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Brand, storytelling, entertainment

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Academic year: 2022

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Nuno Bernardo

TRANSMeDIA 2.0

Brand, storytelling, entertainment

ARMANDO EDITORE

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Sommario

La condizione transmediale 7

di silvia leonzi

Riferimenti bilbiografici 21

TRANSMEDiA 2.0 27

nuno Bernardo

L’autore 28

introduzione 31

Capitolo primo 41

L’approccio transmediale all’entertainment branding

Capitolo secondo 68

Finanziare il Transmedia

Capitolo terzo 89

Costruire uno Storyworld

Capitolo quarto 116

Pianificare il lancio

Capitolo quinto 128

il Marketing

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Capitolo sesto 150 Monetizzare i Digital Content

Capitolo settimo 168

il futuro del Transmedia

Appendice 183

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La condizione transmediale

di silvia leonzi

Rispondere, in modo esauriente, a una domanda apparente- mente semplice come “cos’è oggi il transmedia storytelling?”

non è affatto semplice.

L’evoluzione tecnologica, il cambiamento della nostra sen- sibilità culturale, le possibilità di applicazione produttiva e di sfruttamento economico, infatti, hanno trasformato quello che, fino a una decina di anni fa, poteva essere considerato un fenomeno circoscritto a un numero limitato di immaginari in una realtà molto più elaborata e sfaccettata.

Sarebbe sufficiente pensare a come, sempre più spesso, l’oggetto di una narrazione oggi non coincida più con una sin- gola storia, ma tenda a evolvere in un ipertesto, risultato della combinazione, dell’intreccio e della proliferazione di storyli- ne che, anche se differenti, appaiono comunque connesse tra loro e si moltiplicano all’interno di un numero più o meno elevato di ambienti mediali. Da qui, la tentazione, almeno a livello di astrazione teorica, di definire il transmedia storytel- ling come una modalità articolata di costruire universi narra- tivi, distribuendo testi su differenti device, ciascuno dei quali deve essere in grado di declinare al meglio i diversi contenuti sulla base delle proprie logiche di funzionamento, allo scopo di coinvolgere il pubblico in un’esperienza di prosuming (Tof- fler, 1980) gratificante e completa.

Il carattere dinamico e polisemico del transmedia storytel- ling, tuttavia, non consente di individuare in modo categorico

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un unico modello esplicativo, pena il rischio di operare una semplificazione e di non restituire una misura realistica della molteplicità dei punti di vista su questo argomento.

In quest’ottica, appare chiara la necessità di assumere una prospettiva multidisciplinare, trasversale all’oggetto di studio considerato (Davidson, 2010; Giovagnoli, 2011; Phil- lips, 2012; Jenkins, Ford, Green, 2013; Polson, Cooke, Ve- likovsky, Brackin, 2014; Freeman, 2017), caratterizzata dal coinvolgimento, a differenti livelli e intensità, di ricercatori, produttori e professionisti, tanto più competenti e incisivi quanto più consapevoli. e, allo stesso tempo, ugualmente connotata dal mutato ruolo degli utenti che, attraverso una fruizione partecipata e pratiche creative bottom up, possono contribuire alla diffusione di una nuova sensibilità in grado di assottigliare i confini tra la dimensione della produzione e quella del consumo, tra la sfera del mainstream e quella delle controculture.

Il risultato è un approccio complesso allo studio di un fe- nomeno complesso, sorretto dalla crescente attenzione da par- te di discipline differenti, dai media studies alla sociologia, dalla semiotica al marketing, e variamente riconducibili a un territorio di analisi ricco e articolato come quello dei tran- smedia studies. Uno scenario orientato alla comprensione di un passaggio, avvenuto all’interno del media system, da un livello relativo ai sistemi di generazione di contenuti across media a uno coincidente con un frame poliedrico, in grado di ricombinare in una logica complementare, e non dicotomica, dimensioni teoriche e pratiche differenti. Come quelle che, nel tentativo di rispondere alla domanda iniziale, delineando un possibile percorso evolutivo del transmedia storytelling senza alcuna pretesa di esaustività, possono essere sintetizzate in tre principali coppie concettuali:

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- tradizione-innovazione;

- tecnologia-cultura;

- narrazione-produzione.

Il transmedia storytelling può essere considerato anzitutto come il risultato della combinazione di due specifiche tenden- ze, apparentemente in contrasto tra loro: la tradizione e l’in- novazione.

La prima, che costituisce una proprietà congenitamente umana tesa alla conservazione e alla propagazione del nostro patrimonio culturale, si fonda sulla sedimentazione nel tem- po e sulla progressiva espansione nello spazio simbolico dei contenuti (conoscitivi). Da questo punto di vista, la tradizione può essere interpretata come una sorta di metanarrazione in grado di offrire solide fondamenta da cui partire per creare nuovi mondi da abitare. Nel corso dell’evoluzione, anche pri- ma dell’avvento di tecnologie comunicative avanzate, la ne- cessità di raccontare storie (dai miti alle religioni, fino alle fiabe o ai romanzi), di condividerle e di tramandarle, ha per- messo di mantenere la coesione all’interno di diverse forma- zioni sociali (gruppi, comunità, società, etc.).

All’interno di questo inarrestabile processo di accumula- zione culturale, il cui significato si sovrappone neppure troppo virtualmente con il senso stesso della tradizione, è possibile riconoscere tracce evidenti di archeologie transmediali (Sco- lari, Bertetti, Freeman, 2014) in testi che vanno dalla Bibbia alla Divina Commedia, fino a Star Wars (Ciofalo, Leonzi, De Kerckhove, 2015), a dimostrazione di come il transme- dia storytelling, o almeno alcuni dei suoi elementi costitutivi, non rappresenti una moda passeggera, ma affondi le radici nel passato, evolvendosi con il mutare della società, della cultura, della tecnologia. Del resto, l’espansione testuale alla base del transmedia storytelling risulta già insita nell’essenza stessa

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della narrazione, o meglio in quella forma di hypernarrati- ve intesa come relazione innata tra più testi, nelle tradizionali forme di transtestualità, trasposizione e adattamento (Genette, 1972), nella transizione del contenuto da un sistema di segni a un altro (Suhor, 1984).

L’epica e le grandi narrazioni religiose, i miti, le fiabe (Propp, 1928) e gli archetipi (Jung, 1967), esattamente come alcuni delle più recenti e popolari forme di storytelling, da Lost (2004) a Breaking Bad (2008), fino a Game of Thrones (2011), tuttavia, poggiano su un medesimo impianto testuale, esteso e ricco di rimandi, e su un’analoga struttura enciclo- pedica. La loro rielaborazione e attualizzazione, avvenuta a seguito di una differente disponibilità tecnologica, ha con- dotto ad un significativo accrescimento del valore sociale e culturale della narrazione nella nostra epoca, segnata dall’av- vento di un narrative turn (Salmon 2007). Una fase in cui il racconto di storie non è più soltanto funzionale ai media che si occupano di entertainment, ma diventa il core business di imprese, di agenzie di formazione, di attori del sistema poli- tico, del discorso scientifico. È da questa centralità della nar- rativizzazione che deriva la portata innovativa del transmedia storytelling, incorporata in due dei suoi fondamentali principi:

la spreadability e la drillability (Jenkins, 2009). Nell’interval- lo compreso tra la proliferazione e l’approfondimento, attra- verso il ricorso ad una multicanalità e ad una crossmedialità più evolute e la possibilità di un consumo partecipativo, si compie la trasformazione delle pratiche discorsive in processi conoscitivi, e viceversa, nel segno di una rinuncia all’oggetti- vità a favore di una soggettività narrativa.

Una così profonda compenetrazione tra tradizione e inno- vazione è spiegabile soltanto prendendo in considerazione la seconda coppia concettuale considerata, o meglio l’elemento che trasversalmente oggi accomuna la tecnologia e la cultu-

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ra: la convergenza. La digital innovation e la relativa rime- diazione dei mezzi di comunicazione hanno posto le basi per una progressiva riconfigurazione del panorama mediatico, fino a rendere in parte obsolete alcune dinamiche consolidate e routinarie, sia nei processi produttivi, sia nelle pratiche di consumo tipiche dell’industria culturale. Inoltre, l’esito della costante rinegoziazione culturale, che accompagna e indirizza le spinte all’innovazione, è rintracciabile in un continuo ripo- sizionamento degli attori in gioco (Rheingold, 1994; Castells, 1996) e nella conseguente creazione di nuovi equilibri in cui gli aspetti tecnologici, sociali e culturali dialogano tra loro in modo costante, dando vita a sistemi aperti e in divenire.

La diffusione dei media digitali ha accelerato e incremen- tato in modo esponenziale le opportunità e gli strumenti per la creazione di molteplici interconnessioni tra contenuti, de- vice, produttori, consumatori e mercati. In questa prospettiva, il transmedia storytelling rappresenta certamente uno dei più evidenti e significativi risultati del processo di media conver- gence, di cui condivide le due principali anime: quella tecno- logica (Negroponte, 1995) e quella culturale (Jenkins, 2006).

La prima ha creato, almeno inizialmente, i presupposti e le condizioni per la realizzazione di tale fenomeno, in ambito ideativo e produttivo, attraverso le logiche dell’immediatezza e dell’ipermediazione (Bolter and Grusin, 2000). ed è ulte- riormente suggestivo considerare come nel panorama attuale, in cui il concetto di convergenza tecnologica costituisce or- mai una realtà acquisita, si generino, inarrestabilmente, nuo- ve prospettive di sviluppo, in linea con altri due fondamentali criteri del transmedia storytelling: l’immersion e l’extracta- bility (Jenkins, 2009). Il Web 2.0 e l’Internet of Things, infat- ti, si pongono come spazi comunicativi che rispondono ad un paradigma implicitamente transmediale, quello del pervasive computing e ubiquitous computing. L’estensione dell’accesso

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alla rete oltre i limiti del device e la connessione a più sistemi, al cui interno oggetti e individui interagiscono ripetutamen- te. Ancora una volta, l’inarrestabile processo di innovazione tecnologica impone una riflessione sul confronto tra vecchi e nuovi sistemi comunicativi, tra device tecnologici e pos- sibili alternative smaterializzate, tra l’idea di annullamento delle differenze e quella di una tendenza verso sistemi sem- pre più multiformi ed estesi, rispetto a cui la delimitazione dei confini diventa sempre più difficile. In modo speculare, il transmedia storytelling si pone da un lato come una struttura reticolare di storyworlds, sempre più caratterizzati da link e rimandi ipertestuali; dall’altro, come un sistema produttore di ipercontesti, tali da ridurre progressivamente la distanza tra reale e finzionale.

Contemporaneamente, la seconda componente che il tran- smedia storytelling recupera dal processo di convergenza è quella culturale, basandosi di fatto su un’idea di cultura par- tecipativa (Lessig, 2008), intelligenza collettiva (Lévy, 1994) o intelligenza connettiva (De Kerckhove, 1997) e sul radica- le cambiamento delle pratiche di fruizione. Partecipazione e collaborazione caratterizzano le attività degli attori convolti, dando origine a nuovi equilibri di potere e riuscendo persi- no a capovolgere i ruoli nei processi comunicativi. Così, la moltiplicazione tecnologica dell’offerta di contenuti disponi- bili e l’ampliamento delle possibilità di accesso a strumenti in grado di modellare quegli stessi contenuti trovano nella com- partecipazione delle audience un ideale completamento. La diversa predisposizione culturale di cui oggi disponiamo ci orienta, infatti, ad una costante attività di interpretazione che, in funzione dell’interesse, del bisogno o della passione, ride- finisce i tradizionali canoni del consumo, determinando non soltanto un processo più o meno elaborato di risemantizzazio- ne, ma anche di ri-creazione dei contenuti. In questo modo, al

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livello tecnologico, rispetto a cui «[…] integral elements of a fiction get dispersed systematically across multiple delivery channels for the purpose of creating a unified and coordinated entertainment experience» (Jenkins, 2007), se ne affianca uno culturale, in grado di trasformare, di fatto, la narrazione in conversazione. Se, infatti, una pratica transmediale oggi può riguardare persino il campo della non-fiction e, in determinati casi, può essere sviluppata anche solo con “[…] more than one media mode” (Dena, 2008:4), un elemento imprescin- dibile è comunque rappresentato dall’interesse del pubblico.

Attraverso il transmedia storytelling l’interazione con i con- tenuti si trasforma in una più ricca ed evoluta forma di par- tecipazione culturale (Davis, 2013). Rispetto alle tradizionali forme di consumo, relative ad un singolo testo, oppure ad un singolo medium, quella propriamente transmediale permette al fruitore di elaborare autonomamente le rappresentazioni disponibili, al fine di costruire, in base ad un criterio ordinato- re individuale, una visione soggettiva del mondo narrativo al cui interno ha interesse a restare (Scolari, 2009). La moltipli- cazione dei meccanismi di engagement, dunque, permette di passare dalla dimensione del prosumer a quella del “transme- dia prosumer”. Un soggetto, tendenzialmente più consapevo- le, critico e competente, guidato dalla promesse de bonheur:

la possibilità di avere accesso a universi immaginari più reali del reale, al cui interno perdersi e ritrovarsi, sperimentando al contempo il calore rassicurante della casa e la sfida peri- colosa del labirinto. Come nel caso della serie tv Stranger Things (2016), diventata dopo i primi episodi un instant cult, con un vasto seguito di fan, senza necessità del tempo di la- tenza utile a consacrare un prodotto culturale di successo. Le ambientazioni, gli oggetti, i riferimenti a stili di vita, temi e personaggi e prodotti culturali tipici degli anni Ottanta, gli omaggi al genere fantastico, attraverso le citazioni dei film

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di Spielberg, dei romanzi di Stephen King o di pellicole di culto come Stand by Me (1986), hanno permesso di attivare una modalità transmediale sui generis, non fondata, almeno inizialmente, sulla creazione di prodotti ancillari, ma sulla ricerca di rimandi e citazioni ad altri prodotti, secondo una logica centrifuga. Una sorta di affective transmedia, in grado di attivare «[…] an affective semiotics capable of accounting for the emotional engagement audiences feel in relation to the objects of their desire, and which would necessarily demand an embodied idea of fan engagement […]» (Harvey, 2015:7).

Una dimensione incentrata sugli aspetti emozionali e affettivi, che entrano in gioco nel momento in cui si instaura un patto con lo spettatore, basato sull’assunto che il suo impegno verrà ripagato nei termini di un’esperienza di fruizione appagante, completa, stimolante e allo stesso tempo confortevole (Scito- vsky, 2017).

Chiaramente, al raggiungimento di un simile obiettivo con- corrono anche i molteplici aspetti connessi alla narrazione e alla produzione. In particolare, dal punto di vista narrativo, il transmedia storytelling non costituisce soltanto una modalità progettuale, ma rappresenta una proprietà implicita di qual- siasi testo, a partire dalla stratificazione di contenuti diversi su piattaforme diverse. In sostanza, ogni singolo personag- gio, protagonista o comprimario che sia, diviene potenzial- mente una «[…] platform for a different logic of construction of transmedia which merges with the logic of transmedia storytelling» (Bertetti, 2014:16).

Se, tuttavia, è innegabile che ogni narrazione è potenzial- mente transmediale, è ugualmente vero che non tutte le narra- zioni transmediali sono destinate ad essere riconosciute come tali. Anche quando i processi di espansione narrativa venis- sero accuratamente pianificati ex ante, la variabile relativa alla risposta del pubblico, immediata o differita nel tempo, ne

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condizionerebbe, tanto in positivo quanto in negativo, l’esito finale. In sostanza, ogni universo narrativo può essere imple- mentato, anche se, in ogni universo narrativo, possono persi- stere limiti, contradizioni e incoerenze (Fast and Örnebring, 2015). La saga ideata da Sir Arthur Conan Doyle, incentrata sul personaggio di Sherlock Holmes, costituisce un esempio della prima tendenza. La proliferazione di prodotti (libri, film, fumetti, videogames, etc.), avvenuta nel corso di oltre un se- colo, ha consentito di originare un universo espanso (Stein and Busse, 2012), prima ante-litteram e poi compiuto. In modo complementare, lo storyuniverse di The Matrix (1999), cult di grande successo, dimostra, invece, come una pianifi- cazione transmediale a monte della produzione, e per molti versi costrittiva, possa determinare un’esperienza di fruizione non sempre appagante per il pubblico, in quanto condizionata dalla necessità di ricomporre tutte le tessere della storia, di- stribuite sulle diverse piattaforme mediali.

È, tuttavia, innegabile che il processo di universe/world building costituisca, almeno idealmente, il punto di partenza di qualsiasi transmedia project. Il risultato è la generazione di uno storyuniverse o di uno storyworld che, al di là del- le possibili distinzioni al riguardo (Kerrigan and Velikovsky, 2016), identifica uno spazio narrativo dall’ampiezza variabile, capace di contenere al suo interno livelli differenti di storytel- ling. La disseminazione dei points of entry, preventivamen- te pianificati, all’interno delle diverse unità testuali, innesca percorsi di fruizione variabili da parte delle audience (Wolf, 2013), che possono spostarsi dalla macrostoria alle storie pa- rallele, dalle storie periferiche fino agli stessi UGC, e così via.

Analogamente, però, la progressiva convergenza delle narra- zioni consente di individuare a posteriori dei points of exit, che abilitano la veicolazione dei contenuti non soltanto tra le varie piattaforme, ma addirittura tra storyworld o storyuniver-

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se differenti, delineando veri e propri trans-discourses (Hills, 2012). Un’ulteriore dimostrazione di come, in base alla logica transmediale, la narrazione non possa prescindere dalle moda- lità di fruizione, dal momento che la riuscita di un transmedia world è connessa al fatto che «audience and designers share a mental image of the “worldness” (a number of distinguishing features of its universe)» (Klastrup, Tosca, 2004: 409).

Una simile complessità narrativa determina e si riflette in un’equivalente complessità produttiva, testimoniata dalla cre- scente professionalizzazione del transmedia storytelling, con la ridefinizione o la nascita ex novo di figure idonee a gesti- re le nuove dinamiche produttive. In realtà, già a partire dal 2010, la Producer Guild of America ha riconosciuto ufficial- mente nella figura del transmedia producer il responsabile di una parte significativa della pianificazione, dello sviluppo e della produzione di un progetto creativo.

Il ripensamento, già avviato da tempo, del concetto di in- dustria culturale registra un ulteriore turning point: nelle at- tuali industrie creative, infatti, si ridefiniscono processi, attori, contenuti, circuiti all’insegna di una logica sinergica, mentre i diversi settori mediali (cinema, televisione, fumetto, videoga- mes, etc.), abbandonata un’ottica autoreferenziale, non seguo- no più in modo lineare, autonomo ed esclusivo i passaggi della filiera produttiva, ma tendono verso una crescente connessio- ne. Nel transmedia storytelling, infatti, l’organizzazione degli asset, le potenziali sinergie tra le diverse piattaforme mediali, a prescindere dalla specificità dei contenuti, si pongono come fattori fondamentali (Gomez, 2007). In questa prospettiva, il freemium, basato sulla differenziazione tra l’offerta di conte- nuti free per intercettare l’interesse delle community social e di contenuti premium destinati ai pubblici di media mainstre- am come la Tv e il cinema (Ibrus, 2015), costituisce certa- mente una delle strategie più efficaci. Non a caso, la peculiare

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alchimia del transmedia storytelling consiste nell’accurata in- dividuazione di un equilibrio tra narrazione, produzione, di- stribuzione e promozione. La sfida produttiva, derivante dalla necessità di considerare un numero così elevato di variabili, comporta, tuttavia, una rielaborazione dei basilari principi sintattici (trasmissione), semantici (significazione) e pragma- tici (percezione) della comunicazione in chiave tecnologica e culturale. Quello che avviene, di fatto, è la riconfigurazio- ne del rapporto tra contenuto e forma, che eleva a potenza la valenza teorica e pratica di quello specifico assioma della comunicazione secondo cui «every communication has a con- tent and relationship aspect such that the latter classifies the former and is therefore a meta-communication» (Watzlawi- ck, Beavin, Jackson 1967: 35). A prescindere dalle effettive modalità progettuali, dall’estensione reale o potenziale, di un transmedia project, infatti, la sua riuscita produttiva si fonda sulla costruzione di legami metacomunicativi tra contenuti (testi, storyworld, personaggi, products, etc.) e forme (devi- ces, modelli di fruizione, etc.). Il ciclo di produzione influenza la resa dei contenuti narrativi e condiziona le dinamiche rela- zionali alla base di molteplici pratiche di fruizione/interazione da parte delle audience, dal momento che appaiono decisivi

«its budgets, schedules, task lists and flowcharts as much as by its creative content» (Philips, 2011: 163).

Al di là della citazione di alcuni possibili modelli di rife- rimento, dal franchise-type, con cui si indica quell’insieme di esperienze individuali fruite su molteplici piattaforme, al portmanteau-type, che si sviluppa su piattaforme multiple al fine di contribuire a una singola esperienza, fino al complex transmedia experience, che costituisce un’ibridazione delle due tipologie precedenti (Pratten, 2015), il cambiamento più significativo che si può osservare investe il sistema produtti- vo nel suo complesso. Il transmedia storytelling, infatti, con-

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sente l’emersione di realtà produttive alternative, nanostudio models (Bernardo, 2014), che si vanno ad affiancare alle più solide e imponenti media companies. Nei processi tradizio- nali, i blockbuster movies o la serialità televisiva costituisco- no ancora la componente centrale, condizionando le forme di promozione e, prima ancora, le modalità di co-finanziamento.

La condivisione del profitto, ma anche quella dei rischi, tipica di queste mega produzioni, influisce tanto sulla dimensione organizzativa, produttiva e distributiva, quanto su quella crea- tiva. Nell’ambito dei casi più innovativi, invece, le compagnie di produzioni più piccole e indipendenti, che un tempo ope- ravano principalmente come service providers di contenuti, oggi arrivano ad acquisire un ruolo più autonomo. Anzitutto, a partire dalla progettazione di prodotti transmediali che preve- dano la disseminazione di contenuti su più piattaforme, senza che l’intero processo sia incardinato su un medium predomi- nante. Inoltre, la logica più relazionale, che trasmissiva, delle attuali tecnologie comunicative attiva dinamiche di disinter- mediazione, o meglio di re-intermediazione, in grado di ride- finire gli equilibri di potere interni al mercato globale. In altre parole, l’innovazione digitale e una diversa organizzazione del lavoro, comunque fondata su scripts validi e sul possesso di competenze professionali trasversali, consentono a questi attori più piccoli di controllare completamente la filiera della produzione e della distribuzione e di stabilire un contatto più immediato con le audience di riferimento.

Per cercare di riassumere quanto esposto finora e, soprat- tutto, per evidenziare i legami bidirezionali tra ciascuna delle coppie considerate, si potrebbe sostenere che l’aumento della complessità narrativa, che ha avuto origine da un’istanza tra- dizionale e, contestualmente, da una spinta all’innovazione, si è tradotta in una moltiplicazione delle possibilità di fruizione, su base tecnologica e culturale, sorretta da un’implementa-

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zione produttiva, promozionale e commerciale. Del resto, la scelta di focalizzare l’attenzione su tre coppie concettuali non si è basata sulla volontà di frammentare lo scenario di riferi- mento, ma, oltre che sul bisogno di proporre un ordine argo- mentativo, sull’obiettivo di esplicitare il valore delle diverse relazioni triadiche che il transmedia storytelling attiva con le dimensioni considerate: tradizione, innovazione, tecnologia, cultura, narrazione, produzione. L’essenza più profonda del transmedia storytelling risiede nello spazio delimitato da que- ste sei categorie: un vero e proprio ecosistema transmediale.

La struttura reticolare di uno storyuniverse, tecnologicamente determinato, che, in base alla potenza della narrazione e alla volontà/capacità dei fruitori, acquisisce una dinamicità ulte- riore. Una metadimensione al cui interno i differenti universi narrativi, prima relegati ad ambiti specifici, tendono a colli- dere, a sovrapporsi e a ibridarsi, per convergere in una unitas multiplex (Morin, 1977). Un’enciclopedia universale (eco, 2002), composta da un’infinità di micronarrazioni, capaci di trasmigrare da un universo all’altro: qualcosa di simile ad una sorta di ubiquitous storytelling.

È certamente significativo, sul piano simbolico quanto sul piano concreto, che il cambiamento generale del panorama considerato si compia in un’epoca come la nostra, segnata dalla fine delle grandi narrazioni (Lyotard, 1978) e dalla tran- sizione dalla Storia alle storie (Le Goff 1988). L’impossibi- lità di ricondurre l’esperienza narrativa ad uno solo dei suoi tradizionali aspetti costituisce certamente l’innovazione più profonda del transmedia storytelling: il flusso ininterrotto di contenuti, parole, immagini, dati, informazioni, che ne deriva influenza in modo crescente i processi di costruzione e media- zione della realtà.

Oggi il transmedia storytelling è tutto questo. Una modali- tà narrativa e fruitiva che, testo dopo testo, si va estendendo.

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Uno standard produttivo già diffuso in alcuni ambiti e, pro- babilmente, dominante nell’arco di un futuro prossimo. Un paradigma tecno-culturale emergente che, a partire da alcune premesse congiunturali, si sta trasformando in una condizio- ne potenzialmente strutturale (Walker, 2004). Una condizione transmediale, appunto, che oggi, parafrasando l’originale de- finizione di Lyotard, «[…] designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti […]» (J-F. Lyotard, 1979:5).

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