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CAPITOLO PRIMO ASPETTI STORICI DELL’ORAZIONE PRO CLUENTIO Premessa. È stato già sottolineato all’inizio di questo lavoro come la maggior parte degli studiosi che si sono occupati della Pro Cluentio

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CAPITOLO PRIMO

ASPETTI STORICI DELL’ORAZIONE PRO CLUENTIO

Premessa.

È stato già sottolineato all’inizio di questo lavoro come la maggior parte degli studiosi che si sono occupati della Pro Cluentio1, pur mettendo in evidenza che questa orazione, a differenza di altri discorsi ciceroniani, non presenta né un particolare interesse politico, né contenuto giuridico di eminente rilievo, siano comunque concordi nell’ammettere che questo discorso costituisca una fonte preziosa di informazioni di varia natura.

Riservando quindi ai capitoli successivi della presente trattazione l’analisi degli aspetti giuridici della Pro Cluentio, nelle pagine che seguono ci soffermeremo sull’importanza storica del discorso de quo. Mostreremo quindi come gli eventi cruciali che hanno segnato la storia romana nel I secolo a.C., nel quale tale arringa è ambientata, si riflettano nel corso della stessa in vario modo intrecciati alle vicende private dei suoi protagonisti.

Principali avvenimenti storico-politici della prima metà del I sec. a.C. presenti sullo sfondo della Pro Cluentio.

Il Bellum sociale.

Abbiamo detto poc’anzi come tutti i personaggi presenti nella Pro Cluentio, da quelli di maggiore spicco a quelli più marginali, si muovano sullo sfondo dei principali avvenimenti storico-politici dell’ultimo secolo della Repubblica.

La prigionia di Marco Aurio2, nell’ager Gallicus3, ad esempio, si inserisce sullo

sfondo del Bellum Sociale, definito da Cicerone bellum italicum4, il grande conflitto

1 Si veda per tutti G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op.cit., p.7 e sgg.

2 Marco Aurio in quanto figlio di Dinea, madre di Magia, una delle numerose mogli che Oppianico aveva avuto prima di Sassia, era quindi cognato di quest’ultimo. Cfr. Cic., Cluent. 7, 21 : “Larinas quaedam fuit Dinaea, socrus

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tra Roma ed i suoi alleati italici che, iniziato nel 90 a.C. e durato alcuni anni, vide la fine solo con la promulgazione di alcune leggi5. Tale conflitto6, da subito particolarmente duro e cruento, riveste un’importanza particolare nella storia di Roma, in quanto la costrinse per la prima volta a misurarsi con la forza militare dei

Socii desiderosi di ottenere finalmente quei vantaggi economici - quelli derivanti

dalle guerre vittoriose - e politici - la concessione della cittadinanza romana - dai quali questi ultimi erano stati da sempre quasi sistematicamente esclusi, pur sostenendo gli stessi la maggior parte del peso militare delle campagne che Roma conduceva quasi ininterrottamente.

Giulio Giannelli così sintetizza la situazione dei socii italici: “ad essi, ai fedeli soci,

non si domandavano, nel campo politico, che sacrifici pecuniari e militari, non cooperazione, ma passiva obbedienza, sottomissione alle decisioni dei governanti romani”7. Comincia quindi con la sollevazione di Asculum8 la “più tremenda

insurrezione che Roma si sia mai trovata a dover fronteggiare, nei lunghi secoli della sua storia”9. Mario Talamanca, nel sottolineare la tremenda gravità del conflitto che Roma si era trovata ad affrontare, afferma: “La situazione, all’inizio era gravissima:

per la prima volta dopo oltre un secolo i Romani dovevano combattere contro avversari che avevano il loro stesso livello di addestramento”10.

3 Con questa denominazione geografica si intende una zona di territorio lungo il mar Adriatico, precisamente tra Rimini e Ancona).

4 Cic., Cluent. 7, 21.

5 La Lex Iulia del 90 a.C. e la Lex Plautia Papiria dell’89 a.C. che stabilirono rispettivamente, la prima la concessione della cittadinanza agli alleati che non si erano ribellati e la seconda l’estensione della medesima a coloro che avessero deposto le armi e ne avessero fatto richiesta entro 60 giorni

6 Vale la pena qui di ricordare le principali cause del conflitto de quo, attraverso questa felice sintesi di G. Giannelli (G.

Giannelli, Trattato di storia romana, Bologna 1983, p. 347 e sgg.) che nel sottolineare la rottura dell’equilibrio fra

cittadini romani e soci italici perlomeno a partire dalla fine del III secolo A.C., afferma: “La ripartizione dei vantaggi

conseguiti nelle guerre vittoriose, che si combattevano ora, di regola, fuori d’Italia, si faceva a tutto vantaggio dello Stato romano; Roma incorporava i territori confiscati ai nemici, Roma dichiarava suoi sudditi o suoi protetti i re e i popoli vinti; l’erario romano si impinguava, quasi esclusivamente, delle enormi indennità di guerra riscosse, ad esso solo andavano i redditi delle province; ed anche il bottino di guerra (toltone quanto veniva diviso in parti eguali fra tutti i soldati romani e gli alleati) veniva devoluto per intero al tesoro della Repubblica. A ciò si aggiungeva la notevole differenziazione giuridica che si era stabilita fra soldati alleati e soldati romani al campo ….. Un altro aspetto assai grave di questo problema dei rapporti fra Roma e gli Italici, era costituito dall’intervento, sempre più frequente, del governo romano negli affari interni degli alleati …. ogni volta che si presentasse la necessità di provvedimenti preventivi o repressivi che fossero – comuni a tutta l’Italia o a più nazioni italiche”.

7 G. Giannelli, Trattato di storia romana, op. cit., p. 365.

8 L’odierna Ascoli, allora nel territorio dei Piceni .Cfr. M.Paoletti, s.v. Ascoli Satriano, in Bibliografia Topografica della colonizzazione Greca in Italia Meridionale e nelle isole Tirreniche, Pisa-Roma 1984, pp.324-330.

9

G. Giannelli, Trattato di storia romana, op. cit., p. 365.

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È proprio durante questo conflitto nel quale fu coinvolto anche il Municipio di Larino che Marco Aurio venne fatto prigioniero e, successivamente, tenuto in schiavitù nell’ager gallicus dal senatore romano Q. Sergio:“M. Aurius adulescentulus bello

Italico captus apud Asculum in Q. Sergi senatoris (eius qui inter sicarios damnatus est) manus incidit, et apud eum in ergastulo fuit”11. Purtroppo la vicenda del giovane

avrà un tragico epilogo: l’avido e sfrontato Oppianico, sempre alla ricerca di doti e di sostanze altrui – come afferma Cicerone: “ut erat, sicuti ex multis rebus reperietis,

singulari scelere et audacia”12 - desideroso di mettere le mani anche sulla cospicua parte di eredità di Marco Aurio, dopo aver rintracciato il giovane, riesce a farlo uccidere prima che parenti ed amici mandati a cercarlo dalla madre Dinea lo trovino

“deinde ipsum M. Aurium non magna iactura facta tollendum interficiendumque curavit”13.

La guerra civile tra Mario e Silla – Le proscrizioni.

Dalle parole di Cicerone apprendiamo che il padre del suo assistito, ovvero Aulo Cluentio Abito padre, persona molto stimata, sia nel suo municipio di appartenenza, sia nei dintorni - “A. Cluentius Habitus fuit, pater huiusce, iudices, homo non solum

municipii Larinatis, ex quo erat, sed etiam regionis illius et vicinitatis virtute, existimatione, nobilitate facile princeps”14 - muore all’epoca del consolato di Pompeo e Silla: “Is cum esset mortuus Sulla et Pompeio consulibus”15. Tale riferimento storico ci porta quindi all’anno 88 a.C., nel quale per inciso “ebbe inizio quella

guerra civile tra Silla e i populares16 la cui ultima fase servì a Oppianico, come vedremo, per sistemare alcune sue faccende private”17.

11 Cic., Cluent. 7, 21. 12 Cic., Cluent. 8, 23. 13 Cic., Cluent. 8, 23. 14 Cic,, Cluent. 5,11. 15 Cic,, Cluent. 5,11.

16 Vale a dire la guerra civile tra Silla e Caio Mario sostenuto dai “populares”, iniziata nell’anno 88 a C. 17

G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op.cit., p.12.

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Proprio quest’ultima fase del confitto de quo18 caratterizzata dalle persecuzioni e

dalle proscrizioni messe in atto da Silla nei confronti dei populares e delle città italiche, tra le quali anche Larino, che dall’82 a.C. si erano schierate dalla parte di questi ultimi, ci porta alle vicende legate ad altri due protagonisti della Pro Cluentio: Aulo Aurio19 e lo stesso Oppianico, patrigno e presunta vittima di Cluentio.

La storia di Aulo Aurio, prende le mosse dallo sfortunato caso occorso, come abbiamo appena visto, al giovane Marco Aurio, suo parente molto stretto20 “M. illius

Auri perpropinquus)”, come afferma anche Cicerone21. Questo personaggio, descritto

tra l’altro dall’Arpinate come un uomo forte ed intraprendente, molto stimato nel suo paese -“A. Aurius, vir fortis et experiens et domi nobilis”22 - sospettando infatti che

Oppianico, data la sua fama di persona avida e senza scrupoli, fosse in qualche modo colpevole della morte di questo membro della sua famiglia e nell’intento di ottenere giustizia, prende posizione pubblicamente contro di lui minacciando addirittura di trascinarlo in un processo capitale “in foro palam, multis audientibus, cum adesset

Oppianicus, recitat et clarissima voce se nomen Oppianici, si interfectum M. Aurium esse comperisset delaturum esse testatur”23.

Nuovamente l’orazione si intreccia con eventi storici di più grande portata. Oppianico, infatti, per sfuggire alla punizione che riteneva ormai inevitabile, si allontana da Larino e approfittando del fatto che tale municipio era schierato dalla parte Mariana, cerca rifugio nel campo di Quinto Cecilio Metello Pio, uno dei luogotenenti di Silla che, nel frattempo, tornato vincitore dall’Asia nell’83 a.C., stava annientando i populares e le comunità italiche che li avevano aiutati. Anche Larino quindi si trova a dover subire la terribile repressione avvenuta in seguito alla vittoria del futuro dittatore. E qui rientra in gioco Oppianico che, nell’82 a.C., in forza dei

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Si intende qui la seconda parte della guerra civile tra Silla e i mariani seguita allo sbarco di Silla a Brindisi, nell’83 a.c., di ritorno dalla vittoriosa campagna orientale contro Mitridate re del Ponto.

19 Probabilmente da identificarsi con quell’Aurio Melino, prima genero e poi secondo marito di Sassia. Per questa identificazione cfr. E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.81, nota 46) e G. Pugliese,

Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op.cit., p. 14.

20 Probabilmente il grado di parentela che legava M. Aurio ad A. Aurio era quello di cugino agnatico, ovvero, figlio di un fratello di quest’ultimo. Cfr. E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.81, nota 46). 21 Cic, Cluent. 8, 23.

22

Cic, Cluent. 8, 23

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successi di Silla, può quindi far ritorno a Larino nelle vesti di emissario di quest’ultimo. Successivamente, affermando di essere stato incaricato da Silla stesso, insieme ad altre tre persone, di presiedere al governo locale del municipio, esautora pertanto il collegio dei quattro magistrati - i quattuorviri24 - elettivi di Larino preposti all’amministrazione della città, sostenendo altresì di aver ricevuto incarico da Silla di procedere anche alla pubblicazione delle liste di proscrizione a carico dei larinati filomariani più influenti. Approfittando di questa circostanza a lui favorevole, inserisce in tali liste e, successivamente, fa mettere a morte, non solo il suo antico accusatore, Aurio Melino, ma anche altri tre uomini legati a quest’ultimo che, in qualche modo, costituivano per lui un pericolo, ovvero Aulo Aurio Melino, Caio Aurio e Sesto Vibio.

Leggiamo le parole di Cicerone a proposito di questa vicenda: “Post illam autem

fugam … Larinum in summo timore omnium cum armatis advolavit: quattuorviros, quos municipes fecerant, sustulit: se a Sulla et tres praeterea factos esse dixit, et ab eodem sibi esse imperatum ut A. Aurium, illum qui sibi delationem nominis et capitis periculum ostentarat, et alterum A. Aurium et eius L. filium et Sex. Vibium, quo sequestre in illo indice corrumpendo dicebatur esse usus, proscribendos interficiendosque curaret”25.

La figura di Silla e la “Pro Cluentio”.

Campeggia, dunque, a questo punto sullo sfondo della Pro Cluentio, in tutte le sue sfaccettature, in tutti suoi aspetti positivi e negativi, la grande e contrastata figura di Lucio Cornelio Silla le cui azioni hanno caratterizzato tutta la prima parte del I secolo a.C.., ed in particolar modo, per quanto concerne la Pro Cluentio, hanno costituito lo sfondo per le vicende di molti personaggi di tale arringa. Cercheremo pertanto, attraverso autorevoli giudizi, di svolgere alcune considerazioni di carattere generale

24

Erano così denominati, nei municipia creati subito dop la Guerra Sociale, come la stessa Larino, i magistrati delle amministrazioni locali dipendenti da Roma. Essi formavano un collegio di quattro magistrati (quattuorviri), di cui due,

quattuorviri iure dicundo, erano investiti di poteri giurisdizionali e due, detti quattuorviri aedilicia potestate, avevano

competenze amministrative. Nei municipia, istituiti a partire dal 49 a.C. il collegio magistratuale più frequente era invece quello dei duumviri o duoviri.

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su questo personaggio storico, soffermandoci, specificatamente su quegli aspetti che più da vicino hanno interessato la nostra orazione.

Arthur Keaveney in una felice espressione di sintesi, afferma: “un giorno dell’anno

88 a.C., un console, per la prima volta nella storia di Roma, si mise alla testa del proprio esercito per guidarlo contro di essa. Quel console si chiamava Lucio Cornelio Silla e quell’atto, com’era da prevedere, ha fatto di lui, da quel giorno fino ad oggi, un personaggio dibattuto e controverso dando inizio a mille interrogativi”26. Anche François Hinard, sottolineando i forti contrasti presenti nella figura di questo personaggio, sostiene: “Ben presto, quando era ancora vivo, Silla, che si era

innalzato al di sopra dei suoi contemporanei facendosi conferire una magistratura eccezionale a carattere “costituente”, era diventato un simbolo: incarnava, per gli uni, la restaurazione dei valori tradizionali che avevano fatto la grandezza di Roma; per gli altri era il tiranno sanguinario di cui solo il mondo barbaro aveva fino allora dato l’esempio”27.

Se da una parte dunque Silla si distingue come l’artefice della “restaurazione dei

valori tradizionali che avevano fatto la grandezza di Roma”, come il raffinato uomo

politico e lucido negoziatore dei tempi di Giugurta e l’eccezionale condottiero nella guerra contro Mitridate, dall’altra emerge invece come il “personaggio dibattuto e

controverso” che, investito della suprema magistratura della Repubblica, il consolato,

per la prima volta nella storia di Roma “Un giorno dell’anno 88 a.C… si mise alla

testa del proprio esercito per guidarlo contro di essa.”28.

Silla, quindi, è visto dagli storici, ora come personaggio di rottura dell’ordine costituito, sprezzante delle istituzioni, ora come il testimone di un profondo mutamento di mentalità già in atto a Roma, soprattutto dalla fine della seconda guerra Punica, che vedeva ormai gli eserciti agire non più in virtù del legame di fedeltà verso la Repubblica, ma in forza di un vincolo personale con i propri comandanti.

26 A. Keaveney, Silla, Milano, 1985, p. 9 (edizione originale: A. Keaveney, Sulla the last republican, London, 1982). 27

F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p. 9. (Edizione originale: F. Hinard, Sylla, Paris, 1985). 28 A. Keaveney, Silla, Milano, 1985, op. cit., p. 9.

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Il Grimal a questo proposito nota molto opportunamente che “con la fine

dell’incubo29 e l’inizio delle spedizioni in terre lontane, le cose cambiarono radicalmente. Gli uomini delle legioni non difendevano più, come voleva allora la formula abituale, i loro focolari e le tombe dei loro antenati. Combattevano solo per vincere e dalle loro vittorie si aspettavano unicamente profitto materiale e gloria per il loro capo. Ma volevano che questa gloria continuasse a risplendere su di loro…, ma soprattutto li arricchisse…. Il generale romano diveniva «capobanda», e , in pace come in guerra, resta al comando. L’antico rapporto che esisteva tra lui e suoi uomini nei giorni della guerra, e che si traduce in un legame di «pietas», conduceva alla formazione di gruppi d’azione, numerosi e terribili, che finivano per falsare il gioco delle istituzioni”30. Questo aspetto che sarà destinato ad accentuarsi sempre

più, risulterà un fattore decisivo nelle guerre civili di fine secolo che determineranno il cambiamento istituzionale da Repubblica a Principato. A questo riguardo osserva ancora Grimal “questo tipo di gruppi, uniti attorno a Cesare prima, e a Ottaviano

poi, costruirono la base su cui venne eretto il principato”31. Ecco perché Silla, il console che “un giorno dell’anno 88 a.C.,…. per la prima volta nella storia di Roma,

si mise alla testa del proprio esercito per guidarlo contro di essa”32 è stato, non di

rado, giudicato dagli storici come l’uomo lungimirante che ha saputo anticipare con le sue azioni una svolta che comunque per Roma risulterà alla fine inevitabile. Anche Hinard, nel sottolineare come Silla in molti suoi atti si sia rivelato un precursore di eventi storici futuri, soffermandosi in particolare sull’impiego dell’appellativo di

imperator da parte di questo personaggio, afferma: “il passaggio da una Repubblica ad un regime imperiale, il cui avvento è sottolineato esteriormente, dall’utilizzazione esclusiva del titolo di imperator… ha costituito un lungo processo nel corso del quale la dittatura di Silla è stato un momento fondamentale33 e ancora “conviene rileggere

29 Il Grimal si riferisce qui alla fine della seconda guerra punica avvenuta nell’anno 202 a.C.. 30 P. Grimal, Cicerone, op. cit., p.13.

31 P. Grimal, Cicerone, op. cit., p.13. 32

A. Keaveney, Silla, Milano 1985, p.9. 33 F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p. 7.

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la vita e la carriera di colui del quale si disse ben presto che aveva aperto la via all’Impero.”34.

Non solo questo aspetto ha contribuito però alla costruzione della fama di Silla come personaggio storico “dibattuto e controverso”35. La sua figura si staglia anche nella storia come quella del ”tiranno sanguinario”36, autore delle spietate proscrizioni37che spesso adombravano delle vere e proprie vendette personali, come quella che abbiamo visto messa in atto da Oppianico nei confronti dei suoi concittadini all’indomani del suo ritorno a Larino.

Mario Talamanca, attraverso un’analisi giuridica dell’operato di Silla a partire dall’82 a.C.38, sostiene come di queste illegalità, di questa assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle forme repubblicane fosse consapevole lo stesso Silla che cercava quindi “di dare ex post, alla sua presa del potere ed agli atti, certo illegittimi, con

essa correlati (le stragi dei prigionieri; le uccisioni in massa dei mariani; le vendette, personali; le prime liste di proscritti) un qualche fondamento legale, sulla cui natura si son poi compiute per secoli, le ostinate escogitazioni di quegli astratti legisti (su cui, a ragione, ironizza il De Martino), i quali «vorrebbero trovare anche nei più tragici momenti della storia la formula giuridica applicabile»”39. Sottolinea inoltre come da quel momento fosse iniziata “una fase di terrore e di spietate repressioni

contro i filomariani e gli Italici ostili, della quale le fonti ci hanno tramandato episodi raccapriccianti, come il massacro dei prigionieri sanniti a poche passi dal tempio

34 F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p. 7. 35 A. Keaveney, Silla, Milano, 1985, p. 9. 36

F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p. 9.

37 Facciamo qui solo un accenno agli effetti giuridici nei quali incorrevano i soggetti che venivano inseriti nelle liste di proscrizione: “Con la confisca dei beni e l’esecuzione sommaria di coloro che venivano catturati (l’esilio era il destino

di chi riusciva a fuggire), le proscrizioni comportavano altre conseguenze di natura giuridica tra cui la perdita del «ius honorum» per i discendenti dei colpiti: in pratica la loro totale emarginazione (assieme a quella dei padri esuli) dalla vita politica”, cfr. M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, a cura di M. Talamanca, Milano, 1989, p.

329.

38 M. Talamanca (Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., pp. 326-327) sottolinea ad esempio come dopo la battaglia di Porta Collina, nel novembre dell’82 a.C., Silla dopo essere rimasto padrone assoluto della città, entrò a Roma, senza deporre l’imperium militiae, il che, nonostante “il tentativo delle fonti amiche e di alcuni storici moderni

di ricollegarne i momenti salienti con l’esercizio dell’imperium proconsolare, non vale a nasconderne il carattere manifestamente eversivo della legalità repubblicana, che non tollerava l’esercizio del potere militare nel pomerio, non consentiva condanne a morte senza appello dei cittadino, non conosceva la pratica micidiale delle liste dei proscritti, delle confische arbitrarie e “private” dei loro beni”.

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di Bellona e gli orrendi particolari delle tante stragi seguite alle prime liste di proscrizione” e che di fatto “l’agire spietato di Silla e dei suoi era sorretto esclusivamente dalla forza delle armi”40.

Non tutti gli storici però sono concordi nel giudicare le proscrizioni solo in modo negativo ed anzi alcuni ritengono che le stesse siano state il solo mezzo atto a circoscrivere le vendette personali che sarebbero inevitabilmente seguite all’indomani della vittoria sillana nella guerra civile. Afferma su questo punto Hinard: “Se si voleva evitare che Roma si trasformasse in un terreno di massacro, Silla doveva

trovare un mezzo per esercitare una epurazione controllata”41 e quindi pur

ammettendo l’estrema ferocia con cui, in alcuni casi, tali proscrizioni venivano condotte, dichiara: “Le cose erano però strettamente regolamentate e non

permettevano che la violenza straripasse”42 e questo solo “facendo dei proscritti i

soli colpevoli”43. Sottolinea anzi, come la pratica delle proscrizioni, non solo a Roma, ma anche nelle altre città italiche “che avevano avuto un ruolo determinante nella

politica mariana”44 permise di circoscrivere e di arginare una violenza che altrimenti sarebbe stata eccessiva. Come esempio di quanto sopra, Hinard menziona proprio Larino, il municipio di origine dei protagonisti della Pro Cluentio, e ripercorre tutte le fasi della vicenda che abbiamo già visto descritta da Cicerone nel corso dell’arringa, dal momento in cui, cioè, Oppianico, lascia la città per trovare rifugio presso il campo di Quinto Cecilio Metello Pio, fino al suo ritorno a Larino, in seguito alla vittoria di Silla, dove, una volta preso il potere, inizia la pubblicazione delle liste di proscrizione nei confronti degli esponenti filomariani più in vista.

Ecco dunque l’interpretazione che offre Hinard di questo episodio: “Roma non fu il

solo luogo dove si praticò l’epurazione: la lista di proscrizione comportava il nome di un numero di cavalieri e di senatori che avevano avuto un ruolo determinante nella politica mariana della loro città di origine. Un buon esempio è dato dalla città 39

M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 327 40 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 326. 41 F. Hinard, Silla, Roma, 1990, op. cit., p. 174.

42 F. Hinard, Silla, Roma, 1990, op. cit., p. 183. 43

F. Hinard, Silla, Roma, 1990, op. cit., p. 183. 44 F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p.183.

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sannita di Larino: i magistrati locali, che erano cavalieri romani, avevano preso le difese dei consoli nell’83, obbligando alcuni dei loro concittadini a lasciare la città e trovare rifugio nell’esercito di Metello. Quando dopo la vittoria della Porta Collina Larino decise di sottomettersi, gli esuli ritornarono, accompagnati da una piccola truppa armata e, affissero l’editto di proscrizione con un estratto della lista in cui figuravano i nomi di quelli che bisognava giustiziare, nella fattispecie i magistrati filomariani, quattro personaggi appartenenti a una famigli dell’aristocrazia locale: Aulo Aurio, Aulo Aurio Melino, Caio Aurio e Sesto Vibio”45.

La riforma giudiziaria di Silla.

Dalla Pro Cluentio emerge anche e, soprattutto, la figura di Silla, quale autore di fondamentali riforme in campo giuridico ed istituzionale. Afferma a tale proposito Hinard: “Nessuno può ignorare il decisivo progresso che la riforma sillana fece

compiere all’organizzazione della procedura e del diritto penale: precisava e sviluppava le competenze dei tribunali permanenti già esistenti (il primo era stato creato nel 149 per giudicare crimini di concussione), ne istituiva dei nuovi che concernevano delitti di diritto comune. Questo aveva come conseguenza una definizione più precisa di crimini e delitti e una netta distinzione stabilita tra processi privati… e procedura penale. E benché fosse composto di leggi distinte, l’insieme costituiva un vero e proprio codice penale, l’unico che i Romani abbiano conosciuto: Cesare e Augusto non fecero che completarlo”46.

Mario Talamanca, a proposito di questa riforma, esprimendo un parere più strettamente giuridico, se, da un lato, non ne disconosce gli indubbi pregi, dall’altro, molto più cautamente, non nascondendo neppure le proprie perplessità in merito, osserva che con Silla si verificò un decisivo affievolimento delle attribuzioni del popolo sotto il profilo della competenza in materia giudiziaria. Osserva pertanto: “sostituendo stabilmente a quello comiziale questo nuovo tipo di processo criminale,

il dittatore espropriò il popolo dalla prerogativa di operare, nella sua espressione

45

F. Hinard, Silla, Roma, 1990, p.183.

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comiziale, come suprema corte di giustizia criminale e quindi di decidere, in cooperazione con i magistrati, della innocenza e della responsabilità degli accusati (iudicium populi)”47.

La riforma giudiziaria di Silla e la Pro Cluentio.

Abbiamo affermato poc’anzi che sullo sfondo della Pro Cluentio emerge la riforma giudiziaria di Silla consistente soprattutto nella “generalizzazione e nel

consolidamento del sistema delle quaestiones perpetuae”48, ovvero le corti giudicanti permanenti di Roma davanti alle quali sono citati in giudizio vari personaggi dell’orazione. Prima di tutto bisogna ricordare lo stesso Cluentio, chiamato a rispondere, nel 66 a.C., di fronte alla quaestio de sicariis et veneficiis, dell’accusa di avvelenamento nei confronti del patrigno Oppianico, la difesa del quale, sostenuta da Cicerone, costituisce per l’appunto l’argomento dell’orazione oggetto del nostro studio.

Otto anni prima di questo episodio, e precisamente nell’anno 74 a.C., di fronte alla medesima quaestio perpetua e per lo stesso capo di imputazione, erano stati invece citati in giudizio, e proprio da Cluentio, il liberto Scamandro, C. Fabricio, patrono di quest’ultimo ed infine lo stesso Oppianico, in qualità di loro mandante. Tali processi si erano poi tutti conclusi con un verdetto di colpevolezza nei confronti dei tre uomini.

In relazione all’ultimo dei tre procedimenti prima menzionati – e, precisamente, quello contro Oppianico - denominato da Cicerone, nel corso dell’arringa, iudicium

Iunianum49, l’oratore ricorda anche altre tipologie di quaestiones perpetuae (de

maiestate, de repetundis, ecc….) di fronte alle quali erano stati accusati, all’indomani

della conclusione del suddetto processo, alcuni giudici che avevano fatto parte di quella corte, a cominciare dallo stesso Caio Giunio, presidente della quaestio stessa,

47 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., pp.329 e sgg. 48 B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p.71.

49 Cic, Cluent. 8, 25. Per completezza di informazione è bene puntualizzare inoltre che con l’espressione di Iudicium

Iunianum, Cicerone, nel corso dell’arringa, indica il processo che, celebrato nel 74 a.C. di fronte alla quaestio de sicariis et veneficiis, si concluse con un verdetto di colpevolezza ai danni di Oppianico, accusato di tentato

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in quanto sospettati di corruzione giudiziaria50, vale a dire, cioè, di aver ricevuto denaro per esprimersi con un verdetto sfavorevole nei confronti di Oppianico. Sebbene questi procedimenti a carico dei suddetti giudici si fossero svolti di fronte a

quaestiones non strettamente competenti a giudicare il reato di corruzione

giudiziaria51, secondo il Pugliese, tuttavia, i verdetti52 emessi alla conclusione di tali processi sarebbero stati comunque motivati dal sospetto che qualcosa di poco chiaro durante il iudicium iunianum fosse effettivamente avvenuto53.

Nella parte dedicata agli aspetti giuridici del presente lavoro esamineremo meglio le implicazioni attinenti al reato di corruzione giudiziaria ed approfondiremo anche l’interessante aspetto relativo ai modi in cui, nel diritto romano, si potevano colpire i giudici sospettati di tale crimine riguardo al quale, come abbiamo visto, la Pro

Cluentio fornisce dati molto interessanti. Per ora è sufficiente sottolineare che proprio

il fatto che tali sentenze, che avevano sancito la condanna dei giudici e che avevano contribuito a gettare su Cluentio la cattiva fama - la cosiddetta invidia - di corruttore di tribunali, fossero state emesse per vari capi di imputazione54 costituirà, come vedremo meglio nel prosieguo del presente lavoro, uno degli argomenti principe della linea di difesa adottata da Cicerone per scagionare il suo cliente.

La prima età post sillana: la “lex Aurelia” del 70 a.C..

Prima di iniziare questa sezione è necessario precisare che in base alla riforma giudiziaria sillana, nel quadro della generale riorganizzazione delle quaestiones

avvelenamento nei confronti del figliastro Cluentio. La denominazione di iudicium Iunianum, deriva dal fatto che l’allora presidente della quaestio, il cosiddetto iudex quaestonis o quaesitor, era Caio Giunio.

50

Tale corruzione sarebbe stata messa in atto, secondo l’accusa, dallo stesso Cluentio al fine di ottenere la condanna del patrigno.

51 E non, quindi, davanti alla quaestio de sicariis et veneficiis competente a giudicare specificamente, in base alla legislazione sillana, il reato di corruzione giudiziaria.

52

Vale a dire “le sentenze e le altre decisioni con cui si erano irrogate sanzioni di vario genere a Giunio, ad alcuni

giudici e a Cluentio sul presupposto che essi avessero ricevuto (o rispettivamente dato) denaro perché si giudicasse nei riguardi di Oppianico in senso a lui sfavorevole”. Cfr. G. Pugliese, Aspetti giuridici della pro Cluentio di Cicerone,

Iura, 1970, XXI, p. 168. 53

Nella fattispecie che il verdetto di colpevolezza emesso contro Oppianico dai giudici sotto inchiesta fosse stato effettivamente viziato di corruzione giudiziaria. Da un punto di vista strettamente giuridico, infatti, come nota infatti ancora molto opportunamente il Pugliese: « in verità in questo periodo la corruzione giudiziale non costituiva un delitto

tipico e a sé stante, ma poteva rientrare a secondo del profilo da cui la si considerava, nell’ambito dell’uno e dell’altro delitto tipico» cfr.G. Pugliese, Aspetti giuridici della pro Cluentio di Cicerone, op.cit., pp. 169-170.

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perpetuae, era stato operato anche un cambiamento della composizione delle corti

giudicanti di tali tribunali che, nell’ottica di una generale restaurazione aristocratica, erano state affidate ai soli senatori.

Afferma a tal proposito il Talamanca: “Togliendola ancora una volta agli equites, il

dittatore attribuì al senato… la funzione giudiziaria stabilendo che soltanto da esso fossero tratti i giudici delle varie corti permanenti”55.

Da un punto di vista strettamente giuridico, un giudizio complessivo sull’opera sillana ci è offerto dal Talamanca che, ripercorrendone i vari aspetti, ne sottolinea il complessivo fallimento evidenziando, in particolar modo, come dopo l’uscita di scena di Silla dalla vita politica attiva, sia iniziata subito una generale operazione di smantellamento della stessa. L’opera di Silla, ritenuta incrollabile, conteneva, quindi, già in se stessa i germi di una repentina decomposizione che l’avrebbe condotta ad una quasi totale rovina. Solo alcune parti dell’edificio costruito dal dittatore sarebbero sopravvissute. Afferma a questo proposito il Talamanca: “I romani

ereditarono una costituzione sillana senza Silla, cioè un sistema il cui funzionamento avrebbe richiesto da parte della «nobilitas» un senso di autodisciplina da molto tempo ormai estinto” e, a dimostrazione di quanto sopra, analizzando in particolar

modo la forte compressione dei poteri del tribunato56, continua: “Ad esempio il

tribunato appariva ormai un utile strumento di affermazione per i rampolli delle grandi famiglie plebee, e quasi subito se ne sentì la mancanza”57. D’altra parte il primo segnale della grande sconfitta politica del dittatore si era verificato addirittura pochi mesi prima della sua morte58 con “l’elezione a console per il 78 (insieme

all’ortodosso sillano Quinto Lutazio Catulo) di un suo dichiarato avversario, Marco Emilio Lepido, un personaggio discusso, destinato a divenire il “leader” dei

55 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p.329. Si veda a questo proposito anche B. Santalucia che afferma “Con una lex Cornelia iudiciaria dell’81 a.C. (….) restituì i collegi giudicanti di tutti i tribunali

al senato, in precedenza rinnovato aumentandone i membri e l’area dalla quale erano tratti” (B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, op.cit., p.71).

56 Magistratura che Silla, nel suo disegno di restaurazione aristocratica, aveva svuotato di ogni potere effettivo, riducendola ad imago sine re.

57

M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 333. 58 Avvenuta nel marzo del 78 a.C..

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popolari”59 e, in effetti, “la storia del loro consolato si può riassumere , secondo il giudizio corrente, nel tentativo di Lepido… di «rescindere» gli «acta» di Silla, di abrogare cioè l’ordine nuovo da lui instaurato, e nella opposizione di Catulo a questo disegno”60.

Contrariamente ad altri aspetti dell’opera sillana, è importante sottolineare, come nel campo giuridico, rimase invece fondamentalmente inalterata anche nel periodo successivo la riforma delle quaestiones perpetuae ed anzi si cercò di tendere ad un sempre maggior perfezionamento del sistema già in essere. A questo proposito il Santalucia sottolinea appunto come “dopo l’età di Silla furono emanate numerose

altre leggi dirette più che ad istituire nuove quaestiones a modificare o a riorganizzare le quaestiones già esistenti”61.

Non si trova completamente d’accordo su questo punto il Talamanca che fa notare come, nell’età post sillana, anche la riorganizzazione delle quaestiones perpetuae operata dal dittatore risultò oggetto di notevoli cambiamenti operati innanzitutto sotto il profilo della composizione delle corti giudicanti di tali tribunali62. Tali modifiche, dettate soprattutto dall’esigenza espressa dalla nobiltà di cercare nuovi appoggi e di stringere alleanze, anche al di fuori della propria classe, decretarono, quindi, almeno sotto il profilo politico, un parziale superamento della riforma giudiziaria di Silla. Il Talamanca sostiene infatti che, in tale circostanza, “Nulla poi avrebbe potuto

trattenere i nobili che si sentissero isolati nell’ambito del proprio ordine dal cercare l’appoggio dei cavalieri a costo di restituire loro le tanto contese corti giudicanti”63. Ecco per quale motivo, nell’età post sillana, si sentì l’esigenza di arrivare, e non peraltro in modo indolore, ma “dopo una battaglia che durò parecchi anni”64, alla “restaurazione della potestà tribunizia e al “ritorno alla formazione equestre delle

59 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 333. 60 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 340. 61

B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, op. cit., p.73.

62 La composizione di tali tribunali, come abbiamo già visto, era stata operata da Silla nel senso dell’estromissione degli

equites dalle giurie delle quaestiones perpetuae e dell’esclusivo affidamento delle stesse a membri tratti dal solo ordine

senatorio. 63

M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., pp. 333-334. 64 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.9.

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giurie”65. Si giunse quindi, dopo qualche tempo, e precisamente nel 70 a.C., a quelle che furono tra le conseguenze più importanti del consolato di Crasso e di Pompeo, ovvero alla restituzione al tribunato di “tutti i suoi antichi poteri (lex Pompeia Licinia

de tribunicia potestate)”66 e alla riforma della composizione delle giurie delle

quaestiones perpetuae, operata attraverso il pretore Lucio Aurelio Cotta che “varò un’importante legge giudiziaria che, conciliando le due posizioni estreme in conflitto dai tempi di Gaio Gracco, assegnava i posti di giudice delle «quaestiones» per un terzo ai senatori, per un terzo agli «equites equo publico», e per un terzo ai «tribuni aerarii» (cioè secondo l’interpretazione più probabile ai cavalieri per censo)”67. Questa nuova riforma della composizione delle corti giudicanti68 vide la luce per alcuni fondamentali motivi. Prima di tutto per la necessità da parte della coppia consolare del 70 a.C. di cercare il sostegno della potente classe degli equites, della quale, come abbiamo già accennato, la stessa nobilitas, per vari motivi, non disdegnava l’appoggio politico, come osserva ancora il Talamanca: “Crasso e

Pompeo erano appoggiati dai cavalieri, il primo in particolare era associato alle loro attività imprenditoriali: un rafforzamento dell’ordine equestre era dunque per ambedue un concreto vantaggio”69. In secondo luogo, a causa della pessima reputazione che ormai circondava queste giurie i cui membri erano tratti esclusivamente dall’ordo senatorius. Afferma ancora il Talamanca: “Del resto i

giudici di estrazione senatoria si erano screditati ancora una volta con scandalose assoluzioni: lo notava Cicerone, quando nel 70 sosteneva l’accusa «de repetundis» contro Gaio Verre, l’ultimo reo giudicato da una corte di soli senatori (nel caso di Verre, la corte si decise per la condanna: va notato però che l’accusato, un mariano passato a Silla all’ultimo momento, era politicamente molto debole, e adatto perciò a fare da capro espiatorio)”70. Ed è proprio in base a quest’ultima legge di riforma

65 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.9. 66 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 343. 67

M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 343.

68 Riforma poi abolita da Cesare con la Lex Iulia del 46 a.C.. In forza di quest’ultimo testo normativo dalla corti giudicanti delle quaestiones perpetuae vennero estromessi i tribuni aerarii, lasciando le stesse in mano solo ai senatori e ai cavalieri.

69

M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 343 70 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., pp. 343-344.

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della composizione delle giurie delle quaestiones perpetuae – la Lex Aurelia del 70 a.C. - che è composta la corte giudicante davanti alla quale Cluentio è chiamato a rispondere dei reati a lui imputati.

La Pro Cluentio nel quadro delle lotte tese a strappare al senato il monopolio delle giurie delle quaestiones perpetuae.

Abbiamo poc’anzi affermato che all’emanazione della Lex Aurelia del 70 a.C. non si giunse in modo indolore, bensì attraverso una serie di lotte, nate storicamente dopo i numerosi scandali di cui si erano macchiate le corti giudicanti composte di soli senatori. È proprio nel clima di questi conflitti tesi a strappare a questi ultimi il monopolio delle suddette giurie, a loro assegnato per volontà di Silla, che si inserisce nuovamente la Pro Cluentio. Tali agitazioni, infatti, costituiscono lo sfondo di alcune vicende descritte da Cicerone nel corso dell’arringa che vedono protagonista il tribuno della plebe L. Quinctio, già difensore di Oppianico nel suddetto iudicium

Iunianum. Questo personaggio, descritto tra l’altro dall’Arpinate, come una persona

faziosa, dal carattere violento e dal comportamento tracotante e superbo – “Iam

insolentiam noratis hominis, noratis animos eius ac spiritus tribunicios. Quod erat odium, di immortales, quae superbia, quanta ignorantia sui, quam gravis atque intolerabilis arrogantia!”71- proprio nel contesto di tali scontri, nella sua qualità di tribuno della plebe, riesce abilmente a sfruttare il malumore popolare e ad innescare quindi “un vasto movimento di opinione, che rapidamente portò a una serie di

provvedimenti nei confronti dei giudici sospettati di corruzione (tra i quali lo stesso presidente del tribunale, Gaio Giunio72); e in seguito lo stesso Cluentio venne colpito da una nota di biasimo dai censori”73.

Nel 74 a.C., infatti, all’indomani della condanna del suo cliente nel succitato processo, L. Quinctio che oltre a ricoprire una carica di assoluto rilievo -“L.

71 Cic, Cluent. 39, 109.

72 Si intende qui, naturalmente, il Iudicium Iunianum, vale a dire il processo che, celebrato nel 74 a.C. di fronte alla

quaestio de sicariis et veneficiis presieduta da G. Giunio, si concluse con un verdetto di colpevolezza ai danni di

Oppianico, accusato di tentato avvelenamento nei confronti del figliastro Cluentio. 73 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p. 9.

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Quinctius, homo cum summa potestate praeditus”74 - era anche assai abile ad infiammare gli animi della folla - “tum ad inflammandos animos multitudinis

accommodatus”75 - , inizia a mettere l’opinione pubblica in subbuglio ed a incitare il popolo con assemblee fomentate ogni giorno a scopi demagogici - “contiones

cotidianas seditiose ac populariter concitatas”76 - ad opporsi a quel verdetto in

quanto, a suo avviso, frutto di una giuria viziata di corruzione operata da Cluentio al fine di ottenere la decisione sfavorevole nei confronti del patrigno. In questo clima di aperta contestazione dell’operato del iudicium Iunianum, L. Quinctio, giunge perfino a trascinare in giudizio lo stesso iudex quaestionis, Gaio Giunio, e, pur di arrivare a dimostrare la sua tesi, non esita a compiere gravi irregolarità procedurali nei confronti di quest’ultimo sottolineate puntualmente da Cicerone. Al § 89 l’oratore osserva infatti con indignazione che Giunio, contrariamente al dettato di legge, venne trascinato in un pubblico processo penale mentre “ei quaestioni praefuerat”77, ovvero espletava le mansioni di presidente di una quaestio78. In secondo luogo, l’Arpinate sottolinea ancora che non furono concessi all’accusato neppure i dieci giorni prescritti per preparare la difesa. La ratio di quest’ultima illegalità, viene, con molta arguzia, ravvisata dall’oratore nel fatto che L. Quinctio stava per lasciare la sua carica di tribuno: se avesse quindi aspettato ulteriormente - “paucos dies expectasset

Quinctius”79 - si sarebbe trovato a sostenere l’accusa contro G. Giunio da privato cittadino – “At neque privatus accusare … volebat”80 - e, in tal caso, non avrebbe

più potuto godere dei privilegi dettati dalla funzione pubblica che in quel momento ricopriva. Cicerone, tuttavia, si spinge ancora più in là nelle sue osservazioni: probabilmente L. Quinctio, sapeva che se avesse lasciato passare del tempo, non avrebbe più potuto neppure far leva su quel clima di ostilità popolare – “nec sedata

74 Cic, Cluent. 29, 79 75 Cic, Cluent. 29, 79 76 Cic, Cluent. 34, 93 77 Cic, Cluent. 89, 33.

78 La legge infatti, probabilmente, prescriveva di non chiamare in giudizio un presidente di tribunale nel momento in cui ricopriva tale carica. Cfr. E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.170, nota 195).

79

Cic, Cluent. 33, 90. 80 Cic, Cluent. 33, 90.

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iam invidia”81 - allora particolarmente acceso nei confronti del iudicium Iunianum.

Ma la visione politica di Cicerone, la sua immagine di incrollabile difensore delle leggi contro ogni forma di demagogia sfrenata – nella fattispecie l’impetum

tribunicium82 e la vis tribunicia83 di L. Quinctio – in opposizione a qualsiasi norma o regola dettata dallo stato, costituiranno l’argomento del prossimo capitolo di questo lavoro dedicato, appunto, all’analisi dei risvolti politici della Pro Cluentio.

81 Cic, Cluent. 33, 90. 82 Cic, Cluent. 37, 103. 83 Cic, Cluent. 35, 95.

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