• Non ci sono risultati.

La sicurezza al lavoro

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La sicurezza al lavoro"

Copied!
27
0
0

Testo completo

(1)

La sicurezza al lavoro

GIORGIO CAVICCHIOLI (

*

)LUCIANA BIANCHERA (

**

)BRUNO VEZZANI (

***

)

Riassunto

Gli autori trattano del tema della sicurezza nell’organizzazione di lavoro a partire da un’esperienza di formazione presso un’azienda che si occupa di costruzioni meccaniche per gli impianti di estrazione petrolifera nel mare. L’esperienza di formazione viene descritta nei suoi aspetti progettuali, di analisi della domanda e del percorso dell’intervento articolato in quattro moduli realizzati nella tarda primavera del 2005. I principali processi e dinamiche vengono descritti in una chiave teorica che si basa sull’approccio psicosociale all’organizzazione. Il tema della sicurezza al lavoro viene così esplorato nei suoi legami con le dimensioni comunicativa, gruppale, ed istituzionale. Il lavoro di formazione si basa sull’utilizzo del setting gruppale per la modificazione della cultura e di alcune dinamiche e processi organizzativi in modo che essi risultino più funzionali alla sicurezza ed alla gestione del rischio nel contesto lavorativo.

L’attenzione viene posta non solo sui livelli interpersonali e gruppali ma anche sugli aspetti istituzionali e comunitari, data la contestualizzazione dell’intervento avvenuto direttamente “sul campo” presso il cantiere operativo dell’azienda in una località costiera della Sardegna.

Parole chiave: formazione, organizzazione, sicurezza, gruppo di lavoro, affidabilità del sistema, comunità di pratiche, condivisione sociale, negoziazione del rischio.

Abstract

* Psicologo, collaboratore quale esperto della materia per l'insegnamento di Teoria e Tecniche della Dinamica di Gruppo nella Facoltà di Psicologia - Università di Padova, formatore e consulente presso istituzioni e organizzazioni pubbliche e private.,

* Counselor, formatrice, Docente al Corso di Laurea per Educatore Professionale \u2013 Facoltà di Medicina di Brescia.,

* Docente di Teoria e Tecnica della Dinamica di Gruppo \u2013 Facoltà di Psicologia Università di Padova, formatore e consulente presso

organizzazioni ed istituzioni pubbliche e private.

(2)

From a training trial developed in a oil company yard in Sardinia, the authors argue about safety in work organisation. This training trial has been actuated in spring time 2005. Here we have a psychosocial representation of the most important processes and dynamics. Safety on work is described on its links with communicational, groupal and institutional dimension. The training work based on group- setting in order to change some processes and aspects of the organisational culture for safety and risk management on the work field.

Concerning the contestualization of the project directly “on field”, not just interpersonal and group levels are considerated but also the communitary and institutional ones.

Key words: training, organisation, safety, group work, system affidability, communities of pratice, social condivision, risk negotiation.

Il percorso di formazione

1

Nell’esperienza di lavoro formativo da noi realizzato ad Arbatax, in Sardegna, presso la Intermare Sarda, alcuni passaggi possono essere descritti come fondamentali per la realizzazione dell’intervento.

All’inizio alcuni di noi hanno incontrato nella sede di Milano alcuni referenti dell’Azienda e da questi incontri di esposizione della richiesta è emerso un primo documento nel quale abbiamo restituito le nostre rappresentazioni e interpretazioni funzionali ad un’analisi della domanda in vista di un intervento formativo sul tema della sicurezza al lavoro.

Attraverso questo documento di primo livello progettuale abbiamo iniziato a stabilire e dare forma ad un vincolo che legasse noi – l’équipe formativa – e loro – l’organizzazione committente, due mondi così lontani che provavano a diventare, temporaneamente, così vicini…

Questo documento, titolato in lingua inglese (“ Psychology in Safety ”) era forse un primo modo, non del tutto consapevole, per avvicinare due realtà così diverse, per tentare in qualche maniera di abbozzare un linguaggio misto, dato che l’assetto culturale dell’organizzazione con cui siamo venuti in contatto era molto saturo di cultura anglofona.

In questi primi contatti, i referenti da noi incontrati ci parlavano delle loro esperienze pregresse di formazione

1 Sezione curata da Giorgio Cavicchioli.

(3)

aziendale, tutte basate su un approccio comportamentista alla sicurezza, non nascondendo il loro forte legame con le grandi multinazionali americane che commissionano il lavoro. Ci hanno descritto l’azienda e la richiesta. Intermare Sarda è un’azienda di Saipem, branca di una grande azienda statale di idrocarburi. Negli ultimi anni l’azienda sarda ha subìto profonde trasformazioni, soprattutto a livello di management e si è evoluta la dimensione della sicurezza, fattore sempre più importante anche ai fini dell’acquisizione delle commesse di lavoro.

Il lavoro viene affidato prevalentemente da grandi multinazionali del petrolio che chiedono all’azienda di costruire ed alloggiare gli enormi tralicci che costituiscono basi di estrazione petrolifera nelle acque marine di tutto il mondo.

Il grande cantiere sul mare, l’ampia officina meccanica e la gigantesca gru, simbolo totemico dell’azienda, si impongono immediatamente alla vista del golfo di Arbatax. Qui, gli operai e gli ingegneri costruiscono i “ jacket ” ed i “ deck ”, rispettivamente la struttura sommersa e la parte emersa delle basi petrolifere marine che poi vengono trasportate da speciali chiatte e posizionate nei mari per la loro opera estrattiva.

L’azienda vuole migliorare il già elevato tasso di sicurezza del cantiere e, dopo aver assunto un sistema di premi e punizioni associato al rispetto di regole comportamentali riguardanti soprattutto l’utilizzo di dispositivi di protezione individuali (DPI), vuole ora lavorare sugli aspetti psicologici e gruppali, in base ad un interesse legato ad alcuni nuovi approcci e filosofie della sicurezza sul lavoro.

Assumendo questi elementi abbiamo quindi iniziato a formulare un’ipotesi guida intorno alla quale organizzare l’intervento formativo: lavorare in sicurezza non è solo un problema di comportamenti e responsabilità individuali ma a tutti gli effetti e fin dall’inizio una questione fondata e legata alla cultura ed al clima organizzativo, alle dinamiche intra ed intergruppali nell’organizzazione.

Si individua come strada privilegiata una formazione rivolta ai

“quadri” ed ai dirigenti intermedi in modo che da essi si possa

diffondere – per il tramite dei processi di identificazione e la

gestione delle leadership associata a questi ruoli – una cultura

del lavoro funzionale agli obiettivi preposti. La formazione avrà

come obiettivi principali la trasmissione e la condivisione di

alcuni concetti e competenze legate ai processi comunicativi e

relazionali nel gruppo di lavoro, da una parte. Dall’altra,

l’apertura di uno spazio di confronto e scambio tra parti

(4)

diverse dell’organizzazione ove sia possibile affrontare in maniera funzionale ed integrata le problematiche legate alla sicurezza.

Ciò dovrebbe avere come risultato nel tempo lo sviluppo di una cultura del lavoro diffusa e condivisa dove la sicurezza si configuri come valore centrale, in grado di orientare il più possibile le identità professionali e gli atteggiamenti individuali e collettivi nella situazione operativa

2

.

Nel documento progettuale realizzato al termine della fase di analisi della domanda abbiamo focalizzato l’obiettivo nella sensibilizzazione dei lavoratori verso un rapporto con il tema della sicurezza nel contesto lavorativo, con il rischio quindi, dove l’agire sia fondamentalmente orientato alla sicurezza.

Abbiamo ritenuto necessario introdurre un concetto di sicurezza psicologica, che ha a che fare con la capacità e la possibilità di identificarsi con il gruppo, il senso di appartenenza e l’assunzione di una disposizione progettuale nel proprio operato. Abbiamo inquadrato il tema della sicurezza non come esito del comportamento individuale che rispetta o non rispetta regole date ma come questione che sta nella dimensione dei rapporti tra le parti produttive. Risulta centrale la cura delle connessioni tra le parti in gioco, dei vincoli tra i soggetti nell’organizzazione. Abbiamo restituito una rappresentazione della sicurezza al lavoro come legata al compito, allo stare con gli altri, allo stare nell’ambiente.

Passato questo primo livello di analisi della domanda abbiamo individuato gli elementi organizzativi e metodologici dell’intervento, cercando di inquadrare in un setting il vincolo che veniva a crearsi tra noi ed i destinatari del progetto formativo.

Il progetto

Quando abbiamo immaginato come organizzare l’intervento formativo si sono fatti avanti i nostri pregiudizi: come in tanti altri casi dove un’organizzazione, un sistema interumano, ci ha chiesto un intervento di formazione, le forme ed i modi che organizzano una metodologia, i pensieri ed i pre-concetti teorici che ci consentono di rappresentarci ed organizzare

2 Schein E., “La consulenza di processo”, Cortina, Milano, 2001; Gagliardi P., (a cura di), “Le imprese come cultura, ISEDI, Torino, 1986.

(5)

quella parte di mondo, ci sono venuti in aiuto. Anche questa volta abbiamo messo alla prova la flessibilità del nostro schema di riferimento, partendo dalle nostre convinzioni, convenzioni o, forse, rigidità

3

.

Il setting d’aula doveva essere adeguato per l’incontro con circa venti soggetti, esponenti di alcune gruppalità interne all’organizzazione; identità sociali della cultura aziendale intorno alle quali sembravano apparire dialettiche e conflittualità presenti nel livello implicito della richiesta che ci veniva posta. Appare così un piccolo gruppo che rappresenta il management interno: project manager della commessa attuale su cui l’azienda lavora, direttore di stabilimento, direttore Servizio Sicurezza e Protezione.

Un secondo gruppo era composto dai capisquadra degli

“operativi”: carpentieri, saldatori, verniciatori, meccanici, addetti alla movimentazione, ecc.; ognuno di essi era leader gerarchico e spesso tecnico di altri operai del settore.

Un terzo gruppo era composto dagli “addetti alla sicurezza”, un piccolo gruppo di giovani ingegneri che insieme compongono il servizio interno di “protezione, prevenzione e sicurezza”.

Quando ricevemmo la lista dei partecipanti al primo modulo dell’intervento, dedicato alla seconda fase di analisi della domanda, scoprimmo che la proposta era stata estesa anche ad un quarto gruppo: i responsabili della sicurezza di alcune ditte esterne che, in contratto di sub-appalto, svolgono alcune delle fasi produttive. Capimmo abbastanza velocemente che le dinamiche interne viaggiavano intorno alle reciproche rappresentazioni ed ai vincoli esistenti nel campo operativo tra le quattro gruppalità: “management”, “operativi”, “addetti alla sicurezza”, “ditte esterne”.

Incontrando le persone e lavorando con i gruppi abbiamo poi capito che al di là del corretto uso dei “DPI”, il tema della sicurezza sul lavoro conteneva e si legava alla sicurezza del lavoro e nel lavoro, attraversando dimensioni interpersonali, intrapersonali, gruppali, istituzionali ed anche comunitarie. A questo livello di conoscenza del contesto, e dovendo ora configurare una proposta di lavoro all’azienda completa di organizzazione del percorso e budget, abbiamo delineato un intervento con diverse tappe:

primo modulo: analisi approfondita della domanda tramite una

3 Abbiamo trattato questi temi in Cavicchioli G., Bianchera L.,

“Supervisione e consulenza nell’organizzazione cooperativa sociale.

Percorsi di apprendimento e cambiamento nei gruppi di lavoro”, Armando, Roma, 2005.

(6)

serie di colloqui individuali con tutti i partecipanti e l’utilizzo di alcuni strumenti per la rilevazione di aspettative e rappresentazioni.

Secondo e terzo modulo: formazione in gruppo con alternanza di sessioni plenarie teorico-concettuali per la trasmissione di informazioni e sessioni dedicate a lavori di gruppo per l’elaborazione degli apprendimenti.

Quarto modulo: sintesi degli apprendimenti, analisi delle ricadute operative e restituzioni finali.

Il percorso

Come ogni mappa, il progetto non riflette fedelmente la realtà del territorio che poi viene incontrata attraversandolo. Ne delinea, semmai, una rappresentazione anticipatoria atta a creare un contratto, un’alleanza di lavoro. Individua gli elementi fondamentali del setting contribuendo al lavoro interno ed esterno di posizionamento reciproco dei soggetti intorno ad un compito.

E’ un’attenzione importante e un’intenzione consapevole dell’operatore la salvaguardia, non necessariamente rigida, anzi aperta a trasformazioni funzionali al compito, dell’inquadramento del proprio intervento. Così è stato per noi.

Il primo modulo di lavoro, il primo urto con i destinatari diretti, nella primavera del 2005, si è realizzato attraverso una sessione di presentazione degli obiettivi generali e dell’approccio al management e con una serie di colloqui individuali con gli operatori coinvolti

4

. I risultati di questo primo modulo – centrato essenzialmente su un approfondimento della domanda anche a livello degli operatori dell’azienda – hanno fortemente arricchito la nostra conoscenza del contesto. Da una parte abbiamo raccolto dati, informazioni, rappresentazioni su di sé, i colleghi, l’organizzazione, il lavoro, le motivazioni, le aspettative – elementi di pre-vincolo tra noi e loro. Così facendo avveniva anche la fondazione, la costruzione del vincolo stesso tra la domanda e l’offerta, a un livello di maggiore profondità.

4 Gli strumenti utilizzati nei colloqui individuali sono stati un’intervista semi-strutturata mirata a raccogliere informazioni circa il ruolo, compito, esperienza lavorativa e aspettative verso la formazione; un questionario per l’analisi degli orientamenti interpersonali in relazione al clima organizzativo.

(7)

Dall’altra, entrare a contatto con l’ambiente, il campo, la situazione concreta in cui ci veniva chiesto di lavorare ha determinato dentro di noi l’insorgere di pensieri, fantasie, emozioni, sensazioni; una serie di reazioni che si presentificano quando si lavora sul campo, dense di significato e risonanze che contribuiscono nel loro insieme a dare forma al vincolo e quindi in qualche modo all’assunzione del ruolo ed al lavoro sul compito nell’aprirsi del setting.

Arbatax è un luogo difficile da raggiungere partendo dalle città del Nord Italia; qualunque mezzo si scelga il viaggio è lungo e scomodo, e altrettanto difficile è il ritorno. E’ anche un luogo di rara bellezza e grande fascino, che una volta conquistato espone a stati d’animo e sentimenti forti e profondi, difficilmente dimenticabili. Questa forse è l’immagine che rimane del primo passaggio.

Sviluppi e contenuti

In base alle idee ed agli elementi emersi dal modulo iniziale, nel secondo e nel terzo modulo abbiamo proposto l’approfondimento teorico-concettuale dei temi e costruito una serie di spazi gruppali per la loro rielaborazione da parte dei soggetti coinvolti.

Nel secondo modulo del percorso formativo – due giornate

nella prima metà di maggio 2005 – il focus dell’intervento è

stato la presa di coscienza e la progressiva consapevolezza del

legame fra sicurezza e diversità. L’immagine

dell’organizzazione come realtà complessa che contiene ed è

costruita sulle differenze. Dopo il primo step di diagnosi ed

analisi della domanda “sul campo”, si procede alla conoscenza

del gruppo dei partecipanti stabilendo il “contratto formativo”,

condividendo l’approccio e l’impianto metodologico del

percorso e perseguendo l’obiettivo di condividere alcune idee

sull’organizzazione di lavoro a partire dal legame tra il tema

della sicurezza e l’esistenza di una serie di diversità a più livelli

sempre presenti nel contesto. Queste diversità di ruolo,

esperienza, cultura, know-how, atteggiamenti individuali,

appartenenze a settori, rappresentazioni di sé,

dell’organizzazione e del lavoro, se non esplicitate e ri-

(8)

conosciute potevano porsi come ostacoli per la condivisione e l’interiorizzazione di un diffuso atteggiamento e mentalità della sicurezza.

Alcuni dei contenuti chiave trattati nel modulo sono stati:

l’organizzazione di lavoro dal punto di vista psicosociale;

l’organizzazione come rete comunicazionale; la sicurezza dal punto di vista psicosociale; la sicurezza come bisogno primario, sentimento base per l’uomo; il legame tra sicurezza e costruzione dell’identità.

Si è dunque trattato in questo modulo di iniziare lo sviluppo di una cultura prevalentemente preventiva rispetto al rischio, aumentando e diffondendo anche le abilità di mediazione come approccio per la gestione delle differenze. Alla conclusione di questo step dell’intervento si evidenzia la necessità di lavorare su tre grandi aree: migliorare la comunicazione tra le parti ed i soggetti dell’organizzazione, formare i leaders affinché diventino modelli di identificazione per i loro collaboratori in grado di veicolare valori ed atteggiamenti funzionali alla sicurezza; potenziare nei soggetti coinvolti il senso di appartenenza non solo al settore operativo di riferimento ma all’organizzazione nel suo insieme.

Con il terzo modulo del percorso formativo l’intervento è stato focalizzato sulle dinamiche gruppali. Dopo una lunga espressione di processi di tipo dicotomico e l’esplorazione di conflitti organizzati in polarizzazioni “a due”, si intravede nel processo formativo la presenza del “terzo”, il precursore dei processi gruppali nella dinamica organizzativa. Con questo modulo, quindi, l’obiettivo dell’intervento è consistito nel facilitare il passaggio da una cultura del lavoro e della sicurezza “di coppia” ad una cultura di gruppo

5

. La prima è basata sull’opposizione, sulla visione dicotomica della realtà e dei problemi, su una gestione dei conflitti basata sulla logica:

“io vinco, tu perdi”, corrispondente ad una visione centrata essenzialmente sul sistema “premi-punizioni”. La seconda valorizza la coesistenza di una pluralità di visioni ed interpretazioni del lavoro e degli atteggiamenti associati, a partire da una più evoluta modalità di comunicazione tra le parti e di gestione della leadership.

I principali temi e contenuti trattati nel corso del modulo formativo sono quindi stati: la pragmatica della comunicazione, la gestione del feedback, l’ascolto, l’influenza del contesto; i processi di cambiamento nell’organizzazione di lavoro; il lavoro

5 Spaltro E., “Pluralità”, Patron, Bologna, 1994; Pichon-Riviere E., “Il processo gruppale”, Lauretana, Loreto, 1985.

(9)

di gruppo nella dinamica organizzativa; la leadership e la gestione del potere; processi di mediazione e negoziazione nel gruppo di lavoro.

Nel corso del processo formativo emerge e viene elaborata una duplice visione dell’apprendimento sul lavoro: un’idea legata alla competenza come accumulazione di esperienza operativa ed un’altra dove la competenza è sentita come derivante dalla formazione teorico scolastica. Queste due visioni dell’apprendimento non caratterizzano tanto i singoli soggetti o i gruppi di lavoro ma si presentano piuttosto come due poli dialettici presenti nell’organizzazione che rischiavano di rimanere scissi determinando conflittualità, rigidità e modalità stereotipate. Il percorso porta i partecipanti a capire e sentire più da vicino il passaggio verso l’esperienza gruppale, compartecipando una motivazione nel comprendere collettivamente i loro problemi. Ciò consente al gruppo di mettere a fuoco la sicurezza come un interesse di tutte le parti in gioco e non di una parte a scapito dell’altra.

Si avverte sempre di più l’importanza di disporre di luoghi e tempi funzionali al confronto e alla contaminazione per facilitare processi di identificazione reciproca e rendere più fluide le rigidità legate alle appartenenze parziali e alle identità di ruolo. I partecipanti al percorso accedono in questa fase ad un nuovo apprendimento: la compresenza nelle situazioni lavorative di piani e livelli esperienziali simultanei ed intersecantesi, quali il vincolo relazionale interpersonale, quello gruppale o di settore, il rapporto tra diversi gruppi interni all’organizzazione e quello tra l’azienda e le ditte esterne.

Il quarto ed ultimo modulo, a fine giugno 2005, si è centrato sul passaggio dal setting formativo al laboratorio per la trasformazione dei processi organizzativi. L’obiettivo era quindi quello di stimolare non solo una sedimentazione degli apprendimenti nei singoli, ma anche le possibilità per uno sviluppo dell’organizzazione nella direzione delle finalità preposte.

Una parte del lavoro di questo modulo è stata dedicata alla condivisione dei principali apprendimenti realizzati dai partecipanti che possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

1. la necessità di aumentare i luoghi, le occasioni, gli strumenti e le competenze comunicative funzionali al confronto tra le diverse parti coinvolte nella problematica della sicurezza sul lavoro;

2. L’orientamento della cultura organizzativa verso la

(10)

prevenzione, attraverso tutti gli strumenti funzionali alla progettazione condivisa della sicurezza, per progressivamente diminuire l’enfasi sulla protezione associata necessariamente al controllo sul campo da parte degli addetti alla sicurezza nei confronti degli operativi;

3. La necessità di acquisire e utilizzare strategie, tecniche e competenze di mediazione e negoziazione per una gestione funzionale dei conflitti nell’ambito operativo;

4. La diffusione di una rappresentazione di sé e dei colleghi al lavoro dove centrale è il significato delle connessioni tra le parti a livello interpersonale e intergruppale in modo da enfatizzare il più possibile i processi di integrazione e reciproca valorizzazione;

5. L’esistenza di un legame importante tra la motivazione al lavoro ed i processi di pensiero che si attivano nell’esperienza lavorativa, e di curare il più possibile le rappresentazioni e i significati associati all’esperienza professionale in modo da mantenere il senso di appartenenza e l’identificazione del singolo con il gruppo di lavoro e l’identità aziendale.

Il viaggio sempre ricomincia

6

Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso nel mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga nel trasloco dalla carta alla realtà, scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variare la disposizione.

Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, cessa lo status viatoris dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore.

Viaggiare dunque ha a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire o Gadda, ma è anche un differire la morte, rimandare il più possibile l’arrivo, l’incontro con l’essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio.

Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare il più tardi possibile, per non arrivare, possibilmente, mai.

6 Sezione curata da Luciana Bianchera.

(11)

“Dove siete diretti? Sempre verso casa…”

Il viaggio sardo è terminato da tempo, Arbatax è tornata ad essere lontana come prima della nostra avventurosa esperienza.

Come alla vigilia della nostra prima partenza per andare incontro al lavoro di formazione al Gruppo Intermare Sarda ci sentivamo un po’ confusi e disorientati, abbastanza impreparati all’idea di fare formazione in un contesto produttivo così lontano da quelli a noi abitualmente frequentati, allo stesso modo, la scrittura di questo testo ci ripropone il medesimo smarrimento, una sorta di difficoltà ad ordinare pensieri ed idee.

In primo luogo, il vincolo interno che sentiamo di avere stabilito con questo incarico, con la committenza che ci ha proposto il lavoro, con il tipo di attività stessa, con l’oggetto della formazione, la sicurezza, appunto, era caratterizzato da sentimenti di fortissima preoccupazione, smarrimento uniti alla difficoltà di affrontare col pensiero l’attività a cui stavamo andare incontro.

I sentimenti che precedono e accompagnano un intervento di cura, di formazione, consulenza, terapeutico sono un importante materiale conoscitivo, una pista da percorrere e a cui lasciarsi andare per entrare nel discorso… Questo lo si sa.

Come dire che, per certi aspetti le fantasie sul viaggio e la sua memoria, il ricordo che ne possediamo, anche a distanza di tempo sono di fatto incorporati nel viaggio stesso.

Cosi per noi, per quanto rodati nell’affrontare insieme interventi di formazione o forse proprio da questo condizionati, quel lavoro si presentava come l’incontro con una realtà sconosciuta ma densa di pre-concezioni.

Ognuna di esse affondava le sue radici ad esistere nelle esperienze precedenti, nelle organizzazioni già frequentate, nelle letture, nei viaggi, nei film sul mondo operaio, nei racconti di amici, conoscenti.

La fabbrica isolana, sul mare, il cantiere che ci era stato descritto come enorme, fatto di costruzioni e per costruire artefatti immensi, adatti a compiti oceanici, in terre lontanissime, compiti faticosi, rischiosi, difficili persino da immaginare.

Ci chiedevamo come la nostra attrezzatura per pensare al

lavoro, all’organizzazione, ai processi istituzionali nell’ambito

psico-sociale potesse esserci ed essere utile in quel contesto,

così lontano, cosi diverso per modalità organizzative, compiti,

(12)

ruoli, spazi, dimensioni, aspetti economici.

C’era da chiedersi che cosa si potesse trovare di familiare in tanta estraneità e differenza e che cosa di veramente estraneo e straniero si potesse trovare in quel luogo lontano ma così presente nel nostro immaginario culturale, lavorativo e geografico: il mare, il petrolio, la fabbrica, gli operai, il profitto, l’impatto ambientale, l’economia for profit , il lavoro fisico, la trasformazione di cose in altre cose, l’organizzazione gerarchica del lavoro.

Da sempre abituati a riflettere sull’intangibiltà del prodotto nel mondo della cura e delle relazioni terapeutiche, la sfumatezza del risultato, prevedevamo una sorta di impatto col mondo e le cose vere, la concretezza, le dimensioni, i numeri, la quantità.

Forse anche una maggior semplicità dei processi di lavoro, delle relazioni. Magari una serie di sensi compiuti, rassicuranti, una volta tanto, non solo per chi ci lavora ma anche per noi?

Magari un po’ di “quella roba” avremmo anche potuto portarla a casa per contrastare lo smarrimento, il continuo rigenerarsi domande proprio di chi si occupa del senso del lavoro.

Pensavamo al compito di trattare il tema della sicurezza e ci chiedevamo a quale sicurezza stesse, ognuno di noi, pensando, nell’ingaggiarsi reciprocamente in quella commessa di lavoro.

La preoccupazione che ci accompagnava ci faceva sentire e pensare più all’insicurezza che alla sicurezza, in verità, e con quel sentimento siamo approdati ad Arbatax.

Arrivavamo così leggeri di dotazioni e di strumenti, con una valigia di domande, una gran voglia di vedere, guardare, esplorare e... Nessuna risposta.

Stranieri pieni di domande che incontravano stranieri un po’

stupiti, un po’ curiosi, un po’ scocciati, forse da questa esperienza strana, incombente: la formazione.

Pensavamo all’ospitalità, in quel frangente, e alle sue mille sfaccettature. “ …in altre parole l’ospitalità assoluta esige che io apra la mia dimora e che la offra non soltanto allo straniero ( provvisto di un cognome e di uno statuto sociale di straniero eccetera ), ma all’altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e avere luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità, e neppure il nome…………L’ospitalità consiste nell’interrogare chi arriva? .. oppure l’ospitalità comincia con l’accogliere senza domanda alcuna? È più giusto domandare o non domandare?

Chiamare col nome o senza nome? Dare o imparare un nome

(13)

già dato? “

7

Ancora non lo sapevamo ma stavamo varcando la soglia di un luogo di questioni inter-culturali, inter-generazionali, accostavamo teorie esperienze, pensieri, linguaggi cosi lontani;

come in un viaggio antropologico si trattava di rimanere con gli occhi aperti ad ascoltare, con l’intento di stabilire un contatto.

Abbiamo lavorato ad Arbatax con tutte le temperature ed i climi, il vento furioso, la pioggia scrosciante, il sole più luminoso, raccolto storie sarde, leggende di contadini, di armi, campagne, amori, balentìa .

I nostri ospiti non si sono risparmiati nel fornirci indizi, spiragli, spaccati di vita locale, nel trascinarci dentro al gruppo per farci capire il legame fra lo stabilimento ed il paese, la sua economia, le sue logiche sociali e lavorative.

I pranzi alla mensa e le cene nei ristoranti sono stati fonti inesauribili di racconti sul lavoro e sui suoi retroscena, sulla cultura della fabbrica, intrecciata alla cultura del paese e a quella dei paesi di provenienza delle persone impiegate nell’organizzazione.

Il fatto che lo stabilimento fosse un luogo denso di significati fortissimi per chi vi opera è stato immediatamente chiaro.

Accanto agli aspetti materiali della fabbrica, agli spazi, le officine, i cantieri, gli uffici, si intravedevano fin da subito legami, storie, sentimenti di appartenenza, lontananze, nostalgie, paure.

Il primo emergente apparso nel corso dei colloqui, ascoltando i racconti lavorativi e l’organizzazione del lavoro da parte delle persone intervistate, aveva infatti a che fare, con aspetti storico-biografici legati alla motivazione di lavorare allo stabilimento.

Abbiamo dialogato con persone provenienti da differenti zone d’Italia, Lombardia, Puglia, Calabria, Sicilia, e con altre del luogo, Sarde, di quella zona della Sardegna.

Per alcuni di loro l’impiego in Intermare ha significato lo sradicamento dal proprio paese d’origine, la lontananza per lunghi periodi dalla famiglia, l’inserimento in un nuovo contesto, cosi particolare, così difficile da raggiungere, intenso dal punto di vista culturale.

Per altri lo stabilimento rappresenta una splendida opportunità di lavoro in una terra d’origine così incerta e precaria del punto di vista della ricerca occupazionale, un riferimento

7 J. Derrida, “L’ospitalità”, Baldini & Gastoldi, Varese, 2002, pp. 54-55.

(14)

economico ma anche culturale, relazionale e sociale fortissimo.

Siamo stati colpiti dall’intensità di questo rapporto fra i singoli e l’organizzazione, un vincolo investito di aspetti emotivo- affettivi profondi, di fantasie di realizzazione, di carriera, di sentimenti di identificazione e proprietà estremamente potenti, di ansie e angosce, di preoccupazioni.

Il racconto descriveva con toni vivi e accesi gli aspetti della socialità sincretica istituzionale, a cui Bleger

8

fa riferimento: il lavoro come esperienza di soddisfazione di bisogni primari di sicurezza, conferma di sé, conforto del proprio mondo psichico interiore, connessione fra il gruppo interno ed il mondo esterno, esperienza di adattamento sociale, passaggio dall’io al gruppo, dal disordine e la confusione ad un nuovo ordine, capacità di organizzare ed organizzarsi, di trovare soluzioni a problemi, di trasformare la realtà in funzione di compiti istituzionali.

In altre parole le parole esprimevano una sorta di potente radicamento nella “Comunità Intermare, Saipem, Eni”, fatta dall’aderenza ad una mission aziendale unitamente alla condivisione di spazi fisici, tecnologici, professionali, ambienti e riti, modalità linguistiche, abitudini quotidiane, conflitti e differenze.

La presentazione di ruoli e compiti era intrecciata alle storie della propria esperienza allo stabilimento, le divergenze ed i conflitti nella gestione degli aspetti produttivi e dei processi di gestione del lavoro in sicurezza attraversate dalle provenienze geografiche, da alleanze linguistiche, da appartenenze aziendali.

Un caleidoscopio di immagini, accenti, modelli organizzativi, idee sul e del potere attraversavano la presentazione della realtà.

Miti e riti organizzativi svelavano la loro potenza nella costruzione dell’immaginario lavorativo.

L’idea della sicurezza sembrava ogni volta diversa a partire dai ruoli, dai compiti, dalle responsabilità dei soggetti che ne stavano parlando.

Inizialmente appariva come un aspetto essenzialmente legato alla assunzione di determinati comportamenti, gesti, schemi, una sorta di osservanza alla regola, non sempre sentita come idonea rispetto al proprio compito, la mansione da realizzare.

Si intuiva però una sorta di costrizione, talvolta insensata, un che di persecutorio.

8 Bleger J., “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, Lauretana, Loreto, 1989.

(15)

I protocolli lavorativi quotidiani descrivevano pratiche di controllo sistematico del processo lavorativo, prevedevano situazioni, azioni e singole responsabilità. I dettagli previsti nei minimi particolari, le connessioni fra una procedura e l’altra esplicitate e scritte in appositi schemi di lavoro; nulla lasciato al caso, mai.

Ma l’idea razionale, meccanica, ferrosa di un’organizzazione degli spazi e dei compiti, una gestione ingegneristica delle procedure e delle relazioni professionali, ha lasciato entrare progressivamente nel discorso formativo interrogativi sulla sicurezza e sul sentirsi sicuri ed insicuri.

Dall’evitare che qualcuno si ferisca, che accadano incidenti, dal prevedere una sequenza ordinata di azioni, si è progressivamente fatta breccia una complessità nuova, nel racconto gruppale: l’entropia del lavoro, la capacità negativa, la presenza combinata di aspetti razionali ed irrazionali nella realtà lavorativa e relazionale, la necessità di sopportare l’idea del vuoto, del rischio, di una realtà imperfetta e per quanto ingegneristica, densa di domande, a sua volta.

La comparsa di questi nuovi elementi sulla scena, la paura, l’incertezza, la difficoltà di comunicazione fra un gruppo e l’altro, fra un ruolo e l’altro, fra un uomo e l’altro, ha via via messo in crisi, per qualche attimo, la visione perfettamente lineare e trasparente del processo produttivo, la meccanica di precisione ha svelato la sua composizione sentimentale ed emotiva. Il carattere cosi “maschile” di quell’ambiente e di quel lavoro ha lasciato apparire assurde domande sulla felicità e sul suo legame con il lavoro…. Forse lì, in quel momento è apparso il punto di connessione fra le istituzioni della cura, tanto note e familiari per noi, e la fabbrica, il ferro, il petrolio.

Parlare dell’esser o del sentirsi sicuri, ha consentito ad alcuni di rivedersi dentro la propria storia di lavoro, e non solo…

Ci ha in più occasioni colpito il legame fra gruppo e sicurezza, inteso come la capacità di esprimere un’idea di lavoro processuale, la necessità di rappresentarsi le connessioni fra la propria mansione e quella dei colleghi, il valore delle differenti competenze, la destinazione finale del proprio operare.

Avere una meta fa sentire sicuri, potremmo dire, avere una meta consente di avere desideri ed esprimerli anche attraverso il lavoro.

Di desideri ne abbiamo incontrati molti parlando di sicurezza al lavoro.

Essere accettati, valorizzati, stimati, tenuti in considerazione

per la propria esperienza, la propria fatica quotidiana, essere

(16)

riconosciuti ed ascoltati come parte significativa dell’azienda, poter contare per sempre sul proprio posto di lavoro, poter mandare i figli all’università, vincere sfide di leadership, avere la meglio, poter tornare presto a casa.

Non è stato semplice parlare di desideri e paure, di sentimenti di sottomissione ed inferiorità, di gerarchie e poteri sfuggenti, poco chiari, poco espliciti.

Non è stato semplice nemmeno affrontare i riti legati ai processi di apprendimento, veri percorsi di iniziazione alla cultura delle relazione e del lavoro dentro la fabbrica.

Abbiamo visto modelli diversi di apprendimento, dall’esperienza e dalla scuola, dalla vicinanza al capo, dall’esterno.

È stata in più momenti della formazione evidente la connessione fra l’esser sicuri e la capacità di continuare ad apprendere cose nuove ogni giorno, lavorando sulla scontatezza e l’apparente banalità dei gesti quotidiani. La routine, la meccanica ripetizione di gesti abituali, la familiarità col compito, la conoscenza assoluta degli spazi, degli ambienti, delle persone, i pregiudizi sulle mansioni degli altri si sono rivelati potenti organizzatori del rischio, ostacoli alla comunicazione, blocchi dell’apprendimento.

Paradossalmente ciò che nei racconti, maggiormente veniva dato come sicuro e noto, nell’analisi delle situazioni mostrava insidie e zone di pericolo; tutto ciò che si metteva come forte, ammesso, legittimato, consolidato nel tempo, via via sembrava affacciarsi al dubbio, alla curiosità.

In quella zona il gruppo e noi abbiamo scorto il fantasma di una cosa “nuova”: l’interesse, l’apprendimento, il riguardarsi con uno sguardo incuriosito, la possibilità di integrare culture, pensieri, gesti, storie, motivazioni senza perdere sé stessi. Ci pare di ricordare che il fantasma c’entrava con il tempo e l’esperienza, la partecipazione e il vuoto e la passione… Ma non ne siamo più tanto sicuri…

“Ma chi ci ha rigirati così che qualsiasi cosa

facciamo è sempre come fossimo nell’atto di partire?

Come colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia, così viviamo per dire sempre addio.”

Rainer Maria Rilke “ - Elegie duinesi

(17)

Dieci figure della sicurezza

9

Avvertenza

Ho condotto una esperienza di formazione alla sicurezza in un ambito di lavoro inconsueto per me. L'ho fatto con l'assistenza di una cornice concettuale che mi consentiva di tracciare le linee generali dell'intervento. Si tratta di un insieme di vedute ormai largamente condivise e che trovano la loro unità nella consapevolezza della complessità con cui si presenta il problema della sicurezza nell'ambiente di lavoro. Ne ho accolto soprattutto il rifiuto delle ipotesi monocausali circa l'infortunio sul lavoro, in nome di una visione sistemica che riscatta teoria e pratica della sicurezza dalle posizioni che riconducono l'infortunio esclusivamente all'errore dell'operatore (Mantovani, 2000).

Pur essendo ben consapevole che i miei pensieri non erano, al momento, elementi esterni al contesto osservato, intendo, però, nelle dieci figure che seguiranno, tenere, per quanto possibile, in penombra i contributi propri di quella cornice. Li utilizzerò, perlopiù, via, via che saranno ridestati dagli accadimenti dell'esperienza e solamente se mi parranno utili per conferire a tali accadimenti ulteriori prospettive di senso.

Mi dispongo a discorrere di una sorta di mio personale rito di passaggio, del gioco continuo di oscillazione fra il “mio” sapere e la cultura che ho incontrato, dell'esercizio condotto al fine di rimodellare il mio pensiero nell'interazione con gli altri attori (Melucci, 1998). Spero di riuscire a rendere il senso dello sforzo prodotto per farmi accogliere nel nuovo contesto come un giocatore fra gli altri, impegnato anch'io, come gli “oggetti”

della mia osservazione, in un faccia, faccia con la sicurezza nella partita di una attenta risignificazione dell'esperienza.

1.

Il luogo mi si presenta abbastanza singolare, al punto da indurmi meraviglia (e sgomento) per il gigantismo dei manufatti in via di assemblaggio, all'aperto, su qualche ettaro di piazzale che dà su un molo. Vedo un enorme traliccio in tubi.

La lamiera ha lo spessore di 130 millimetri. Nei tubi un uomo si può avventurare stando ritto con ancora qualche spanna di vuoto sulla testa. Quello che ho sotto gli occhi, mi dicono, è poca cosa nei confronti dell'ultimo mostro spedito via mare per

9 Sezione curata da Bruno Vezzani.

(18)

essere impiantato a succhiare petrolio in un remoto oceano. Un colosso di duecento metri di altezza e ottanta per ottanta di base. Gareggia per dimensioni una gru semovente capace di sollevare mille tonnellate. Scendendo dai monti che coronano il golfo la si vede torreggiare, gialla, a una decina di chilometri di distanza.

In fatto di sicurezza, al momento, non sono in grado di articolare veri pensieri. Mi si affacciano immagini terrifiche.

Una per tutte: l'effetto bomba di un attrezzo, di un semplice bullone che cada da quell'altezza. Urge, soprattutto, che io recuperi il senso dello sbalordimento, che mi lasci interrogare dalla meraviglia, dallo spaesamento che ha “urtato” (Gadamer, 1960), scompigliandole, le mie attese di continuità con altre esperienze: un sensato discorso sulla sicurezza, qui, ora, passa dalla ripresa di quelle emozioni.

2.

La guardia che governa l'accesso allo stabilimento mi sottopone ad una accurata ispezione: chi sono, chi cerco, per quale motivo. La procedura termina con uno scambio:

consegno il mio documento di identità e ricevo un passi da appuntare bene in vista al bavero. Si alza una sbarra. Ora posso superare un confine: sono dentro. O, meglio, sono fuori dal sospetto di pericolosità; s'è sgonfiata, almeno spero, la bolla di esterno fatta di ipotetici fermenti, batteri, virus che mi portavo appresso e che, se mai fosse transitata oltre il confine, avrebbe potuto liberare il suo carico di agenti patogeni con effetti potenzialmente devastanti per la sicurezza del dentro . Che senso avrebbe avuto altrimenti la trafila della inchiesta e dell'evento-sbarra, se non di assicurarsi che io non fossi un perturbatore (dal perditempo curioso al terrorista, passando attraverso la spia, il ladro, il sabotatore)? Un veicolo insomma del disordine esterno, nei confronti del quale era necessario premunirsi.

Mi convinco che grazie al controllo qualcuno si è rassicurato.

Del resto anch'io sto un po' meglio, sono meno preda dell'apprensione nel rapporto con il nuovo, che, ora, mi sembra meno estraneo e, pertanto, meno minacciante. Mi accorgo di aver subito una strana metamorfosi: dopo l'ispezione, mi avverto purificato, più affidabile agli occhi degli abitatori, più avvicinabile, meno forestiero. E, con questo, un po' più sicuro.

3.

Un'occhiata al passi : il cartoncino nella custodia di plastica mi

(19)

qualifica terzo. Un estraneo, ma non un alieno. Un non appartenente che, però, può diventare terzo anche in un altro senso: come colui che viene richiesto, proprio per la sua estraneità, di un parere per la composizione di un accordo. C he la dicitura del santino appuntato sul petto sia da intendere come un augurio, magari la profezia del ruolo che mi aspetta?

Nutro qualche incertezza in proposito. E se nel dentro in cui sono capitato vigesse il principio del Tertium non datur? Ciò mi confinerebbe alla condizione del terzo incomodo. L'ambiguità che la dicitura terzo porta con sé imprime qualche scossa al senso di sicurezza che la consegna del passi mi aveva comunicato.

4.

Indugio dinanzi ad un cartello zeppo di sagome bianche figuranti occhiali, scarponi, cinture, mascherine, elmetti; tutte su tondi azzurri. In alto campeggia una scritta che vieta il passo agli incauti non addetti ai lavori. Con il piede a mezz'aria sono bloccato da un personaggio che si è improvvisamente materializzato al mio fianco. Accenna al suo elmetto bianco, come se io debba sapere che il copricapo ha un particolare significato. In giro per il cantiere vedo molte persone, tutte affaccendate ad azionare macchinari o a darsi da fare con attrezzi. E tutte con l'elmetto. La maggior parte indossa elmetti di colore o rosso, o arancio, o blu, o giallo. Di bianco se ne nota, oltre a quello del mio intercettatore, appena qualche altro. Chi porta il bianco sta perlopiù a guardare. Il codice della distribuzione dei colori (se c'è) al momento mi dice solamente che il “bianco” osserva gli altri “colorati” che lavorano. Il

“bianco”, che ora ho di fronte, dichiara di essere un addetto alla sicurezza, con la funzione – al momento sembra la sola – di controllare se i “colorati” abbiano il corredo di protezione prescritto dalla varia segnaletica delle siluette bianche su tondo azzurro. Mi viene da pensare che per qualcuno la sicurezza possa essere sgradita, scomoda, e che questo qualcuno – pochi, tanti ? – cerchi di sottrarsi alle norme e alle procedure ritenute da altri idonee a eliminare i danni, o, perlomeno, a limitarli. Qualcun altro – il “bianco” - ha il potere di riportare l'inadempiente alla stretta osservanza delle prescrizioni. Sembra che non ci siano ragioni per ammettere l'inosservanza. La sicurezza in un certo modo si intreccia con il potere di interdizione.

5.

(20)

Il mio guardiano gentilmente mi guida all'incontro con l'ingegnere responsabile della sicurezza, con colui che mi può orientare nel compito che devo affrontare: proprio quello di impicciarmi della sicurezza. Nelle parole dell'ingegnere la sicurezza assume sembiante di un imponente affresco tecnologico. Vi è dipinto/calcolato tutto il lavoro dello stabilimento; ogni operazione è prevista e minuziosamente ispezionata al fine di giungere alla mappatura delle zone critiche, delle possibili fonti di malfunzionamenti e di pericoli vari, e alla delineazione di una articolata strategia in virtù della quale possa essere offerta all'operatore ogni informazione circa la manovra atta ad evitare il danno. La sicurezza sta nel progetto: tanto più il progetto è preciso, tanto più i rischi sono prevedibili, tanto più è affidabile l'impianto, tanto maggiore è la quota di sicurezza. Progetto perfetto = affidabilità totale = massima sicurezza. Affascinante! Almeno sulla carta.

6.

Nel trasferimento dalla carta alla realtà la perfezione della sicurezza tecnologica rischia di infrangersi. Il “bianco”, alle cui cure sono al momento affidato, mi illumina su questo passaggio e lascia intravedere un disegno da Grande fratello : occhiuto sistema di osservazione e massiccio bombardamento di regole per modellare le azioni di chi lavora alle richieste della grande macchina, lo stabilimento. E, soprattutto, controlli, controlli, controlli. - L'operaio deve essere sempre controllato: la paura del controllo è un ottimo deterrente .- Mi si desta una citazione:

“Più l'uomo controlla qualche cosa, più l'uomo e quella cosa diventano incontrollabili.”(Tyler, 1986). Tengo, però, per me l'ingombro di questo pensiero. Mi limito a far osservare al mio interlocutore che la perfezione tecnologica del progetto

“sicurezza” pare abbia un ventre molle: il sistema è vulnerabile sul versante del fattore umano. Se è così, la sicurezza non può partire se non si instaura l'uso automatico della protezione passiva. Passiva anche nel senso che è necessario dosare incentivi e disincentivi per far contrarre sane abitudini a chi deve essere protetto.

7.

L'aspetto attivo della sicurezza fa la sua comparsa nel corso di

un colloquio con un capo squadra. - La sicurezza è altra

dall'indossare l'elmetto, calzare scarponi protettivi, inforcare

occhiali! - Con queste parole viene sbrigato il problema della

sicurezza passiva. - Ci vuole attenzione al luogo dove si svolge il

(21)

lavoro, alla condizione delle attrezzature, al modo di trattare il materiale. Siamo noi operativi che dobbiamo portare gli operai a notare se una scala è male appoggiata, se un'imbracatura è insufficiente, se una manichetta non tiene, se un cavo è scoperto. Per queste cose non bisogna aspettare che se ne accorgano quelli della sicurezza, o che le rilevino quelli dell'ufficio tecnico. Il progetto della “macchina” può esser buono in sé, ma le attrezzature si usurano, possono essere mal collocate, usate senza accortezza e, se non ci si bada, addio sicurezza, non di uno solo, magari di quello che si è protetto con guanti, elmetto, scarponi, ma di tutta una squadra. I capisquadra devono vedere anche oltre le norme .- In modo aurorale si fa strada una configurazione più complessa del concetto di affidabilità, che non può restringersi alla formulazione impeccabile del progetto “sicurezza” sotto l'esclusivo profilo tecnico, sia per quanto attiene alla previsione delle zone di rischio, sia per quanto riguarda la predisposizione delle misure di sicurezza da far indossare passivamente al singolo. Un'affidabilità intesa come “la capacità del sistema di costruire ad un tempo (a) rappresentazioni di rischio funzionali e (b) comportamenti congruenti ad esse” (Bisio,2002). Mi piace sottolineare il termine costruire.

8.

Dal prisma della sicurezza escono riverberi multicolori. Sono sufficienti alcune battute in un incontro di gruppo fra addetti alla sicurezza (S) e capisquadra (C) perché il raggio della sicurezza accenni a scomporsi.

S – E' necessario che voi facciate capire che noi della sicurezza lavoriamo per lo stesso obiettivo.

C – Siete voi che dovete farlo capire. Il responsabile della sicurezza deve presentarsi come un collaboratore, non come un controllore. Se viene fatto capire, l'intervento della sicurezza è bene accolto.

S – Prima della consegna delle mansioni facciamo conoscere le regole della sicurezza. Noi seminiamo continuamente granellini di sicurezza.

C – Le norme che voi smistate devono essere interpretate. Ci vuole dialogo: quando voi passate a controllare, dovete avere anche l'umiltà di ascoltarci per conoscere le esigenze del lavoro e per condividere le eventuali deroghe dalle consegne che ci avete dato.

L'iridescenza delle voci impone di risalire alle sfaccettature da

cui si irraggia la multiversalità del discorso: c'è una sicurezza

(22)

affidata, almeno esigenzialmente, una volta per tutte alla definizione delle norme, e c'è una sicurezza che si incunea tra la pretesa univocità della norma e le richieste del suo modellamento in sede di applicazione. C'è la sicurezza le cui norme inappellabili sono già definite quasi per ricalco sulle richieste del processo macchinico, e c'è la sicurezza costruita con la modulazione delle regole attraverso la comunicazione, il confronto, il dialogo, la negoziazione. Le due figure della sicurezza trovano spazio su due scenari ben caratterizzati: da un lato è rappresentabile un apparato in cui l'elemento umano rientra solamente come erogatore isolato di prestazioni, dall'altro si delinea un sistema di interazione fra uomo e macchina, “un sistema totale uomo-artefatto”. (Mantovani Spagnolli, 1999). In questa seconda prospettiva il problema sicurezza si sposta decisamente su un piano di discorsualità, narratività: la sicurezza non c'è quando dall'esterno viene ficcata, bell'e fatta, sulla mente dell'operaio, ma essa, la sicurezza, si costruisce quando la “mente” si dà situata in una rete di relazioni con altri attori e con “oggetti strumenti” e ne diventa un componente che con il suo inserimento modifica il funzionamento e la struttura della rete stessa (Mecacci, 2000).

9.

- La cornice normativa della sicurezza è vissuta come una costrizione . Su questa affermazione c'è concordia nel gruppo degli operativi e degli addetti alla sicurezza. Solo, però, se si rimane nella genericità della formulazione. Prolungando la discussione, le vedute si differenziano mentre si tenta di dare una ragione della varia tipologia di insofferenti e di trasgressori. Ci scappa anche il fantasma di qualche capro espiatorio.

S – Il personale anziano ha una mentalità che non crede alla sicurezza delle norme.

C – Fa le cose in sicurezza secondo il suo punto di vista.

S – Ma i tipi di lavoro cambiano e portano problemi nuovi per la sicurezza. Chi ha fatto per anni quel lavoro fa fatica ad accogliere le nuove norme e allora si ingegna alla bell'e meglio.

Qualcuno, un operativo, dice che chi fa da molti anni quel lavoro ha escogitato e collaudato procedure che, aggirando le norme, snelliscono il lavoro senza abbassare, a suo parere, la soglia di sicurezza. In genere questo tipo di operaio sa anche adattare le sue procedure ai nuovi lavori. I “pro” e i “contro”

disuniscono il gruppo. E' in gioco proprio la definizione del

limite alla libertà di “interpretare” le norme, o, meglio,

(23)

nell'accogliere come legittima l'adozione di astuzie , di scorciatoie informali (Bonazzi 1993). Nella discussione la sicurezza si fa ancor più metamorfica: da oggetto stabile, definibile una volta per tutte e perfettamente distinguibile da quello che sicurezza non è, diviene cosa relativa, in certe situazioni è così, in altre è colà, per certuni sì, per altri no. Non è cosa da tagliare con l'accetta per decidere se o è, o non è. La sicurezza ha una sua presenza di carattere variabile a seconda di quanto succede intorno: quel comportamento che si discosta dalle norme allarma gli altri, o gli altri lo tollerano, se non addirittura, giudicandolo non pericoloso, lo fanno proprio? C'è qualche divieto esplicito in proposito? Qualche soprastante è mai intervenuto? Che il comportamento in questione, anche se giudicato formalmente illegittimo, non sia presupposto, dato per scontato dagli stessi capi e, talvolta, ritenuto nei momenti di stretta indispensabile a snellire, economicizzare il lavoro? Fa la sua comparsa una logica “fuzzy”, fatta di distinzioni, di soppesamenti, di aperture oltre la logica della non contraddizione su cui poggiano in genere la loro validità le norme. Una logica che investe i concetti stessi di rischio e di sicurezza, facendoli apparire, sì, legati ad aspetti oggettivi di pericolo, ma suscettibili anche di valutazioni diverse per l'intervento di fattori individuali (il senso di autostima, la fiducia) e/o che rimandano alla appartenenza alla cultura di gruppo e organizzativa. La discussione su rischio e sicurezza non accenna a chiudersi in precise definizioni, ma nel gruppo sta affacciandosi il presentimento di un fondo di essenziale negoziabilità intorno ai due concetti.

10.

E i “balientes”?

L'interrogativo crea un momento di sospensione nel processo del gruppo.

Attorno al gruppo stava tracciandosi il margine del noi. Il dentro, l'embrione di una cultura della sicurezza, procedeva come una fermentazione di pensieri, alcuni già in boccio, ma da qualcosa impediti a distendersi in un discorso sensato sulla negoziabilità e sulla costruzione sociale della sicurezza.

Qualcuno era lì, lì per inalberarne il vessillo. Sarà riconoscibile

oltre il margine del nostro gruppo? Il cerchio del noi potrà

slacciarsi e accogliere gli altri? Tra accenni di patriottismo, di

preventive emarginazioni e di progetti di evangelizzazione, il

gruppo stava sul margine. Urgeva fissare il limite estremo alla

negoziabilità.

(24)

Il costo della sicurezza è un grosso peso, e non è negoziabile (vedi legge Merloni).

I vecchi ritengono che la sicurezza aumenti i costi.

Però la sicurezza è un investimento .

Veri accenni di guerre stellari che qualcuno ha tagliato in tronco: Non ci sono scuse per non fare sicurezza.

L'affermazione perentoria ha avuto il magico potere di trasformare il gruppo, che dall'essere prossimo a autoconsumarsi in una chiusura narcisistica, è approdato ad una fervorosa inquietudine. Il pericolo dell'irrigidimento del margine s'è dissolto; il confine s'è fatto poroso e il gruppo sembra ora una spugna che si contrae e si rilascia per imbeversi di esterno, per accoglierne i batteri da coltivare, per produrre la cultura della sicurezza. Cultura proprio nel senso da laboratorio di biologia.

Nell'aggirarsi del discorso (la rettilineità era debitamente bandita) c'è stata la rivisitazione dei luoghi della conflittualità:

- I contrasti nelle comunicazioni sul tema della sicurezza rimandano a precedenti conflittualità fra i protagonisti; - E' facile che ci sia conflitto fra produzione e sicurezza; - Il prevalere dell'aspetto tecnico porta alla difficoltà di trovare anche solo due minuti per la sicurezza; - Per la sicurezza deve esserci lo sforzo di far girare le informazioni tra addetti alla sicurezza e operativi. E altre voci, alla rinfusa. Il tono, però, non era di quelli che fanno intendere l'insormontabilità della polarizzazione. Tutto era un preludio alla costruzione sociale della sicurezza come tratto qualificante una comunità di pratiche (Wenger, 1998), finché...

E i “balientes”?

Già: che ne facciamo? Ma, prima ancora, chi sono costoro?

S'apre a sorpresa uno scenario sulla bizzarria umana, tra psicopatologia e folklore. Il baliente è un temerario che s'avventura senza protezioni sulle impalcature, che, se trova un'interruzione su una passerella, non compie la deviazione debitamente segnalata, ma procede ugualmente: incurante dell'altezza dal suolo, sfida il vuoto, saltandovi oltre. Se c'è da trasportare una bombola per la saldatura, non va a munirsi dell'apposito carrello, ma se la carica a spalla. Un macho , insomma. O un irresponsabile? O un inguaribile esibizionista?

Senza cedere a fuorvianti nostalgie diagnostiche, ce ne sarebbe

abbastanza per rimettere in discussione la categoria del rischio

e scoprirne anche l'aspetto paradossale di una modalità di

ricerca della sicurezza che colloca il protagonista fuori dalle

norme condivise e lo porta, spesso, lontano dalle condizioni di

(25)

sicurezza obbiettiva, a visitare con il gusto della sfida le regioni del pericolo reale (Spaltro, 2003).

Ma il lavoro del gruppo aiuta a scoprire che il baliente non certo è un isolato pazzeriello. La balientìa è un fenomeno con molti protagonisti. E' la sopravvivenza – ciascuno nel gruppo mostra di saperlo - di un costume proprio di certe plaghe isolate dell'interno: l'uomo era rispettato per la sua prestanza, il suo coraggio; non solo: anche per la fedeltà alla parola data, il senso di appartenenza, la difesa dell'onore personale e di clan . Di questi “valori” della virilità la balentìa era l'espressione rituale, spettacolare, che si produceva in ricorrenze importanti, ma che nella quotidianità, però, poteva essere il significato - nascosto ma leggibile da tutta la comunità - che supportava comportamenti di forte rilevanza sociale: dal corteggiamento, alla sfida, al furto, al rapimento, al sequestro, all’accoppamento.

Di scoperta in scoperta. Lo scambio nel gruppo consente di scoprire che i balientes sono, sì, coloro che qui in fabbrica esibiscono acrobaticamente lo sprezzo del pericolo, ma, guarda caso, sono lavoratori occasionali portati dai titolari di ditte subappaltatrici. Non sono baldi e prestanti giovani in vena di machismo , ma operai che hanno superato la quarantina, super- fedeli al “padroncino” che, per “starci” con i costi, deve stringere i tempi e rientrare nei termini definiti dalla commessa.

- La sicurezza ha un costo.

- Le ditte locali per stare nel prezzo non badano alla sicurezza .

Più i tempi sono stretti, maggiore è il rischio .

L'acrobazia del baliente snellisce il lavoro attivando il gioco con il rischio. Anche questo ogni persona presente nel gruppo mostra di saperlo.

Il processo del gruppo ha una battuta d'arresto.

L'essere usciti dalla mitologia della balientìa e aver fatto

entrare nell'orizzonte attuale l'ambiguo rapporto del sistema -

o di una sua parte, non importa - con il baliente , rende

certamente difficile riprendere il discorso della costruzione

sociale di regole condivise. La prospettiva della costruzione

della sicurezza in una comunità di pratiche, che un attimo

prima appariva come una realtà immediatamente accessibile e

fruibile, si sta offuscando e allontanando. L’oggetto non appare

più nitido. C’è un velo di precarietà, di indefinitezza, di

imperfezione.

(26)

Ma, d'altra parte, che non sia proprio questa sfocatura “la condizione intrinseca che rende possibile la creazione di nuovi significati?”(Zucchermaglio, 2000)

Allora? Coraggio, amici! Ci siamo imbattuti in qualcuno che è altro , decisamente altro, scandalosamente altro, e ci accorgiamo che non è un incontro con un oggetto da considerare con indifferenza. E’ un incontro che sta scompigliando le nostre carte. Che ci porta fuori da noi stessi.

E’ l’occasione giusta per provare che la sicurezza può essere

un valore condiviso.

(27)

Bibliografia di riferimento

Bisio C. (2002), Fattore umano e sicurezza sul lavoro, Milano:

Unicopli.

Bonazzi G. (1993), Il tubo di cristallo, Bologna: Il Mulino.

Bruner J. (1990), Acts of meaning. Cambridge, Mass: Harvard University Press, (tr. it. La ricerca del significato, Torino: Bollati Boringhieri, 1992).

Cole M. (1996), Cultural psychology, Cambridge, Mass: Harvard University Press.

Edmondson A. (1999), Psychology safety and learning behavior in work teams, in Administrative Science Quarterly, n.2, pp. 219 – 234.

Gadamer H. G. (1960), Wahreit und Methode, Tubingen: Mohr, (tr. it.

Verità e metodo, Milano: Bompiani, 1983).

Harré R. , Gillett G. (1994), The discursive mind, London: Sage, (tr. it.

La mente discorsiva, Milano: Cortina).

Kosko B. (1999), Il “fuzzy” pensiero, Milano: Baldini e Castoldi.

Mantovani G., Spagnolli A. (1999), Tecnologie, norme, identità: la negoziazione dell’innovazione tecnologica, in Ricerche di psicologia, 16, 2, pp. 107-136.

Mantovani G. (2000), Ergonomia, Bologna: Il Mulino.

Mecacci L. (2000), La mente umana e il suo mondo artificiale, in Mantovani

(2000), Bologna: Il Mulino.

Melucci A. (a cura di) (1998), Verso una sociologia riflessiva, Bologna:

Il Mulino.

Norman D. A. (1993), Things that make us smart. Defending human attributes in

the age of the machine, Addison- Wesley: Reading, Mass.

Rochlin G. (1999), Safe operation as a social construct, in Ergonomics, n. 1, pp. 1549 – 1560.

Tyler S.A., L'etnografia post-moderna: dal documento dell'occulto al documento occulto. In: Clifford J., Marcus G.E. (1986), Writing Culture and Politics of Ethnography , University of California Press (tr. It: Scrivere culture, Roma: Meltemi, 1997).

Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili, Milano:

Mondadori.

Spaltro E. (2003), La forza di fare le cose, Bologna: Pendragon.

Wenger E. (1998), Communities of pratice. Learning, meaning and identity, Cambridge: Cambridge University Press.

Zucchermaglio C. (2002), Psicologia culturale dei gruppi, Roma:

Carocci.

Riferimenti

Documenti correlati

In considerazione della coincidenza temporale dell’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel D.Lgs. 104/2022 con il periodo di pausa estiva, e in attesa

INDICATORI ( cosa si valuta) PESO (punti assegnati) LIVELLO (voti corrispondenti al Punteggio assegnato CONOSCENZA ARGOMENTO. USO DI UN LINGUAGGIO

Slide offerta da gruppo GRADE Italiano – Laura Amato... … siamo disponibili ad essere convolti

La scala numerica può avere più livelli e varie formulazioni, a seconda di ciò che si intende mettere in evidenza Rubriche - Alessi - ICS Gobetti Trezzano S/N... Classe quinta –

Nel caso di cui al comma 1, devono essere depositati presso il registro delle imprese la denominazione e la sede della persona giuridica amministratore, nonchè il cognome,

In proposito l'istante rappresenta che, da un lato, il punto 9.1 dell’ Accordo in sede di Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le

Contratto di apprendistato professionalizzante che prevede un periodo formativo pari a 3 anni ed un monte ore di formazione formale tecnico professionale e specialistica di

Sono convocati i docenti che stanno sperimentando il progetto sul Biennio comune e i docenti interessati a proporre altre sperimentazioni per il Biennio comune. La docente referente