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4. IL MANIERISMO E LA STRUTTURA DELLE ADORABILI IMPROBABILITÀ

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4. IL MANIERISMO E LA STRUTTURA DELLE ADORABILI IMPROBABILITÀ

L’intreccio di elaborati grovigli verbali può considerarsi tipico dell’atteggiamento che governa la poesia di stile manierista, secondo la quale, qualsiasi altra cosa si possa intendere per arte, essa è prima di tutto arte, anche a rischio di risultare di maniera. Inoltre, benché in grado di creare e abitare un proprio mondo di opere di fantasia, e fedele prima di tutto a se stessa, l’arte, per quanto autonoma e auto-referenziale, è altresì parte dell’esperienza, anche solo in quanto esempio negativo.

James V. Mirollo

Parte I I

Al di là della sorpresa e della novità, i capricci manieristi non erano destinati a insegnare lezioni in qualche modo applicabili alla vita. Nel liberare l’emulazione dai vincoli della mimesi, l’arte dava vita a un regno autonomo, in cui il progresso pregiava stili caratteristici in grado di «superare» la tradizione. Per Arcimboldo e Comanini la tecnica era molto legata alla novità, e lo stile si nutriva di virtuosismo «routinario». Come

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chiarisce Walter Friedlaender, la maniera «ripete qualcosa di predeterminato»; questo è ciò che accadeva durante la seconda metà del XVI secolo da Firenze e Praga a Fontainebleau1. La ripetitività implicava la profusione e l’eccesso. Era più facile agire in modo artificioso che naturale, nel rigido contesto del diletto, e si ricordi che lo stesso termine manierismo si riferisce a stilizzazioni artificiali di grandi modelli2.

Agli inizi del XVI secolo si dava per scontato che lo stile implicasse equilibrio, eleganza e abilità di esecuzione, e ciò gettava un’ombra negativa su tutto ciò che sapeva di artificiosità, affettazione e consapevolezza. Nel corso del secolo, l’imitazione fantastica avvicinò gli opposti; la sprezzatura di Castiglione cedette il posto alla sprezzatura artificiosa di Comanini, e il concetto vasariano di licenza artistica finì per essere l’altra faccia delle norme, non il loro opposto: «Nella regola una licenzia». Infine con il successo ottenuto dall’Arcimboldo la stessa licenza assurse a vero e proprio principio normativo3.

II

Per non confondere il Manierismo col Barocco sono necessarie alcune distinzioni di fondo. Mentre Vasari e Comanini associavano l’originalità alla sperimentazione, Bruno nel 1584-85 intraprendeva un’analisi sistematica della teoria dei generi:

la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie di vere regole, quanti son geni e specie di veri poeti4.

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Bruno si trovava quindi ad affrontare un dilemma: come si potevano sostenere posizioni anticanoniche senza trasformarle in nuovi canoni? Com’era possibile contestare la rigidità di un sistema senza istituire un antisistema di pari inflessibilità? Da Bruno e Cervantes fino a Velazquez, molti artisti collocavano l’invenzione e la critica in contesti parodici, in qualche modo equidistanti dalla dicotomia di genere e anti-genere. Spesso la critica dell’opera artistica era parte dell’atto creativo stesso. Mentre le forme barocche lottavano per affrancarsi dai vincoli generici, l’artificio manierista si crogiolava nella ripetitività.

Piantata com’era tra l’ambiguità pittorica e quella linguistica, la Flora manierista si comportava come una specie di pianta parassita che si nutriva di Umanesimo ma rifiutava la linfa vitale del Barocco. Bruno applicava il principio del fare «tutto di tutto» poiché aveva una visione trasformativa della vita. Al contrario, le bizzarre composizioni di Arcimboldo si mantenevano a debita distanza dai processi empirici: l’artificio doveva allontanarsi dalla natura. Invece di vagare liberamente nell’infinità della Nuova Scienza, la sfinge manierista si manteneva saldamente ancorata a territori in cui la natura diveniva artistica, artificiosa e artificiale5.

Focalizzandosi sul XVI secolo, Craig Hugh Smyth scrive che la «maniera» nasceva da tre grandi cause:

la prima era una confusa ed esclusiva imitazione di qualche stile precedente, principalmente quello di Michelangelo, ma in alcuni casi anche di Raffaello, Correggio o di un’antica scultura. La seconda era una routinaria destrezza, ottenuta con la pratica ma prettamente superficiale e meccanica a causa della premura e della mancanza di conoscenza, la terza era un insieme di capriccio e stravaganza.

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Credo che l’arte di Arcimboldo possa essere compatibile con la seconda e terza causa.

Il critico viene poi a sostenere che

lo stile anti-classico degli anni ’20 era nato principalmente dal desiderio di sperimentare e contribuire a creare qualcosa di nuovo piuttosto che da una crisi spirituale. Si trattava di un esperimento come molti altri in quel dato momento della storia della pittura, più che di una rivolta assoluta6.

Tuttavia, lo sperimentalismo anticlassico di Pontormo e Rosso Fiorentino non fu l’unico, a interessare quel turbolento settantennio7

.

Dopo la metà del XVI secolo, il fantastico in arte acquistò nuova forza. Dürer aveva avuto modo di apprezzare la diversità e le «innumerevoli opinioni divergenti sulla bellezza» e anche Leonardo Da Vinci ricercava la varietà. Specialmente in Italia settentrionale, ricorda Erwin Panofsky, moltissimi artisti si riproposero di superare lo stile classico, all’interno di una cultura caratterizzata dal forte desiderio per svaghi di ogni genere8. In quella stravagante costellazione di forme, penso ad esempio agli ibridi scultorei come i satiri in bronzo del Giambologna, situati in una grotta di Pratolino o nella Fontana di Nettuno dell’Ammannati (Firenze 1563-75), alle strutture mostruose di Federico Zuccari per il Palazzetto Zuccari di Roma e alla distorsione anamorfica dell’Autoritratto in uno specchio convesso del Parmigianino (1524).

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Federico Zuzzari, Palazzetto Zuccari (dettaglio), Roma, Via Gregoriana

La critica ha posto a confronto l’arte stilizzata del Manierismo tardo cinquecentesca con la concretezza realistica del Barocco9. Un tale paragone suggerisce che la cultura può evolversi beneficiando allo stesso modo del progresso e della stasi. È un ragionamento critico errato presumere che i periodi o i movimenti debbano susseguirsi l’un l’altro come i vari anelli di una catena.

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III

Al fine di paragonare specificamente Manierismo e Barocco, mi concentrerò sulla metamorfosi, una figura estrema del mutamento e stravaganza di fondamentale importanza per la poetica di entrambi. In un contesto barocco Bruno poteva vedere «ne l’umana specie di molti in viso, volto, voci, gesti, affetti, ed inclinazioni altri cavallini, altri asinini, aquilini, bovini». Essi «trasudano un principio vitale per cui in potenza di prossima passata, o di prossima futura mutazion di corpo sono stati, o son per esser porci, cavalli, asini, aquile, o altro, che mostrano10.» Le mutazioni fisiche nell’Apollo e Dafne del Bernini (1622-25) trasformavano gambe in pezzi di corteccia, piedi in radici e chiome in foglie. Parimenti il sonetto di Marino Donna che si pettina trasforma i capelli in onde marine. Connaturato alla forma letteraria e scultorea, il processo metamorfico si dipana nel tempo e nello spazio11.

Al contrario, le metamorfosi di Arcimboldo sono costrutti intellettuali. La metafora presente nell’Acqua lega i dettagli della fauna marina alla categoria verbale; il cambiamento viene così a sfumare in contiguità. Benché sembrino uguagliare le metamorfosi naturali dei bruchi in farfalle, tali composizioni, di fatto, costituiscono una parodia della mutazione, confondendo un organismo funzionale con un assemblaggio meccanico. Nell’apparato iconografico manierista, né i poteri trasformativi della natura, né quelli della lingua hanno alcuna efficacia. In esso l’unità è decorativa, anziché energetica. Nel trattare dei poteri metamorfici delle divinità oniriche, Comanini (Trattati, 3:270) scrive di come Arcimboldo li imitasse utilizzando la composizione (componendo), l’unione (congiungersi) e la

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mescolanza (accozzando). Tali tecniche andavano a funzionare a livello superficiale, e anche la stravaganza si limitava a sostituzioni superficiali12. Tenendo conto di quello che Isidoro di Siviglia definiva eteromorfismo etimologico, possiamo sostenere che le figure di Arcimboldo «comportano un cambio di posizione senza trasformazione» (Etymologiae XI.3.9).

A questo punto è bene ricordare come Aristotele abbia stabilito una distinzione tra metafore statiche e attive:

dire che un buon uomo è ‘quadrato’ equivale certamente a una metafora; sia il buon uomo che il quadrato sono perfetti, ma la metafora non suggerisce attività. D’altro canto, nell’espressione ‘con la forza in pieno fiore’ è presente una concetto di attività. (Retorica, 1411b, 26-30).

La distinzione tra tropi animati e inanimati, tra Bernini e Arcimboldo, può aiutarci quindi a delineare i limiti del «mutevole» Barocco, che rispetta l’integrità fisica dell’oggetto, e quelli del «composito» Manierismo, che fa dipendere la forma esclusivamente dal soggetto che la predispone. Perciò le figure retoriche sono funzionali in un caso e strutturali in un altro.

A questo punto ritengo appropriato considerare i ritratti di Arcimboldo come dei collage. Questa tecnica, che fosse di natura surrealista o dadaista, smussava gli oggetti su una superficie, lasciandoli singolarmente autonomi dall’insieme. Privilegiando la simultaneità spaziale allo spiccato carattere narrativo tipico dei rilievi e dei mosaici, il collage si propone come una tecnica decorativa «perfettamente consona» alla superficie piana. Era possibile ricondurre l’ordine del mondo a quello della tela, più o meno allo stesso modo in cui la pagina stampata riusciva a sviluppare la propria semantica superficiale nel momento in cui la cultura tipografica contribuiva a conferire la giusta importanza alle immagini13.

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Ruotando la bussola della retorica in direzione iconografica, Mario Praz scrive che Arcimboldo, nel suo Rodolfo II come Vertumno mischiò soggetto nobile e lessico prosaico. Esso «possiede la mutevolezza di Proteo, ma quest’ultimo rappresenta già la mutevolezza assoluta, a causa dello sfruttamento delle forme tipico dell’espressività barocca». Ovidio e Orazio ci narrano come egli potesse «prendere qualsiasi forma» poiché era il «dio delle molteplici mutazioni» (Metamorphoses XIV, SatireII). Vertumno invece «è più misurato, i suoi esperimenti di trasformazione avevano un fine preciso». Poiché le sue metamorfosi sono limitate alle quattro stagioni, sembra che la divinità rappresenti un approccio artistico a metà tra equilibrio e mutamento. Le sue trasformazioni sono prevedibili proprio nei limiti della divergenza in atto nelle tecniche manieriste14.

In questo frangente si noti come Erasmo nel secondo tomo del De Copia, ancorasse la propria difesa dell’«abbondanza materica» a una mitologia della «mutevolezza», che includeva figure come Mercurio, Circe, Morfeo, Vertumno e Proteo, tutte legate alla trasformazione. Le ultime due conferivano lustro a iperboli e superlativi: «più incostante di Vertumno», il cui nome deriva dal suo perpetuo vertere (cambiare); più mutevole di Proteo che «si trasforma in ogni sorta di cosa incredibile» (Libro I, 46). L’incostanza si misura con stagioni dalla breve durata. Essendo dipendente dalla ricorrenza e dalla sua negazione era possibile plasmare l’instabilità. Per tanto Erasmo sposerebbe l’interpretazione di Praz, ammesso qualche devoto ibrido da un lato e qualche slittamento grottesco dall’altro.

Agli albori del XVI secolo, anche un teorico autorevole come Pietro Bembo poneva dei limiti alla «mutabilità» del mito di Proteo: I poeti antichi sembrano aver dato a Proteo dapprima forma d’acqua, poi di fuoco e poi di bestia, tuttavia non ha mai mostrato più di una forma alla volta, non solo perché non era

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ritenuto possibile fare una cosa simile, ma anche perché non si capiva come fosse possibile riunire tali cose15. Come umanista, Bembo si affidava alle categorie intellettuali più che ai processi fisici. L’opposizione tra Vertumno e Proteo si basa quindi su una differenza qualitativa, cioè, sulla metamorfosi in quanto processo fisico o in quanto costrutto assemblato nell’officina della stravaganza mentale. Nel primo caso si ha un processo transitivo e fisiologicamente funzionale, ovvero cose che divengono altre cose. Nel secondo caso invece siamo di fronte a un costrutto intransitivo e propriamente auto-referenziale, ovvero cose che rassomigliano o meno ad altre16.

Mezzo secolo dopo, il Tasso avrebbe utilizzato il mito di Proteo in ambiti estetici, in uno dei suoi Intermedi, rappresentazioni allegoriche con accompagnamento musicale interpolato tra gli atti:

Proteo son io, che trasmutar sembianti E forme soglio variar si spesso.

Essendo egli il dio dei cambiamenti scenici, Proteo presiede al mondo dell’artificio teatrale17

.

Sul soggetto delle metamorfosi, Tasso scriveva alla fine di questo dialogo sulla bellezza:

Io stimo, senza fallo, che l’instabile e l’incostante sia simile al bugiardo; però l’uomo che fa mille mutazioni d’aspetto, di costumi e d’età, non è vero uomo; ne ‘l fanciullo è vero fanciullo, ne ‘l giovane è vero giovane, ne ‘l vecchio è vero vecchio: ma l’uomo è più tosto una imagine ed una fantasia de la umana essenza […] Solo è vero quel che mai non si muta né si varia; né patisce aumento né diminuzione, ma sempre rimane in se stesso e somigliante a sé medesimo. Però tutte le cose generabili e corruttibili sono false18.

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Anche nell’ultima fase della cultura cinquecentesca la metamorfosi portava scompiglio ai margini dell’equilibrio umanista. Quando Santi di Tito dipingeva Le sorelle di Fetonte mutate in pioppi nello studiolo di Francesco I, con mani e chiome che si tendono fino a tramutarsi in ramoscelli fogliosi attaccati ai corpi, non avveniva alcuna trasformazione e la metamorfosi si rifaceva a fonti letterarie19.

Bruno invece conferiva al verbo proteiforme «fare», un’energia plastica, metaforica e metamorfica allo stesso tempo: Com’è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e trasferirle, in virtù di metafora e pretesto di allegoria, a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti e far cossì tutto di tutto20. Mentre Bruno rompeva l’antico cerchio dell’unità tolemaica, la bizzarra virtù dei manieristi bloccava ogni ansia per il futuro. I manieristi si rifugiavano in un dedalo di loro creazione, in cui Arcimboldo poteva giocare con ogni cosa. Entrambe le menti erano delle cornucopie, ma una sceglieva la «generazione» mentre l’altra si fermava alla «costruzione». In natura la crescita vegetativa ha la capacità di auto-regolarsi e l’anomalia non può mai avere un carattere permanente. Il mondo artificiale invece, può imitare una tale proliferazione, ma anche scegliere alternative deficitarie o eccessive. Tentare di fare ciò che natura non poteva costituiva una sfida manierista, tuttavia, la proliferazione e l’assemblaggio nell’arte, potevano rivendicare la stessa permanenza.

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IV

Vasari, in ambito manierista fa risalire l’origine della pittura e della scultura agli Etruschi. Benché sepolta «tra le mura del labirinto», la meravigliosa tomba di Porsenna, presso Chiusi, mostrava «alcune piastrelle in terracotta a mezzo rilievo, dallo stile e dalla lavorazione così raffinati da non poter essere ritenute il frutto di un’arte immatura». Nella prefazione alle Vite, Vasari stabiliva un legame tra le «forme d’arte labirintiche» e la maturità di artisti «abili e competenti». Le mappe labirintiche potevano avere riconoscimento ufficiale solo ai margini della natura e lontano dal primitivismo. Sono stati stabiliti interessanti legami tra il labirinto e una varietà manieristica di forme naturali e artificiali. I dedali naturali, come le Grotte di Postumia, mostrano formazioni rocciose a forma di teste elefantine, tartarughe e gallerie di cristalli. La fauna che vi abita include bizzarri esseri ibridi, capaci di respirare sia fuori che sott’acqua21

.

Al di là di rose dal nome improprio, Umberto Eco ha stabilito una chiara distinzione tra le varie tipologie di labirinto. Quello classico ha una forma lineare: Teseo «poteva solo raggiungere il centro e da lì cercare l’uscita». Mentre il filo di Arianna risulta di fatto, superfluo, il Minotauro ha la funzione di «rendere un po’più appassionante la ricerca». Il labirinto quindi era barocco nella misura in cui la linearità e la continuità allontanavano e avvicinavano all’uscita.

In ambiti referenziali, quindi il labirinto evoca mistero e rimanda a Creta e al Minotauro. Persino Shakespeare lo associava alla tradizione:

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Non puoi vagare in questo labirinto, dove si nascondono minotauri e orribili tradimenti.

(Enrico IV, 5.3[sic])

L’altra tipologia di labirinto è «d’invenzione manierista; iconograficamente parlando, non compare prima del tardo Rinascimento». «Un labirinto» dice Umberto Eco «mostra una scelta di percorsi, alcuni dei quali conducono a un vicolo cieco22». Come ricorda anche Borges, nella lingua inglese, il termine «maze» (labirinto) richiama alla mente il sostantivo «amazement» (stupore) che associa le sue connotazioni ludiche ai giochi, ai puzzle e gli svaghi presenti nei giardini. Labirinti manieristi come quelli di Pratolino, Bagnaia e presso i Giardini di Boboli a Firenze, offrivano svaghi di ogni genere, sfruttando parimenti la natura e la tecnologia. Fuori, l’immaginazione manierista creava una fauna fatta di gesso: nani, esseri deformi e monelli, che si divertivano con giochi rudi, melodie stonate e rozze risate23. A Roma, l’architettura labirintica di Castel Sant’Angelo custodiva una summa di arte manierista. Mentre Perin Del Vaga dipingeva le «grottesche» negli appartamenti papali, i giochi pirotecnici conferivano una veste surreale nelle occasioni di festa.

I labirinti sono unicursali, mentre i dedali tendono a essere multicursali, poiché conducono a fortezze, nascondigli o santuari pieni di terrore. Una tale struttura cumulativa di motivi formali, è di fatto rappresentativa della mentalità manierista. In inglese «to be mazed» significa «iniziare un’interazione d’identità» ed essere «buffamente intricato l’uno nell’altro, come nel caso del Vertumno-Rodolfo II (Fig. 19). Michael Ayrton concorderebbe nel dire che i labirinti spingono la volontà, il caos e l’ambiguità fino al limite di sopportazione. Il labirinto è di fatto, «un modello del cervello, un diagramma dell’intestino e una mappa del

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mondo24». Tra i suoi meandri ci ritroviamo protetti e imprigionati dal nostro stesso ingegno, capace di creare uno schema di percorsi eccessivamente tortuosi.

V

Nel territorio liminale del compiacimento manierista, l’artista rifiutava il flusso ideologico conseguente al progresso storico che Bruno, Caravaggio e Bernini accettavano totalmente. Ai margini di tale perpetuo cambiamento, i manieristi facevano ricorso al potenziale ludico insito nella tradizione artistica stessa. Una poetica radicata in tali assunti ideologici considerava il labirinto un metaforico indicatore di deliberata volontà di raggiro. Al fine di comprendere meglio il carattere e la funzione manierista del labirinto, sarà utile concentrarsi sulla sua fonte originaria: il mitico labirinto di Dedalo a Creta.

Per Teseo, il labirinto rappresenta una sfida, che egli accetta. Vi si addentra, e dopo aver compiuto un atto eroico ne abbandona l’isola. Esso incarna un’artificiale pietra di paragone della prodezza umana; è un equivalente microcosmico dell’epica natura selvaggia. Teseo e Dedalo sono uomini dal destino segnato, in un certo senso a Creta si sfidano a vicenda, per poi lasciare l’isola e andare incontro ai propri destini. La marginalità geografica di Creta è emblematica tanto quanto il loro allontanamento da essa. Il labirinto è un palcoscenico in cui l’homo artifex mette alla prova se stesso, e così facendo, da una svolta alla propria vita. Avendo disputato e vinto il proprio incontro al centro delle deviazioni architettoniche (il dedalo), Teseo entra nel regno della leggenda. Il labirinto quindi è il luogo delle prove decisive.

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Ai fini di questo studio è altrettanto importante sapere che il Minotauro fece la sua comparsa in un momento in cui la civiltà cretese cominciava ad attraversare la sua fase declinante. Pasifae fu travolto da un eccessivo desiderio, Dedalo fuggì, l’irato Minosse lo inseguì per poi rimanere ucciso e Arianna aiutò uno sconosciuto a liberare l’isola dal mostro. Eccessi e spostamenti tali potrebbero essere qualificati come indicatori «manieristi» di decadenza mitologica.

In un contesto manierista è normale aspettarsi una qualche tipologia d’inversione, dobbiamo quindi spostare il nostro accento dal percorso compiuto da Teseo alla condizione statica in cui si trova il Minotauro. Dal punto di vista del mostro, la costruzione va a creare una struttura che isola il centro. Al pari di un ragno, egli si trova nel cuore di una simbolica forma di emarginazione che lo esclude dal mondo esterno. In questa struttura, egli si trova a sua agio, non vi si perde e non desidera quindi alcun cambiamento. La ragnatela architettonica gli fornisce sicurezza e protezione. È un «altro» mondo per noi, non per il Minotauro.

In una precedente fase dell’Umanesimo, l’Alberti aveva equiparato il capofamiglia ideale a un ragno: Voi vedete il ragno quando egli ha nelle sue reti le cordicine tutte in modo sparse in razzi, che ciascuna di quelle benché sia per lungo spazio tesa, pure il suo principiare e nascimento si vede principiare ed uscire dal mezzo, nel quale luogo l’industrioso animale osserva sua sedia e mansione […] Così faccia il padre della famiglia25

. Pur rifiutando il ragno come modello pedagogico di comportamento sociale, Arcimboldo avrebbe certamente ammirato la solerzia di una creatura in grado di tessere filamenti labirintici. Successivamente Francis Bacon avrebbe considerato tali filamenti come grovigli decorativi e garbugli retorici che potremmo considerare, di fatto, manieristi. Nel suo cammino verso Bacon, il ragno

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manierista non costruì strutture di ordine ma motivi ornamentali che si nutrivano di estetismo.

Nel mondo reale, i ragni devono appendere i propri filamenti all’instabilità fenomenica del mondo esterno. Dimorano in luoghi tranquilli in cui l’attività atmosferica è minima, così da tessere la tela in un vacuo vuoto, astratto come una griglia prospettica. Ai limiti estremi dell’assenza di vita, le ragnatele crescono in angoli d’inerzia polverosa, marginali rispetto al flusso della vita biologica. Forte di questo sovvertimento manierista, la ragnatela è esteticamente bella, ma effettivamente è una trappola. Tale potrebbe divenire il periodo manierista se ci lasciassimo sfuggire il suo carattere artificiale.

Al centro della ragnatela architettonica, il Minotauro è un ibrido dai contatti con il mondo esterno ridotti al minimo. Al contrario di Teseo e Dedalo, egli non ha un futuro da costruire, l’intraprendenza e l’ingegno sono fuori della sua portata. Non varcherà mai la soglia della storia, e può compiere solo azioni ripetitive, di fatto tutti questi sono indicatori fisici e comportamentali di un’inclinazione al manierismo.

Pur essendo una creatura ibrida, il Minotauro è condannato a vivere in un ambiente costruito dall’uomo. In quanto frutto della trasgressione umana, egli può soddisfare il proprio appetito solo tramite il sacrificio di vite. L’uso e l’abuso del suo ingegno da parte dell’uomo, si nutrono così a vicenda. Questo balzo metaforico non può non echeggiare la propensione manierista a sfruttare la capacità produttiva della tradizione artistica. Il parassita manierista non cresce sugli alberi ma su muri e altri manufatti

Se mai il Minotauro intendesse uscire dal labirinto si ritroverebbe perso, in altre parole, la ragnatela artificiale era stata creata per tutelare il suo isolamento piuttosto che per prevenire la sua fuga. È stato il filo d’Arianna

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a stabilire una netta distinzione tra labirinto e dedalo. Il filo costituiva un legame ai moti transitivi della storia, la sua mancanza serviva a mantenere un intransitivo premeditato isolamento.

Se mai necessario, il filo manierista sarebbe utilizzato all’interno del labirinto non per trovare una direzione, ma per prendersi gioco dell’idea stessa. Visto che Dedalo quasi vi rimase intrappolato, l’edificio cretese era da considerarsi, di fatto, un intrico che contribuiva a proteggere il Minotauro. Sfortunatamente per lui, Teseo in una funesta occasione lo mutò in vero e proprio labirinto. Dopo tutto, l’esistenza parassitica ha un carattere subalterno, alla fine ogni Minotauro incontrerebbe il proprio Teseo, allo stesso modo in cui qualsiasi Arcimboldo incontrerebbe il proprio Bruno. In ogni caso, le differenze tra labirinti e dedali si basano più su una questione di uso che di pianta. In una retrospettiva d’insieme la categorica marginalità del labirinto ha un carattere permanente, sebbene il sentiero del progresso storico alla fine sarebbe riuscito a sostituirla .

PARTE II

Nel 1936 André Breton dichiarò che la crisi dell’oggetto in arte poteva essere risolta solo attraverso l’abbattimento delle barriere che separavano il déjà vu e il comunemente dimostrato dal dimostrabile […] A questo proposito, il moderno pensiero scientifico e artistico hanno la stessa struttura: il reale è stato troppo a lungo confuso con lo scontato, poiché l’uno e l’altro si estendono in tutte le direzioni del possibile26. Pertanto l’originalità dovrebbe sostituire l’imitazione, mentre il déjà vu potrebbe estendersi alle illimitate possibilità del fantastico.

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In quello stesso anno Alfred J. Barr, Jr. incluse Arcimboldo nel catalogo della mostra Fantastic Art, Dada and Surrealism presso il Museum of Modern Art di New York.

L’opera reversibile di Arcimboldo Tradizione di: Paesaggi antropomorfi fu accostata a quella, ugualmente reversibile di Dalì Volto paranoico (1935). Tuttavia il critico ammoniva che molte opere fantastiche e apparentemente surrealiste appartenenti al periodo barocco e rinascimentale richiedono una spiegazione a livello razionale piuttosto che una basata sul contesto dell’espressione subconscia e irrazionale di stampo surrealista27

Nonostante tali riserve, i ritratti «tecnologici» di Arcimboldo, come L’ Ars Coquinaria (Fig. 13) e Il bibliotecario (Fig. 11) potrebbero essere collocati lungo o al principio di una linea che include La battaglia dei forzieri e delle casseforti (1558-67) di Pieter Bruegel, i «disegni cubisti» di Cambiaso, i giocatori di tennis fatti di racchette di Bracelli (Capricci, 1624), i moderni manichini di Giorgio De Chirico e gli uomini meccanici di Léger e Duchamps. Per molto tempo l’uomo ha trovato comodo proiettarsi in antichi automi e in più recenti «alterità» simili a robot, immuni alla fisiologia dei processi di crescita.

Sopravvissuti a coloro che scrivono libri e che danno vita alle civiltà, il bibliotecario di Arcimboldo e gli archeologi di De Chirico, sono simboli di una prolungata importanza conferita agli oggetti più che alle idee.

I ritratti de-umanizzati dell’uno sembrano profetizzare l’impegno dell’altro a «vedere tutto, anche l’uomo nella sua qualità di oggetto»28

.

Gli oggetti andavano a eclissare i valori nell’universo di Arcimboldo, un universo in cui i tomi costruivano la figura del Bibliotecario in un modo straordinariamente simile a quello degli Archeologi di De Chirico (1929, Fig. 23). Le tele «metafisiche» non consistono che in oggetti frutto dei

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ritrovamenti dal ricercatore, collocati in una sorta di camera-museo, in cui la struttura anatomica comprende le ossa dell’uomo-storia. Nell’ordine convenzionale delle cose, gli archeologi e i musei estrapolano l’antichità dal contesto storico. Per tanto l’archeologia limita il passato all’evidenza di una frammentaria morfologia sopravvissuta al proprio creatore. Terminata la loro funzionalità, le rovine possono essere soppiantate da figure scultoree, sedute in un salotto molto eccentrico. Esse sembrano piuttosto a abitanti o spettatori, ma non tesori artistici. Mentre da un lato dislocazioni di questo tipo vanno a esaltare un’enigmatica immobilità, l’archeologia è ridotta a un mondo in miniatura in cui gli oggetti sono fuori proporzione e fuori posto. Entrambi gli artisti fanno ricorso alla metonimia e alla metafora per creare ritratti con oggetti inerenti alle loro nature di libro e di rudere.

Per Arcimboldo lo studiolo non era più un luogo di speculazione intellettuale, ma uno in cui catalogare tomi e custodire reperti archeologici. Sebbene si trovino entrambi in un luogo in cui si radunano strumenti del sapere, l’archeologo e il bibliotecario non sono in grado ne di assimilare ne di elargire conoscenza. Senza nome, esistono solo come forme vuote di un’alterità professionale.

Impegnato com’era a sfruttare al massimo le possibilità della prospettiva, Arcimboldo si ritagliò uno spazio/vuoto ideologico in cui la tecnica regnava sovrana. Nel caso delle figure reversibili come L’Ortolano (Fig.2) lo spazio si trasformava in una specie di scacchiera a-gravitazionale che oscurava allo stesso modo la storia e la realtà. Anche De Chirico era dedito a sfidare il prevedibile e spesso utilizzava la prospettiva come una specie di citazione distorta.

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Giorgio De Chirico, Gli archeologi,1929, Collezione privata.

Come Roberto Longhi ci disse tempo fa, nei suoi dipinti, il quindicesimo secolo diveniva lo scenario di un metafisico teatro dei burattini con ospiti di pietra.

Se dovessimo prendere la «sorpresa» come misura di différence, i vasi e le padelle di Arcimboldo sarebbero più direttamente legati alla cucina, di quanto lo sono i quadrati e i triangoli a Ettore e i veggenti ai metafisici nelle

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tele di De Chirico. A causa di una mancanza di spessore ideologico, Arcimboldo doveva confrontarsi con la tradizione e negare lo spazio come processo. De Chirico invece distruggeva talmente le normali relazioni che i suoi mobili dipinti, sullo sfondo di un paesaggio Mobili in una valle (Fig. 24) ricordavano a Jean Cocteau una casa in via di smantellamento mentre il proprietario era a pranzo. Ogni cosa poteva essere sospetta in un tale dépaysagiste, che arrivò a tappezzare le piazze pubbliche di assi. I commenti di Sydney Freedberg sull’arte della Maniera riguardano anche le analogie surrealiste: L’esistenza dell’immagine nel suo complesso, per quanto possa essere essenzialmente sintetizzante, è sostenuta dall’estrema veridicità dei suoi disparati frammenti. Da uno strumento da allora familiare alla più recente letteratura di fantasia e al moderno surrealismo, veniamo abbagliati dall’insignificante verità al fine di credere all’intera bugia poetica29

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II

La verità dei dettagli era accostata alla menzogna di aspiranti ritratti. L’antropomorfica visione del mondo, tipica dell’Umanesimo aveva chiaramente raggiunto l’eccesso e l’esaurimento. Nel suo aspetto umano, L’art de la coquine di Arcimboldo non rappresenta nessuno degli oggetti che racchiude, anche se tutti contribuiscono a dargli forma. Sebbene lasci presagire affinità che il maturo Magritte potrebbe riscontrare tra foglia e albero, Arcimboldo non poteva sopportare dissociazioni più radicali tra nomi e oggetti. Di fronte alla rappresentazione, da parte di Magritte, di una pipa che non è una pipa Ceci n’est pas une pipe (1926, Fig. 25) Arcimboldo avrebbe apprezzato il modo di giocare con la finzione. Se una pipa poteva non essere una pipa, tuttavia doveva essere un oggetto figurato. Per Michel Focault, la frase «Ceci n’est pas une pipe» sta a significare «Questa immagine, questa affermazione scritta, questo disegno di una pipa, tutto questo non è una pipa30». Per tale ragione la descrizione dell’immagine verbale nega l’oggetto come cosa reale, in realtà convalidandolo come oggetto artistico, cioè come artificio. Si viene a creare così una discrepanza tra parola e aspetto visivo. Il testo diveniva una prova e la descrizione tendeva all’astrusità più che alla chiarezza. Nel divario manierista tra parola e immagine, il significato si riprende il proprio aspetto negativo. Il dubbio era solo una forma dei molti ostacoli al discorso artistico.

Vertumno-Rodolfo II e il doppio ritratto di De Chirico Autoritatto (1924, Fig. 26) riecheggiavano un linguaggio che potrebbe suonare je est un autre per Rimbaud e Je m’appelle maintenant tu per Tristan Tzara. L’icastico era

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decodificato e consegnato all’arbitrarietà. Le dissociazioni metaforiche mettevano alla prova il concetto stesso di «coerenza ».

Pur mantenendo legami analogici tra foglia e albero, scarpa e piede, i titoli di Magritte conferivano alle metafore visive un forzato senso enigmatico.

(23)

Giorgio De Chirico, Autoritratto, 1924, The Toledo Museum of Art, Toledo, Ohio

Nel caso di opere come L’incendie (1943) o La philosophie dans le boudoir (1947) il puzzle si trasformava in enigma. Spesso il concetto surrealista di «simile» tendeva al fantastico dove il déjà vu cedeva il passo all’insolito. Per avere la meglio nel mistero della vita, l’immagine «non era il fine ma l’unico mezzo» per giungere al confronto di idee31».

Per quanto grottesco, il mondo di Arcimboldo è ancorato alla somiglianza pittorica. Il legame tra titolo e rappresentazione è causale nelle sue tele, in cui le sineddochi dell’Inverno (Fig. 1) e le metonimie del Fuoco (Fig. 9) conservano rapporti logici con i titoli. Il pittore disloca gli oggetti senza permettere a ciò che non è sistematico di prendere il sopravvento. Se li avesse avuti a disposizione Arcimboldo, gli ombrelli e le macchine da cucire, non avrebbero trovato posto su un tavolo, in quanto il suo espediente metaforico, per citare Mario Praz, «si trovava da questo lato del senso comune32».

Aggiunte alla ricerca di mistero di Magritte, le parole-chiave ricorrenti nei primi titoli di De Chirico sono «infinito», «incoerenza», «inquietudine»,

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«mistero», «sorpresa», «angoscia» e «malinconia». Esse espongono chiaramente un insieme di ambiguità. Per De Chirico, «l’ordine conosciuto» era un necessario schermo che nascondeva ignote e migliori verità 3. Arcimboldo invece si limitava ad allegorie simili a manifesti, che immediatamente svelavano le regole dei suoi giochi di fantasia. Inizialmente i manieristi si allontanavano dalla realtà, negando l’esistenza di altri regni prima che i surrealisti iniziassero a cercarne altri. Allo stesso modo una persona arriva a padroneggiare semplici puzzle prima che qualcun altro osi affrontare una più complessa tipologia di enigma. Certe differenze sono rivelatrici come la grammatica disgiuntiva che i due linguaggi pittorici condividevano.

Nel 1919 De Chirico scriveva che: L’impotenza spirituale che porta al naturalismo trascina fatalmente la pittura alla negligenza dell’opera d’arte che quindi, cessa di contare in quanto oggetto prezioso, meraviglia, miracolo, ed è ridotta a un livello di puro artificio, più o meno originale più o meno qualificato a soddisfare le esigenze di connoisseurs di pittura da cucina o da lavanderia34. A causa della sua mancanza di energia spirituale, il naturalismo arcimboldesco prendeva la pittura da cucina piuttosto alla lettera, almeno nella misura in cui i suoi ritratti dipendono da slittamenti metaforici, senza alcuna profondità «segreta». Casuale o volontaria che fosse, la forma proliferava nella «differenza combinabile del naturale e artificioso» di Comanini (Trattati, 3:254). La tecnica di disposizione dei dettagli usata da Arcimboldo aprì la strada alle dislocazioni surrealiste. Entrambi gli stili condividevano una duplice visione dell’oggetto artistico, che metteva in mostra due aspetti: uno corrente che vediamo quasi sempre e che è visto dagli uomini in genere, e un altro fantomatico e metafisico ed è visto solo da poche persone in momenti di chiaroveggenza35. In entrambi i casi

(25)

l’oggetto c’è e non c’è. Per quanto modesta, la compresenza di somiglianza e dissomiglianza è reale e irreale allo stesso tempo.

Come scrive Ferdinand Alquié, nel Surrealismo, l’immaginario lotta sempre per «abbattere la struttura di ciò che è scontato, per superarla, per richiamare alla memoria un irraggiungibile con il quale, la realtà deve tuttavia confrontarsi». L’attività dell’imitazione fantastica potrebbe essere formulata in termini simili. Sebbene i surrealisti sfruttassero l’estensione metaforica fino a «cogliere la più tenue relazione esistente tra oggetti presi a caso36», i manieristi erano più razionali nella scelta degli oggetti.

III

Le doppie visioni e le invenzioni improbabili rasentavano i margini del Surrealismo anche prima che Arcimboldo e Comanini ponessero la fantasia contro la mimesi. Nelle prime pagine del De statua l’Aberti faceva riferimento a «certe sagome» in tre tronchi che «tramite alcuni cambiamenti di luce era possibile far somigliare a forme naturali» Per H.W. Janson, quella fu la prima esplicita affermazione che collegava la creazione artistica a immagini create dal caso, un collegamento divenuto un principio estetico centrale del Dadismo e del Surrealismo37. Tuttavia, è nel trattato sulla pittura che l’Alberti legava le immagini casuali al grottesco: «La natura stessa sembra dilettarsi con la pittura, poiché nelle facce tagliate del marmo spesso ella dipinge centauri» (De Pictura, 67). A volte, quindi la natura si «diletta» a sostituire il mimetico con l’innaturale. Il diletto, la difficoltà e il

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grottesco sono messi insieme nel trattato albertiano, che metteva in evidenza un potenziale estetismo.

In pittura, le immagini casuali hanno ispirato artisti in ogni epoca. Sul finire del XV secolo Leonardo Da Vinci notava anche che quando si guarda un muro tempestato di macchie, o caratterizzato da un insieme di pietre, se si deve ideare una scena, è possibile scoprire una somiglianza con volti e costumi strani, e una infinita varietà di oggetti. Nel paesaggio delle arti, le nuvole di Mantegna, le rocce di Dürer e le macchie sul muro richiamano alla mente miscugli artificiali. La fantasia cresceva nell’ispirazione casuale. Thomas Da Costa Kaufmann ha richiamato l’attenzione su una lettera in cui, Arcimboldo stesso definiva macchie le decorazioni grottesche, impiegamdo quindi lo stesso termine che Leonardo aveva impiegato per descrivere questo nuovo approccio38.

IV

Ai limiti estremi dell’imitazione fantastica, Comanini dedicò la sua attenzione a uno stato fisico in cui l’attività mentale è principalmente di tipo visivo:

Scrivono i poeti, i ministri del sonno esser tre: Morfeo che si trasforma nelle sembianze di tutti gli uomini, et imita i loro costumi, e le voci, e l’andare, e le veste e le parole usatissime di ciascuno, ma non rappresenta altro che uomini; Icelone, o Fobetera, che si cangia in fiera, in uccello, in serpente, ma non in uomini, overo in cose non animate; Fantaso, che le sole cose non animate agli

(27)

uomini rappresenta, e si muta in terra, in sasso, in onda, in trave et in altre simili forme. Se queste non fosser favole, io direi che tutti e tre questi ministri del Sonno molto son famigliari dell’Arcimboldo, poiché egli sa fare l’arti e le trasformazioni che eglino fanno. Anzi, fa di vantaggio più cose che non fanno essi, trasformando egli animali, et uccelli e serpenti e bronchi e fiori e frutti e pesci et erbe e foglie e spiche e paglie et uve in uomini, et in vestimenti d’uomini, in donne et in ornamenti di donne.

(Trattati, 3:269-70)

Il sonno può alterare l’ordine della realtà a suo piacimento, ed è per questo motivo che il testo si rivolge alla virtù fantastica di Arcimboldo, che gli permetteva di «fare ciò che vuole» (Ibid, 270). I sogni hanno in comune con l’imitazione fantastica una permutabile attività che non mostra un’immagine del mondo ma una di eccentricità, in cui la conoscenza non è né chiara né proporzionale.

Prima di Comanini, Leonardo Da Vinci comprese che il sonno poteva avvicinare l’anormalità: «L’uomo camminerà senza muoversi, parlerà con chi non è presente, sentirà chi resterà muto». Pur estirpando i meccanismi della realtà, il sonno non incrementava la conoscenza. Nel 1571 Giovan Battista Naldini legò la sua Allegoria del sogno al ciclo del giorno e della notte. L’uno si muove verso l’altro attraverso un’enorme lente; il sonno deforma gli oggetti naturali, come la lente, così facendo esso predispone un campo di investigazione libera39.

Nel tardo XVI secolo, Jacopo Mazzoni radicò i sogni e la poesia nel potere della fantasia. Pur essendo simili alla realtà essi potevano «essere metaforicamente scambiati l’un con l’altro40». Nelle parole di Arnold Hauser, che ha studiato le corrispondenze analogiche a livello di concetti di

(28)

periodo: l’analogia più vicina a questo mondo di realtà mista, è il sogno, in cui i veri legami sono aboliti e gli oggetti sono coinvolti in astratte relazioni reciproche, ma sono descritti con la più grande esattezza e fedeltà alla natura. Ricorda allo stesso tempo l’arte contemporanea, come espressa nella descrizione delle associazioni nell’arte Surrealista41

. In tutte le arti, la libertà può alterare le dimensioni, l’equilibrio e le proporzioni con effetti stupefacenti. Fu nell’ambito delle fiabe, parimenti irreale, che figure letterarie come Gilio, Lomazzo e Tasso si dedicarono a mostri, mentre Battista Dossi dipingeva aragoste-soldato.

Invece di condurre all’ignoto, il sonno favoriva ciò che si poteva vedere. Nel trattato di Comanini, l’irrealtà e la surrealtà divennero questioni di sostituzione o di slittamento. Costretto a far fronte all’esperienza e agli oggetti di origine onirica42, l’artista traeva la libertà metodologica da stati mentali vicini al sogno.

Per i manieristi il pensiero veniva prima dell’azione, tuttavia doveva ancora arrivare il momento in cui gli artisti avrebbero analizzato il sonno in quanto regno del subconscio, in cui metafore imprevedibili possono scatenare associazioni, in grado di raggiungere automaticamente le labbra di Tristan Tzara e le mani di Alberto Savinio.

Comanini si aspettava che gli artisti «costruissero» e «formassero» le loro immagini, dato che i capricci erano tutt’altro che casuali. Essi riducevano la realtà a un’unica cosa, un id fatto di elementi da poter mischiare a piacimento. A livello superficiale il meccanismo del puzzle e lo stile grottesco manipolavano gli oggetti senza tuttavia mutarli. Per Bréton gli accostamenti dei due termini della metafora surrealista non erano fatti in modo consapevole, ma avevano una natura fortuita, in quanto non rientra nelle capacità umane effettuare paragoni tra oggetti così distanti43.

(29)

Inizialmente Bréton credeva nell’interazione tra realtà e immaginazione, tuttavia la seconda fase del Surrealismo spinse l’attività poetica oltre il déjà vu, del quale Arcimboldo si prendeva gioco ma che non aveva mai pensato di accantonare del tutto.

V

Quando Comanini scriveva che i capricci avrebbero dovuto basarsi sulla loro reale o presunta novità («non più disegnato da alcun altro, almeno che egli sappia», p. 256) egli intendeva mettere in evidenza la conoscenza della tradizione artistica, che subentrò alla mimesi nel regno dell’artificio. Come scherzi della natura di fronte all’evoluzione, le forme grottesche manifestano singolari deviazioni dal flusso della storia. In quella posizione marginale, Kafka condivideva con Ovidio solo un approccio metamorfico alla forma, e non è possibile ritrovare né Bosch né Vermeer in Dalì.

Da Arcimboldo a Dalì, il grottesco dominava talmente il mondo delle apparenze, che i suoi dettagli surreali o irreali arrivavano ad acquisire un’impressionante somiglianza con la realtà. Tuttavia il manierista non poteva prevedere che la moderna alleanza tra il grottesco e la tecnologia avrebbe reso il marginale del tutto identico al tipico. Essendone circondati, il grottesco è divenuto sempre più invisibile. L’eccentricità a livello marginale ha ceduto il passo alla familiarità a livello centrale, dove la recente critica ha posto il grottesco fulcro della poetica della trasgressione44.

(30)

Nelle sue varianti manieriste e surrealiste, l’immaginazione ostentava la realistica solidità delle forme, che andava a creare un improbabile universo in cui lo «scontato» faceva spazio al meraviglioso. Al di là del déjà vu l’originalità dell’arte si basava sui resti del suo passato.

(31)

NOTE

1. W. FREEDMAN, Mannerism and Anti-Mannerism in Italian Painting, New York 1969, p. 48.

2. Vedi G. FERRONI - A. QUONDAM, «La locuzione artificiosa» Teoria della

lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973, p. 82.

3. Vedi J. SHEARMAN, Maniera as an Aaesthetical Ideal, p. 202; C.H. SMYTH, Mannerism and Maniera, p. 179; G. WEISE, Lsa doppia origine

del concetto di Manierismo, in Studi Vasariani, Firenze 1952, p. 185.

4. G. BRUNO, The Heroic Frenzies, tr. di Paul Memmo, Chapel Hill 1964, p. 83. In The Cornucopian Mind and the Baroque Unity of the Arts Ho inserito la visione di Bruno in un contesto barocco, in particolare vedi capitolo 4. 5. S. J. FREEDBERG, Painting in Italy, 1500 to 1600, p. 417; A. HAUSER,

Mannerism, vol. 1 p. 283. Recentemente James Mirollo ha scritto che il

manierismo letterario ricercava in fenomeni come il Petrarchismo una «giustapposizione parodica a una dipendenza anche parassitica nei confronti di un modello tematico e stilistico». In Mannerism and Renaissance Poetry:

Concept, Mode, Inner Design, New Haven 1984, p. 69.

6. C. H. SMYTH, Mannerism and Maniera, p. 175.

7. Vedi W. FRIEDLAENDER, The Anticlassical Style, in Mannerism and

Anti-Mannerism in Italian Painting.

8. E. PANOFSKY, The Life and Works of Albrecht Dürer, Princeton 1955, p. 274. Idea: A Concept in Art Theory, New York 1968, p. 72.

9. H. HATZFELD, Camoes manieristische und Tassos barocke Gestaltung des

Nymphenmotivs, «Aufsätze zur portugiesischen Kulturgeschichte», 3

(1962-63): p. 106; G. WEISE, Manierismo e Letteratura, Firenze 1976. P. 72. 10. G. BRUNO, The Expulsion of the Triumphant Beast, tr. di Arthur Imerti,

New Brunswick 1964, p. 78.

11. Vedi The Breaking of the Circle: Giordano Bruno and the Poetics of

Immesurable Abundance, nel mio The Cornucopian Mind and the Baroque Unity of the Arts. Parenteticamente, gli studi sulle Metamorfosi di Ovidio

tendono a enfatizzare le caratteristiche analoghe barocche, più che quelle manieriste. Sul soggetto vedere E. PARATORE, L’influenza della letteratura

(32)

latina da Ovidio ad Apuleio nell’età del Manierismo e del Barocco, in Manierismo, Barocco, Rococo: Concetti e Termini, Roma 1962, pp. 239-301.

R. CRAHAY, La vision poétique d’Ovide et l’esthétique baroque, in Atti del

Convegno Internazionale Ovidiano, vol. 1, Roma 1959, pp. 91-110. In questo

contesto, il concetto di realismo grottesco, come esposto da Bakhtin, si avvicinerebbe al Barocco. «L’immagine grottesca riflette un fenomeno in trasformazione, come una metamorfosi non ancora terminata di morte e nascita, di crescita e sviluppo. Il rapporto con il tempo è un tratto determinante dell’immagine grottesca» Rabelais and his World, tr. di Helene Iswolsky, Cambridge, Mass 1968, p. 24.

12. J. SHEARMAN, Mannerism, Baltimora 1967, p. 149. Da un punto di vista retorico Amedeo Quondam traccia una differenza tra la preferenza manierista della ripetizione, l’accumulazione, l’enumerazione, la pluralità, l’anafora e la correlazione, contro la dipendenza barocca dalla metafora e dalla metonimia. Questa differenza è valida in termini di enfasi, ma si può pensare a casi (Tasso, Bruno, Marino, Tesauro, Borromini) che provano il caso in un modo o nell’altro. In La parola nel labirinto: Società e Scrittura del Manierismo a

Napoli, Bari 1975, pp. 6-7.

13. Vedi U WEISSTEIN, Collage, Montage and Related Terms: Their Literary

and Figurative Use and Application to Techniques and Forms in Various Arts, «Comparative Literature Studies» 15 (1978) p. 126. W. C. SEITZ, The Art of Assemblage, New York 1961, p.83. W. RUBIN, De Chirico and Modernism, in De Chirico, New York c. 1982, pp. 63-64. J.H. MATTHEWS, Languages of Surrealism, Columbia Mo. 1986, pp. 140, 146. W. J. ONG, Ramus: Method and the Decay of Dialogue, Cambridge Mass., 1958, pp.

314-18.

14. M. PRAZ, Il giardino dei sensi, Vicenza 1975, p. 33. Anche B. GIAMATTI,

Proteus Unbound: Some Versions of the Sea God in the Renaissance, in The Disciplines of Criticism, ed. P. DEMETZ- T. GREENE- L. NELSON, New

Haven 1968, pp. 450-51. Sull’importanza della metamorfosi nell’arte barocca vedi J. ROUSSET, La literature de l’âge baroque en France: Circe et le

paon, Parigi 1968.

15. In A Pamphlet on Imitation, in I. SCOTT, The Imitation of Cicero, New York 1910, p. 12.

16. Marcel Raymond tira conclusioni simili riguardo alla poesia manierista in Être et Dire: Études, Neuchâtel 1970, p. 134.

17. Vedi il commento di Bruno Maier a questa edizione delle Opere del Tasso,

(33)

18. T. TASSO, Dialoghi, vol. 2 ed. Ettore Mazzali, Torino 1976, p. 326.

Traduzione dell’autore.

19. Allo stesso modo le storie mitiche nella Sala delle Metamorfosi di Giulio

Romano presso il Palazzo Tè di Mantova hanno poco a che vedere con il tema. Solo le ninfe e i satiri fanno puntano a riferimenti ovidiani, che rimangono strettamente letterari. Vedi F. HARTT, Giulio Romano, vol. 1 New Hsaven 1958, pp. 111-12.

20. G. BRUNO, The Heroic Frenzies, tr. di Paul Memmo, Chapel Hill 1964, p.

63.

21. I labirinti possono trovarsi in superficie, sottoterra (grotte, catacombe) e su

soffitti (San Carlo alle Quattro Fontane a Roma). Il disegno/motivo privo di direzione del soffitto della Sala del Labirinto presso il Palazzo Ducale di Mantova, sposa totalmente l’ambiguo motto di Vincenzo IV Gonzaga «Forse

che sì, forse che no». In superficie, la parola «maze» nelle limngue

anglo-sassoni deriva da «maes» che signfica prato. La stessa parola costituisce la radice di «amazement» che è poi l’effetto che i labirinti e i giardini labirintici producono. In tedesco, «Irragarten» e «Garten» si riferiscono ai guardini-labirinto come eredi dell’hortus conclusus classico. Francesco Colonna ne ricostruì uno nel suo Hypnerotomachia Poliphili (1499) dove il sogno di Polifilo comportava la sua fuoriuscita da una «obscura Silva» similmente al compito di Teseo «uscir dal discolo labirintho». L’opera di Colonna è inclusa nel volume sulle Opere di Jacopo Sannazzaro, ed. Enrico Carrara, Torino 1952, p. 276. Sulla simbologia cinquecentesca del labirinto vedi G. DE TERVARENT, Attributs et Symboles dans l’art profane, 1450-1600, vol. 2, Ginevra 1959, p. 39 e il supplemento, Ginevra 1964, p. 435. Anche P. SANTARCANGELO, Il libro dei labirinti, Firenze 1967, pp. 48-50; 72-73.

22. U. ECO, Semiotics and the Philosophy of Language, Bloomington 1984, p.

81.

23. R. HARBISON, Eccentric Spaces, New York 1977, p. 8-19. 24. M. AYRTON, A Meaning to the Maze, Londra 1974, p. 4-5.

25. L. B. ALBERTI, The Family in the Renaissance, Firenze, tr.di R. Watkins,

Columbia, Mo., 1969, p. 206.

26. A. BRÉTON, Surrealist on Art, ed. Lucy R.Lippard, Englewood Cliffs N.J.,

1970 p. 56.

27. Fantastic Art. Dada. Surrealism, New York 1936, p. 7. Vedi le illustrazioni

(34)

28. Citato in M. CARRÀ, Metaphisical Art, New York 1971, p. 20.

29. Observations on the Painting of the Maniera, «Art Bulletin» 47 (1965), pp.

189-90.

30. Ceci n’est pas une pipe, Montpellier 1973, p. 37. F. MENNA, La Trahison des images, nella sua edizione di Studi sul Surrealismo, Roma 1977, p. 322,

parla di «scollamento» delle immagini.

31. R. MAGRITTE, Tutti gli scritti, ed.André Blavier, Milano 1979, pp. 46566. 32. M. PRAZ, Il giardino dei sensi, p. 35.

33. Vedi Metaphisical Art, p. 89.

34. Impressionismo, in «Valori Plastici» vol. 1 (1919), p. 26 come tradotto in J.T.

SOLBY, Giorgio De Chirico, New York 1966, pp. 41-42.

35. De Chirico, in Metaphisical Art, p. 89 A. HAUSER, Mannerism vol. 1, p.

371 riferisce di un comune «dualismo di punti vista fondamentali»..

36. F. ALQUIÉ, The Philosophy of Surrealism, Ann Arbor 1965, p. 124.

37. Citazione e critica da H.W. JANSON, The Image Made by Chance in Renaissance thought, in Essays in Honour of Erwin Panofsky, vol. 1 ed.

Millard Meiss, New York 1961, p. 254. Vedi anche E.H. GOMBRICH, Art

and Illusion, Princeton 1972, p. 181-202, 105-6.

38. T. DA COSTA FAUFMANN, Leonardo, The Notebooks of Leonardo Da Vinci, vol. 1 ed. J.P. Richter, New York 1970, p. 254. T. DA COSTA

KAUFMANN, Le allegorie e Ioro significati in Effetto Arcimboldo, Milano 1987, p. 93. Anche Anton Francesco Doni (Il disegno, 1549) legava le immagini causali all’ambito del fantastico e del grottesco. Vedi L. GRASSI,

Teorici e Storia della critica d’arte, Roma 1970, pp. 168-69. P.

REUTERSWÄRD, The Face in the Rock, «Art News Annual» 36 (1970), pp. 99-100. M. ERNST, Beyond Painting and Other Writings, New York 1948. 39. T. DA COSTA KAUFMANN, , The Notebooks of Leonardo Da Vinci, vol. 1

ed. E. Mac Curdy, New York 1939, p.1106. Vedi F. GANDOLFO, «Il dolce

tempo», Mistica, ermetismo e sogno nel Cinquecento, Roma 1978, p. 50,

218-19, 171-73, 279-81. Con un occhio all’iconografia, Annibal Caro si concntrò sulla vita contemplativa nel suo programma per la Stanza dei Sogni di Palazzo Farnese a Caprarola. Più vicini al nostro argomento sono i disegni di Primaticcio per la Porte Dorée di Fontainbleau (1541-44). In Iride alla Casa

(35)

(Metamorfosi xi) Icelo assume un collo serpentino e una testa caprina, Morfeo appare in forma di satiro e il Sonno presenta un volto gigantesco su un corpo nudo sdraiato tra i simboli del sogno. L’opera d’arte è una rappresentazione piuttosto grottesca della Casa del Sonno. Altrove la

Mascherata o Il trionfo dei Sogni in occasione del matrimonio tra Francesco

De Medici e Giovanna D’Austria (1566) si concentra su un carro allegorico condotto da Quiete e Silenzio, in esso una testa d’elefante ospitava il regno del Sonno. Attorno al carro, Morfeo mostrava le quattro facce dell’età dell’uomo, Icelo aveva sembianze animali, e Fantaso si dispiegava in un prato fiorito con acqua, fuoco e una piccola montagna. Così circondati da decorazioni grottesche e da un gruppo di satiri, tutti concordavano nel sostenere che i desideri sono folli e i sogni vani. Come principio, la gente vera tenuta a seguire la natura più che l’arte, che comunque poteva costituire un potente richiamo durante le ore notturne. Solo all’alba la natura e il mondo del sole spirituale sarebbero potuti tornare alla luce.

40. In E. S. BARELLI, Teorici e scrittori d’arte tra Manierismo e Barocco, Milano 1966, p. 18. B. HATHAWAY, The Age of Criticism: The Late

Renaissance in Italy, p. 375. C. OSSOLA, L’autunno del Rinascimento,

Firenze 1971, pp. 207-13.

41. A. HAUSER, The Social History of Art, vol. 2, New York 1964, p. 103. 42. A. BRETON, in Surrealists on Art, p. 53.

43. In Manifestoes of Surrealism, Ann Arbor 1977, p. 302.

44. Vedi G. HARPHAM, On the Grotesque: Strategies of Contradictions in Art

and Literature, Princeton 1962, xx-xxi. P. STALLYBRASS- A. WHITE, The Politics and the Poetics of the Transgression, Londra 1986.

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