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RAGIONI DELL IMPRESA E PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE NEL NUOVO DIRITTO SOCIETARIO (*)

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Academic year: 2022

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RAGIONI DELL’IMPRESA E PRINCIPIO

DI CONSERVAZIONE NEL NUOVO DIRITTO SOCIETARIO (*)

Sommario: 1. Le « ragioni dell’impresa » nei princípi generali della riforma enunciati dalla legge delega. — 2. Uno sguardo al passato: declino del momento contrattuale come ful- cro della disciplina societaria e affermazione del momento organizzativo, in funzione dell’esercizio dell’attività economica. — 3. Progressiva attenzione del legislatore italiano alle « ragioni dell’impresa » nella disciplina delle società. — 4. Breve rassegna delle nuove norme ispirate in tutto o in parte a una ratio conservativa dell’impresa societaria o, in funzione di questa, dell’ente o del patrimonio societario. — 5. Segue: nuove norme ispirate a una ratio conservativa in tema di invalidità delle decisioni degli organi socie- tari. — 6. Segue: nuove norme dirette a favorire l’affermazione dell’impresa societaria, con riflessi anche sul piano conservativo. — 7. « Ragioni dell’impresa » ed esigenze con- servative nella disciplina dei gruppi. — 8. La « conservazione » in materia societaria e i diversi piani in cui opera. — 9. Opzioni della riforma contrastanti con l’indirizzo con- servativo. — 10. Significato e portata di un « principio di conservazione » riferito al- l’impresa o all’organizzazione o al patrimonio della società.

1. — La recente riforma del diritto societario è stata concepita con gran- de attenzione alle « ragioni dell’impresa », vale a dire alle esigenze dell’attivi- tà imprenditoriale esercitata attraverso lo strumento delle società; e ciò sia nell’ottica della promozione, dello sviluppo e della competizione delle imprese societarie, sia con riguardo alla loro adeguata organizzazione e alla loro effi- ciente operatività.

La legge 3 ottobre 2001, n. 366, « Delega al governo per la riforma del diritto societario », riferisce o ricollega alle « ragioni dell’impresa » ben cin- que degli otto « princípi generali » ispiratori della riforma. Il suo art. 2, inti- tolato appunto « Princípi generali in materia di società di capitali », proclama infatti: « La riforma del sistema delle società di capitali... è ispirata ai seguen- ti princípi generali: a) perseguire l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni e internazionali dei capitali; b) valorizzare il carattere impren- ditoriale delle società...; c) semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze delle imprese e del mercato concorrenziale; ... e) adegua- re la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese...; f) nel rispet- to dei princípi di libertà di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell’impresa, prevedere due modelli societari... ».

(*) Relazione introduttiva del convegno internazionale del C.I.R.G.I.S. su « Le ragioni dell’impresa nel nuovo diritto societario e concorsuale » (Lucca, 25-26 novembre 2005), qui riveduta e ampliata.

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Ma l’attenzione della legge delega alle esigenze dell’impresa societaria non si esaurisce in questi « princípi generali ». Essa prevede inoltre, per tutte le società da riformare, una « disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale » (art. 3, 2ocomma, lett. c e art. 4, 5o comma, lett. a). Contempla infi- ne, per la sola società per azioni (con ingiustificato silenzio per la società a re- sponsabilità limitata) « un assetto organizzativo idoneo a promuovere l’effi- cienza e la correttezza della gestione dell’impresa sociale » (art. 4, 2o comma, lett. b).

2. — Nel dettare la nuova disciplina il legislatore delegato non poteva quindi mancare di aver riguardo alle « ragioni dell’impresa », additate con tanta insistenza dalla legge delega nelle linee-guida richiamate: anche se non lo ha fatto, come si accennerà, senza ombre e contraddizioni.

Non è però da ieri — preme ricordarlo anche per ridimensionare certe enfatizzazioni dei primi commenti — che il legislatore societario focalizza la sua attenzione sulle « ragioni dell’impresa » (sia pure invocate con diverse formule). La moderna storia del diritto delle società è caratterizzata dal pro- gressivo declino del momento contrattuale, come fulcro della disciplina, e dal progressivo rafforzamento dell’aspetto organizzativo, in funzione dell’eserci- zio dell’attività economica.

È l’esercizio di un’attività economica, con le sue esigenze dinamiche, il suo impatto sul mondo esterno e il coinvolgimento sempre più intenso di inte- ressi di terzi, estranei alla sfera dei soci, a rendere evidente l’inadeguatezza dei rigidi schemi contrattuali e ad esigere l’adozione normativa di strumenti rafforzativi degli assetti patrimoniali e delle strutture organizzative. Strumen- ti che, senza negare il contratto come momento genetico del fenomeno e rego- lamento di base del rapporto tra i soci, consentono di superarlo, per adottare quando occorre una normativa diretta a tutelare interessi che trascendono l’interesse contrattuale dei soci e favorire la conservazione del patrimonio de- stinato all’esercizio dell’attività economica e la continuità di questa.

Nell’ordinamento italiano, fino al codice civile del 1942 la nozione di

« società » era ambivalente: il termine esprimeva due realtà giuridiche diver- se. Una fondamentale distinzione, ereditata dalla codificazione napoleonica, si poneva tra « società civile » e « società di commercio ». La prima, secondo una tradizione risalente alla societas romana, designava un contratto consen- suale ad effetti obbligatori (art. 1697 c.c. 1865: « la società è un contratto col quale due o più persone convengono di mettere qualcosa in comune al fine di dividere il guadagno che ne potrà derivare ») e poteva presentarsi come « so- cietà di godimento » o come « società di esercizio », diretta a ripartire tra i so- ci i proventi di un’attività da loro esercitata in comune. La seconda, invece, era sempre una « società di esercizio » destinata al compimento di « uno o più atti di commercio » (art. 76 c. comm. 1882) e — costituendosi nelle forme della collettiva, dell’accomandita o dell’anonima — faceva già emergere, an-

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che in ragione dell’oggetto commerciale, quelle esigenze di continuità e di conservazione che l’evoluzione economica, con l’allargamento dei mercati e la moltiplicazione delle grandi imprese societarie, avrebbe via via rafforzato ed amplificato.

Una decisa svolta, nel fondamento del diritto societario, da noi si ebbe, com’è noto, con l’abolizione del codice di commercio e l’emanazione del codi- ce civile del 1942. Scomparsa la « società di godimento » e abolita la catego- ria stessa della « società civile », il codificatore poteva enunciare un’unica

« nozione » di società, ancorandola ancora al contratto, ma collegandola or- mai imprescindibilmente a « l’esercizio in comune di un’attività economica » (art. 2247). Collegamento esaltato nella relazione ministeriale, dove tra l’al- tro si legge (n. 923): « Nel sistema del nuovo codice la società è una forma di esercizio collettivo di un’attività economica produttiva e normalmente di un’attività economica organizzata durevolmente ad impresa. È questa la base essenziale di tutta la disciplina, la quale si ripercuote in ogni suo aspetto e ne giustifica le innovazioni ».

La disciplina originaria del libro V, rispettosa dell’indirizzo enunciato dalla relazione, dava ampio spazio alle esigenze dell’impresa societaria. E lo faceva discostandosi progressivamente dalle ferree e limitanti regole del con- tratto, col passare (così, ancora, la relazione, al n. 924) « dalle forme di orga- nizzazione meno complesse a quelle più complesse, dalle società a base perso- nale a quelle a base impersonale ».

Nella società semplice, come nella collettiva e nell’accomandita semplice, tale scostamento era molto più limitato. (E tale è rimasto, salvo per alcune in- novazioni introdotte dalla recente riforma: ricordo la trasformabilità a mag- gioranza di cui all’art. 2500 ter). Molto più esteso e penetrante lo scostamento dalle regole contrattuali si manifestava fin dall’inizio per tutte le altre società.

Sotto il profilo qui considerato la principale differenza tra le prime e le secon- de si coglieva, com’è noto, nella disciplina legale delle modifiche dell’atto co- stitutivo: modifiche ancorate, nelle società di persone, salvo poche eccezioni, alla regola unanimitaria del contratto (art. 2252); consentite invece, nelle al- tre società, ad una maggioranza più o meno qualificata. Ma, da un lato, nella disciplina delle società di persone, non mancavano (e non mancano) regole ispirate ad un’esigenza conservativa dell’impresa (o del patrimonio o dell’ente in funzione di essa): basta pensare alla regola che esclude temporaneamente lo scioglimento della società ridotta ad un solo socio (artt. 2272, n. 4 e 2308) o a una sola categoria di soci (art. 2323). Dall’altro lato, nella disciplina delle società di capitali e delle cooperative, non mancavano fin dall’origine (salvo poi dilatarsi nella legislazione successiva) regole conservative non legate a modifiche dell’atto costitutivo: basta pensare alle sanatorie dei vizi del proce- dimento costitutivo. Al riguardo è significativo, ancora una volta, quanto si legge nella relazione ministeriale (n. 948): « facendo applicazione del princi- pio che la permanenza dell’impresa deve essere in quanto possibile assicurata nell’interesse dell’economia nazionale, il codice completa le norme ora accen-

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nate disponendo che la nullità dell’atto costitutivo non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata con una modificazione dell’atto stes- so iscritta nel registro delle imprese »

3. — L’attenzione del legislatore italiano per le « ragioni dell’impresa » esercitata in forma di società si è rinnovata e in qualche misura accentuata nella seconda metà del secolo scorso, anche se non ha portato, a dispetto di alcuni articolati e meditati progetti, ad una riforma organica del diritto socie- tario. Gli obiettivi di favorire la nascita di nuove imprese e la competitività delle imprese nel mercato, di conservare e potenziare le organizzazioni im- prenditoriali, singole e di gruppo, di migliorarne l’operatività — oltre ai pro- positi di tutelare i vari interessi « deboli » all’interno e all’esterno delle com- pagini societarie — sono stati ampiamente invocati e sbandierati nei pro- grammi di riforma della nostra materia.

A quegli obiettivi, in qualche modo riconducibili, secondo la formula adottata dal nostro convegno, alle « ragioni dell’impresa », si sono d’altronde ispirati, anche sulla spinta di direttive comunitarie, alcuni interventi partico- lari del nostro legislatore: basti pensare (senza alcuna pretesa di completezza) alla innovazione restrittiva delle cause d’invalidità delle società di capitali (art. 2332, come modificato dal d.p.r. 29 dicembre 1969, n. 1127); all’am- pliamento dei limiti di delegabilità dell’aumento di capitale agli amministra- tori (art. 2443, come modificato dal d.p.r. 10 febbraio 1986, n. 30); all’intro- duzione della sanatoria dell’invalidità della fusione e dell’invalidità della scis- sione, una volta intervenute le prescritte registrazioni nel registro delle impre- se (art. 2504 quater, come introdotto dal d.lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, e ri- masto immutato nell’ultima riforma, nonché art. 2504 novies, ora art. 2506 ter, ult. comma); all’introduzione della società a responsabilità limitata a co- stituzione unipersonale (d.lgs. 3 marzo 1993, n. 88); alla disciplina del grup- po creditizio imperniata sull’« interesse della stabilità del gruppo » (art. 61, 4o comma, d.lgs. 1osettembre 1993, n. 385).

4. — Veniamo quindi ad una breve rassegna delle norme introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, attraverso le quali più significativamente si ma- nifesta, variamente sottolineato dai primi commentatori, il riguardo per le

« ragioni dell’impresa » a struttura societaria, sia sotto il profilo della forma- zione dell’impresa stessa, sia nella prospettiva del suo mantenimento e della sua espansione. Tanto da suggerire, secondo una formula suggestiva, l’enun- ciazione di un « principio di conservazione » riferito all’impresa strutturata in forma societaria, o riferito, in funzione di questa, all’ente o al patrimonio del- la società.

Un primo nucleo di norme ispirate a tale criterio conservativo si ravvisa nella modificata disciplina dei vizi del procedimento costitutivo: qui una ulte- riore riduzione, introdotta dalla riforma, delle ipotesi in cui può essere pro- nunciata la nullità della società registrata (artt. 2332 e 2463, ult. comma);

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anche se tale riduzione, in alcuni casi, risulta più formale che sostanziale.

Una nullità oltre tutto affievolita, come già nella disciplina anteriore, dalla eliminabilità successiva della sua causa, dalla salvezza degli atti compiuti in nome della società e dalla traduzione della nullità in causa di scioglimento, con apertura della procedura liquidatoria e nomina dei liquidatori.

Si noti che, in esito alla riforma, l’ente societario — e quindi l’impresa con esso avviata — può vivere nonostante il vizio originario del contratto o del negozio unilaterale che lo ha fatto nascere: registrata la società, non è più vizio invalidante nemmeno l’incapacità di tutti i soci o l’incapacità dell’unico socio fondatore.

Altre disposizioni ispirate alla stessa ratio conservativa sono legate all’ef- ficacia sanante della pubblicità; e alcune di esse sono nuove. È stata ribadita la norma, già ricordata, che preclude, dopo le dovute iscrizioni nel registro delle imprese, l’invalidazione dell’atto di fusione (art. 2504 quater) e dell’atto di scissione (art. 2506 ter ult. comma). Ma la stessa regola convalidante è sta- ta estesa all’atto di trasformazione (art. 2500 bis). Con affievolimento, in tut- ti e tre i casi, della tutela dei partecipanti e di quella dei terzi danneggiati, da tutela « reale » a tutela meramente risarcitoria. In linea generale si può asseri- re che la sostituzione dei rimedi risarcitori ai rimedi invalidatori — che si ma- nifesta su vasto raggio nel nuovo diritto societario — è riconducibile all’inten- zione conservativa di cui si discute.

La ratio conservativa viene invocata anche a proposito della nuova disci- plina delle trasformazioni (artt. 2498-2500 novies). Una permanenza dell’im- presa e dell’ente che la esercita (o della prima attraverso il secondo) emerge dalle trasformazioni societarie: anche se la struttura dell’ente può in qualche modo indebolirsi, quando si tratta di trasformazione regressiva da « società di capitali » a « società di persone », con possibile ricaduta negativa sull’espan- sione e sulla sopravvivenza stessa dell’impresa societaria.

Indicatori di tendenza più complessi si ricavano dalla nuova disciplina delle trasformazioni eterogenee, ora ammesse anche di fronte ai cambiamenti tipologici più arditi e ai più radicali mutamenti dello scopo e della struttura soggettiva dell’ente trasformando. L’impatto sistematico delle previste tra- sformazioni da società in consorzi, associazioni, fondazioni o comunioni d’aziende e viceversa (artt. 2500 septies e 2500 octies) rimane ancora da esplorare fino in fondo. Rispetto al nostro tema si può osservare che l’ammis- sione delle trasformazioni eterogenee sembra talvolta ispirarsi soltanto a un’esigenza conservativa dell’impresa, a prescindere dal soggetto che la eser- cita: così, si direbbe, nei casi di trasformazione da società a comunione di azienda e da comunione di azienda a società, dove a conservarsi, con il com- pendio aziendale, è soltanto l’impresa (in esercizio o potenziale). Altre volte

— e mi riferisco soprattutto alle trasformazioni da società in associazioni o fondazioni e viceversa — la ragione conservativa sembra invece riferibile al- l’ente, con il suo patrimonio, a prescindere dall’impresa di cui sia titolare.

Nel suo complesso la nuova disciplina delle trasformazioni sembra quindi

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ispirata, più che alle « ragioni dell’impresa », a un favore per l’istituto, legato al rispetto per l’autonomia privata: favore che si manifesta anche nel consen- tire la trasformazione in pendenza di procedura concorsuale (art. 2499) e la trasformazione deliberata a maggioranza partecipativa nelle società di perso- ne (art. 2500 ter).

5. — Una ratio conservativa dell’ente societario — e solo indirettamente dell’impresa facente capo ad esso — emerge, nella riforma, dall’affievolimen- to dell’invalidità delle decisioni dei suoi organi e dalla limitazione dei casi in cui può essere invocata.

Tra le norme di questo tipo ricordo l’impugnabilità delle delibere assem- bleari non conformi a legge o statuto da parte di una minoranza qualificata di soci assenti, dissenzienti o astenuti, e non più di ciascuno di essi (art. 2377, 3o comma): con conseguente degradazione della tutela dei soci che non raggiun- gono quella minoranza, da invalidatoria a risarcitoria (art. 2377, 4o comma).

Ricordo l’esclusione dell’impugnabilità delle delibere (o l’esplicitazione legi- slativa di tale esclusione) per alcuni vizi formali (art. 2377, 5o comma). Ri- cordo l’introduzione di nuove cautele nella sospensione delle delibere e di nuovi interventi conciliativi del giudice, che può persino suggerire le necessa- rie modifiche della delibera impugnata (art. 2378, 4o comma). Ricordo la nuova disciplina della sanatoria delle delibere invalide (artt. 2377, 8o e 9o comma; 2379, 4o comma; 2379 bis). Nell’ambito di essa è ribadita la preclu- sione dell’annullabilità, se la delibera impugnata è sostituita, prima della sen- tenza, con altra, presa in conformità della legge e dello statuto. Ma la stessa regola viene arditamente estesa ai vizi di nullità, sia pure attraverso un ri- chiamo sottoposto alla condizione della compatibilità (art. 2379, 4o comma).

In una prospettiva che sembra ormai consentire l’eliminazione successiva non solo dei vizi procedimentali, ma anche dei vizi sostanziali più gravi, e quindi la correzione della delibera, altrimenti annullabile o nulla, con salvezza inte- grale o parziale dei suoi effetti.

Sempre in un’ottica conservativa il regime della nullità delle delibere as- sembleari risulta fortemente affievolito dall’introduzione del termine triennale di prescrizione dell’impugnativa (art. 2379, 1o comma): termine ridotto a centottanta giorni per le delibere di aumento o di riduzione del capitale o di emissione di obbligazioni (art. 2379 ter, 1o comma). E qui, nell’ipotesi di nul- lità per illiceità o impossibilità dell’oggetto, la vistosa deroga ai princípi si traduce in una sconcertante rottura sistematica. Ulteriori preclusioni dell’im- pugnativa sono poi introdotte per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 2379, 2ocomma).

Ricordo ancora i limiti introdotti alla neodisciplinata impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione, con parziale rinvio alla disciplina dell’invalidità delle delibere assembleari (art. 2388, 4ocomma).

Di grande rilievo, nell’ottica conservativa di cui si discute, sono anche le disposizioni dell’attuale art. 2434 bis, 1oe 2ocomma, in tema di invalidità del

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bilancio: « Le azioni previste dagli artt. 2377 e 2379 non possono essere pro- poste nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo. La legittima- zione ad impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio su cui il re- visore non ha formulato rilievi spetta a tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale ». Disposizioni che, nella direzione già sottolineata per le altre delibere assembleari, accentuano l’affievolimento dei vizi e aggravano, specie per la nullità, la deviazione dai princípi.

A tenere in vita l’impresa, conservando l’ente che la esercita, sembra poi diretta la norma che consente la revoca a maggioranza dello stato di liquida- zione (art. 2487 ter). Stato d’altronde compatibile, per previsione esplicita della nuova disciplina, con l’esercizio provvisorio dell’impresa, in funzione conservativa del suo valore (artt. 2487, 1o comma, lett. c e 2490, 5o comma).

Ad analoga ratio conservativa sembrano d’altronde ispirate le nuove di- sposizioni di favore per i rimedi endosocietari. Ad es., l’art. 2409, 3o comma, in tema di controllo giudiziario sulla gestione: « Il tribunale non ordina l’ispe- zione e sospende per un periodo determinato il procedimento se l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professiona- lità, che si attivano senza indugio per accertare se le violazioni sussistano e, in caso positivo, per eliminarle, riferendo al tribunale sugli accertamenti e le at- tività compiute ».

6. — Nella rassegna delle nuove norme dirette a favorire l’affermazione dell’impresa in forma societaria, con riflessi anche sul piano conservativo, non si può dimenticare la previsione — come già della società a responsabilità limitata — così anche della società per azioni a costituzione unipersonale e la connessa abolizione della responsabilità dell’unico azionista per le obbligazio- ni della società (artt. 2328, 1ocomma, in relazione all’art. 2325, 2o comma).

Non si possono dimenticare le norme che, nella società per azioni, riser- vano « esclusivamente » all’organo amministrativo la « gestione dell’impre- sa » (artt. 2380 bis, 2409 novies, 2409 septiesdecies) in ossequio ad un’esi- genza di rapidità decisionale e di massima responsabilizzazione degli ammini- stratori. Non si possono dimenticare le norme che demandano, o consentono allo statuto di demandare, all’organo amministrativo decisioni tradizional- mente spettanti all’assemblea, anche qui in ossequio ad un’esigenza di rapidi- tà decisionale e di massima responsabilizzazione della decisione: così per l’emissione di obbligazioni, « se la legge o lo statuto non dispongono diversa- mente » (art. 2401); così per la regola (ora innovativamente enunciata o, per altri, soltanto esplicitata) secondo cui — quando lo statuto o l’assemblea de- lega gli amministratori a deliberare aumenti di capitale — tale facoltà può consentire anche la delibera di aumentare il capitale a fronte di conferimenti in natura o di escludere il diritto d’opzione se l’interesse della società lo esiga (art. 2441, 4oe 5ocomma, entrambi richiamati dall’art. 2443, 1ocomma).

Tra le norme volte a favorire l’affermazione dell’impresa in forma socie-

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taria, con ricadute anche sul piano conservativo, non si possono tacere infine quelle dirette ad attrarre investitori di ogni possibile estrazione e apportatori di risorse diverse dai mezzi finanziari, prevedendo tra l’altro la creazione di azioni delle più varie tipologie, la loro assegnazione anche non proporzionale ai conferimenti e la creazione di « strumenti finanziari partecipativi » diversi dalle azioni (artt. 2346 ss.): così consentendo che sia modificato il rapporto tra rischio e potere secondo una valutazione affidata all’autonomia negoziale delle parti.

Ad una ratio conservativa dell’ente e quindi dell’impresa — e non soltan- to al mantenimento della solvibilità a tutela dei creditori — sembrano d’al- tronde ispirate le norme di salvaguardia della consistenza del patrimonio so- cietario o di favore per il reperimento di mezzi finanziari.

Si possono infine ricondurre, per qualche aspetto, ad una logica impren- ditoriale anche alcune nuove norme nell’ambito della società a responsabilità limitata, come quelle sui finanziamenti dei soci (art. 2467) e sull’emissione di titoli di debito (art. 2483).

7. — Le « ragioni dell’impresa » e le connesse esigenze conservative emergono prepotentemente anche nella nuova disciplina dei gruppi societari:

disciplina articolata, com’è noto, nell’ottica della « direzione e coordinamento di società » e delle sue conseguenze (capo IX del titolo V). Qui si può parlare di « ragioni delle imprese », ogni società (capogruppo e partecipate) essendo normalmente titolare di (almeno) un’impresa e portatrice dell’interesse ad es- sa proprio. Senza contare, per chi ne configura l’esistenza, l’impresa stessa di

« direzione e coordinamento », che può sovrapporsi o affiancarsi ad altre im- prese della capogruppo, se questa è una holding operativa. Nel fenomeno di gruppo si può quindi constatare che s’intersecano e s’intrecciano « ragioni » di imprese diverse, e si prospettano, a seconda dei casi, situazioni di coinci- denza, di indifferenza o di conflitto di interessi. Mentre, solo a prezzo di una semplificazione della realtà economica e di una forzatura del sistema giuridi- co, è stata configurata in certi casi una unitaria impresa di gruppo; e, in con- trasto con la disciplina giuridica basata sulla soggettività di ogni componente, è stata prospettata un’entità soggettiva di gruppo, portatrice di un proprio di- stinto interesse.

La nuova disciplina dell’attività di « direzione e coordinamento » sanci- sce la responsabilità della capogruppo — quando abbia diretto o coordinato

« nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei princípi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società » controllate — nei confronti dei soci e dei creditori di queste (art. 2497). Esclude quindi che una

« ragione di gruppo » possa giustificare definitivamente il sacrificio di una o più società controllate e quindi dei soci e dei creditori delle stesse. Ma quel sa- crificio ammette in via temporanea, « nell’interesse imprenditoriale » della capogruppo e/o di una o più società del gruppo, facendo spazio al noto crite- rio dei così detti « vantaggi compensativi ». La nuova disciplina sancisce in-

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fatti che « non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero in- tegralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette ».

Non posso qui soffermarmi sui tanti problemi interpretativi che una sif- fatta disciplina prospetta e sulle tante incertezze operative conseguenti. Ac- cenno solo al problema connesso alla opinabilità del rapporto sacrifici-benefi- ci (in base a quali criteri si stabilirà la loro equivalenza o non-equivalenza?) e al problema della collocazione temporale della valutazione definitiva. Proble- mi ulteriormente aggravati ove il gruppo sia formato, in tutto o in parte, da enti non-profit (quali ormai possono essere anche società di capitali: d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155, attuativo della l. 13 giugno 2005, n. 118, in tema di

« impresa sociale »).

Mi preme invece segnalare come anche questa disciplina appare, per qualche aspetto, ispirata a un’ottica conservativa: ottica che si manifesta nella preferenza accordata a rimedi risarcitori, anziché a rimedi inibitori o invali- datori, e nella valorizzazione di strumenti di sanatoria o riparazione successi- va dell’azione originariamente scorretta.

8. — Di fronte alle norme ricordate nei paragrafi precedenti — e proba- bilmente a diverse altre ancora — possiamo dunque ritenere che il nostro le- gislatore si sia effettivamente lasciato guidare da quelle esigenze dell’attività imprenditoriale esercitata attraverso lo strumento societario, che la legge de- lega ha additato come princípi ispiratori della riforma, e abbia dato ampio spazio all’affermazione di criteri conservativi.

Ma non si può invocare, nella nostra materia, un « principio di conserva- zione » e asserirne la conferma e il rafforzamento ad opera della riforma, sen- za premettere con molta cautela alcune distinzioni e precisazioni. E poco im- porta se quel principio si voglia riferire direttamente all’impresa societaria oppure, con sfumature peraltro diverse, all’ente o al patrimonio societario, in quanto costituiti e strutturati in funzione dell’esercizio dell’impresa.

Il tema della « conservazione », con riferimento al diritto societario, è as- sai articolato e complesso, come articolato e complesso è il fenomeno societa- rio stesso nei suoi molteplici aspetti. Preme qui ricordare che, nella nostra materia, la « conservazione » entra in gioco a diversi livelli e su diversi piani.

Un primo piano è rappresentato dall’interpretazione del contratto o del negozio unilaterale costitutivo di società. Qui il « principio di conservazione » si esprime nella regola di preferenza del significato utile della dichiarazione, rispetto al significato inutile. Si tratta di una vera e propria regula iuris, inti- tolata « conservazione del contratto » (art. 1367 c.c.), ma notoriamente estensibile al negozio unilaterale (art. 1324 c.c.). Regola che lascia impregiu- dicato il diverso problema vertente sulla scelta fra più significati parimenti utili. Identica per tutti i contratti, tale regola non può non essere influenzata, nelle sue applicazioni concrete, dall’oggetto e dalla causa di ciascuno di essi: e così, nel contratto o nel negozio unilaterale di società, la strumentalità al-

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l’esercizio di un’attività economica può influire sulla determinazione dell’uti- lità o dell’inutilità di una clausola, dando alle « ragioni dell’impresa » un (sia pur limitato) spazio interpretativo.

Un secondo piano di rilevanza del « principio conservativo » nella nostra materia è rappresentato dalla operatività, rispetto ancora al contratto o al ne- gozio unilaterale costitutivo, delle regole che limitano la portata e gli effetti dei vizi e consentono il parziale o integrale ricupero del negozio viziato: allu- do alle norme sull’invalidità parziale (art. 1419, 1o comma, c.c.), sulla con- servazione del contratto nullo (art. 1424 c.c.), sulla convalida del contratto annullabile (art. 1444 c.c.), sulla modificabilità del contratto rescindibile (art. 1450 c.c.). Norme la cui portata conservativa viene integrata, ma non superata, nelle società che acquistano personalità giuridica, dagli effetti del- l’iscrizione nel registro delle imprese. E che comunque operano anche prima e indipendentemente da questa, superando o rimuovendo dei vizi capaci di pa- ralizzarla. Resta poi da vedere se le norme ricordate possano essere ricondotte a un « principio di conservazione » del negozio di portata amplissima, precet- tivamente operante anche al di fuori della previsione di ciascuna di esse, o se un « principio di conservazione » negoziale così latamente inteso non esprima alcuna regola di valenza precettiva, ma soltanto un indicatore di tendenza o una formula riassuntiva.

Un terzo piano di rilevanza della « conservazione » nel diritto societario è rappresentato, a livello contrattuale, dalle note regole sulla nullità, annullabi- lità e risoluzione del contratto plurilaterale (artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 c.c.). Regole enunciate rispetto ai « contratti con più di due parti »; ma esten- sibili anche ai contratti di società con due sole parti: sussiste infatti comunque il presupposto identificativo della « comunione di scopo », ed opera la regola della sopravvivenza (almeno temporanea) delle società con unico socio, raf- forzata oggi dalla possibilità di costituzione unilaterale delle società per azioni e a responsabilità limitata.

Un quarto e ulteriore piano di rilevanza della « conservazione » nel dirit- to societario è quello su cui si è soffermata la presente relazione: e cioè il pia- no dell’impresa ovvero, secondo le variabili già accennate, dell’ente costituito per esercitarla o del patrimonio strumentale ad essa. È a questo piano che dobbiamo dedicare ancora qualche attenzione.

9. — Preme a questo punto sottolineare — anche perché se ne ricavano indicazioni in ordine alla portata della « conservazione » dell’impresa o del- l’ente o del patrimonio societario nel diritto vigente — che il riformatore, nel dettare la nuova disciplina, non si è lasciato sempre guidare da criteri conser- vativi, e non è sempre stato coerente e razionale nelle sue scelte in tale dire- zione.

Mi limito qui ad accennare a tre opzioni normative, che mi sembrano contrastanti con l’indirizzo conservativo.

a) La riduzione della sfera dei diritti individuali inderogabili dei soci di

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matrice legale e l’ampliamento dell’autonomia negoziale dei soci stessi (am- pliamento peraltro indicato nella legge delega come uno dei princípi informa- tori della riforma) comportano l’aumento delle previsioni legali e soprattutto delle possibili previsioni statutarie di recesso: con esiti evidentemente disgre- ganti della compagine e del patrimonio societario e ricaduta negativa sulla permanenza dell’ente e dell’impresa;

b) le introdotte limitazioni alla possibilità di impugnare le delibere degli organi societari, ancorché illegittime o addirittura illecite, se da un lato ri- spondono, come abbiamo visto, ad una esigenza conservativa, dall’altro — consentendo all’impresa societaria di operare durevolmente nell’illegalità — hanno una ricaduta disgregativa sotto molteplici profili, non ultimo quello di esporre la società a più gravi misure sanzionatorie e a iniziative ricattatorie;

c) la conversione dei rimedi « reali » in rimedi risarcitori — oltre a con- sentire alla compagine sociale di irrigidirsi, in certi casi, nella illegalità, con i preoccupanti effetti accennati — permette a soci non consenzienti o a terzi di intaccare il patrimonio della società, promuovendo azioni di danno: esito che assume addirittura carattere paradossale quando la società danneggiata è chiamata a risarcire in ragione del danno che ha subíto (cfr., in tema di con- flitto d’interessi del socio, artt. 2373, 1o comma e 2377, 4o comma).

10. — Le riflessioni che precedono aiutano ad apprezzare il significato e la portata di quel « principio di conservazione » che viene spesso invocato da- gli studiosi del diritto societario, in un quadro ricco di sfumature, con riferi- mento ora all’impresa, ora all’ente e alla sua organizzazione, ora al patrimo- nio della società.

Ciò che mi sembra di dovere senz’altro escludere è che tale principio, ri- ferito al diritto societario, esprima una regula iuris, si traduca in un precetto suscettibile di immediata applicazione, alla stregua di quanto avviene, nel- l’ambito dell’interpretazione del contratto, per le clausole dubbie, ai sensi del- l’art. 1367.

Senza entrare nel merito dell’interminabile discussione sui « princípi » — discussione che investe la tipologia, la gerarchia e il significato stesso dei me- desimi, nella teoria delle fonti del diritto e della loro interpretazione — dirò che, parlando di « principio di conservazione » in materia societaria, si può correttamente alludere ad una ratio legislativa ispiratrice di una serie di nor- me, ad una linea di tendenza legislativa. Ratio che peraltro non appare insu- perabile, in presenza di altri interessi, giudicati di volta in volta (più) merite- voli di tutela. Tant’è vero che il legislatore ha fatto prevalere in molti casi esi- genze diverse, come quella che vuol tutelati attraverso il recesso i soci non consenzienti di fronte alle modifiche degli assetti societari (artt. 2437, 2473);

quella che vuol tutelati, sempre attraverso il recesso, i soci di società soggette ad attività di direzione e coordinamento di fronte a certi eventi modificativi o turbativi della stessa (art. 2497 quater); quella che vuol tutelati attraverso l’opposizione i creditori non consenzienti di fronte alla revoca dello stato di li-

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quidazione (art. 2487 ter, 2o comma); quella che consente o addirittura impo- ne lo scioglimento anticipato della società (art. 2484, 1o comma), anche a scapito della « conservazione » dell’impresa o dell’ente o del patrimonio so- cietario.

Il fatto che non si traduca in una precisa regola normativa non esclude che l’orientamento legislativo diretto a favorire la « conservazione » dell’im- presa o dell’ente o del patrimonio societario, ove non confligga con altri inte- ressi apprezzati dal legislatore come (più) meritevoli di tutela, abbia una va- lenza interpretativa, concorrendo a determinare, nell’interpretazione di speci- fiche norme del diritto societario, quella volontà normativa che si esprime con la formula della « intenzione del legislatore » (art. 12 preleggi).

Una verifica della valenza interpretativa del « principio conservativo » come sopra inteso può ricercarsi — l’indicazione è puramente esemplificativa e si limita ad offrire uno spunto di riflessione — in tema di conferimenti e di mantenimento del capitale adeguato (e non quindi soltanto del capitale mini- mo).Per i conferimenti in natura di valore inferiore di oltre un quinto a quello attestato nella relazione di stima « il socio recedente ha diritto alla restituzio- ne del conferimento, qualora sia possibile in tutto o in parte in natura » (art.

2343, 4o comma): è ragionevole sostenere che tale « possibilità » vada riferita non solo e non tanto alla tipologia del bene, quanto alla compatibilità della restituzione in natura con le esigenze conservative dell’impresa societaria.

Del pari è ragionevole sostenere che da tali esigenze non si possa prescin- dere agli effetti della riducibilità del capitale sociale: e ciò anche se il nuovo art. 2445 non si riferisce più espressamente al concetto di esuberanza « per il conseguimento dell’oggetto sociale ».

Un altro settore nel quale le esigenze dell’impresa societaria, nell’ottica della sua « conservazione », possono avere una valenza interpretativa è quello delle lacune della disciplina della società a responsabilità limitata e del loro completamento. Tali esigenze, e l’orientamento conservativo accennato, pos- sono concorrere a persuaderci, ad esempio, della estensibilità analogica del divieto di concorrenza a carico degli amministratori (art. 2390). Possono con- correre a persuaderci dell’estensibilità analogica delle norme che attribuisco- no all’organo amministrativo il compito di valutare e curare che « l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile » della società « sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa » (art. 2381, 3oe 5ocomma).

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