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1.0 Introduzione

1.1 L’età anziana e la fragilità

L’invecchiamento della popolazione generale rappresenta ormai un problema a livello mondiale che ha condizionato l’epidemiologia di molte patologie e la spesa sanitaria. Si stima che nel 2080 i pazienti di età pari o superiore agli 80 anni risulterà più che raddoppiata, pari al 13% della popolazione totale (dati Eurostat 2017). Nonostante l’età, l’invecchiamento è un processo che può associarsi alla fragilità. Essa rappresenta un concetto cardine per lo Specialista in Geriatria in quando associato ad una prognosi peggiore. Negli ultimi anni, la ricerca si è focalizzata sulla diagnosi di fragilità al fine di poter identificare quali pazienti possano essere candidati a trattamenti avanzati a discapito di eventi avversi, senza incorrere in over- o under- treatment.

1.1.1 Definizione di fragilità

La fragilità è definita come una condizione dinamica di aumentata vulnerabilità, che riflette modificazioni fisiopatologiche età-correlate di natura multi-sistemica, associata ad un’aumentata incidenza di outcome negativi, quali cadute, disabilità e delirium, che a loro volta comportano un aumentato rischio di istituzionalizzazione, ospedalizzazione e morte.1

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2 1.1.2 Fisiopatologia della fragilità

Attualmente vi è accordo nel ritenere che la fragilità nell’anziano sia determinata da un disordine di multipli sistemi fisiologici che interagiscono tra loro. È noto che l’invecchiamento sia caratterizzato da una graduale perdita delle riserve fisiologiche, ma nell’anziano fragile la fisiologica riduzione dei meccanismi omeostatici dell’organismo avviene in maniera accelerata e clinicamente rilevabile come patologica. Recenti studi suggeriscono che nel percorso di sviluppo della fragilità, alcuni organi e sistemi quali il sistema nervoso centrale (SNC), i sistemi endocrino, immunitario e muscolo scheletrico siano coinvolti in maniera particolarmente rilevante e strettamente integrata tra loro. In questo contesto, la sarcopenia, definita come una progressiva perdita di massa e di forza muscolare scheletrica associate a ridotte performance funzionali, viene considerata come una componente cruciale della fragilità fisica dell’anziano.2 In condizioni fisiologiche, infatti, l’omeostasi

muscolare viene mantenuta in equilibrio tra formazione di nuove cellule muscolari, ipertrofia e perdita proteica grazie al coordinamento delle attività dei sistemi neuro-immuno-endocrino modulati e regolati dallo stato nutrizionale e dall’attività fisica. Nella fragilità, questo delicato equilibrio si rompe e le componenti reattive di infiammazione (IL 6, TNF β, PCR) e di ossidazione accelerano sia la perdita di massa e forza muscolare che la riduzione funzionale espressione clinica della sarcopenia dell’anziano. Dal punto di vista clinico si osserva che anche la riduzione delle riserve in altri apparati come quello cardiocircolatorio, respiratorio, renale, emopoietico, il metabolismo glico-lipidico e lo stato nutrizionale possono influenzare direttamente e/o indirettamente la cascata funzionale e biologica caratteristica della condizione di fragilità.3

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3 1.1.3 I modelli di fragilità

Negli ultimi 20 anni, sono stati proposti diversi metodi di studio della fragilità che corrispondono a differenti modelli concettuali della fragilità stessa. Secondo il modello fenotipico la fragilità è una sindrome che identifica fisiopatologicamente un fenotipo specifico di anziano fragile, la cui diagnosi è posta sulla presenza di almeno tre delle seguenti cinque caratteristiche:4

a) perdita di peso non intenzionale; b) astenia e facile affaticabilità; c) basso livello di attività fisica;

d) lenta velocità del cammino in un percorso di 4.5 metri; e) ridotta forza muscolare della mano.

Secondo il modello dell’accumulo di deficit, invece, la fragilità è il risultato di un progressivo accumulo di deficit funzionali, sensoriali e clinici che aumentano il rischio di outcomes negativi. In questo caso la fragilità viene misurata mediante un Indice di Fragilità (Frailty Index), calcolato secondo scale di valutazione dalla somma dei deficit identificati, che possono comprendere un numero di item variabile da 32 a 70.5

Appare evidente che questi due modelli, basati su diverse visioni concettuali della fragilità, e che utilizzano diversi strumenti diagnostici, catturano traiettorie differenti di questa sindrome geriatrica. Ciò giustifica le enormi discrepanze in termini di prevalenza e incidenza riportati dagli studi epidemiologici e clinici che esplorano la fragilità secondo questi due modelli e rende impossibile paragonare tra loro risultati di tali studi in quanto basati su strumenti diagnostici differenti. Di fatto nessuno di questi modelli presenta caratteristiche trasferibili concretamente alla pratica clinica. Nessuno, infatti, dimostra caratteristiche “clinimetriche”, in termini di:

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1) accuratezza diagnostica;

2) trasferibilità nei diversi contesti clinici; 3) sensibilità alle variazioni nel tempo;

4) capacità e affidabilità prognostica nel predire gli outcome del paziente e la risposta a potenziali trattamenti.

Tutti questi sono requisiti indispensabili per indirizzare e valutare in modo appropriato gli interventi clinici e assistenziali sia di tipo terapeutico che di prevenzione della fragilità nel singolo individuo.6

1.1.4 Approccio clinico alla fragilità: il modello “multidimensionale”

Più recentemente si è sviluppata in ambito scientifico una visione concettuale della fragilità secondo il modello multidimensionale. Secondo questo concetto, la fragilità dell’anziano viene interpretata come un modello a strati sovrapposti, simile agli strati di una cipolla, che comprende tre dimensioni:7 biologica, fisiopatologica, clinica

(Tabella 1).

Tabella 1. Modello della fragilità a tre dimensioni sovrapposte: meccanismi biologici, meccanismi fisiopatologici e aspetti clinici

Meccanismi biologici Meccanismi fisiopatologici Caratteristiche cliniche

Disfunzione mitocondriale Infiammazione cronica

Deficit funzionale nelle attività della vita

quotidiana Stress ossidativo Neurodegenerazione Ridotta attività motoria

Danno del DNA Deficit ormonale

anabolizzante Deficit cognitivo Accorciamento dei telomeri Squilibrio energetico Malnutrizione

Insufficiente sviluppo dei

meccanismi di autofagia Alterata sintesi proteica Sarcopenia

Metilazione del DNA Multimorbidità

Esaurimento delle cellule

staminali Politerapia

Presenza di sindromi geriatriche

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La dimensione più interna riguarda i meccanismi biologici, che sono principalmente coinvolti nel determinare la fragilità, come la disfunzione mitocondriale, lo stress ossidativo, il danno del DNA, l’accorciamento dei telomeri, la metilazione del DNA. La parte intermedia riguarda i meccanismi fisiopatologici, che indirizzano l’organismo verso la condizione di fragilità e cioè uno stato di infiammazione cronica, un disequilibrio energetico, un deficit ormonale anabolico, la neurodegenerazione. La dimensione più esterna riguarda le conseguenze cliniche che si rilevano nell’individuo anziano fragile: il deficit funzionale, la ridotta mobilità, il deficit cognitivo, la perdita di indipendenza nelle attività della vita quotidiana, la presenza di multiple malattie croniche, la politerapia e la presenza di sindromi geriatriche. Dal punto di vista clinico, nel modello multidimensionale la fragilità viene interpretata come una condizione in cui multipli domini o dimensioni (genetico, biologico, funzionale, cognitivo, psicologico e socio-economico) interagiscono tra loro nel contesto clinico (multimorbidità) e terapeutico (polifarmacoterapia) dell’individuo anziano, determinando e caratterizzando la condizione di fragilità. Pertanto, dal punto di vista operativo, per porre diagnosi di fragilità nell’anziano, risulta importante nella pratica clinica misurare con appropriati test validati le capacità di performance fisica, la mobilità, lo stato cognitivo, lo stato nutrizionale e il carico di comorbidità, che nel singolo individuo vanno a modulare lo stato generale di salute.8

1.1.5 Screening della fragilità

Negli ultimi due decenni, numerosi strumenti sono stati proposti come test di screening della fragilità nell’anziano, al fine di identificare i soggetti a rischio su cui attuare possibili interventi di prevenzione o almeno di follow-up clinico. Una recente

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review sistematica dei principali test di screening della fragilità fenotipica presenti in letteratura (velocità del cammino, Timed-Up-and-Go Test, General Practitioner Assessment, Groningen Frail Indicator, Self-rated Indicator, il Questionario Prisma 7), a fronte di una elevata sensibilità, presentano una bassissima specificità, indicando che nessuno di questi strumenti possa di fatto essere utilizzato in maniera attendibile da solo nella pratica.9 Allo stesso modo, lo Short Physical Performance Battery (SPPB),

pur vantando brevità di esecuzione e discreta accuratezza nel predire disabilità e mortalità, presenta il limite di non essere uno strumento “multidimensionale”, in quanto non è in grado di esplorare le diverse dimensioni della fragilità dell’anziano; d’altra parte, brevi questionari come il FRAIL o la scala FRAIL-NH, privi di reali proprietà clinimetriche, presentano accuratezza diagnostica e calibrazione non accettabili per un loro impiego al di fuori di indagini epidemiologiche. In effetti, a causa della scarsa accuratezza diagnostica, le linee guida delle più prestigiose istituzioni scientifiche geriatriche raccomandano di non utilizzare questi test “brevi” o “semplici” per lo screening della fragilità a livello della popolazione generale e ribadiscono di adottare un approccio basato sulla valutazione multidimensionale per identificare e trattare l’anziano fragile.10

1.1.6 La diagnosi di fragilità: la Valutazione Multidimensionale

Poiché alla base dell’aumentato rischio di outcomes negativi dell’anziano fragile (istituzionalizzazione, ospedalizzazione e morte) vi è l’interazione delle diverse “dimensioni” (biologica, funzionale, psicologica, clinica e sociale), la Valutazione Multidimensionale (VMD) si è rivelata lo strumento migliore per identificare e misurare la fragilità proprio perché capace di esplorare in maniera qualitativa e

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quantitativa le multiple dimensioni dell’anziano.11 La presa in carico del paziente

geriatrico necessita infatti di un processo diagnostico multidimensionale e multidisciplinare, che ha l’intento di identificare le necessità assistenziali del paziente anziano ed in particolare del paziente anziano fragile, al fine di pianificare il trattamento più appropriato, compreso anche il discharge planning. La VMD rappresenta pertanto lo strumento fondamentale per porre diagnosi e quantificare l’impatto delle sindromi geriatriche, per analizzare grado di disabilità fisica e mentale dei pazienti ed infine per fornire informazioni di tipo prognostico,12 in base alle quali

individuare le risorse da impiegare caso per caso. Campi di applicazione di tale strategia potrebbero essere, ad esempio, misure preventive atte a ridurre il numero di cadute e le loro complicanze (come ad esempio la frattura di femore), attraverso un’attenta disamina delle terapie assunte, ponderando quindi i potenziali effetti terapeutici rispetto a quelli dannosi, oltre a impostare terapie mirate nei pazienti a rischio di frattura (anti-riassorbitive o metaboliche-ossee). Al geriatra compete anche l’individuazione e la prescrizione di presidi e ausili idonei a migliorare la qualità di vita dell’assistito, quindi la definizione del grado di invalidità. Così facendo, sarà possibile quindi identificare lo stato di riserva funzionale e disabilità del soggetto in base al quale stilare un piano di trattamento globale personalizzato (patient centered care). È ormai dimostrato come tale approccio migliori gli outcomes in termini di mortalità a un anno,13 qualità di vita offerta e costi, sia diretti

(ospedalizzazione/ri-ospedalizzazione,14 istituzionalizzazione, procedure diagnostico-terapeutiche

inappropriate), che indiretti (disabilità, perdita dell’autonomia funzionale e deterioramento delle funzioni intellettive), con benefici aggiuntivi rispetto all’approccio medico tradizionale.

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Dal punto di vista operativo la VMD si attua somministrando al paziente scale di valutazione specifiche per ogni dominio da esplorare quali la disabilità funzionale, lo stato cognitivo, il tono dell’umore, lo stato nutrizionale, la comorbilità, la terapia domiciliare, il rischio di caduta o di comparsa di lesioni da decubito, ma anche lo stato abitativo ed il contesto sociale e assistenziale del soggetto. Meta-analisi e review sistematiche dei numerosi studi clinici randomizzati condotti in tutto il mondo negli ultimi 30 anni in diversi setting assistenziali e in diverse condizioni cliniche hanno dimostrato che l’impiego della VMD riduce significativamente la mortalità, l’istituzionalizzazione, l’ospedalizzazione e migliora lo stato funzionale e cognitivo dei soggetti trattati garantendo una maggiore appropriatezza negli interventi di cura e assistenziale dell’anziano fragile.15 Tali dati confermano che, da un punto di vista

clinico, essendo la fragilità un concetto multidimensionale, la VMD è lo strumento clinico considerato di riferimento (“gold standard”) per la identificazione, la diagnosi e la gestione dell’anziano fragile nella pratica clinica corrente, come ribadito in un recente documento sulla fragilità fisica della Agenzia Europea del Farmaco (EMA, European Medicines Agency - Committee for medicinal products for human use. Reflection paper on physical frailty: instruments for baseline characterization of older populations in clinical trials. - 2018).

1.1.7 Multidimensional Prognostic Index (MPI)

Nel 2007 Pilotto, et al.,16 hanno descritto e validato in due popolazioni indipendenti

di soggetti anziani il Multidimensional Prognostic Index (MPI), uno strumento prognostico di mortalità basato su un clastering della VMD, in base al quale sono state ricavate le variabili indipendenti, così da identificare i domini più rilevanti della VMD

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con cui predire la mortalità del paziente. Il MPI utilizza pertanto le informazioni ricavate da una VMD standard.

In un recente documento sulla fragilità fisica della Agenzia Europea del Farmaco (EMA, European Medicines Agency - Committee for medicinal products for human use. Reflection paper on physical frailty: instruments for baseline characterization of older populations in clinical trials. 2018), viene citato il MPI come uno strumento clinico capace di fornire informazioni prognostiche del paziente con un’accuratezza predittiva eccellente. Il MPI è un indice prognostico di mortalità, sviluppato e validato inizialmente nell’anziano ospedalizzato.17 Il MPI è calcolato grazie a un algoritmo

matematico che include le informazioni relative a 8 domini, quali attività basali e strumentali della vita quotidiana (ADL, IADL), stato cognitivo valutato mediante lo Short Portable Mental Status Questionnaire (SPMSQ), stato nutrizionale valutato con il Mini-Nutritional Assessment (MNA), rischio di lesioni da decubito valutato mediante la Exton-Smith Scale (ESS), comorbidità mediante il Cumulative Illness Rating Scale (CIRS), numero di farmaci assunti e stato abitativo del soggetto (da solo, in RSA o in famiglia). Una forma breve di MPI con MNA-Short Form a 10 items (anziché 18 items) è risultata accurata e calibrata quanto la versione originale di MPI, riducendo tuttavia di molto i tempi di esecuzione che oscillano in media intorno ai 20 minuti.

Una versione del MPI (MPI-SVa-MA) per soggetti anziani candidati alle cure domiciliari o residenti in istituto per anziani (RSA) è stata creata e validata dalle informazioni relative a 9 domini esplorati con una VMD standardizzata secondo la SVaMA (Scheda di Valutazione Multidimensionale dell’Anziano e dell’Adulto), attualmente in uso in 8 regioni in Italia.

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In ambito internazionale, una versione di MPI è stata validata anche in persone anziane a livello di popolazione generale con lo scopo di predire l’aspettativa di vita ed il numero di giorni trascorsi in ospedale in un arco di tempo lungo oltre 10 anni di follow-up.18

Recentemente infine, una versione di MPI autosomministrato (SEL-FY_MPI) è stata sviluppata e validata nel contesto del progetto internazionale EF-FICHRONIC per un suo utilizzo di screening a livello della popolazione generale e dell’ambulatorio di medicina generale.19

La caratteristica di poter derivare un MPI da scale di valutazione diverse, impiegate in diversi setting e in diversi contesti clinici, configura la cosiddetta “plasticità” del MPI, che garantisce la possibilità di ottenere un indice prognostico quantitativo-numerico in grado di misurare le multiple dimensioni che caratterizzano l’individuo anziano anche da strumenti multidimensionali differenti da quelli impiegati nella versione originale (Tabella 2).

Tabella 2. Calcolo del Multidimensional Prognostic Index (MPI) Punteggio assegnato a ogni dominio Basso (punteggio=0) Medio (punteggio=0.5) Alto (punteggio=1) SPMSQ 0-3 4-7 8-10 ESS 16-20 10-15 5-9 ADL 6-5 4-3 2-0 IADL 8-6 5-4 3-0 CIRS-C 0 1-2 ≥3 MNA-sf 12-14 8-11 0-7 Numero di farmaci 0-3 4-6 ≥7

Contesto abitativo A domicilio con la famiglia Istituzionalizzato Da solo

Punteggio MPI Totale/8

Per calcolare il punteggio del MPI è necessario considerare alcuni dei principali domini della Valutazione Multidimensionale Geriatrica, assegnando il punteggio come sopra indicato. Ogni score è stato stratificato in fasce di punteggio (alto=1 punto, medio=0.5 punti, basso=0 punti), che, sommate e ponderate per il numero totale degli scores considerati, riassumono in un unico parametro un indice che, paragonato ad altre misure di fragilità, fornisce informazioni di tipo prognostico in termini di outcome clinico, di mortalità a breve e lungo termine.

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11 SPMSQ: Short Portable Mental Status Questionnaire; ESS: Exton-Smith Scale; ADL: Activities of Daily Living; IADL: Instrumental Activities of Daily Living; CIRS-C: Cumulative Illness Rating Scale-Comorbidity; MNA-sf: Mini-Nutritional Assessment-Short Form; MPI: Multidimensional Prognostic Index

In particolare, in un’ampia coorte di pazienti affetti da cancro, è stato sviluppato un Modified Multidimensional Prognostic Index (Onco-MPI) per la previsione della mortalità nei pazienti anziani affetti da neoplasia avanzata.20

Il MPI era stato precedentemente validato in pazienti anziani ospedalizzati, affetti da gravi patologie, tra cui diversi istotipi neoplastici,21,22 con un significativo potere

predittivo, superiore rispetto ad altri indici di fragilità ampiamente utilizzati.

In uno studio clinico prospettico, dove sono stati arruolati pazienti anziani con tumori solidi localmente avanzati o metastatici, il MPI ha superato la VMD geriatrica classica nella previsione di mortalità.23

Contrariamente al classico MPI, l’Onco-MPI include i seguenti elementi per valutare lo stato funzionale, cognitivo e nutrizionale, rispettivamente: ECOG-PS (invece di ESS), MMSE (invece di SPMSQ) e BMI (invece di MNA). È interessante notare che l’Onco-MPI è risultato essere uno strumento predittivo altamente accurato e ben calibrato per predire la mortalità a un anno e, come tale, potrebbe essere utile per il processo decisionale clinico nei pazienti anziani oncologici.24

Il MPI può essere espresso sia come indice numerico continuo da 0 (assenza di rischio) a 1 (massimo rischio), sia in tre gradi di rischio di mortalità: basso (MPI-1), moderato (MPI-2) o severo (MPI-3) secondo opportuni cut-off (Tabella 2).

L’MPI è stato impiegato e validato in numerosissime coorti di pazienti anziani affetti da specifiche patologie acute e croniche, risultando sempre un indice ottimamente calibrato, riproducibile e altamente accurato nello stratificare i soggetti anziani in

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diversi gruppi di rischio di mortalità a breve e lungo termine, come confermato da autorevoli reviews sistematiche.25,26

Numerosi studi multicentrici hanno inoltre dimostrato che l’MPI risulta (Tabella 3): 1) significativamente più accurato nel predire la mortalità di altri scores di fragilità, quali l’indice di fragilità fenotipica e gli indici di fragilità secondo l’accumulo di deficit a 32 e 70 items;

2) sensibile alle variazioni nel tempo della fragilità multidimensionale sia durante il ricovero in ospedale che durante trattamento ambulatoriale per depressione; 3) in grado di predire la durata del ricovero, a parità di diagnosi;

4) in grado di predire nel singolo individuo ricoverato la necessità di attivare le cure domiciliari, una istituzionalizzazione, o il re-ricovero in ospedale entro un anno dalla dimissione;

5) di predire il carico assistenziale infermieristico e la difficoltà alla dimissione.

Tabella 3. Studi di applicazione clinica del Multidimensional Prognostic Index (MPI)

Strumento Setting Outcomes e patologie validate Numero di pazienti/tipo di

studio

MPI 8 domini 63 items

Ospedale

Mortalità per tutte le cause a 6-12 mesi

Durata di degenza

Variazione MPI intra-ricovero Grado di assistenza e trasferimento Mortalità a 3-5 anni Cirrosi epatica Demenza Diabete mellito Emorragia digestiva Frattura femore

Insufficienza renale cronica Polmonite

838 (coorte sviluppo) 857 (coorte validazione) 2033/multicentrico FIRI-SIGG 960/multicentrico

MPI_TriVeneto Study Group 135/monocentrico Colonia(D) 1109/monocentrico Seul (KR) 154/monocentrico

262+302/2 studi indipendenti 1342/multicentrico

(Metabolic Working Group) 91+36/2 studi indipendenti 95+247+80 in riabilitazione/ /3 studi indipendenti 1198+162 candidati a emodialisi/multicentrico 134+49+50/3 studi indipendenti

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13 Scompenso cardiaco TIA Distiroidismo Oncologia 376+216 over-80/2 studi indipendenti 654/monocentrico 643/monocentrico 160+691/2 studi indipendenti 658 Onco_MPI-monocentrico Ambulatorio

Mortalità da tutte le cause Rischio di ricovero ospedaliero Depressione Demenza 485/2 centri indipendenti 340 + 90/2 studi indipendenti Popolazione generale

Aspettativa di vita a 12 anni

Giorni trascorsi in ospedale a 10 anni

2472 soggetti/Svezia-SNACK Study MPI-Short Form 8 domini 53 items Ospedale

Mortalità per tutte le cause (1-12 mesi)

Mortalità intraospedaliera

Mortalità per tutte le cause (1 anno) Istituzionalizzazione (1 anno) Accesso alle cure domiciliari (1anno)

Ri-ospedalizzazione (1 anno) Fibrillazione atriale

Impianto transcatetere valvola aortica (TAVI) 4088 pazienti ospedalizzati 1140/multicentrico internazionale MPI_AGE 960/multicentrico internazionale EUROSAF 116 monocentrico-Francia + 71/internazionale multicentrico MPI-SVaMA 9 domini

RSA Tutte le cause mortalità 7876 (coorte sviluppo) 4144 (coorte validazione) Cure domiciliari Demenza Diabete mellito Fibrillazione atriale Malattia Coronarica Acuta

6818 over-65/multicentrico 1712 over-65/multicentrico 1827 over-65/multicentrico 2597 over-65/multicentrico SELFY-MPI 8 domini (autosomministrato)

Ambulatorio Tutte le patologie 167>18 anni/monocentrico EFFICHRONIC

Popolazione generale

318>18 anni/multicentricoEU EFFICHRONIC

Tutte queste caratteristiche clinimetriche identificano il MPI come uno strumento con i punteggi più elevati in termini di validità, affidabilità e fattibilità per identificare e valutare l’anziano fragile nella pratica clinica.27

In conclusione, il MPI risulta avere un valore prognostico ad un anno migliore. Inoltre, possiede un valore predittivo maggiore, nel valutare gli outcomes del paziente in seguito ad eventi avversi.28 Nel suo essere comprensivo di vari aspetti del paziente

anziano il MPI risulta essere, ad oggi, un indicatore di complessità del paziente oltre che un indicatore indiretto di fragilità.

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14 1.1.8 Valutazione Multidimensionale, prognosi e decisioni cliniche nell’anziano fragile

Recentemente, il progetto internazionale MPI_AGE, co-finanziato dall’Unione Europea, ha approfondito il ruolo della VMD, e del MPI da essa derivato, quale strumento utile nel prendere decisioni cliniche negli anziani fragili e multimorbidi che spesso non possono avvalersi di informazioni provenienti da studi controllati in quanto spesso esclusi o comunque poco rappresentati nelle casistiche dei trial clinici randomizzati (RCT). In particolare, una serie di studi ha valutato la appropriatezza di trattamenti “critici” in ambito geriatrico quali le statine come prevenzione secondaria del diabete mellito o della malattia acuta coronarica, gli anticoagulanti nella fibrillazione atriale, i farmaci anti-demenza nel deficit cognitivo o il trattamento con TAVI (impianto valvolare aortico trans catetere). I risultati forniti da queste esperienze sono grandemente promettenti nell’identificare la utilità o meno dei trattamenti terapeutici nell’anziano in funzione del grado di fragilità del soggetto confermando come l’approccio clinico appropriato all’anziano fragile non può che essere di natura multidimensionale.29

1.1.9 La prevenzione ed il trattamento della fragilità

I risultati recenti dello studio longitudinale ELSA (English Longitudinal Study of Ageing), condotto su soggetti anziani inglesi, ha dimostrato che la fragilità aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età ed è maggiore nelle donne rispetto agli uomini. L’indagine, condotta periodicamente ogni quattro anni dal 2004, ha identificato come predittori di fragilità i seguenti domini:30

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1) la presenza di malattie croniche;

2) il carico allostatico (basato sulla valutazione di nove bio-marcatori biologici e clinici che includono pressione arteriosa, misure antropometriche ed esami bioumorali);

3) la scarsa attività fisica;

4) il deficit cognitivo e la presenza di sintomi depressivi; 5) uno scarso supporto sociale.

Alla luce di queste evidenze, emerge la necessità di attuare interventi strutturati a livello della popolazione generale sia in ambito sanitario che socio-economico, che possano incidere sulle condizioni che favoriscono la fragilità dell’anziano. È ampiamente dimostrato che l’attività fisica non solo è associata a ridotta fragilità fisica, ma è anche in grado di migliorare le performance fisiche nei soggetti pre-fragili o a rischio di sarcopenia, cioè affetti da perdita progressiva e generalizzata di massa e forza muscolare associata a una riduzione delle performance fisiche. Anche la polifarmacoterapia, cioè l’assunzione di più di 6 farmaci da parte del soggetto anziano, è un fattore significativamente associato a un aumentato rischio di fragilità.31 Intervenire in età anziana con un percorso di revisione della terapia

secondo i criteri di appropriatezza prescrittiva che comporti magari una riduzione del numero dei farmaci, specie se non necessari, potrebbe tradursi in una minor incidenza della condizione di fragilità. D’altra parte, uno studio condotto su 485 anziani affetti da depressione insorta in età anziana ha dimostrato che nei soggetti responder alla terapia antidepressiva si è osservata una riduzione del 33% della fragilità misurata mediante il MPI; per contro, nei soggetti non-responder non è stata registrata alcuna variazione significativa dello stato di fragilità. Ciò dimostra che il

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trattamento appropriato di una condizione specifica come la depressione può tradursi in un miglioramento globale e multidimensionale della persona anziana con riduzione del suo grado di fragilità. Numerosi studi oggi documentano una correlazione tra adeguata alimentazione, in particolare la dieta mediterranea, e riduzione della fragilità. Interessanti appaiono anche i risultati di un recente studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato Vs placebo, che ha valutato l’effetto di una supplementazione dietetica con aminoacidi in 126 pazienti anziani ospedalizzati: l’intervento nutrizionale ha migliorato significativamente il MPI solo negli uomini, a dimostrazione del fatto che in età avanzata le donne, oltre ad essere globalmente più fragili, appaiono meno responsive agli interventi per migliorare lo stato di fragilità.32 Infine, i dati recenti del progetto “FRAIL” condotto a Genova (la

città con l’indice di invecchiamento più elevato in Europa), uno studio prospettico condotto su 405 anziani stratificati per fragilità in robusti (55.1%), pre-fragili (33.3%) o fragili (11.6%), ha evidenziato che i soggetti anziani robusti svolgono, rispetto ai soggetti anziani fragili, maggiore attività fisica, presentano un più stretto controllo delle comorbidità, un maggiore introito di proteine con la dieta (soprattutto di origine animale come pesce e carni bianche), e presentano, oltre ad una migliore condizione economica anche una maggiore fruizione culturale, con maggiore partecipazione ad eventi sociali e culturali che permettono di sviluppare nell’anziano maggiori interessi e relazioni interpersonali ed affettive. Ciò conferma il ruolo cruciale svolto dagli stili di vita del soggetto, soprattutto se adottati già in giovane età, nel prevenire, e probabilmente anche trattare, la fragilità nell’anziano.33 Si riportano di seguito la

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1) Promuovere una attività fisica regolare, continuativa, prevalentemente aerobica;

2) Contrastare il decadimento cognitivo con screening periodici della memoria e corsi di prevenzione (memory training);

3) Promuovere una corretta alimentazione favorendo un introito appropriato di proteine (soprattutto animali), sali minerali e vitamine seguendo una dieta ispirata ai principi della dieta mediterranea;

4) Promuovere l’adozione di stili vita corretti riguardo ai fattori di rischio delle malattie:

• vascolari (ad esempio fumo di sigaretta, diete a elevato contenuto di grassi animali);

• metaboliche (alcol e altre sostanze tossiche, obesità);

• degenerative (ad esempio introduzione di calcio e vitamina D per prevenire l’osteoporosi);

• infettive (vaccinazioni anti-influenzale, anti-pneumococcica e anti-Herpes Zoster);

• neoplastiche (screening per i tumori al colon, prostata, mammella, utero).

5) Controllo delle malattie croniche e deficit sensoriali con:

• monitoraggio periodico delle funzioni cardiovascolari (ECG, pressione arteriosa), ormonali (funzione tiroidea) e del metabolismo glucidico e lipidico;

• controlli periodici della vista e dell’udito;

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6) Facilitare la partecipazione attiva a momenti di aggregazione sociale ed eventi culturali per promuovere la socializzazione e le relazioni interpersonali.

1.1.10 Conclusioni

L’identificazione, il trattamento e la prevenzione della fragilità nell’anziano rappresentano oggi una delle sfide principali della Geriatria. Il potente impatto della compromissione multidimensionale sul rischio di fragilità nel soggetto anziano conferma quanto recentemente riportato, cioè che la fragilità, oltre ad essere la più comune condizione associata a mortalità nell’anziano, è anche un fattore determinante nel ridurre la qualità di vita in età anziana.34 Nella pratica clinica diventa

cruciale identificare e misurare la fragilità per migliorare sostanzialmente l’approccio di cura dell’anziano.

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1.2 Oncogeriatria

Negli ultimi anni, la prevalenza di malattia neoplastica è incrementata non solo per l’invecchiamento della popolazione generale mondiale e per la maggiore esposizione a fattori di rischio ambientali, ma anche per la maggiore capacità diagnostica legata in particolare ai nuovi programmi di screening.35 Negli Stati Uniti si stima che dal 1980

al 2030 la popolazione anziana crescerà da 25 milioni a circa 72 milioni.36 Anche l’Italia

appartiene a quei Paesi con il più alto indice di invecchiamento al mondo, pari a 157.7 nel 2015 Vs 138.1 nel 2005. Nel 2005, la popolazione anziana era 19.5%, nel 2015 21.7%, nel 2065 si stima che possa essere 32.6%. Nel 2015, gli oldest-old rappresentavano il 3.2% della popolazione ma nel 2065 si stima che saranno il 10%.37

L’incidenza di cancro sta incrementando in tutto il mondo. Nel 2013, sono state diagnosticate 14.9 milioni di neoplasie maligne rispetto a 8.5 milioni nel 1990,38 con

una stima di crescita di 26 milioni per il 2030, come indicato dalla International Agency for the Research on Cancer.39 Ogni giorno in Italia, circa 1000 persone

ricevono la diagnosi di cancro e nel 2016 sono state effettuate 365000 nuove diagnosi, di cui la sede più frequente è il colon-retto (52000), seguito da mammella (50000), polmone (40000), prostata (35000) e vescica (26000) (Fonte dati Istat, 2015 e 2017). Allo stato attuale, più della metà dei pazienti che ricevono una nuova diagnosi di cancro sono di età maggiore ai 65 anni e questo dato si prospetta incrementare del 70% per il 2030 (Surveillance, Epidemiology, and End Results: SEER Cancer Statistics Review, 1975-2010).40,41 I dati epidemiologici forniti dal National

Cancer Institute Surveillance (Epidemiology and Results Program) mostrano che nelle persone di età maggiore a 65 anni il 71% dei decessi è per tumore, dimostrando che

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20

il cancro è una malattia primariamente dell’età anziana.42 Sempre più

frequentemente, questa popolazione “onco-geriatrica” giunge a valutazione oncologica per intraprendere o meno trattamenti specifici. Tuttavia, allo stato attuale non esistono chiare linee guida e protocolli clinici capaci di aiutare il clinico a orientarsi verso un piano di trattamento appropriato, utilizzando al meglio le risorse disponibili senza incorrere in over e under-treatment.43 La gestione dei pazienti

anziani affetti da neoplasia maligna resta pertanto complessa e in corso di rivoluzione.44 Inoltre, molte patologie croniche possono influenzare le linee di

trattamento, facendo sì che i clinici siano propensi a considerare l’età avanzata come un ostacolo al trattamento ottimale e alimentare la paura di incrementare il grado di disabilità e fragilità dei pazienti, peggiorandone il quadro patologico di base.45

Nell’oncologia geriatrica l’obiettivo è stratificare i pazienti in base al loro status biologico per porre indicazione al tipo di trattamento più appropriato in modo personalizzato.46,47,48 Pertanto, oltre alla valutazione specificatamente oncologica, il

management ottimale dovrebbe prevedere anche una scrupolosa valutazione geriatrica.49,50

La VMD geriatrica consiste in un approccio multidisciplinare, per definire lo stato di salute globale degli anziani e per stabilire un piano di cure adeguato. Sin dagli anni 90, oncologi e geriatri hanno riconosciuto l’importanza di integrare la VMD geriatrica con la valutazione oncologica standard51,52,53,54,55,56,57 La VMD geriatrica comprende i

principali domini valutati abitualmente in geriatria inclusi: lo stato cognitivo, psicologico, funzionale, nutrizionale, sociale, le principali comorbidità e le terapie.58,59

La VMD geriatrica può aiutare nell’identificazione precoce dei punti di forza e di debolezza del paziente oppure problemi geriatrici che richiedono specifici interventi,

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21

e può portare allo sviluppo di piani individuali di trattamento antineoplastico al fine di facilitare il programma oncologico.60,61,62 La valutazione geriatrica può aiutare a

determinare inoltre quali pazienti possono essere candidati al trattamento antineoplastico standard, a personalizzare l’approccio, e quelli per i quali le cure palliative potrebbero essere l’opzione migliore.63 Inoltre, la VMD geriatrica dovrebbe

essere vista come uno strumento dinamico in grado di integrare progressivamente nuovi strumenti specifici per valutare meglio il rischio delle procedure di trattamento.64

Secondo la International Society of Geriatric Oncology (SIOG), la valutazione geriatrica completa rimane lo standard di riferimento per definire il grado di fragilità nei pazienti anziani affetti da cancro. È stato inoltre raccomandato il suo uso routinario vista la sua ormai dimostrata efficacia in termini di sopravvivenza con miglioramento dello stato funzionale globale e della qualità di vita.65,66,67,68 In

oncologia geriatrica, la valutazione della fragilità si concentra principalmente sulla capacità della persona di tollerare il trattamento del cancro, in quanto è anche associata ad una peggiore qualità della vita. Tuttavia, la VMD geriatrica richiede tempo e risorse, oltre che l'esperienza clinica del geriatra, il quale non è purtroppo sempre disponibile abitualmente nelle cliniche oncologiche standard.

Le linee guida fornite dalla National Comprehensive Cancer Network (NCCN),69 dalla

European Organization for Research and Treatment of Cancer (EORTC)70 e dalla

SIOG,71 considerano come strategia un "approccio in due fasi", in cui il primo

passaggio prevede un test di screening geriatrico per identificare i pazienti ad alto rischio di fragilità ed il secondo prevede una VMD geriatrica completo che deve essere eseguita dallo Specialista Geriatra (Figura 1).72,73,74,75,76

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22 Figura 1. Management dei pazienti anziani affetti da neoplasia maligna

Dal 2005 le linee guida della SIOG comprendono un totale di 17 diverse scale che sono state studiate in 44 diversi studi clinici per valutare il miglior test di screening in onco-geriatria.77 Questi includono: Geriatric-8 (G8), Oncogeriatric screen (OGS),

valutazione geriatrica completa abbreviata (aCGA), Senior Adult Oncology Program (SAOP) 2, Gerhematolim, Vulnerable Elders Survey-13 (VES-13) e la versione

Residenti in comunità

Panzienti oncologici anziani

Ospedalizzati Istituzionalizzati

(RSA, Hospice)

Screening oncologico/geriatrico

Valutazione oncologica Valutazione Multidimensionale Geriatrica

Trattamento oncologico standard Team di valutazione multisciplinare (oncologo, geriatra, chirurgo, anestesista, psico-oncologo, infermiere professionale, fisiatra, assistente sociale, etc)

Cure Palliative a gestione geriatrica Cure Palliative a gestione oncologica Approccio modificato-personalizzato FRAGILI ROBUSTI FRAGILI

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fiamminga del Triage Risk Screening Tool (fTRST). Finora, sebbene G8, VES-13 e fTRST abbiano mostrato le migliori proprietà clinometriche nei pazienti anziani,78 permane

una sostanziale incertezza su quale test identifichi più adeguatamente la fragilità nei pazienti oncologici più anziani.79

1.2.1 Nuove possibilità di terapia antineoplastica nei pazienti oncologici anziani Nonostante la crescente incidenza e prevalenza del cancro nella popolazione anziana, i clinici si dimostrano spesso titubanti circa la possibilità di impostare un trattamento antineoplastico specifico nei pazienti anziani affetti da neoplasia maligna in ragione dell’età e delle comorbidità, comportando pertanto minori probabilità di ricevere un trattamento.80 Inoltre, i pazienti di età superiore ai 75 anni rappresentano solo il 10%

di quelli arruolati negli studi clinici.81 L'immunoterapia è ormai diventata una pietra

miliare per il trattamento di diversi tipi di tumore data la sua discreta tollerabilità ed efficacia in vari setting clinici.82 Tuttavia, ad oggi, gli studi clinici riguardo

all’immunoterapia hanno incluso solo una minoranza di pazienti geriatrici, con scarse informazioni sulla loro efficacia e profilo di sicurezza. Al contrario, nella pratica clinica quotidiana, i pazienti di età superiore ai 65 anni rappresentano in relatà una parte importante dei candidati all'immunoterapia,83 per cui sono necessarie ulteriori dati

su questa possibilità terapeutica in particolare nel paziente anziano.84 In linea

generale, i pazienti geriatrici oncologici necessitano di una appropriata valutazione preliminare prima del trattamento per evitare over- e under-treatment.85 L'efficacia

del trattamento oncologico può essere influenzata da diversi fattori limitanti come le comorbidità, la polifarmacoterapia con le sue interazioni farmacologiche, lo stato cognitivo e funzionale, nonché l’ambiente sociale.86 Per questi motivi, sono stati

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proposti diversi strumenti per la valutazione geriatrica al fine di stratificare il rischio per il trattamento del cancro.87 Tuttavia, non vi è ancora un consenso univoco su

quale sia lo strumento più utile per stimare la prognosi ed il rischio di tossicità nei pazienti anziani oncologici.88,89 Il MPI è uno strumento efficace, derivato da una

valutazione geriatrica completa standard, validato ormai in numerosi contesti clinici, per stratificare la prognosi dei pazienti geriatrici.90,91 L’MPI, che include 63 items

distribuiti in 8 domini, si è dimostrato uno strumento predittivo altamente accurato e ben calibrato per la stima della mortalità a un anno nei pazienti anziani affetti da neoplasia maligna, risultando utile per il processo decisionale clinico.92 Tuttavia,

finora, non sono stati ancora riportati in letteratura dati prospettici riguardo all’utilizzo dell’MPI come strumento prognostico in geriatrico pazienti oncologici trattati con immunoterapia.

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25

1.3 Immunoterapia

Negli ultimi anni, l’oncologia si è avvalsa di nuovi approcci terapeutici che si sono dimostrati efficaci, sicuri e ben tollerati. Tra questi, l’immunoterapia è diventato ormai un campo in rapida in rapida evoluzione, legato in particolare alle migliori tecniche e conoscenze di biologia molecolare. L’immunoterapia trova inoltre meno limitazioni al suo impiego in termini di stadio di malattia e comorbidità associate. Essa rappresenta pertanto una valida chance terapeutica anche nei pazienti oncologici anziani, affetti da neoplasia avanzata che sarebbero stati definiti in passato “incurabili”, con un impatto ottimale in termini di qualità di vita e remissione di malattia a lungo termine. Negli ultimi anni, è stato possibile trattare molti pazienti. Per tali motivi, la ricerca si è attualmente focalizzata sull’identificazione di nuovi biomarkers, da utilizzare come checkpoints al fine di sviluppare nuovi inibitori capaci anche di superare il micro-ambiente tumorale. Ad oggi, l’immunoterapia è impiegata sia in ambito palliativo che curativo.93

1.3.1 Immuno-checkpoints

1.3.1.1 Definizione

Gli inibitori dei checkpoints sono immuno-modulatori che agiscono sulla risposta immune cellulo-mediata T anti-tumorale. I checkpoints sono ubicati sulle cellule T, sulle cellule presentanti l’antigene (APC, Antigen Presenting Cells) e sulle cellule neoplastiche.94 Dal punto di vista molecolare i checkpoints immunitari sono recettori

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26

intercellulare, l’attivazione o l’inibizione della cellula immunitaria stessa.95 Per tali

motivi, i checkpoints immunitari coinvolti nell'attivazione delle cellule T sono di interesse clinico attuale. L’interazione fra questi modula la via di segnalazione immunitaria in senso positivo (attivandola) o negativo (inibendola). Esempi di checkpoints inhibitors sono:

• CTLA-4 o CD152 (Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen);96,97

• PD-1 o CD279 (Programmed cell death protein 1); • LAG-3 (Lymphocyte-activation gene 3);

• TIM-3 (T cell immunoglobulin and mucin domain 3);

• VISTA (V-domain immunoglobulin suppressor of T cell activation).

Tali molecole svolgono un ruolo cruciale nel mantenimento dell’auto-tolleranza immunitaria, infatti i segnali di co-stimolazione negativa impediscono alle cellule T di determinare reazioni autoimmuni. Tuttavia, anche altri checkpoints immunitari svolgono un ruolo critico per la modulazione di altri sottogruppi di cellule immunitarie (ad esempio CD40 per le cellule B). È stato ormai dimostrato che i checkpoints immunitari con azione di co-stimolazione migliorano l’espansione e la sopravvivenza delle cellule T. Ad esempio:

• CD40;

• OX40 o CD134; • 4-1BB o CD137;

• GITNF (Glucocorticoid-induced tumour necrosis factor) e GITR (recettore); • ICOS o CD278 (Inducible T cell co-stimulator).

Esistono altre vie metaboliche intracellulari che svolgono un ruolo critico nell'attivazione delle cellule immunitarie e che potrebbero, per estensione, essere

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27

considerate dei checkpoints immunitari. Ad esempio, sia nelle cellule neoplastiche che nelle cellule mieloidi, l'indoleamina 2, la 3-diossigenasi (IDO) e l'arginasi sono enzimi chiave che, esaurendo gli aminoacidi, possono inibire le funzioni effettrici delle cellule T.

1.3.1.2 Immuno-sinapsi

Riconoscimento immunitario degli antigeni tumorali da parte delle cellule T

Durante la fase di innesco dell'immunità antitumorale, gli antigeni tumorali vengono presentati alle cellule T tramite APC, come le cellule dendritiche (DC) o i macrofagi. La specificità dell'attivazione delle cellule T nei confronti di un antigene tumorale si basa sul riconoscimento dello stesso presentato dalle principali proteine del complesso di istocompatibilità (MHC) sulla superficie degli APC e sul recettore delle cellule T (TCR). Tale riconoscimento rappresenta la fase effettrice della risposta immunitaria antitumorale. Le cellule T CD8+ e CD4+ sono in grado di riconoscere rispettivamente i peptidi presentati dalle molecole MHC-I e MHC-II. Questa interazione TCR/MHC fornisce il primo segnale per l'attivazione delle cellule T (detto segnale 1).

Molecole di co-stimolazione

L'attivazione di una cellula T richiede anche un secondo segnale, fornito da molecole di co-stimolazione. Storicamente, le prime molecole di co-stimolazione identificate appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline B7. Il CD80 (noto anche come B7.1) e CD86 (noto anche come B7.2) sono espressi sulla superficie delle APC o

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delle cellule tumorali ed agiscono come ligandi attivanti del recettore co-stimolatorio CD28 espressi sulla superficie delle cellule T (detto segnale 2).

Più recentemente, sono stati descritti altri immunostimolanti dei checkpoints, come ad esempio OX40 (CD134), 4-1BB (CD137) o GITR (CD357). Questi TCR appartengono ai recettori della superfamiglia del TNF (TNFSFR) e la loro attivazione migliora la sopravvivenza delle cellule T e le loro funzioni effettrici.98 Il CD40, appartiene alla

stessa famiglia, ed è espresso sulle APC. Esso è capace di amplificare l'attivazione delle cellule T, aumentando le presentazioni di antigene. È interessante notare che le molecole di co-stimolazione sono anche altamente espresse su cellule T regolatorie immunosoppressive (Tregs). L'attivazione delle Tregs favorisce l'auto-tolleranza immunitaria. Le Treg difettose sono state associate a disturbi autoimmuni, mentre le Treg intratumorali sono state associate a una prognosi peggiore in molte tipologie di tumori.

Recettori co-inibitori

Esistono anche dei circuiti di feedback negativo che dopo l’attivazione delle cellule T possono prevenire la sovrastimolazione dell'auto-reattività. Il recettore co-inibitorio CTLA-4 presenta struttura analoga al recettore CD28, seppure con effetti opposti: infatti, esso è capace di legarsi a CD80 e CD86 con un'affinità molto maggiore rispetto a CD28, fornendo segnali inibitori alle cellule T e bloccando quindi l'attivazione delle cellule T stesse. L'espressione di membrana di CTLA-4 si trova principalmente nelle cellule T CD4+, in particolare Tregs (Figura 2).99

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29 Figura 2. Evoluzione dell’espressione degli immuno-checkpoints CTLA-4 e PD-1 nella risposta immunitaria100

a) Il checkpoint immuno-mediato da CTLA-4 è indotto nelle cellule T all’inizio della risposta antigenica. Il livello di induzione del CTLA-4 dipende dall’amplificazione del segnale iniziale mediato dal TCR. L’alta affinità del ligando induce alti livello di CTLA-4, il quale riduce l’amplificazione della iniziale risposta. Dopo che il TCR è stato stimolato dall’incontro con l’antigene, il CTLA-4 è trasportato sulla superficie della cellula. Pertanto, CTLA-4 funziona come modulatore del segnale per mantenere un livello consistente di attivazione della cellula T.

b) Al contrario, il ruolo principale della via del segnale di PD-1 non è all’inizio dell’attivazione della cellula T, ma piuttosto per regolare le risposte infiammatorie tissutali attraverso le cellule T effettrici riconoscendo l’antigene nei tessuti periferici. Nei tessuti, i segnali infiammatori inducono l’espressione dei ligandi di PD-1. IFN-γ è principalmente prodotto dai T helper (TH1). L’eccessiva induzione di PD-1 sulle cellule T nel contesto di un’esposizione cronica può indurre uno stato anergico oppure di esaurimento nelle cellule T.

CTLA-4: Cytotoxic T-lymphocyte Antigen 4; DC: Dendritic Cell; IFN: Interferon; MHC: Major Histocompatibility Complex; PD-1: Programmed Cell Death Protein 1; PD-L1/2: Programmed Death-Ligand 1/2; TCR: T Cell Receptor

Fin dalla fase di attivazione, il recettore PD-1 può essere espresso sulle cellule T e quindi interagire con i due rispettivi ligandi di morte programmata [PD-L1 (noto anche come B7H1 o CD274) e PD-L2 (noto anche come B7DC o CD273), Programmed Death-Ligand 1/2]. Dopo il legame, PD-1 determina un segnale negativo sulle cellule T effettrici, inibendo così le loro azioni citotossiche. CTLA-4 e PD-1 sono di solito altamente espressi sulle cellule T intra-tumorali e si ritiene che la loro stimolazione contribuisca all'inibizione complessiva delle cellule T antitumorali.101,102

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30 1.3.1.3 Terapie immunitarie mirate ai checkpoints

Dalle ricerche finora effettuate, è stato ipotizzato che le cellule T ad azione antitumorale potrebbero essere inibite, e quindi bloccate, dalla stimolazione di recettori co-inibitori attraverso la sintesi di anticorpi antagonisti, al fine di ridurre le interazioni CTLA-4/B7 e PD-1/PD-L1/2 e quindi liberare l'effettore del segnale sulle cellule T nelle fasi di innesco o effettrice.103 Questa deduzione ha rappresentato un

grande cambiamento nell’approccio al trattamento dei tumori dove, invece di progettare terapie mirate al tumore, attualmente si stanno invece progettando terapie immuno-mirate al fine di agire sulla tolleranza immunitaria al cancro, ripristinando pertanto il riconoscimento delle cellule T contro le cellule tumorali.

1.3.1.4 Procedure tecniche

A differenza della chemioterapia (ChT) e delle terapie mirate al tumore, che hanno lo scopo di distruggere direttamente le cellule tumorali, le terapie dirette ai checkpoints immunitari si legano a ligandi o recettori dei linfociti per migliorare l'attivazione dei linfociti stessi e consentire una risposta immunitaria anti-tumorale citotossica. Le prime terapie immunitarie mirate ai checkpoints sviluppate nella clinica erano anticorpi monoclonali umanizzati o completamente umani selezionati per le loro proprietà antagonistiche contro i checkpoints immunitari come CTLA-4, 1 e PD-L1.104 Hanno dimostrato una promettente attività clinica in oltre 30 diversi tipi di

tumore nelle prime fasi degli studi. I pazienti con una risposta tumorale condividono una caratteristica comune: la loro risposta è più duratura di quanto non sia stato finora osservato con ChT e terapie mirate al tumore.

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Questa durabilità della risposta tumorale si è tradotta in significativi benefici in termini di Overall Survival (OS) in numerosi studi clinici di fase III. Un'altra caratteristica di questi farmaci è il loro profilo di sicurezza: possono scatenare tossicità autoimmuni e infiammatorie nei pazienti, i cosiddetti eventi avversi immuno-correlati (irAE). Finora nella clinica sono stati utilizzati diversi isotipi, come mostrati in Tabella 4.

Tabella 4. Prima generazione di anticorpi monoclonali contro il checkpoint immunitario.

Target Nome Isotipo

Anti-CTLA-4 Iplimumab IgG1 Tremelimumab IgG2 Anti-PD-1 Nivolumab IgG4 Pembrolizumab IgG4 PDR001 IgG4 Anti-PD-L1

Atezolizumab Fc mut* IgG1

Durvalumab Fc mut* IgG1

Avelumab IgG1

*Fc mut: anticorpi mutati in parte del segmento Fc per evitare l'attivazione del recettore Fc e la citotossicità anticorpo-dipendente (ADCC, Antibody-Dependent Cellular Cytotoxicity) CTLA-4: Cytotoxic T-lymphocyte Antigen 4; Ig, immunoglobulina; PD-1, Programmed Cell Death Protein 1; PD-L1, Programmed Death-Ligand 1

Questi anticorpi di solito hanno una lunga emivita e sono somministrati per via endovenosa con intervalli di somministrazione variabili. Gli anticorpi PD-1 e anti-PD-L1 sono stati inizialmente sviluppati con un dosaggio basato sul peso. Tuttavia, i risultati di numerosi studi clinici non hanno mostrato alcuna correlazione tra dose, efficacia e tossicità per l'anti-PD-(L)1 e la maggior parte dei composti sono ora

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32

sviluppati con una dose piatta, sufficiente per saturare il target.105 Per l'ipilimumab,

anticorpo anti-CTLA-4, non è stata identificata alcuna tossicità dose-limitante (DLT) negli studi di fase iniziale. Tuttavia, un recente studio randomizzato su pazienti con melanoma metastatico (MM) ha dimostrato che ipilimumab era più attivo e più tossico a 10 mg/Kg rispetto alla dose approvata di 3 mg/Kg. Questa relazione dose-efficacia di ipilimumab attualmente solleva interrogativi sul meccanismo d'azione degli anticorpi anti-CTLA-4 e sulla dose ottimale da utilizzare in combinazione con anticorpi anti-PD-(L)1.

Nuovi anticorpi destinati a checkpoints immunitari inibitori come LAG-3, immunorecettori a cellule T con immunoglobulina e motivo inibitorio (TIGIT), VISTA e TIM-3 e checkpoints co-stimolatori come OX40, CD40, 4-1BB, GITR e ICOS sono in fase di valutazione.

1.3.1.5 Biomarcatori predittivi e/o prognostici di rilevanza clinica (potenziale)

Colorazione PD-L1

L'espressione tumorale di PD-L1, valutata mediante colorazione immunoistochimica (IHC, Immunohistochemistry), è stata identificata come un biomarcatore associato a una maggiore probabilità di risposta tumorale in pazienti trattati con anticorpi anti-PD-L1 e un sistema operativo migliore in più tipi di tumore. Lo stato anti-PD-L1 di un tumore si basa sia sul kit di colorazione IHC sia sui metodi di punteggio.106 A causa

dell'eterogeneità dei test, non vi è consenso sul cut-off che definisca un tumore ad alta espressione di PD-L1. Il PD-L1 può essere espresso in modo costitutivo attraverso

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una via oncogenica oppure indotto da citochine infiammatorie come l'interferone-gamma (IFN-γ), come mostrato in Figura 3.

Figura 3. Espressione di PD-L1 sulle cellule tumorali107,108

a) In alcuni tumori, la segnalazione oncogena costitutiva può sovraregolare l'espressione di PD-L1 su tutte le cellule tumorali, indipendentemente dai segnali infiammatori nel microambiente tumorale. L’attivazione delle vie di segnale Akt e STAT3 guida l'espressione di PD-L1.

b) In alcuni tumori, il PD-L1 è indotto in risposta a segnali infiammatori. L'induzione adattativa può essere un meccanismo comune per l’espressione di multipli immuno-checkpoints nelle neoplasie. IFN, Interferon; MHC, Major Histocompatibility Complex; 1, Programmed Cell Death Protein 1; PD-L1, Programmed Death-Ligand 1; STAT, Signal Transducer and Activator of Transcription; TCR, T Cell Receptor

IFN-γ può anche portare ad up-regulation di PD-L1 sulla superficie di qualsiasi cellula del microambiente tumorale e le cellule T attivate potrebbero essere doppiamente positive per PD-1 e PD-L1. Il pembrolizumab è attualmente l'unico anticorpo anti-PD-1 approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) per una popolazione selezionata di pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) e carcinoma gastrico positivi per PD-L1.109

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Tumori infiammatori e cellule T CD8+

In diversi tipi di tumore, i tumori con profilo di espressione genica IFN-γ e alti livelli di cellule T CD8+ infiltranti a livello tumorale hanno migliori risposte e sopravvivenza dopo la terapia anti-PD-(L)1.110,111

Carico mutazionale

I tumori con un elevato carico mutazionale sono stati correlati ai benefici del sistema operativo a seguito del trattamento con ipilimumab in MM, con pembrolizumab in NSCLC e con atezolizumab nel carcinoma della vescica. Ad oggi, si ritiene che un elevato carico di mutazione tumorale (TMB) possa produrre numerosi neo-epitopi di cellule tumorali immunogene, che possono essere riconosciute da cellule T attraverso le molecole MHC. Tuttavia, sembra che il TMB possa essere un marcatore prognostico indipendentemente dal profilo di espressione genica antinfiammatoria intratumorale. La descrizione del TMB è attualmente eseguita a partire da campioni di cellule tumorali o DNA tumorale circolante.112

Mismatch Repair Status

Tumori con deficit del DNA mismatch repair (dMMR) o alta instabilità del DNA microsatellitare (MSI-H, microsatellite instability-high) hanno mostrato grande sensibilità alla terapia con anti-PD-(L)1.113 Attualmente si ritiene che nei tumori con

deficit del sistema dMMR si accumulino mutazioni del DNA, che possono portare alla presenza di alti livelli di neo-antigeni associati alle mutazioni, la maggior parte riconosciuti dalle cellule immunitarie.114 Negli Stati Uniti, i tumori con deficit dMMR

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Biomarcatori ematici

Un elevato rapporto neutrofili/linfociti è stato associato a scarsi risultati nei pazienti trattati con ipilimumab e terapia anti-PD-(L)1 tra diversi tipi di tumore. Alti livelli di lattato deidrogenasi sierica (LDH) o CD25 solubile sono stati associati a prognosi sfavorevole, sebbene nessuno sia stato attualmente utilizzato nella clinica.

Microbiota

Nei modelli preclinici, il microbiota intestinale è stato identificato come un modulatore chiave del sistema immunitario migliorando l'attivazione e l'infiltrazione delle cellule T nei tumori. L'impatto del microbioma intestinale sull'efficacia dell'anti-PD-(L)1 resta da dimostrare nell'uomo, ma è attualmente oggetto di indagine attiva.115,116

1.3.1.6 Risultati clinici

Le terapie con target immuno-checkpoints hanno ricevuto l’approvazione da parte della FDA in 10 tipologie di tumore o categorie di cancro tra il 2011 ed il 2017: MM, NSCLC, carcinoma a cellule renali (RCC, Renal Cell Carcinoma), carcinoma uroteliale, carcinoma squamocellulare testa-collo (HNSCC, Head and Neck Squamous Cell Carcinoma), linfoma di Hodgkin (HL, Hodgkin Lymphoma), carcinoma di Merkel (MCC, Merkel Cell Carcinoma), epatocarcinoma, carcinoma gastrico e i tumori con deficit MSI-H.

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Anti-CTLA-4

L’unico anti-CTLA-4 che ha ricevuto l’approvazione della FDA è il pembrolizumab nel MM, prima come monoterapia nel 2011, poi in associazione al nivolumab nel 2015. L’approvazione si è basata su dati pilota del CheckMate 067 trial, con Objective Response Rate (ORR) del 72.1% con nivolumab e iplimumab Vs 21.3% con solamente iplimumab e risultati statisticamente significativi in termini di OS per la combinazione rispetto alla monoterapia con ipilimumab (non raggiunto (NR) Vs 19.9 mesi nel gruppo iplimumab).117 Similmente, la terapia di combinazione in prima linea con

nivolumab e iplimumab ha recentemente dimostrato benefici clinici in pazienti affetti da RCC in stadio avanzato o metastatico precedentemente non trattati. Risultati provenienti dalla fase III del CheckMate 214 trial mostrano miglioramento significativo in termini di OS (NR Vs 26 mesi) e Progression-free survival (PFS) (11.6 mesi Vs 8.4 mesi) rispetto a sunitinib in pazienti a rischio intermedio-basso con RCC metastatico. Nel NSCLC avanzato, la fase I del CheckMate 012 trial ha documentato benefici clinici per questa combinazione, con risposta globale in più del 47% dei pazienti; attualmente è ancora in corso la fase III del CheckMate 227 trial per confermare tali risultati. Tale combinazione risulta ancora in corso di valutazione nei pazienti con mesotelioma pleurico non candidabili a intervento chirurgico, nello studio CheckMate 743. In pazienti con MM avanzato e con mesotelioma recidivante, il tremelimumab ha fallito nel dimostrare benefici significativi in termini di sopravvivenza rispetto agli standard di cura (SoC, standard-of-care) ChT e placebo, rispettivamente. Recentemente, l’associazione di darvalumab e tremelimumab non ha raggiunto l’endpoint primario di outcome in termini di PFS nello studio MYSTIC in

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prima linea per pazienti con NSCLC metastatico, mentre l’analisi di OS è ancora in sospeso.

Anti-PD-1

Il nivolumab è stato il primo immunoterapico approvato per i pazienti con MM (CheckMate 066 e CheckMate 037) e per la terapia adiuvante del melanoma resecato di stadio III (CheckMate 238)118. Il nivolumab è stato approvato per pazienti con

NSCLC squamoso (CheckMate 017)119 e non (CheckMate 057), RCC (CheckMate 025),

HNSCC (CheckMate 141), carcinoma uroteliale (CheckMate 275), dMMR carcinoma colon-rettale metastatico (CheckMate 142) e variante classica del HL dopo fallimento delle terapie di prima linea. Il trattamento dei pazienti con HL dove seguire il trapianto autologo emopoietico di cellule staminali e brentuximab vedotin post-trapianto (CheckMate 205 e CheckMate 039).

Nello studio randomizzato di fase III CheckMate 026, il nivolumab non si è dimostrato superiore rispetto alla ChT come trattamento di prima linea nei pazienti affetti da NSCLC con espressione di PD-L1≥5%.120 Inoltre, c'era uno squilibrio in termini di livello

di TMB tra i due bracci di studio, che avrebbe potuto contribuire a questo risultato negativo. Infatti, i pazienti con TMB elevato hanno mostrato un ORR e una PFS più elevati quando trattati con nivolumab rispetto alla ChT e viceversa nei pazienti con TMB basso. È interessante notare che non vi era alcuna correlazione tra il livello di espressione di PD-L1 e TMB.121

Analogamente, pembrolizumab è stato approvato come trattamento di seconda linea nel MM recidivante, NSCLC (con PD-L1>1%), HNSCC, HL variante classica, carcinoma uroteliale e qualsiasi tumore solido ad espressione MSI-H. Nel NSCLC avanzato o

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metastatico precedentemente non trattato, pembrolizumab è stato approvato con espressione di PD-L1 su almeno il 50% delle cellule tumorali, con un ORR del 44.8% contro il 27.8% nel gruppo ChT, grazie ai risultati della fase III del trial KEYNOTE-024.122

Inoltre, la combinazione di pembrolizumab con carboplatino e pemetrexed rappresenta ancora uno SoC per pazienti affetti da NSCLC metastatico, indipendentemente dall'espressione di PD-L1, sulla base dei risultati dello studio KEYNOTE-021 (ORR 55% Vs 29%). Il pembrolizumab è stato anche approvato come trattamento di prima linea nei pazienti con carcinoma uroteliale non idoneo al cisplatino, grazie ai risultati di KEYNOTE-052 (ORR 29%).

Anti-PD-L1

Gli anticorpi anti-PD-L1 sono stati approvati anche in altri tipi di tumore, come il carcinoma della vescica avanzato per durvalumab e atezolizumab, sulla base dei risultati degli studi di fase III e fase II rispettivamente dei trials DANUBE e IMvigor 210. Nei pazienti con NSCLC metastatico, atezolizumab è stato approvato sulla base dei risultati degli studi POPLAR di fase II e OAK di fase III con OS di 12.6 mesi Vs 8.9 mesi per il trattamento di II linea. Recentemente, durvalumab ha mostrato un miglioramento statisticamente significativo nella PFS (16.8 mesi Vs 5.6 mesi) dopo la chemio-radioterapia in pazienti con NSCLC localmente avanzato (studio PACIFIC). Un terzo agente anti-PD-L1, avelumab, è stato approvato nel 2017 sia come trattamento di II linea del carcinoma uroteliale metastatico, sia come trattamento di I linea del MCC metastatico.

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39 1.3.1.7 Potenziali sviluppi futuri

Poiché le terapie mirate al tumore sono migliori dal punto di vista della PFS, e le terapie mirate ai checkpoint immunitari sembrano fornire maggiori benefici in termini di OS (almeno per le malattie metastatiche), la combinazione delle due categorie di agenti può migliorare significativamente sia la sopravvivenza che le risposte durature in molte tipologie di tumore. Inoltre, la combinazione di immunoterapie è attualmente studiata in molti trials clinici su più tipi di tumore. Aumentando l'efficacia del sistema immunitario, gli agonisti dei checkpoints co-stimolatori potrebbero anche essere di interesse per migliorare la risposta antitumorale generata dagli inibitori dei checkpoints stessi. La modulazione di cellule immunitarie innate attraverso anticorpi del checkpoint immunitario, agonisti del recettore del riconoscimento di pattern o virus oncolitici potrebbe anche migliorare l'adattamento del sistema immunitario. Un'altra classe di anticorpi che colpiscono le cellule neoplastiche e le cellule T (i cosiddetti “anticorpi bispecifici di coinvolgimento delle cellule T”) sono attualmente in fase di valutazione e potrebbero essere di interesse in combinazione con gli Anti-PD-L1. Sebbene gli anticorpi diretti contro il checkpoint immunitario conferiscano a lungo termine risposte durature, una maggiore comprensione dei meccanismi di resistenza primaria e secondaria a questi agenti risulta fondamentale per lo sviluppo futuro dell’immunoterapia oncologica e per una migliore selezione dei pazienti.

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