparmi della regia ma solo della scrittura ho ceduto ancora, per la terza volta, i diritti del romanzo. Volevo comunque solo scriverlo, il film. Mi tratteneva l’idea di non potere avere il tempo necessario per fare le cose come volevo, se avessi indossato i panni del regista.

Dopo il terzo tentativo andato in fumo ho preso in mano le cose e chiamato Elda Ferri, amica, produttrice e donna di grande cultura e sensibilità. Con lei abbiamo deciso che forse era ora di ascoltare Toni Servillo, che da subito mi aveva detto “fallo tu, tu sai come lo vuoi realizzare, come vedi la storia e i personaggi. Il racconto è frutto della tua visione”. Così mi sono messo in gioco.

Aveva ragione, sebbene fare un film sia tutt’altro che una passeggiata, è vero che la visione era per me chiara. Sapevo dove volevo andare.

Girare un lungometraggio per la prima volta, ispirato a un proprio libro, è stata un’esperienza emotivamente e artisticamente molto intensa, della quale il rapporto con Toni Servillo è probabilmente l’emblema. C’è stato un grande scambio tra voi, a quale aspetto del vostro rapporto tieni di più?

Toni è un artista grandioso, il cui talento non cessa di stupirmi. Avere lui come protagonista sul set ha significato avere un amico, un complice, molto esigente (“Tu mi devi dirigere” mi

(2)

aveva raccomandato prima delle riprese.) che vuole sentire la mano ferma di chi conduce.

Era fondamentale, chiaro.

D’altra parte lui è stato anche una grande garanzia che certi tempi di produzione per un film complesso come 5 fossero poi rispettati. In lui disciplina, talento e invenzione scorrono naturalmente. Il suo soprannome sul set era “Messi”, perché è un giocoliere capace di far gol con un colpo di tacco. Classe e profondità, questo è stato Toni nel creare quello strano mix di umanità e violenza indispensabile per tratteggiare il carattere di Peppino Lo Cicero.

Un personaggio che sia io che lui amavamo e volevamo vedere vivere sullo schermo. Poi i ciak, uno dopo l’altro, offrivano una scelta impressionante per giocare le opzioni di tono.

C’erano tante possibilità, più delicato, più secco, più esaltato, più dimesso. E il risultato era sempre e comunque stupefacente. Insomma mi sentivo come fossi nel paese dei balocchi.

Un piacere lavorare con talenti del genere. Sono stato molto fortunato, e tutto questo andava di pari passo, come in una sinfonietta in cui le tecniche dell’armonia e del

contrappunto si incastravano magicamente per dare vita, con le interpretazioni degli altri grandissimi, Valeria Golino con la sua fragilità, con i suoi tremori sensibilissimi, la vita insomma (“la regina delle sfumature”, la definì Toni sul set) e Carlo Buccirosso, che

dimostra, io credo, un favoloso temperamento drammatico (scuserete l’immodestia, parlo del mio film, ma lo penso davvero) e questo insieme mi faceva intravedere il tono del racconto cinematografico finito man mano che le riprese avanzavano.

Era un’illusione, dato che il montaggio poi sarebbe durato quasi un anno. Ma fu un’illusione felice, di grande aiuto nei momenti duri delle riprese.

Nel libro di Oblomov che tratta il dietro le quinte del film, racconti come il cinema sia anche piegare la creazione filmica alla dittatura del tempo: sono ricorrenti espressioni come “è troppo tardi”, “non ce la faremo mai”, “forse domani”.

Che rapporto c’è e c’è stato tra i tempi di produzione e la resa artistica, da cineasta e da fumettista?

Occorre essere molto rapidi nelle scelte. Chiaro, e decisi a rispettare il senso profondo delle scene. La loro essenza. Ma tenendo sempre ben presente che non sia utile, né furbo,

riprodurre il fumetto, anzi. Un buon adattamento, credo che sia figlio di una reinvenzione.

D’altronde sono un “bambino curioso” a cui piace scoprire nuovi giocattoli.

E il mio approccio a un medium, sia esso la letteratura, la musica, il fumetto, la narrazione teatrale o il cinema, è sempre lo stesso: cerco di capire dove voglio andare e se possibile di usare lo strumento che ho a disposizione per sfruttarne al massimo le potenzialità. Del cinema cosa mi intrigava?

Eccomi sul set, avevo delle scenografie reali e altre che poi avrei fatto costruire, in cui far agire, muovere, parlare, degli attori, avevo un’orchestra futurista per integrare voci, suoni, rumori. Poi il montaggio con cui giocare sul ritmo: pianissimo, fortissimo. A conti fatti credo di poter dire che la musica, una visione musicale, abbia giocato un ruolo importante per creare la pasta narrativa del film. Via il ricordo del fumetto. Pensavo al cinema, che d’altronde è stato fondamentale per la mia formazione.

Volevo un racconto metafisico, non naturalistico, come il cinema che amavo. Che amo.

Pensavo a qualcosa che riprendesse un certo sguardo, molto italiano che aveva definito le regole per il cinema moderno, come lo conosciamo oggi.

(3)

Da ragazzo frequentavo il mare di plastica di Amarcord, o la laguna ricostruita in studio di Casanova, gli alberi e i palazzi dipinti di Antonioni, il west reinventato da Sergio leone, le deposizioni pittoriche di Pasolini, il suo lavoro di reinterpretazione del mito. Erano la mia famiglia, la mia storia. Il mio genere. Niente naturalismo. Il realismo non è la realtà, è un equivoco culturale questo.

Pessoa scriveva: “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore, il dolore che davvero sente”.

Sono partito da questo. Raccontiamo l’essenza di questo dramma interiore.

5 è un film sulla rinascita, sulla seconda opportunità che la vita ci serve, a volte, su un vassoio scintillante di dolore. Cercavamo di restituire verità a un uomo che si sente vecchio e che scopre che la vita per lui può ancora serbare delle sorprese. Una nuova opportunità.

Raccontare la storia di Peppino Lo Cicero, che chiama in un momento di difficoltà il suo amico di un tempo era il declick per mostrare due uomini piccoli, due vecchi cavalieri male in arnese, costretti dalle circostanze a ritornare in pista. Ecco questo mi sembrava un buon punto di partenza per demitizzare l’idea del grande criminale cara a tanto cinema

americano (cinema che adoro, beninteso). Da questo punto di vista il mio è un film profondamente europeo. Non ci sono big boss in cui identificarsi. Anzi.

L’ironia è stato un altro attrezzo di lavoro, che mi è servito in certi frangenti per rendere evidente l’abnormità di certe visioni. L’inumanità.

Mi serviva una macchina visiva possibile per rappresentare tutto questo.

Il cinema è un lavoro di equipe. Uno strumento polifonico, ed era essenziale, per suonare all’unisono, che tutti avessimo chiaro cosa si cercasse. Dunque con pazienza ho costruito con i miei mezzi una sorta di “bibbia”, come la si chiama in animazione. Per mostrare ai miei collaboratori cosa avessi in mente avevo disegnato le scenografie, le atmosfere, avevo definito una palette dei colori. La macchina visiva, dunque, che nella mia concezione era strettamente connessa a quella narrativa, poteva collegarsi in tanti livelli alla

sceneggiatura, che negli anni era stata riscritta 10 volte sino a regalarmi l’illusione (utilissima) che tutto fosse chiaro.

Nel libro parli della tua grande affinità con Nicolaj Brüel, dell’intesa con gli

scenografi Paola Peraro, e Nello Giorgetti poi, e del lavoro magnifico sui costumi di Nicoletta Taranta. Ne parli, giustamente, come di grandi alleati nella

realizzazione del film, tanto che mi viene da definire la tua, come una visione olistica del cinema…è così?

Il cinema moderno della grande tradizione italiana ha influenzato il cinema asiatico, è rimbalzato in America, e ora torna da noi in quella danza inarrestabile di contaminazioni fertili, di reinvenzioni prodigiose. Sono un artista migrante, meticcio. Amo gli artisti a cavallo tra i medium, quelli curiosi, che non si fermano alle loro certezze.

Se prendi un film come deserto rosso di Antonioni, è difficile capire dove finisce il lavoro dello scenografo, inizia quello del costumista e si collega a questi quello del direttore della fotografia.

Quei colori, quel concetto di finzione per arrivare a una verità li avrei ritrovati, anni più tardi nelle scenografie orientali di Tsui Hark o Wong Kar Wai.

(4)

Io pensavo naturalmente a questo, per me, come dice Meggie Cheung, la recitazione degli attori era definita anche dal costume di scena che indossavano. Valeria si muoveva

magnificamente con gli abiti delle scene domestiche ed era molto diversa con il trench giallo anni Sessanta che indossa quando spara. Buccirosso è un personaggio sfaccettato, anche perché il suo costume di scena lo esalta, lo rende credibile, e pericoloso. E Toni con il suo impermeabile bianco dell’inizio film e quello blu scuro di quando scende in guerra parla della Storia del cinema (da Fino all’ultimo respiro a C’era una volta in America).

La triade: direzione della fotografia, costumi, scenografie era la base su cui avrei edificato l’estetica del film. Ovviamente occorreva stare all’ascolto, perché le scoperte di alcuni ambienti del tutto inediti, non pianificati, come delle proposte meravigliose di costumi o di illuminazione che scaturivano dal talento dei miei collaboratori era oro puro per me. Ero felice di accogliere molte idee che si sono rivelate poi, io credo, un punto di forza del lavoro.

Come si traduce la varietà del registro grafico del tuo fumetto nel linguaggio cinematografico?

Volevo una storia con i colori saturi degli anni Settanta, credo che questo sia riuscito grazie al lavoro di fotografia incredibile di Nicolaj Bruel, un vero pittore della luce.

Parliamo di Napoli: 5 è anche un tributo a questa città magnifica e complessa. È noto il tuo legame artistico e professionale con il Giappone, ma come è accaduto che nel tuo immaginario l’ambientazione partenopea si sovrapponesse agli

ambienti urbani asiatici? È solo una suggestione cinematografica o c’è dell’altro?

Ho cominciato a disegnare la storia napoletana proprio nel corso di un mio lungo soggiorno giapponese. Se è vero, come dice Simenon, che i tuoi luoghi li vedi meglio quando stai lontano, io che pensavo finalmente a disegnare una storia italiana, mi sono trovato a inventarla a Tokyo.

Poi, durante il lungo periodo di gestazione del film, una sera, con Johnnie To ci siamo trovati nel vecchio quartiere della sua infanzia, A Kowloon, ed è lì che ho avuto l’illuminazione: ho visto un quartiere che mi ricordava da vicino certi scorci di Napoli, di Forcella o del rione Sanità.

Ma prima, quando ho scritto la storia, per raccontare Napoli ascoltavo le “voci di dentro”;

venivano da Eduardo, naturalmente, ma anche da zio Cechov, da Tennessee Williams, dal suo modo di scandagliare gli animi e le fragilità. Dalla Ortese, dal modo di raccontare il sud di Bufalino, dalla miseria metafisica, quasi sacra, di Pasolini. Da Viviani, dal grande teatro napoletano contemporaneo, Moscato o Borrelli (che nel film fa un cameo nel ruolo di Don Guarino)

Queste passioni hanno nutrito la scrittura del film e il sodalizio tra me e Toni Servillo.

Volevo raccontare la città sospesa, La Napoli misteriosa, dolente e lieve. La Napoli magica che mi ha insegnato tanto. Nessuna città è tollerante e maestra di vita come Napoli.

Come nasce l’idea del “Dietro le quinte”, un libro molto eterogeneo ma che scommetto si rivelerà prezioso per apprezzare al meglio il film?

Dietro le quinte è un lavoro che mette insieme tutto il processo di preparazione che c’è dietro un film. La mia libreria trabocca di libri di cinema, ma per questo in particolare non ero certo che le mie riflessioni potessero interessare il lettore. A convincermi è stata la mia

(5)

grande amica e socia editoriale Elisabetta Sgarbi, che mi è parsa molto sicura. E dato che Elisabetta è una direttrice editoriale formidabile non ho più esitato e mi ci sono buttato a capofitto. D’altronde avevamo tantissimo materiale. E forse il libro ha acquisito una sua dimensione interessante.

Dal tuo diario sul set emergono dettagli che fanno capire quanto l’aderenza del film al fumetto sia stata prioritaria per te. Ci sono parti del libro (come quelle dei sogni) alle quali hai dovuto rinunciare? A che costo?

Volevo un film, non un film tratto da un fumetto. L’imperativo era questo: tagliare tutto ciò che portava ad altro, che rendeva il dramma un gioco estetico. È una ginnastica alla quale mi sottopongo sempre volentieri. Quando si racconta devi tenere il filo, non compiacerti, se possibile. Dunque per me non c’è stata sofferenza, presa la decisione, che è arrivata a inizio riprese, se non erro, abbiamo provveduto senza indugi. Io e Toni ci ripetevamo sempre il motto di Clint Eastwood: “Servire la storia”. Certo, per due che credono che la realtà è complessa, non la sturiellet, insomma, servire la storia significava servire i moti interiori, le risacche esistenziali che componevano il racconto. D’altronde la cultura napoletana è devota alla Sibilla Cumana. La cui voce profetica risuona da secoli. Dicono che l’antro della Sibilla sia nascosto in una spelonca ritrovata nel Lago d’Averno, che è esattamente dove abbiamo girato le scene della casa di Peppino Lo Cicero. Volevo la Napoli magica? L’ho avuta.

© 2022

Riferimenti

Documenti correlati

pagina 4.. D: di due numeri multipli tra loro coincide con il più piccolo di essi V F c) Due o più numeri si dicono primi tra loro se il loro M.C.D. fra due o più numeri il

In un determinato momento però, della sua vita reale o psichica succede un evento, anche insignificante, ma che in lui predisposto alle “epifanie”, sconvolge questo

E dopo quel primo incontro, il passaggio da manoscritto a libro ebbe inizio. Leo Longanesi, rimasto colpito dal romanzo, l’indomani propose a Berto un contratto in cui si

E infine, ancora a dimostrazione dell’autenticità della proposta di Rodari di far squadra con bambini e ragazzi e di dare significato profondo alla parola, viene riportata una

Un evento dedicato soprattutto ai più piccoli che, tra locomotive e carrozze, vivranno un’esperienza fuori dal comune incontrando i dinosauri e l’Homo Sapiens..

Percorso: Agricoltura, allevamento, pesca e attività estrattiva > Allevamento (conferma) > Altre esigenze connesse con l’esercizio dell’attività (mezzi pubblici, occupazione

4.Sulla base dei risultati ottenuti nel calcolo dei tempi necessari a portare a compimento ogni procedura, calcolare i costi della burocrazia in termini di ore/uomo

Si comunica che dal 15 gennaio 1983 la Sede provinciale di La Spezia è stata trasferita in Corso Nazionale 326 ed il numero di codice postale è