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Determinano micosi superficiali in quanto non hanno tropismo per il derma.

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PARTE GENERALE DERMATOFITI

Le dermatofitosi o tigne sono comuni infezioni dei tessuti cheratinizzati che possono interessare sia animali che uomini e sono causate da funghi cheratinofili, chiamati dermatofiti. Tali funghi utilizzano i componenti della cheratina per svilupparsi e riprodursi, colpiscono quindi tessuti come la pelle, le unghie, i capelli, le piume, gli zoccoli, le corna o parti in decomposizione di essi.

Determinano micosi superficiali in quanto non hanno tropismo per il derma.

Tra questi sono noti i dermatofiti, appartenenti ai generi Microsporum, Trichophyton e Epidermophyton.

Solitamente vengono suddivisi in tre gruppi: dermatofiti zoofili che primariamente sono patogeni tipici degli animali ma talvolta possono causare la tigna anche nell’uomo -Microsporum canis, Trichophyton mentagrophytes-; gli antropofili che colpiscono l’uomo e raramente gli animali -Trichophyton rubrum, Epidermophyton floccosum, Trichophyton mentagrophytes var.

interdigitale- e i geofili presenti di norma nel terreno, talvolta possono colpire anche animali che vivono all’aperto o l’uomo -Microsporum gypseum- (Iorio et al., 2007). Negli animali domestici sono più frequenti le dermatofitosi da zoofili e geofili trasmessi per contatto diretto tra ospiti infetti o tramite le artrospore, disperse nell’ambiente da animali malati o portatori sani, anche se la minima quantità infettante è ignota (Mancianti et al., 2003)

I funghi responsabili della maggior parte dei casi clinici di dermatofitosi negli animali sono M.

canis, M. gypseum e T. mentagrophytes (Bond, 2010; Sparkes et al., 1993).

Le dermatofitosi sono malattie contagiose, facilmente trasmissibili sia per via diretta, mediante contatto tra animali, sia per via indiretta, attraverso il contatto con superfici od oggetti contaminati dalle spore infettanti -artrospore- di questi organismi: una volta giunta sull’ospite, tramite il contatto con soggetti infetti o l’ambiente contaminato, le spore producono un filamento germinativo che intacca il pelo nel punto della sua emergenza dalla cute, dando origine a nuovi filamenti. Questi continuano l’invasione proliferando sia verso il basso che verso l’apice del pelo.

La moltiplicazione cellulare del fungo si arresta a livello del colletto del bulbo pilifero, dove non è più presente la cheratina. In caso di contaminazione, il tempo di incubazione per la comparsa di lesioni cutanee visibili è di 8-15 giorni nel gatto, 10-12 giorni nel cane e 8-30 giorni nell’uomo (Sparkes e Gruffydd-Jones 1996; Scott, 2001).

Le artrospore possono sopravvivere in determinate condizioni di temperatura, umidità e oscurità anche alcuni anni nell’ambiente (Chermette et al., 2008; Sparkes et al., 1994).

L’artrospora quindi è il principale agente infettante ed è un elemento di resistenza caratterizzato da forma tondeggiante con un diametro variabile da 2 a 10 µm a seconda della specie fungina.

Rappresenta una delle forme morfologiche che deriva dalla segmentazione e frammentazione delle ife fungine che si ritrovano rispettivamente sull’animale e nell’ambiente.

Diverse specie di dermatofiti sono state isolate da animali domestici, sia tenuti in cattività che

allevati allo stato brado, ma spesso una specie fungina è associata ad un particolare ospite

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(Cabañes, 2000): M. canis al gatto, T. mentagrophytes ai roditori, Trichophyton equinum al cavallo, T. verrucosum ai bovini, ma può infettare facilmente altri ospiti (Chabasse, 2008).

MICROSPORUM CANIS NEL GATTO

EPIDEMIOLOGIA, PATOGENESI, SEGNI CLINICI, DIAGNOSI E TRATTAMENTO Microsporum canis è un dermatofita zoofilo che negli ultimi anni ha assunto un’importanza notevole; è segnalato ovunque nel mondo come responsabile di dermatofitosi nell’uomo; numerosi studi confermano che le specie più rappresentate sono di origine zoofila, con M. canis al primo posto, soprattutto nell’area mediterranea: questo è dovuto probabilmente al sempre più stretto contatto tra uomo e animale domestico, ma anche alla capacità di M.canis di adattarsi ai cambiamenti ambientali che si sono verificati con la selezione dei ceppi più resistenti. (Chermette et al., 2008; Cafarchia et al., 2004; Mancianti et al, 2002; Romano, 1999)

M. canis può essere isolato da animali asintomatici che fungono da carriers: questa situazione si verifica molto più frequentemente nel gatto, serbatoio naturale del fungo- che nel cane (Chermette et al, 2008).

L’esposizione al contagio non significa che automaticamente si instauri l’infezione, poiché le spore possono venire asportate con la toelettatura (specie nel gatto), oppure persistere senza colonizzare lo strato corneo intatto, grazie alle difese immunitarie aspecifiche del soggetto o competere senza successo con la flora cutanea residente: l’insorgenza della dermatofitosi è strettamente condizionata dall’intervento combinato di due fattori fondamentali: la capacità patogena del micete e la capacità difensiva delle strutture che esso aggredisce. Le ife fungine non possono generalmente penetrare la cute integra: traumi cutanei anche lievi facilitano infatti l’insorgere dell’infezione; la cute asciutta e le proprietà fungistatiche del sebo cutaneo rappresentano i meccanismi di difesa naturali dell’individuo (Mendez-Tovar, 2010).

Tra i fattori che ostacolano infezione fungina, tre sono particolarmente rilevanti:

 quello di ordine microbiologico, legato alla coesistenza del fungo con altri microrganismi viventi sulla cute, che si può risolvere con l’instaurarsi di fenomeni di antagonismo competitivo o antibiosi a scapito del micete;

 quello di ordine chimico, che riguarda la presenza di acidi grassi insaturi a lunga catena derivanti dall’idrolisi enzimatica dei trigliceridi secreti dalle ghiandole sebacee: questa idrolisi è attuata in parte dai batteri che colonizzano l’epidermide. È dimostrato che tali acidi grassi hanno uno spiccato potere antifungino;

 quello di ordine meccanico, in cui la continua desquamazione del tessuto corneo, dovuto a processi di rinnovamento sottostanti, non fornisce ai funghi un substrato valido su cui impiantarsi.

Se tutti questi ostacoli vengono superati il micete può essere in grado di attecchire senza provocare

lesioni clinicamente visibili (portatore asintomatico) o insediarsi stabilmente e provocare la lesione.

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L’invasione delle strutture cheratinizzate avviene secondo diversi meccanismi di tipo meccanico, enzimatico ed allergico-infiammatorio.

L’azione meccanica si compie a carico dello strato corneo, del pelo e dell’unghia. Sullo strato corneo dell’epidermide, le ife miceliali si insinuano negli spazi intercellulari dove trovano il nutrimento necessario e solo raramente penetrano nelle cellule cheratinizzate.

I peli presentano un rivestimento esterno, denominato cuticola, costituito da lamelle di cheratina molto dure e compatte che, soprattutto nella posizione extrafollicolare, costituisce una barriera resistente all’azione dei dermatofiti che non riescono a penetrarla direttamente, ma devono aggirarla. Dopo essersi moltiplicati sulla superficie epidermica, i dermatofiti penetrano nel follicolo pilifero, dove formano un manicotto di ife visibili solo microscopicamente. Queste ife penetrano all’interno del pelo, a livello del terzo distale della porzione intra-follicolare, dopo aver sollevato e distaccato le lamelle dalla sottostante sostanza corticale e dopo aver digerito la cheratina molle con funzione cementante.

Il micelio che parassita i peli produce delle artrospore; se queste vengono prodotte all’interno del pelo si ha l’invasione di tipo endothrix tipica soprattutto dei dermatofiti antropofili; se invece vengono prodotte all’esterno del pelo, attorno alla cuticola, l’invasione è di tipo ectothrix ed è frequente tra le specie zoofile e geofile. I dermatofiti crescono nei peli in fase anagena, che forniscono loro il nutrimento, sotto forma di carboidrati e cheratina. L’invasione dermatofitica dell’unghia inizia ed evolve partendo dalla lamina ventrale, che è quella più molle, per poi raggiungere, anche se limitatamente, le parti sovrastanti più dure (lamina intermedia e dorsale).

L’azione di invasione del pelo da parte dei dermatofiti è resa possibile grazie al corredo enzimatico che questi organismi possiedono, che intervengono condizionando l’insorgenza della malattia e la sua progressione; si tratta di molti enzimi proteolitici, quali cheratinasi, elastasi, collagenasi e in misura minore lipasi e fosfolipasi. Il numero e la quantità degli enzimi prodotti varia e questo potrebbe spiegare, in parte, la variabilità delle presentazioni cliniche. Un enzima extra-cellulare comune ai dermatofiti è la cheratinasi che permette loro di demolire la cheratina. La demolizione della cheratina serve sia nella fase di penetrazione dei miceti negli strati cornei, sia come fonte di approvvigionamento di azoto, ma questo solo se non esistono fonti di immediata utilizzazione (Hay, 2007).

Le categorie a rischio sono animali giovani o anziani o comunque con una risposta immunitaria

depressa; gatti a pelo lungo sembrano incorrere con maggiore incidenza in dermatofitosi perché il

pelo lungo è capace di trattenere e catturare una maggiore quantità di spore dall’ambiente

(Moriello, 2003) arrivando a superare la dose limite capace di sovrastare le difese naturali della

pelle (Outerbridge, 2006): sono inclusi i traumi della cute (lesioni cutanee da morso, grattamento o

lesioni da ectoparassiti) ma anche una maggior frequenza di bagni o eccessiva pulizia dell’animale

possono predisporre all’insorgenza di una micosi, in quanto vengono rimosse le barriere cutanee

naturali; nel gatto è stata ipotizzata una correlazione tra infezione dermatofitica e retrovirosi -FIV e

FeLV- (Mancianti et al.,1992; Moriello, 2004), ma il dato potrebbe dipendere dal tipo di vita dei

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soggetti infetti, spesso randagi/semirandagi conviventi in grandi collettività.

I gatti randagi e quelli che vivono in rifugi e allevamenti, sembrano più predisposti alle tigne rispetto ai gatti domestici, plausibilmente a causa della diversa qualità di vita, di un’alimentazione più carente e della maggiore esposizione ad agenti patogeni. In queste circostanze, la dermatofitosi può essere persino mortale per i cuccioli già debilitati da un precario stato immunitario (DeBoer e Moriello,1995; Moriello,1990).

Altri fattori predisponenti che possono incrementare il rischio di dermatofitosi sono malnutrizione, parassitosi, stati debilitanti; nonché la presenza di patologie quali l'iperadrenocorticismo o l’utilizzo di terapie cortisoniche possono favorire l’insorgenza di micosi per l'effetto immunosoppressore dei corticosteroidi (Chermette et al., 2008).

Anche l’età è uno dei principali fattori di rischio: animali giovani o molto vecchi sono caratterizzati da una minore efficienza del sistema immunitario: nei gattini le dermatofitosi sono molto frequenti e spesso si presentano in concomitanza a infestazioni parassitarie da pulci o acari. L’alto tasso d’infezione nei cuccioli può essere imputabile alla loro minor concentrazione di acidi grassi nel sebo riconosciuti come fungistatici, dalla presenza sul loro mantello di peli tutti in fase anagena e anche dalla particolare composizione della cheratina nei primi stadi di vita, caratterizzata da un alto contenuto di cistina e quindi da una scarsa resistenza dovuta all’insufficiente ossidazione dei ponti bisolfidrilici (Cabañes et al.,1997; Mancianti et al., 2002). L’esposizione dei soggetti anziani, invece, è spiegabile per la scarsa funzionalità del sistema immunitario; questo rappresenta un fattore parafisiologico in caso di squilibri nutrizionali, gravidanze, malattie concomitanti di tipo ormonale o parassitario e terapie immunosoppressive.

Nei gatti adulti spesso la patologia è asintomatica nonostante siano presenti sul pelo elementi infettanti che determinano il contagio ad altri animali o all’uomo, se sono presenti delle lesioni spesso sono di piccole dimensioni e di difficile localizzazione (Chermette et al., 2008). Talvolta, soprattutto in soggetti debilitati o ipersensibili, si possono osservare delle reazioni infiammatorie con prurito e croste sulla parte dorsale del corpo, sulla testa o sul collo dell’animale oppure forme di alopecia diffusa con o senza la presenza di scaglie (Fitzgerald e Newquist, 2011).

Il clima e la stagione sembrano anch’essi giocare un ruolo determinante nelle dermatofitosi:

M.canis sembra avere una maggior incidenza in presenza di un clima caldo umido (la germinazione delle spore è termo-dipendente, valori ottimali compresi tra 24°C e 30°C); si riscontrano, inoltre, più frequentemente in autunno in cui si hanno le condizioni climatiche ideali per lo sviluppo dei miceti (Galuppi et al., 2002).

Nei gatti M. canis è la specie responsabile in più del 90% dei casi (Chermette et al, 2008).

Le dermatofitosi talvolta sono autolimitanti e si risolvono spontaneamente in 3-4 mesi, la

guarigione avviene in seguito all’instaurarsi di una reazione infiammatoria o quando il pelo entra in

fase telogen, ma ciò non esclude successive reinfezioni. (Fitzegerald e Newquist, 2011). La

dermatofitosi presenta un quadro clinico estremamente polimorfo e non può essere diagnosticata

basandosi esclusivamente sui rilevamenti clinici: si tratta primariamente di una malattia follicolare

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e i principali segni clinici comprendono la perdita del pelo, la produzione di scaglie e di croste, mentre la presenza di prurito è variabile. Alcuni pazienti sviluppano la lesione tipica ad anello, caratterizzata dalla zona centrale alopecica e alla periferia papule follicolari e infiammazione (Blanco e Garcia, 2010). Le lesioni possono essere singole o multiple, localizzate o diffuse su tutto il corpo dell’animale, anche se arti anteriori e la testa (dorso del naso e superficie esterna della pinna e margini auricolari) sembrano essere più frequentemente coinvolte. Generalmente l’estensione delle lesioni è centrifuga, alcune possono essere coalescenti, altre possono andare incontro a risoluzione nella parte centrale con ricrescita del pelo (Chermette et al, 2008). Per queste loro caratteristiche le lesioni micotiche vengono definite ad anello (ringworm). La cute può essere normale o arrossata con squame o croste, oppure umida per la presenza di essudato.

A seconda dello stato immunitario dell’animale si può avere anche una forma asintomatica: in genere, si sospetta della presenza di un portatore asintomatico quando un animale o una persona a contatto con il gatto ha contratto l’infezione (Cafarchia et al., 2006); spesso possono essere portatori gatti che sono guariti clinicamente da una dermatofitosi manifesta (Kotnik, 2007). Nel gatto inoltre, sono stati segnalati casi atipici quali la dermatofitosi granulomatosa sottocutanea:

questo tipo di lesione sembra essere più comune nei gatti persiani e si è ipotizzato che possa essere associata ad un alterato stato immunitario. Il processo inizia come una follicolite micotica che evolve in una dermatite granulomatosa nodulare o diffusa a carico del derma profondo e del sottocute, tale reazione cutanea prende il nome di pseudomicetoma (Corazza et al., 1998; Nobre de Oliveira et al., 2010).

Anche per i cani M. canis risulta il dermatofita predominante, con le classiche lesioni anulari alopeciche, ad estensione centrifuga, ben circoscritte, non pruriginose e con croste e scaglie; può a volte svilupparsi un tipo di lesione denominata kerion: la lesione si presenta come una zona di flogosi acuta, edematosa ed umida, che trasuda materiale purulento, in cui si è verificata una compartecipazione di infezione fungina e batterica (Albanese e Leone, 2010). Sono stati descritti anche episodi di onicomicosi in cui le unghie appaiono deformate, asciutte e fragili ( Blanco e Garcia, 2010).

Spesso cani da caccia o con l’istinto predatore che entrano in contatto con roditori, lagomorfi o con il suolo possono essere infettati da dermatofiti geofili come M. gypseum e T. terrestre o da altri zoofili quali T. mentagrophytes e T. erinacei, e soprattutto presentano lesioni a livello della bocca, del naso, del contorno occhi e dei margini delle orecchie (Bergman et al., 2002).

Nel cavallo la malattia è relativamente frequente; l'agente causala più frequentemente è

Trichophyton equinum, seguito da T.verrucosum, M. equinum, e M. gyseum. I segni clinici classici

sono rappresentati da aree alopeciche tonde ricoperte da scaglie e/o croste a volte spesse; l’eritema

è visibile solo nei cavalli bianchi ed il prurito è assente se la lesione non è complicata da infezioni

batteriche. Le aree più coinvolte sono la faccia, il collo, il tronco e gli arti. In altre occasioni la

dermatofitosi si può manifestare come seborrea secca, con presenza di scaglie generalizzate e con

aree in cui si ha rarefazione del pelo (Connole e Pascoe, 1984; Pascoe, 1976). Molte volte a causa

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della variabilità dei segni clinici i casi di dermatofitosi vengono sovrastimati e la diagnosi viene effettuata semplicemente dalla valutazione delle lesioni presenti alla visita.

T. verrucosum e T. mentagrophytes sono le specie maggiormente isolate nei rumunanti; tali zoonosi possono essere considerate occupazionali in quanto colpiscono prevalentemente coloro che lavorano a contatto con tali animali sia per trasmissione diretta o indiretta attraverso fomiti infetti (Papini et al., 2009). Le tipiche lesioni circolari desquamate con croste e scaglie sono evidenti nel periodo invernale quando gli animali sono stabulati e tendono a scomparire al momento del ritorno al pascolo; si localizzano soprattutto a testa, collo e groppa (Chermette et al., 2008).

Nei roditori e lagomorfi domestici si possono trovare anche dermatofitosi da M. canis per contagio da gatti o cani infetti, oltre a T. mentagrophytes. Le lesioni possono presentarsi come zone alopeciche ben definite con talvolta eritema e scaglie all’interno oppure con la forma di kerion, di solito localizzate sulle orecchie, sulla faccia o sul naso, alla base delle unghie e sotto le zampe (Chermette et al., 2008).

Le artrospore del M. canis sono in grado di sopravvivere nell’ambiente per 12-24 mesi, anche in assenza di sintomi evidenti di infezione (Sparkes et al. 1994).

I gatti, in particolare, rappresentano degli autentici serbatoi di spore che continuano a moltiplicarsi e a diffondersi sulla pelle degli animali e delle persone che entrano in contatto con loro; per questo motivo, l’opportunità di rilevare l’eventuale presenza del M. canis in tempi efficaci prescinde dall’evidenza dei segni clinici.

Buona norma sarebbe che entrasse nella routine degli ambulatori veterinari e, di converso, nella cultura dei potenziali proprietari, una corretta informazione sul rischio di zoonosi e sulle relative indagini all’atto di effettuare la normale profilassi.

La visita clinica può fornire un sospetto di dermatofitosi, ma la conferma la si ha solo con degli esami più approfonditi. Infatti le micosi possono dare quadri sintomatologici simili ad altre dermatopatie. Prima di procedere ad applicare le varie tecniche di laboratorio, è importante ottenere un’accurata anamnesi ed eseguire un esame dell’apparato tegumentario per escludere eventuali altre patologie della cute. Le micosi feline devono essere sempre inserite nella lista di diagnosi differenziali quando si affronta un problema dermatologico: infatti, data l’estrema variabilità dei quadri clinici, non si può escludere di trovarsi di fronte a patologie con manifestazioni molto simili come ipersensibilità al morso delle pulci o da alimenti, rogna notoedrica, demodicosi, follicolite batterica, alopecia di natura psicogena.

Essendo la dermatofitosi facilmente trasmissibile all’uomo, diventa essenziale confermare o escludere con certezza l’agente causale (Moriello, 2001; Mukherjee et al., 2011; Robert e Pihet, 2008; Tieghi, 1995). L'iter diagnostico prevede una serie di esami da effettuare:

 esame con la lampada di Wood: si pratica ponendo l’animale in un locale completamente

oscurato ed esponendolo ad un fascio di luce ultravioletta della lunghezza d'onda di 254

nm emesso da una lampada preriscaldata per qualche minuto: sotto i raggi di luce

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ultravioletta circa il 50% dei ceppi di M. canis emette una fluorescenza di colore verde mela. La fluorescenza è resa possibile dall’interazione tra la luce UV e i metaboliti di M.

canis sui peli infetti. Pertanto in caso di positività la presenza di fluorescenza deve essere apprezzabile esclusivamente lungo l’asse dei peli e qualunque fluorescenza che compaia a carico di materiale crostoso o a carico delle unghie è da non tenere in considerazione.

Se l’animale si trova nelle fasi iniziali dell'infezione l’intero fusto pilifero è fluorescente, mentre una fluorescenza della sola parte distale del pelo è di solito riscontrabile nei peli in via di guarigione. Infatti la parte basale è via via sterilizzata dal farmaco che si accumula (Chermette et al, 2008). Da ricordare che solo il 50% dei ceppi di M. canis può essere diagnosticato con la lampada di Wood per questo motivo l’uso della lampada di Wood è utile come strumento di screening ma è quanto mai opportuno effettuare ulteriori indagini (Moriello, 2001); i peli fluorescenti comunque possono essere utilizzati per un successivo esame diretto e per l’allestimento di una coltura fungina (Cafarchia et al., 2004);

 esame microscopico del pelo: si effettua prelevando i peli dell'animale tra quelli già fluorescenti alla luce ultravioletta, che hanno il fusto spezzato e che si trovano alla periferia della lesione dove la carica fungina è maggiore, anche perché il centro della lesione è in via di guarigione. La parte del pelo che interessa è la porzione intrafollicolare e il primo centimetro emergente: quindi i peli possono venire strappati con pinzette nel senso di crescita del pelo stesso in modo da ottenere la radice intatta, oppure tagliati con forbici o rasati; le squame cutanee si possono raccogliere con la lama di un bisturi. I peli colpiti dal fungo sono facilmente asportabili, perché i loro fusti si rompono quando si esercita una trazione anche moderata. L’esame microscopico a fresco è utile per evidenziare, oltre allo scompaginamento della cuticola esterna, la presenza delle caratteristiche artrospore che appaiono come numerose formazioni tondeggianti di circa 2-8 μm distribuite a catena o a mosaico attorno al pelo e visibili con un obiettivo 40x. I peli chiari possono essere immediatamente osservati al microscopio su un vetrino con una goccia di olio di vaselina, mentre quelli pigmentati necessitano di una preparazione con idrossido di potassio al 10%

o clorolattofenolo che consentono la diafanizzazione della cheratina (Chermette et al., 2008). Per rendere maggiormente visibili gli elementi fungini si può ricorrere anche alle colorazioni sopravitali con blu di metilene o a quelle ematologiche come il DiffQuick

®

che evidenzia le artrospore come sferule basofile circondate da un alone otticamente vuoto (Tieghi, 2000).

 esame colturale: è il gold standard per la diagnosi di dermatofitosi e l’unico metodo sicuro

per identificare, dal punto di vista fenotipico, la specie fungina coinvolta (Chermette et al,

2008). Si utilizzano piastre Petri con terreno selettivo così da identificare con precisione il

fungo attraverso la valutazione macroscopica e microscopica della colonia. Per la semina

in piastra, solitamente si preleva il pelo con spazzole secondo la tecnica McKenzie (Bond,

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2010; Sparkes et al., 1994), passandola su tutto il corpo dell’animale in modo da creare un’attrazione elettrostatica che induce l’adesione di peli, croste e spore alle setole di plastica. La spazzola viene poi impressa sul terreno di coltura. Il terreno selettivo utilizzato è il Mycobiotic agar

®

(Difco), una variante del classico terreno Sabouraud dextrose agar, ideale per la crescita dei dermatofiti, che contiene in aggiunta cloramfenicolo, per limitare la crescita batterica, e cicloeximide per limitare la crescita dei funghi contaminanti e rendere il terreno selettivo (Robert e Pihet, 2008; Chermette et al., 2008). Tale terreno è semitrasparente e permette l’osservazione delle colonie fungine cresciute anche dal rovescio della piastra Petri (Harvey, 1990).

La piastra viene incubata in termostato a 25-30°C per 7-10 giorni. Le piastre vengono sottoposte a lettura per l’identificazione del fungo attraverso una valutazione sia macroscopica che microscopica delle colonie. In dettaglio M. canis si presenta macroscopicamente con colonie sono a crescita rapida (6-10 giorni), di solito estese con superficie dall’aspetto che varia da granulare a fioccoso o lanuginoso, il più delle volte tipicamente stellato; il colore varia dal bianco-crema al color camoscio con un margine giallo limone brillante in periferia; il verso della colonia ha un colore giallo-arancio che tende al giallo-bruno col tempo; la valutazione microscopica si effettua tramite lo scotch test, appoggiando un pezzetto di nastro adesivo trasparente sulla colonia e dopo facendolo aderire ad un vetrino con o senza il colorante blu lattofenolo; M. canis presenta ife settate, macroconidi a parete spessa, a forma di fuso (30-120/10-25 µm) con le estremità leggermente ricurve, multisettati con 6-15 setti ed echinulati e rari microconidi che originano dalle ife lisci o clavati.

 esame istopatologico delle biopsie cutanee: pur non effettuandosi di routine, a volte può essere utile per confermare la diagnosi di dermatofitosi. I patterns istologici che più di frequente si osservano in corso di dermatofitosi sono follicolite e dermatite interstiziale (Chermette et al, 2008). Si può notare la presenza di spore attorno al fusto del pelo e delle ife al suo interno; ife ed artroconidi sono facilmente rilevabili nelle sezioni di tessuto colorate con acido periodico di Schiff (PAS) o con impregnazione argentica.

Un sistema immunitario non debilitato, in caso di contatto con i dermatofiti, è in grado di mettere in atto reazioni che portano a non manifestare la malattia e a risolverla in tempi variabili da pochi mesi a qualche anno. Ciò non vuol dire che il soggetto non possa rappresentare un veicolo di diffusione del contagio per altri animali o per le persone che vi entrano in contatto. Nel caso in cui si evidenziano i sintomi, è possibile pervenire ad una diagnosi e stabilire un protocollo appropriato, che si porrà non solo lo scopo di curare il soggetto infetto, abbreviando il decorso della guarigione, ma anche ridurre al minimo il rischio di contagio ed evitare che il serbatoio naturale, clinicamente guarito, resti portatore sano di focolai di infezione.

Solitamente, la terapia antifungina si avvale di farmaci che hanno dimostrato la loro efficacia sui

ceppi identificati con la diagnosi. Purtroppo, però, non è raro che gli animali abbiano ricadute.

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Accade, in realtà, che il trattamento venga effettuato quasi esclusivamente sull’individuo colpito da dermatofitosi, tralasciando una cura adeguata dell’ambiente in cui permangono delle spore, sempre pronte a ritornare in azione. Oppure, può verificarsi che gli agenti responsabili della tigna sviluppino delle forme di resistenza ai principi attivi contenuti nei farmaci (Martinez-Rossi et al, 2008).

Il trattamento convenzionale prevede generalmente una terapia a più livelli: topico, sistemico e ambientale (Moriello, 2004).

Il trattamento locale della cute e del pelo può essere sufficiente nei casi in cui è presente una sola lesione o nei casi di kerion (Carlotti, 1996): in presenza di una lesione sospetta, si può ricorrere all’applicazione ad intervalli regolari di un antimicotico in crema, dopo aver tosato la parte interessata e la sua immediata periferia.

Se correttamente eseguita, la tosatura impedirà l’estendersi della colonizzazione.

Qualora si trattasse di un gatto a pelo lungo, sarebbe opportuno che la tosatura fosse completa, anche se ciò, irritando la pelle e stimolando il gatto a leccarsi, può causare un peggioramento temporaneo delle lesioni, con diffusione delle spore e comparsa di dermatite miliare (Moriello e DeBoer, 1995). I vantaggi comunque superano questi inconvenienti momentanei: con la tosatura completa viene rimosso meccanicamente un gran numero di spore e si riduce quindi il rischio di contaminazione ambientale, inoltre si facilita l’applicazione sulla cute dei prodotti topici.

Nel caso di lesioni multifocali è più opportuno un trattamento topico generalizzato con shampoo e/o spugnature.

In base agli studi condotti, i migliori risultati ottenuti con il trattamento topico generalizzato si devono a tre principi attivi: solfuro di lime, enilconazolo e miconazolo (Moriello e DeBoer, 1995;

Moriello e Verbrugge, 2007); tuttavia, la terapia topica come monoterapia è considerata fortemente inadeguata perché la contaminazione fungina viene aggredita solo a livello esterno, del pelo e dell’epidermide, mentre le spore possono ancora proliferare a livello perifollicolare. È dunque necessario associare anche un trattamento sistemico che, entrando in circolo, è efficace nel contrastare la sopravvivenza dei miceti sulla parte del pelo non emergente (Sparkes et al., 2000).

Brevemente sono riportati i principi attivi maggiormente utilizzati per la terapia topica:

 imidazolici: svolgono la loro azione antimicotica inducendo alterazioni irreversibili a livello della membrana citoplasmatica del fungo inibendo la sintesi dell’ergosterolo. Tra gli imidazolici usati a livello topico si ricordano l’enilconazolo, il miconazolo, il clotrimazolo, il chetoconazolo e il tiabendazolo (quest’ultimo utilizzato soprattutto per la cura di otiti)

 enilconazolo: il prodotto è registrato soltanto per la specie canina, essendosi dimostrato

epatotossico in particolare per il persiano. Si trova in commercio come concentrato da

diluire in acqua, va applicato con spugnature, prestando attenzione ad evitare che

l’animale si lecchi, poiché la sua ingestione può provocare vomito (Hnilica e Medleau

2002);

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 miconazolo: a causa di un effetto residuale minimo, risulta più efficace se applicato con spugnature, inoltre è spesso associato alla clorexidina, che ne potenzia l’azione (Paterson, 1999; Perrins e Bond, 2003). Lo shampoo, data la possibilità di disperdere le spore e la potenziale irritabilità cutanea, richiede particolari accortezze, come evitare lo sfregamento e l’asciugatura del manto;

 clotrimazolo: approvato solo per uso umano, ha dimostrato un ampio spettro di azione antimicotica sia in vitro che in vivo, causando la rottura degli acidi nucleici. Non sono sufficientemente noti i suoi effetti tossici sulla cute del gatto, che tuttavia può presentare irritazioni da contatto;

 chetoconazolo: tra le prime sostanze antifungine commercializzate ad uso orale, ha manifestato elevata tossicità epatica e ne è stata, per questo motivo, raccomandata la sospensione della vendita. Il suo uso dermatologico, sotto forma di shampoo, è invece ancora frequente, dato lo scarso assorbimento attraverso la cute.

 solfuro di lime: le soluzioni ottenute con il solfuro di lime agiscono provocando la distruzione della cheratina e il disfacimento dello strato corneo (Diesel et al., 2010) però colorano il pelo di bianco e rendono la pelle giallastra, ha un odore sgradevole e può provocare ulcerazioni orali; per questo è poco utilizzato. Applicate sulla cute due volte al giorno, svolgono azione battericida e fungicida, oltre ad una funzione antisettica (White- Weithers e Medleau, 1995). L’ingestione del solfuro di lime causa vomito e lieve depressione, quindi occorre evitare che il gatto si lecchi (Newbury et al., 2007).

 clorexidina: biguanide sintetico con un ampio spettro d’azione antibatterico ed antifungino.

Agisce sulle membrane citoplasmatiche causando la precipitazione di costituenti cellulari e l’inibizione dell’ATP. La sua attività non è inibita dalla presenza di materiale organico.

Utilizzata come unico trattamento si è mostrata inefficace verso i dermatofiti (Moriello, 1996)

 soluzioni di iodopovidone: queste soluzioni ossidanti a rilascio lento di iodio denaturano le molecole e quindi hanno un’azione antisettica ad ampio spettro (Piérard et al., 1997).

La terapia sistemica, associata a quella topica, è giustificata dalla necessità di aggredire il fungo che prolifera a livello cutaneo e del pelo, per eradicare completamente la micosi.

Infatti, per ottenere la negativizzazione colturale, le spore devono essere attaccate sia dall’esterno (pelo e cute), sia dall’interno (zona follicolare), sebbene la completa certezza di avere eliminato il pericolo di reinfezione e di trasmissione all’uomo si abbia solo accompagnando le due terapie (topica e sistemica) con un adeguato trattamento decontaminante dell’ambiente in cui vivono il gatto e i suoi proprietari (Moriello e DeBoer, 1995; Sparkes et al., 2000). Tuttavia, il rischio di reinfezione non è in ogni caso scongiurato finché le spore circolano nell’ambiente.

I principi attivi maggiormente utilizzati per la terapia sistemica sono alcuni farmaci imidazolici, la

griseofulvina e la terbinafina.

(11)

 Imidazoli: anche quando sono assunti per via orale giungono al follicolo pilifero attraverso la circolazione del sangue, la loro azione antimicotica si svolge con la disgregazione della membrana citoplasmatica del fungo.

 chetoconazolo: insolubile in acqua e più attivo in ambiente acido, deve essere somministrato con il pasto; tuttavia, il suo uso necessita di costante controllo perché risulta essere il più tossico dei farmaci attualmente in commercio (Heit e Riviere, 1995). In particolare, la sua tossicità risulta maggiore nei gatti, per i quali se ne sconsiglia l’utilizzo. In conseguenza del suo uso si evidenziano, infatti: vomito, anoressia, galattorrea, cataratta e schiarimento del pelo, dovuti all’elevata epatotossicità e alterazioni a carico dell’apparato digerente, dei globuli rossi e delle piastrine. A seguito della somministrazione del chetoconazolo, inoltre, il fegato riduce la sua capacità di degradare molti altri farmaci, che di conseguenza risultano meno efficaci e più tossici (Medleau e Chalmers, 1992). I livelli terapeutici del chetoconazolo si mantengono per almeno 10 giorni dalla somministrazione: ciò permette di trattare i soggetti per periodi più brevi, in genere per almeno un mese, ad un dosaggio di 5-10 mg/kg/die.

 itraconazolo: attualmente rappresenta il farmaco di prima scelta nelle dermatofitosi del

gatto. Ha un amplissimo spettro di azione, risultando efficace non solo in tutte le

infezioni causate da Microsporum spp. e di Tricophyton spp., ma anche nei confronti di

numerosissime altre specie di lieviti e funghi, tranne che per il Phylum Zygomycetes. A

differenza del chetoconazolo, presenta una maggiore specificità di azione perché si

lega al citocromo P450 fungino più velocemente di quanto si leghi a quello dei

mammiferi. Il citocromo P450 è deputato alla sintesi degli enzimi che portano alla

formazione dell’ergosterolo, principale componente lipidica della membrana del fungo

e, negli organismi superiori, indispensabile meccanismo di innesco dell’attività

detossificante nei riguardi dei farmaci (Corazza et al., 1998). La tossicità

dell’itraconazolo a livello epatico, tuttavia, può essere ulteriormente ridotta, in un

animale piccolo come il gatto, con somministrazioni a settimane alterne,

considerandone la particolare farmacocinetica: la sua eliminazione a livello plasmatico

non supera la durata di un giorno e mezzo, mentre nello strato corneo, venendo

eliminato lentamente con la produzione sebacea e la sua efficacia si esplica ancora per

circa quattro settimane. La sua azione, inoltre, ostacola l’adesione delle spore ai

cheratinociti, interferendo in tal modo con l’instaurarsi dell’infezione micotica

(DeBoer e Moriello, 1995). Essendo liposolubile, è consigliata la somministrazione

durante o dopo i pasti, possibilmente insieme ad alimenti grassi; inoltre il suo

assorbimento è pH-dipendente, quindi è favorito dall’acidità dei succhi gastrici. Una

volta metabolizzato nel fegato, questo farmaco viene eliminato per oltre il 50%

(12)

nell’arco di una settimana attraverso le feci e le urine, mentre la parte rimanente viene espulsa in maniera graduale attraverso la pelle. In particolare, si è rilevato che 5 mg/kg die rappresentino la dose minima (con percentuali di guarigione del 63%) e che 10 mg/kg die sia la soglia massima (con percentuali di guarigione del 97%) per garantire l’efficacia massima del trattamento con il minimo rischio di effetti collaterali (Mancianti et al., 1998). La durata della terapia è controversa: si raccomandano almeno 4 settimane e sono state riscontrati successi anche con terapie a giorni o settimane alterne (pulse-therapy). È l’unico antimicotico per uso sistemico registrato per l’utilizzo veterinario in Italia.

griseofulvina: è attiva nei confronti di numerose specie di Microsporum spp e di Tricophyton spp, esercitando una specifica azione inibente sugli acidi nucleici e agendo sui microtubuli del fuso mitotico, con conseguente blocco della divisione cellulare durante la metafase, ha perciò un’azione fungistatica, in quanto agisce sulle cellule in fase proliferativa (McNall, 1960). Negli ultimi anni è stata soppiantata dall’itraconazolo, meno tossico, cosicché attualmente essa viene utilizzata solo in caso di micosi che non rispondono positivamente agli altri trattamenti. Trattandosi di una molecola teratogena, è assolutamente controindicata nei primi due terzi di gravidanza e nelle prime 6-7 settimane di vita inoltre può dare gravi forme di anemia aplastica nel gatto, per questo motivo nei gatti FIV positivi si prevede un monitoraggio periodico (Carlotti, 1996). Una volta assunto il farmaco viene metabolizzato a livello epatico, raggiungendo lo strato corneo in circa 8 ore sia per diffusione passiva che per escrezione attiva da parte delle ghiandole apocrine. Qui rimane da 36 a 72 ore, legato alla cheratina che risulta, quindi, resistente all’invasione fungina (Gupta et al, 1994;

Hill et al, 1995). Data questa breve durata dell’effetto fungistatico la griseofulvina necessita di somministrazioni quotidiane, fino al ricambio totale dell’epidermide. Una volta che la terapia viene interrotta, i livelli dell’antibiotico nello strato corneo diminuiscono in due o tre giorni. Inoltre, poiché nell’animale essa viene metabolizzata più velocemente che nell’uomo e considerando la sua breve emivita, essa deve essere somministrata in due o più dosi giornaliere, in genere si consiglia un tempo di somministrazione di 5-6 settimane ad un dosaggio di 40-50 mg/kg/die (Moriello e DeBoer, 1995).

Tra gli effetti collaterali: irritazione gastrointestinale, nausea e vomito (dovuta anche al suo sapore amaro e sgradevole), diarrea, anoressia. Correlati all’assunzione della griseofulvina vi sono anche altri effetti dannosi, alcuni temporanei, che cessano con la sospensione del farmaco, altri permanenti e irreversibili. Tra i primi: depressione, anemia, trombocitopenia, leucopenia e prurito con esfoliazione cutanea; tra i secondi l'atassia (Helton et al., 1986).

La griseofulvina, essendo poco idrosolubile, non viene assorbita adeguatamente dalla parete

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intestinale, quindi è preferibile associarne la somministrazione ad alimenti ricchi di grassi che ne favoriscono la solubilità e ne riducono l’azione irritativa a livello gastroenterico (DeBoer e Moriello, 1995).

 terbinafina: è un’allilamina registrata per il trattamento sistemico di numerose dermatomicosi umane. Lo studio sugli animali da affezione necessita di approfondimenti, specie in considerazione del fatto che vi è in essi una forte variabilità nell’assorbimento (da 20 a 90 %). È il più recente antifungino testato nel gatto, nel quale ha dimostrato una buona efficacia anche in sostituzione dell’itraconazolo nella terapia pulsatile o a cicli (Chen, 2000).

Anche questo principio attivo esplica la sua azione a livello di ergosterolo, inibendo la biosintesi dello squalene epossidasi, catalizzatore della conversione dello squalene a squalene 2,3 epossido;

esso, però, si rivela più selettivo rispetto agli altri antimicotici perché non inibisce il citocromo P450. Ciò lo rende meno tossico ed è pensabile che il suo utilizzo si incrementi nel tempo, considerando che a terapia ultimata è possibile rinvenirlo nello strato corneo in concentrazioni ottimali per ancora 50 giorni. La durata del trattamento è di due-tre settimane, con dosaggi di 30 mg/kg/die (Mancianti et al., 1999), anche se si è appurata l’efficacia del farmaco somministrato a giorni alterni.

Anche questa molecola è lipofila e cheratinofila, quindi espleta la sua azione a livello follicolare attraverso il sebo. Tra gli effetti collaterali evidenziati vi sono: vomito, nausea, anoressia e manifestazioni cutanee (Guillot e Chermette, 1997), mentre non sono state rilevate né teratogenicità, né tossicità per i feti (Scott et al., 1975). La dose efficace è di 20-40mg/kg da somministrare giornalmente o in maniera pulsatile (Kotnik e Černe, 2006).

Il farmaco non registrato in medicina veterinaria.

Dopo l’inizio della terapia con trattamento sistemico ed eventualmente anche topico devono essere effettuati controlli sull’animale ogni una o due settimane attraverso l’esame colturale. La terapia dovrebbe essere proseguita fino a che non si ottengono due o tre controlli consecutivi negativi (Moriello, 2004).

Dal momento che, come già detto, le spore fungine persistono nell’ambiente per un tempo anche

superiore ad un anno, nessuna terapia topica e sistemica risulta veramente capace di scongiurare il

rischio di reinfezione per l’animale e per l’uomo, se non si procede contemporaneamente anche ad

una efficace sanificazione dell’ambiente che eviti nuove esposizioni. A questo scopo, occorre

prioritariamente isolare i soggetti infetti e limitari gli spazi a cui hanno accesso; tanto più, se si

considera che le spore sono estremamente mobili a causa della loro leggerezza sono trasportate

dall’aria con la polvere e si depositano all’interno delle fibre dei tessuti domestici: ciò impone un

adeguato intervento di bonifica; se non effettuato o condotto impropriamente, è causa di sicuro

fallimento terapeutico (Marchetti et al., 2006). Il trattamento ideale quindi dovrebbe comprendere

sia la terapia sistemica dell’animale, che si suppone agevoli una più rapida risoluzione

(14)

dell’infezione, sia la terapia topica, che riduce il rischio di trasmissione e la contaminazione ambientale, e contemporaneamente la decontaminazione dell’ambiente dalle artrospore (Mancianti et al., 2003; Chermette et al., 2008). I prodotti in grado di eliminare le spore micotiche sono a base di ipoclorito di sodio, glutaraldeide, cloruro di benzalconio e formalina all’1%, soluzione di enilconazolo (10 μg/ml) da nebulizzare di cui esistono in commercio anche prodotti pronti all’uso, (Mancianti et al., 2004), gli altri detergenti comuni come la clorexidina o prodotti a base di perossido d’idrogeno non sono molto efficaci contro le spore (Bagcigil et al., 2010, Mancianti e Papini, 1996).

Tali sostanze con provata azione antimicotica però, sono tossiche per gli animali e inoltre possono logorare le superfici con l’uso oltre a macchiare tessuti, legno o altri materiali più delicati presenti in casa (Mancianti et al., 2004).

Sono presenti in commercio alcuni disinfettanti non tossici -Steramina G u.v.

®

(Formenti) e Virkon-S

®

(Gellini)- che possono essere usati tranquillamente nell’ambiente o, se diluiti, direttamente sull’animale (Marchetti et al., 2006).

La Steramina G u.v.

®

è una soluzione al 10% di alchildimetilbenzilammonio cloruro, un sale quaternario d’ammonio, con proprietà detergenti e un forte potere tensioattivo che favorisce la formazione di schiuma utile per la pulizia delle superfici. Può essere inattivato da residui di detergenti anionici e residui organici, ma si conserva a lungo e resiste anche alle alte temperature.

Come tutti i sali quaternari d’ammonio risulta molto attivo su batteri Gram positivi e sui miceti distruggendo la membrana cellulare, coagulando le proteine e inibendo il metabolismo dei batteri e ha azione cheratolitica per cui penetra bene anche nell’epidermide. Tale soluzione non è tossica né irritante per i tessuti (Marchetti et al., 2006). Il Virkon-S

®

è un disinfettante composto da diversi principi attivi che ha proprietà battericide contro sia Gram positivi che negativi, antimicotiche e agisce anche su molti virus di importanza veterinaria come Herpesvirus, Parvovirus, Paramixovirus e Adenovirus. Ha un’azione detergente rilevante, non è tossico né irritante ed è biodegradabile. Rispetto alla Steramina G questo prodotto è un antimicotico meno efficace ma risulta sempre un buon disinfettante per il suo ampio spettro d’azione e la sicurezza d’uso sui diversi materiali compreso i tessuti vivi (Marchetti et al., 2006).

L’enilconazolo, antifungino comunemente usato per il trattamento topico dell’animale in forma di

shampoo o liquido per bagni e spugnature, ha azione antimicotica anche sotto forma di vapore; è

stato commercializzato in formulazione spray -Clinafarm

®

Spray- da diluire in soluzione al 15%, e

in formulazione di candelette fumiganti -Clinafarm

®

Smoke- (Mancianti et al., 2004). Il Clinafarm

®

Spray viene utilizzato con nebulizzazioni ripetute in ambienti casalinghi, gattili, canili, allevamenti

e su attrezzature, non è tossico per gli animali né corrosivo, può essere usato in emulsione con sali

quaternari d’ammonio, formaldeide o perossido di idrogeno per aumentarne l’efficacia ma tale

emulsione potrebbe causare allergie e non è consigliato usarla direttamente su superfici delicate

(Mancianti et al., 2004). Il Clinafarm

®

Smoke è una candela fumigante da utilizzare in ambienti

tenuti chiusi per 12 ore affinché il principio attivo agisca ovunque, e poi areati prima di essere

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frequentati di nuovo da animali e uomini, in quanto l’inalazione accidentale non è tossica ma può creare irritazione e depositarsi su cibo, bevande o mangimi animali.

Prove effettuate con queste formulazioni direttamente sulle artrospore di M.canis presenti sul pelo infetto e sul micelio hanno dimostrato l’efficacia su entrambi (Mancianti et al., 2004).

Il protocollo di decontaminazione ambientale proposto nei confronti di infestazioni da M. canis prevede (Moriello, 2003):

 lavare in lavatrice ad alte temperature tutto ciò che può essere lavato (tende, tappeti, copriletti, coperte, cuscini, vestiti) e non utilizzarlo fino a guarigione dell’animale

 utilizzare dove possibile una macchina a diffusione di vapore acqueo (100 °C) con l’aggiunta di una soluzione disinfettante per pulire le superfici

 utilizzare su tutte le superfici non lavabili un aspirapolvere con accessori facilmente disinfettabili e cambiare il sacchetto raccoglitore dopo ogni utilizzo

 disinfettare dove possibile con ipoclorito di sodio (lasciando la soluzione a contatto con le superfici per almeno 10 minuti prima di risciacquare) o con enilconazolo diluito

 pulire con appositi disinfettanti condizionatori d’aria, bocche d’areazione ed eventuali filtri presenti nell’ambiente

 utilizzare panni elettrostatici per rimuovere la polvere da tutte le superfici

 eliminare tutto ciò che non può essere decontaminato

Quando si inizia un trattamento contro la dermatofitosi felina è necessario seguire correttamente il protocollo per assicurarsi buoni margini di successo. È utile ricordare che terapie interrotte o a dosi insufficienti rischiano di favorire la crescita dei ceppi più resistenti: studi condotti sulle colture in vitro evidenziano che nonostante una bassa frequenza di mutazione genica, il costante utilizzo di agenti antimicotici possa dar luogo a selezione di eventuali ceppi resistenti che diventeranno predominanti nella popolazione (Martinez-Rossi et al, 2008).

Tra i motivi che potrebbero indurre a interrompere il trattamento vi sono: l’alto costo di alcuni farmaci antimicotici e la durata e la complessità della terapia, che non può dirsi conclusa se non si ottiene la negativizzazione colturale per almeno due volte consecutive a distanza di 1-3 settimane (Frymus et al., 2013).

Le principali cause di fallimento terapeutico, quindi, sono rappresentate da:

 diagnosi non corretta, evento che solitamente avviene se si formula la diagnosi solo basandosi sull’aspetto clinico, senza effettuare una coltura micotica;

 reinfezione, spesso segnalata in gatti esposti ad un ambiente contaminato o ad altri gatti infetti non trattati, ma con sintomatologia subclinica o asintomatici semplicemente vettori meccanici delle spore;

 decontaminazione ambientale non effettuata o condotta impropriamente;

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 resistenza del microrganismo, solitamente dovuta a dosi di farmaci non corrette e a mancata somministrazione;

 impossibilità di gestire la terapia su soggetti conviventi;

 patologie concomitanti immunosoppressive o debilitanti o che non permettano la somministrazione dei farmaci specifici (es. insufficienza renale cronica, diabete mellito, ipertiroidismo, neoplasie, FIV o FeLV);

 mancata tosatura in gatti a pelo lungo o con dermatofitosi generalizzata

Qualora si sia in presenza di un consistente numero di gatti (allevamenti o gattili), è assolutamente necessario trattare tutti gli animali (Carlotti et al, 2010; Moriello, 2003).

Sebbene un notevole successo sia stato ottenuto nell’uso profilattico o terapeutico con vaccini anti- dermatofiti nel bestiame e negli animali da pelliccia (Lund e DeBoer, 2008), la comunità scientifica è ancora alla ricerca di una terapia vaccinale che possa prevenire lo sviluppo di dermatofitosi nel gatto. Infatti, ciò di cui si dispone, ancora al presente, è una vaccinazione adiuvante alla terapia convenzionale, alla tosatura e alla bonifica ambientale: si tratta di vaccini costituiti per la maggior parte da ceppi fungini inattivati (Moriello, 2004). L’uso di questo vaccino, tuttavia, ha dimostrato una riduzione della gravità dei sintomi nelle fasi iniziali dell’infezione, ma non la protezione dall’infezione: possiedono infatti una parziale o nulla efficacia immunizzante, specialmente se confrontata con quella residuata da infezioni naturali, e la durata della protezione ottenuta è scarsa.

Inoltre alcuni animali vaccinati sviluppavano comunque un’infezione, mettendo a rischio di

contagio gli animali e persone (Moriello, 2003; Westhoff et al., 2010).

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DERMATOFITI IN MEDICINA UMANA: CENNI

Il termine tigna identifica un’infezione dermatofitica dovuta all’azione patogena di dermatofiti, il più frequente dei quali è, tra gli animali domestici, il M. canis (Guillot e Chermette, 1997).

Nell’uomo la tigna può essere causata da diversi dermatofiti: antropofili quali Trichophyton rubrum, Epidermophyton floccosum, Trichophyton mentagrophytes var. interdigitale e Trichophyton tonsurans; zoofili come Microsporum canis e Trichophyton mentagrophytes, sempre più spesso si verificano casi di contagio da parte di animali e addirittura di geofili come Microsporum gypseum.

Clinicamente nell’uomo la tigna si può presentare con diverse forme distinte in base alle parti del corpo colpite e lesionate, siano esse le parti glabre della pelle (lesioni infiammatorie caratteristiche ad anello “ringworm” con eritema e scaglie) che i capelli o i peli (diradamento o alopecia). Quindi si possono distinguere rispettivamente: tinea pedis, dove si presentano lesioni a livello dei piedi, tinea unguium una forma di onicomicosi che colpisce le unghie, tinea corporis, lesioni sulla pelle glabra di tutto il corpo, tinea manuum, tinea faciei e tinea capitis che colpisce lo scalpo e i capelli mentre tinea barbae, i peli della barba (Hainer, 2003). M.canis è causa sempre più frequente di forme di tinea capitis insieme al T. mentagrophytes zoofilo, mentre nei casi di tinea pedis sono ancora comuni gli isolamenti di T. rubrum oltre a T. mentagrophytes (Seebacher et al., 2008).

I soggetti più colpiti sono bambini, anziani e immunodepressi (Seebacher et al., 2008).

La tinea capitis è una delle più frequenti forme cliniche con cui si può manifestare la dermatofitosi nell’uomo, si ha quando viene colpito lo scalpo (Seebacher et al., 2007).

Il trattamento in questi casi prevede una terapia sistemica per os accompagnata da una terapia topica. Quest’ultima è utile soprattutto nelle micosi causate da dermatofiti ectothrix come M. canis le cui spore si localizzano solo sulla superficie esterna del capello.

Nel bambino, spesso colpito da tinea capitis, risulta più difficile risolvere una micosi causata da dermatofiti endothrix le cui spore si localizzano all’interno della struttura del capello, in quanto non tutti i farmaci per uso sistemico sono utilizzabili (Andrews e Burns, 2008; Aste et al., 1997;

Romano et al., 2001).

Quindi la diagnosi e l’identificazione dell’agente micotico risultano sempre necessarie e

fondamentali per instaurare una terapia adatta.

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MALASSEZIA

I lieviti del genere Malassezia fanno parte dell'ordine Malasseziales, famiglia Cryptococcaceae, classe Exobasidiomycetes, subphylum Ustilaginomycotina, phylum Basidiomycota. Ad oggi sono conosciute 13 specie lipido-dipendenti (M. caprae, M. cuniculi, M. dermatis, M. equina, M. furfur, M. globosa, M. japonica, M. nana, M. obtusa, M. restricta, M. slooffiae, M. sympodialis, M.

yamatoensis) e una sola specie, M. pachydermatis, che non ha la necessità di aggiunte lipidiche al terreno di crescita (Cabañes et al., 2007; Cabañes et al. 2011; Guèho et al.,1996; Hirai et al., 2004;

Nell et al., 2002; Sugita et al., 2002; Sugita et al., 2003; Sugita et al., 2004).

L'habitat naturale di questi lieviti è rappresentato dalla cute su cui si trovano fisiologicamente in numero ridotto sulla superficie e sullo spessore dello strato corneo di molti mammiferi domestici e selvatici, uccelli e dell'uomo (Salkin et al., 1980; Guillot et al., 1994; Guillot et al., 1998; Midgley e Calyton 1969). Generalmente si ritrova come saprofita, ma in particolari condizioni può diventare responsabile di varie patologie dermatologiche e forme invasive in medicina umana; tra i fattori coinvolti nel passaggio da lievito commensale a patogeno sono da includere problemi di cheratinizzazione, alterazioni del normale microclima cutaneo, intolleranze alimentari, allergie, presenza di ectoparassiti, piodermite batterica, endocrinopatie (ipotiroidismo, diabete mellito e iperadrenocorticismo) e abbassamento delle difese immunitarie che creano le condizioni ottimali per un aumento della crescita che a sua volta infiamma i tessuti e determina dermatiti ed otiti (Bond e Lloyd, 1997; Chen e Hill, 2005; Guaguère e Prélaud, 1996; Oliveira et al., 2008).

MALASSEZIA PACHYDERMATIS NEL CANE

EPIDEMIOLOGIA, PATOGENESI, SEGNI CLINICI, DIAGNOSI E TRATTAMENTO Malassezia pachydermatis è una tra le cause più comuni di dermatite e otite nel cane.

È stata isolata per la prima volta dalle scaglie cutanee di un rinoceronte indiano (Rhinoceros unicornis) con dermatite esfoliativa generalizzata (Weidman et al., 1925) e negli anni 50 studi condotti in Svezia hanno evidenziato il suo ruolo nell'insorgenza dell'otite esterna nel cane (Gustafson et al., 1955), comunque la risposta agli antifungini in cani con otite esterna dimostra che il lievito agisce da patogeno opportunista di irruzione secondaria (Gedek et al., 1979; Uchida et al., 1994). La sua presenza nella cute dei cani è fisiologica, in quanto saprofita (Girao et al., 2006), ma prende il sopravvento in seguito ad alterazioni del microclima cutaneo, in condizioni di immunodepressione e difetti primari della cheratinizzazione: questo spiega il prevalere della Malassezia nei soggetti con dermatite atopica ed intertrigine (Guillot et al., 2008; Bond, 2010).

Il principale cambiamento microclimatico è legato alla scarsa ventilazione che determina l'aumento dell'umidità relativa cutanea, soprattutto a livello dei cuscinetti ungueali e del condotto uditivo, con conseguente proliferazione dei lieviti (Plant et al., 1992; Guaguère e Prélaud, 1996).

Sembra che un fattore predisponente per l'insorgenza delle patologie indotte da M. pachydermatis

sia la fisiologia cutanea, composizione lipidica e pH (Masuda et al., 2000), che caratterizza alcune

razze considerate ad alto rischio: Basset Hound, Bracco Tedesco, West Higland White Terrier,

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Setter Inglese, Shih-tzu, Cocker Spaniel americano ed inglese, Beagle, Cairn Terrier, Boxer e Pastore Tedesco, Lhasa Apso, Maltese, Barboncino nano, Pastore delle Shetland, Weimaraner, Chihuahua, Collie, Schnauzer nano, Cavalier King Charles Spaniel, Jack Russel, Shar-pei (Bond et al., 1996; Chen e Hill, 2005; Guaguère e Prélaud, 1996). Molti studi sono stati effettuati sui cani di razza Basset Hound: in animali sani frequenza di isolamento e densità di popolazione di Malassezia sono risultate significativamente più elevate rispetto a cani sani di altre razze; i motivi potrebbero essere ascrivibili a deficit primari della cheratinizzazione che determinano eritema ed essudato seborroico (Bond e Lloyd, 1997); nei cani di razza West Highland White Terrier vi è una predisposizione genetica all’infezione verosimilmente per un deficit di risposta dei linfociti T e per un difetto genetico della cheratinizzazione epidermica (sindrome displastica epidermica), che condiziona l’insorgenza di una grave dermatite seborroica (Galuppi e Tampieri, 2008).

I siti cutanei dove M. pachydermatis viene isolata più frequentemente sono il canale auricolare esterno, la regione perineale e l'ano, la regione periorale, gli spazi interdigitali e ungueali, l'inguine, le ascelle, il torace e l'addome (Brito et al., 2009; Cafarchia et al., 2005; Nardoni et al., 2004;

Nardoni et al., 2007; Yurayart et al., 2011).

Per quanto riguarda le otiti, la crescita di Malassezia sembra favorita da accumulo eccessivo di materiale ceruminoso che fornirebbe elementi nutritivi e fattori di crescita per il lievito con trasformazione da commensale a patogeno; inoltre a differenza del cerume umano che possiede attività micostatica, il cerume canino sembra favorire la proliferazione dei lieviti (Gabal, 1988;

Prado et al., 2008; Zur et al, 2011).

Lo sviluppo fungino sarebbe inoltre favorito da una combinazione di fattori morfologici dell'orecchio (orecchie pendule e pelose), ed esacerbata da allergie e flogosi, determinando un ambiente umido, ricco di lipidi e stagnante nel meato esterno (Griffin et al., 2007; Masuda et al., 2000; Saridomichelakis et al., 2007).

Il potenziale patogeno di M. pachydermatis si esprime attraverso la produzione di una vasta serie di metaboliti ed enzimi sia in vivo che in vitro; tra questi si ricordano le fosfolipasi, in grado di aggredire i tessuti cellulari danneggiandoli e favorendo l'ingresso dei microrganismi (Cafarchia e Otranto, 2004; Cafarchia et al., 2007); inoltre questi enzimi sono in grado di far rilasciare al tessuto acido arachidonico e perossidi che esacerbano il processo flogistico alterando il pH cutaneo ed attivando il complemento con conseguente infiammazione e prurito (Ashbee e Evans, 2002;

Cafarchia et al., 2008). Altri enzimi prodotti sono lipasi, proteinasi (mediatori del prurito), ialuronidasi e condroitin sulfatasi; quest'ultimo agisce sul tessuto connettivo danneggiandolo e favorendo la penetrazione dei microrganismi nei tessuti (Bond e Lloyd, 1996; Bond e Lloyd, 1998;

Coutinho e Paula, 2000).

L'ospite reagisce al processo flogistico acuto soprattutto tramite l'immunità cellulomediata: cellule

di Langerhans, dendrociti, linfociti T e mastcell (Ǻkerstedt e Vollset, 1996). Le cellule T sono

richieste sia per attivare i macrofagi, che determinano la distruzione intracellulare del fungo, che

per l'induzione della risposta che conduce ad iperplasia dello strato epiteliale ed aumento della

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cheratinizzazione, entrambe necessarie per rimuovere i funghi dallo strato superficiale cutaneo (Bond et al., 1998: Cafarchia e Otranto, 2008; Faergemann, 2002). La reazione immunitaria è responsabile della risposta infiammatoria della cute e della comparsa dei sintomi clinici.

La presenza di immunoglobuline E ai test intradermici, test ELISA e Western Immunoblotting indica che l'ipersensibilità agli allergeni derivati da Malassezia può essere importante nella patogenesi della malattia in alcuni cani in maniera analoga a quanto riportato per la dermatite atopica dell'uomo (Ashbee, 2006; Bond et al., 2002; Chen et al., 2002). Comunque, poiché le dermatiti da Malassezia sono manifeste anche in assenza di ipersensibilità al lievito, la terapia immunomediata da sola non può sostituire la terapia antifungina in quei cani con un elevato numero di lieviti nelle lesioni cutanee.

I segni clinici della dermatite da Malassezia nel cane sono caratterizzati da lesioni tipicamente eritematose, squamose ed alopeciche; in fase cronica si ha iperpigmentazone, lichenificazione e seborrea maleodorante. Nei cani atopici è segnalata una paronichia e pododermatite da Malassezia caratterizzata da colorazione marrone-rossastra delle unghie e del pelo delle zampe. Il prurito rappresenta uno dei segni più rilevanti e presenti con maggior frequenza, accompagnato da eritema, seborrea, aree cutanee untuose o cerose, squame e croste e spesso la cute lesa emana un odore sgradevole rancido.

Gli animali con sindrome cronica sono ricoperti di materiale untuoso, quasi del tutto alopecici, con lesioni lichenoidi e iperpigmentati. Vi è anche una forma secca dell’infezione, caratterizzata da scaglie giallastre e cerose, localizzata più spesso all’ingresso dell’orecchio e negli spazi interdigitali, area ventrale del collo, piatto delle cosce, ascelle e regione perineale. Le caratteristiche principali, invece, dell’otite da Malassezia sono un forte prurito con eritema del canale auricolare esterno e della pinna accompagnato da abbondante essudato ceruminoso giallo- brunastro maleodorante; nelle otiti croniche può essere presente stenosi, infezioni batteriche concomitanti o otite media (Bernardo et al., 1998).

I reperti istologici più significativi sono i seguenti: iperplasia epidermica rilevante di tipo irregolare, con formazione di spesse creste epidermiche assai sviluppate in profondità, ipercheratosi con croste paracheratosiche e siero cellulari contenenti batteri e miceti, spongiosi, exocitosi diffusa di linfociti nell’epidermide e nell’infundibolo, dermatite superficiale da perivasale a interstiziale con linfociti, istiociti, plasmacellule, addensamenti di neutrofili ed alcuni eosinofili (Bond et al., 2004).

Il reperto di maggior valore diagnostico è la presenza di miceti negli osti follicolari ipercheratosici.

É stato dimostrato che Malassezia non aderisce direttamente alle cellule corneificate, ma resta in prossimità di queste, dove sono presenti molte sostanze lipidiche; questo suggerisce che la patogenicità del lievito è mediata dalla presenza di lipidi (Masuda et al., 2001).

La diagnosi di dermatite da Malassezia può essere fatta agevolmente su preparazioni

citologiche,tenendo ben presenti i dati anamnestici e l'esame clinico, e confermata con esami

colturali e istopatologici.

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L'esame citologico rappresenta il metodo più rapido e semplice ed è utilizzato nella pratica clinica per diagnosticare le diverse forme di malasseziosi nelle diverse sedi cutanee; può essere effettuato per impressione diretta su vetrino, con tamponi di cotone sterili, raschiati cutanei superficiali, o tramite nastro adesivo (Omodo-Eluk et al., 2003): la scelta della metodica è affidata all'operatore;

comunque generalmente in caso di otite si utilizzano tamponi sterili, mentre di fronte alle dermatiti si possono effettuare raschiati cutanei o utilizzare il nastro adesivo (specialmente tra le dita o su aree secche o untuose) per raccogliere il materiale (Guillot e Bond, 1999), mentre l'impressione diretta su vetrino è utilizzata su lesioni piatte (Chen e Hill, 2005).

Il materiale ottenuto può essere posto su vetrino e trattato con le normali colorazioni citplogiche:Wright modificata (DiffQuick

®

), nuovo Blu di Metilene, Giemsa ed esaminato al microscopio a 100, 400 e 1000X (Ginel et al., 2002). Bisogna ricordare che la popolazione di Malassezia sia suscettibile di variazioni a seconda della razza e della sede cutanea in cui è stato effettuato il prelievo: il sospetto di infezione è comunque fondato quando si identificano più di due microrganismi per campo microscopico a 400X (Mauldin et al., 1997; Nardoni et al. 2008).

Il trattamento convenzionale generalmente prevede l'utilizzo di sostanze antimicotiche per via topica, spesso presenti in commercio come shampoo, lozioni, spray (Charach, 1997; Peano e Gallo, 2008):

 Econazolo: derivato imidazolico che inibisce la sintesi dell’ergosterolo ,un componente essenziale della parete fungina con conseguente alterazione della permeabilità della membrana e dei processi enzimatici. In seguito alla somministrazione topica le concentrazioni più elevate del principio attivo si riscontrano nel punto di applicazione cutanea, principalmente nello strato corneo, per diminuire poi negli strati più profondi (epidermide e derma). L'escrezione della quota assorbita avviene in proporzione equisimile con le urine e le feci.

 Enilconazolo: é un inibitore selettivo della biosintesi dell'ergosterolo, componente essenziale delle molecole celluri di funghi e lieviti, il che comporta cambiamenti irreversibili nei processi enzimatici e di permeabilità della membrana con conseguente inibizione della crescita cellulare.

 Miconazolo e Clotrimazolo: derivati imidazolici, agiscono selettivamente sugli steroli della membrana alterandone così la permeabilità, in particolare sull’ergosterolo e sulla sintesi delle purine, inibendole. Il clotrimazolo viene rapidamente degradato dagli enzimi epatici;

effetti collaterali possono essere rappresentati da eritemi, vesciche, edemi, prurito e orticaria.

Questi antifungini in genere si trovano in formulazioni combinati con molecole ad azione

cheratolitica- acido benzoico e acido salicilico- che contribuiscono a rimuovere parte della

cheratina facilitando il contatto tra principio attivo e micete; o antibiotici e glucocorticoidi al fine di

controllare le infezioni batteriche concomitanti e ridurre lo stato infiammatorio (Bensignor e

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