• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 4: Introduzione allo studio di fenomeni franosi

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 4: Introduzione allo studio di fenomeni franosi"

Copied!
63
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO 4: Introduzione allo studio di fenomeni franosi

4.1:Definizioni e classificazioni delle frane

I fenomeni franosi, rispetto ad altre calamità naturali, quali i terremoti, le eruzioni vulcaniche e le esondazioni, ricevono una minore attenzione da parte dei mezzi di comunicazione di massa, tuttavia costituiscono uno dei maggiori rischi per l’incolumità delle persone e dei beni.

Secondo l’UNESCO il 14% delle vittime delle catastrofi naturali è da attribuirsi ai fenomeni franosi ma il dato è da considerarsi sottostimato poiché, ad esempio, molte delle vittime causate dai terremoti sono in realtà la conseguenza dei movimenti di massa indotti da essi.

Nonostante le frane siano oggetto di studio da più di cento anni, non sono state ancora trovate nè una definizione né una classificazione universalmente riconosciute. La stessa definizione di frana è stata molte volte riformulata nel corso degli anni: le principali e più comuni versioni sono riportate di seguito:

• “Il percettibile scivolamento o crollo di una massa, relativamente asciutta, di terra, roccia o una mistura delle due” (Sharpe, 1932)

• “Il rapido spostamento di una massa di roccia, suolo residuale o sedimento adiacente ad un versante, in cui il centro di gravità della massa in movimento avanza verso il basso o verso l’esterno” ( Terzaghi, 1950)

• “Un movimento verso il basso o verso l’esterno di una parte di versante costituito da roccia, suolo, riporti artificiali o una mistura di questi materiali” (Varnes, 1958)

• “Rapido movimento di scivolamento di roccia separata dalla parte stabile del versante da un piano di separazione ben definito” (Zaruba, Mencl, 1969)

(2)

• “Un’ampia gamma di movimenti di massa e processi che comprendono il trasporto, da moderatamente rapido a rapido, di una massa costituita da suolo o roccia, lungo il versante. Di solito, ma non sempre, il materiale in movimento è separato dal versante attraverso una superficie di taglio” ( Gary et al.,1972) Tutte queste definizioni sono piuttosto restrittive poiché fanno riferimento alle caratteristiche del materiale, alla velocità e alla modalità del movimento in atto che, nei movimenti franosi, sono rappresentati da un’ampia gamma di gradazioni. A questo proposito sembra quindi più corretta, proprio perché più generica, la definizione di Cruden, secondo il quale una frana è “un movimento di una massa di roccia, terra o detrito lungo un versante” (Cruden, 1991).

Sono stati numerosi, nel tempo, anche i tentativi di catalogare i fenomeni franosi in modo da tener conto dei molteplici fattori che condizionano e favoriscono le frane. Ad una prima classificazione, ideata da J.D.Dana nel 1862, ne seguirono altre basate su criteri molto diversi: un esame delle classificazioni più importanti ci mostrerà come solo raramente i criteri siano generali e quindi la loro applicazione giustificabile su ampia scala. A questo proposito riportiamo di seguito i principali caratteri guida utilizzati dagli autori che hanno proposto schemi nomenclaturali dei movimenti di massa( Vallario, 1992).

Natura petrografica della massa in movimento: questo criterio è stato usato sia da autori

dell'800 ( Baltzer, 1875) che da autori del '900 ( Howe, 1909; Hain, 1932; Rotigliano, 1916; Mencl, Zaruba, 1969) ed è basato sulle condizioni e le proprietà meccaniche del materiale in movimento. La ricerca di questi caratteri implica indagini dirette nel sottosuolo e prove di laboratorio che rendono il criterio molto oneroso.

(3)

Tipo geografico: carattere guida utilizzato da Reynolds (1932), il quale creò una

nomenclatura poco specifica basata su esempi riferiti a particolari aree e quindi scarsamente fruibili all’esterno di esse.

Aspetti geologici: la letteratura sovietica (Sovarensky, 1937) costruì classificazioni volte

a sottolineare la relazione tra la geologia ed i fenomeni franosi.

Età delle frane: criterio seguito soprattutto dai ricercatori dell’Europa dell’Est che verso

la metà del secolo scorso compirono studi sulle frane dei Carpazi interni dividendole in base all’età in cui si erano verificati i movimenti.

Stato di attività: criterio introdotto da Erkcine (1973), il quale evidenziò due possibili stati: quello di frana attiva, se presenta movimenti al momento dell’osservazione o li ha presentati durante l’ultimo ciclo stagionale, e quello di frana inattiva, se non ha manifestato movimenti durante l’ultimo ciclo stagionale ed è stabile anche al momento del rilevamento. Lo stato di attività delle frane è un carattere molto significativo, tutt’oggi tenuto in grande considerazione, perciò l’argomento verrà ripreso specificatamente più avanti.

Velocità del movimento: a partire dalla seconda metà del secolo scorso si registrò un

aumento nel monitoraggio dei fenomeni franosi che portò ad un aumento delle conoscenze riguardo alle cause dei movimenti e al possesso di un maggior numero di dati quantitativi ricavati sperimentalmente. Come conseguenza del nuovo metodo di studio si aggiunsero, a quelli già esistenti, nuovi criteri classificativi basati sulle cause predisponesti, i meccanismi scatenanti e la morfologia dei depositi. A questo periodo risalgono anche gli studi di Sharpe che costruì una scala delle velocità delle frane inizialmente descrittiva (il movimento veniva indicata come impercettibile, percettibile,

lento, rapido, molto rapido) poi più scientifica (i termini furono sostituiti da valori

(4)

Tipo di movimento: questo carattere è tenuto in grande considerazione da molti autori

(Penk A., 1874; Stiny, 1910; Principi, 1945; Shultz & Cleares, 1955, Varnes, 1978, Hutchinson, 1988) in quanto rilevabile con buona approssimazione attraverso l'osservazione diretta e l'analisi di foto aeree. Le classificazioni di questo tipo fanno riferimento al movimento relativo tra corpo di frana e terreno in posto, con possibilità di valutazione della distribuzione degli spostamenti nello spazio e della loro velocità. In generale il tipo di movimento può essere considerato il miglior carattere guida fin'ora utilizzato per classificare le frane( Dikau et al., 1997).

La classificazione più conosciuta e usata al mondo è quella realizzata da Varnes, proposta per la prima volta nel 1948 e successivamente modificata dall'autore nel 1978 e, in collaborazione con Cruden, nel 1996. La classificazione di Varnes si basa sul riconoscimento di cinque classi principali di fenomeni franosi: crolli; ribaltamenti; scorrimenti, ulteriormente suddivisi in rotazionali e traslativi; espansioni laterali; colamenti; frane complesse. Le modifiche apportate nel 1996 evidenziarono le responsabilità, nella produzione di fenomeni franosi, di alcune attività umane quali l’escavazione dei versanti, la deforestazione, l’irrigazione, le vibrazioni artificiali e la creazione di riserve d’acqua.

A questa classificazione si affiancò, nel 1988, quella di Hutchinson, che prese marcatamente spunto da quella di Varnes ma si basò principalmente sulla morfologia dei movimenti di versante con considerazioni riguardo ai meccanismi, ai materiali interessati e alla velocità del movimento. L'autore introdusse anche fenomeni nuovi come, ad esempio, i Lahars, particolari debris-flow associati all’attività vulcanica.

(5)

4.2 Il rischio da frana

In seguito ai numerosi disastri verificatisi negli ultimi decenni ed al riconoscimento della natura sociale dei fenomeni franosi, sono stati intrapresi programmi di ricerca sia a livello nazionale che internazionale, per la caratterizzazione dei fenomeni, la loro previsione e prevenzione, la valutazione e la gestione delle loro conseguenze.

La mitigazione dei danni causati dalle catastrofi naturali e la riduzione del rischio rientrano nei compiti istituzionali dell’UNESCO che nel 1976 ha promosso la costituzione di una Commissione frane per svolgere ricerche sulla zonazione della pericolosità per frana ( Varnes, IAEG, 1984). Nonostante il lavoro svolto da questa e da altre commissioni scientifiche istituite nell’ultimo decennio del secolo scorso (1990-2000), designato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri Naturali, permangono molte incertezze relative al significato di termini quali pericolosità, vulnerabilità, rischio.

Attualmente non esistono definizioni universalmente accettate dei termini usati nella valutazione del rischio poiché essi variano di significato in base al campo di applicazione: i termini sopra citati sono di seguito messi in relazione con il significato che essi assumono nell’ambito dell’analisi dei movimenti di massa (Canuti, Casagli, 1994 ).

Intensità o Magnitudo ( Intensity I ): severità geometrica e meccanica del fenomeno

potenzialmente distruttivo. Può essere espressa in una scala relativa oppure in termini di una o più grandezze caratteristiche del fenomeno ( volume, velocità, energia etc.).

Pericolosità ( Hazard H ): probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si

verifichi in un dato periodo di tempo in una data area.

Elementi a rischio ( Element at risk E ): popolazione, proprietà, attività economiche,

(6)

Valore dei beni a rischio ( Worth of element at risk W ): valore economico o numero di

unità relative ad ognuno degli elementi a rischio in una data area. Il valore degli elementi a rischio può essere pertanto espresso in termini di numero o quantità di unità esposte (es. numero di persone, ettari di terreno agricolo) oppure in termini monetari. Il valore è una funzione degli elementi a rischio: W=W(E)

Vulnerabilità (Vulnerability V):grado di perdita prodotto su un certo elemento o gruppo

di elementi esposti a rischio risultante dal verificarsi di un fenomeno naturale di una data intensità; è espressa in una scala da 0 (nessuna perdita) a 1 (perdita totale) ed è una funzione dell’intensità del fenomeno e della tipologia degli elementi a rischio:

V=V(I;E)

Rischio specifico (Specific risk Rs): grado di perdita atteso quale conseguenza di un

particolare fenomeno naturale; può essere espresso dal prodotto H×V

Rischio totale (Total risk R): atteso numero di perdite umane, feriti, danni alle proprietà,

interruzione di attività economiche, in conseguenza di un particolare fenomeno naturale; il rischio totale è pertanto espresso dal prodotto R = H×V×E = Rs ×E

4.3 Stato di attività

La conoscenza dello stato di attività di una frana è di fondamentale importanza sia per una più precisa comprensione della dinamica e dell’evoluzione del movimento stesso sia perché ci fornisce indicazioni utili per lo studio della pericolosità. Per esso si fa riferimento a tre possibilità: una frana può infatti essere attiva, inattiva o quiescente (Canuti, Casagli, 1992).

Frane attive: si tratta di dissesti in cui sono evidenti segni di movimento in atto o recente, indipendentemente dall'entità e dalla velocità dello stesso. I segni possono essere molto evidenti (lesioni a manufatti, scarsa vegetazione, terreno

(7)

smosso) oppure percepibili solo attraverso strumenti di precisione (inclinometri, estensimetri, ecc.), così come la velocità di movimento può essere molto variabile. L'attività può essere continua o, più spesso, intermittente ad andamento stagionale. Le aree cartografate come frane attive sono da considerarsi inutilizzabili per tutti gli usi ad esclusione di quello agricolo qualora non peggiorativo delle condizioni di stabilità delle aree interessate.

Frane quiescenti: si tratta di frane senza indizi di movimento in atto o recente. Generalmente si presentano con profili regolari, vegetazione con grado di sviluppo analogo a quello delle aree circostanti non in frana, assenza di terreno smosso e assenza di lesioni recenti a manufatti, quali edifici o strade. È da sottolineare che il fatto di non avere registrato movimenti in tempi recenti o addirittura di non avere alcun dato storico di movimenti su una frana non esclude a priori la riattivazione della stessa se si ripresentassero le cause che l’avevano innescata. L'uso del suolo in queste aree andrebbe limitato all'agricoltura; ogni uso urbano o produttivo andrebbe valutato con estrema attenzione e consapevolezza per la potenziale riattivazione dei movimenti franosi.

Frane inattive: si tratta di frane che non mostrano segni di attività presente o recente e si esclude il rinnovarsi delle cause che lo avevano provocato e di conseguenza la sua riattivazione.

(8)

CAPITOLO 5: I movimenti gravitativi

5.1: La diffusione dell’instabilità dei versanti nell’area in esame

I movimenti di massa rappresentano i processi geomorfologici che attualmente contribuiscono in maniera dominante al modellamento del rilievo dei Subcarpazi e, in particolare, dell’area di studio. Molteplici fattori, sia naturali che indotti dall’attività umana, contribuiscono all’instabilità dei versanti: sicuramente la litologia, costituita quasi esclusivamente da rocce facilmente erodibili, gli intensi sollevamenti neotettonici, accompagnati da numerosi sismi ad elevata magnitudo, e il regime torrenziale delle piogge, favoriscono i processi di degradazione dei versanti e spesso, come vedremo, è possibile relazionare eventi sismici o esondazioni particolarmente importanti con precise modificazioni riconoscibili sui versanti. Di fondamentale importanza a questo proposito è il molteplice ruolo operato dalle acque, le quali, sottoforma di violenti tempeste hanno un grande impatto erosivo: a titolo di esempio ricordiamo che nel corso di un’unica tempesta, verificatasi nel Luglio del 1975, si registrò un’incisione di 0.30 m in una parete di arenaria, con un meccanismo tipo gully erosion (Bălteanu, 1976). D’altra parte le acque che si formano in seguito allo scioglimento della neve penetrano nel terreno contribuendo alla riattivazione di movimenti di massa .

Per quanto riguarda l’attività umana, sicuramente l’intenso disboscamento, operato soprattutto nei decenni passati, ha largamente contribuito alla messa in moto di fenomeni franosi, per il resto non esistono nell’area di studio centri urbani di notevoli dimensioni ma solo piccoli agglomerati di case ben inserite nella realtà fisico-geografica in cui sono sorte. Le tipiche case della valle del Muscel, infatti, sono costituite da uno scheletro di legno poi rivestito con il fango. Queste strutture sono leggere ed elastiche,

(9)

ottimali in un terreno franoso, poiché sono in grado di adattarsi ai movimenti del suolo e non creano una eccessiva pressione sui versanti (Figura 25).

Figura 25: Tipica casa di legno e fango.

La valle del Muscel, inoltre, non è mai stata interessata da opere di sbancamento e scavo per la costruzione di strade o la creazione di impianti per il trasporto di acqua o gas. A questo proposito bisogna tener conto della realtà povera di queste valli: per avere un’idea della situazione basti pensare che nel comune di Paterlagele solo il 30% delle case presenti nel capoluogo riceve acqua dalla rete pubblica, il resto delle famiglie e quelle residenti nelle frazioni attingono acqua da pozzi privati o comuni. Un altro esempio ci è fornito dal sistema di fognature del quale è fornito solo l’8% delle case,

(10)

questo perché la maggior parte di esse non è dotata di un bagno ma solo di una latrina posta in cortile (Bălteanu, 1996).

Di regola l’agricoltura e la pastorizia rappresentano la fonte di reddito principale degli abitanti della valle ed è appena sufficiente a garantirne la sopravvivenza. L’agricoltura è limitata a poche aree circostanti i paesi mentre la maggior parte del fondovalle e dei versanti di medie altitudini vengono intensamente sfruttati per far pascolare gli animali. L’azione di continuo calpestio operata da questi ultimi contribuisce all’insorgere di fenomeni, quali il creep, che favoriscono l’instabilità dei versanti. I prati posti sulle pendici più alte della valle sono spesso utilizzati per la produzione di fieno, in questo caso l’impatto umano sul versante è minimo poiché le attività vengono svolte “a mano” cioè con il solo aiuto di attrezzi quali la falce e il rastrello, per quanto riguarda il trasporto, il fieno viene caricato su carretti trainati da buoi o cavalli ( Figura 26).

Figura 26: Contadino di ritorno dai campi.

Incontrare una trattrice agricola in questi luoghi è, per ora, molto raro, ma se la situazione dovesse cambiare, questi versanti già per loro natura fortemente franosi, andrebbero incontro a notevoli problemi di stabilità.

(11)

La limitata responsabilità dell’uomo nella modificazione dei versanti è confermata dal fatto che grandi frane sono avvenute anche in passato e su di esse sono stati costruiti i principali centri abitati poiché i fenomeni gravitativi hanno ridotto l’acclività dei versanti rendendoli, almeno apparentemente, idonei allo stanziamento.

Nei Subcarpazi di Buzău sono state identificate due principali generazioni di frane (Badea 1967; Balteanu 1983; Dinu 1991): la vecchia generazione è caratterizzata da frane pleistoceniche molto profonde mentre le frane recenti rappresentano, di solito, riattivazioni, più o meno ampie, di queste o di altre avvenute in tempi storici, magari in seguito ai sismi che hanno interessato quest’area.

Visti in un’ottica generale i versanti della valle del Muscel ci appaiono quindi intensamente erosi dall’azione delle acque e modellati da una vasta gamma di movimenti di massa evolutisi in tempi diversi e con modalità e cause differenti che saranno l’oggetto di questo capitolo.

5.2: Frane di ribaltamento

Questa tipologia di frana interessa soprattutto i versanti ad elevata inclinazione (60°-70° anche 90°) situati al contatto tra il flysch del Paleogene e la molassa Neogenica (Cioacă, 1996). In particolare, i ribaltamenti hanno un ruolo dominante nell’area di Cima Fundaturile e Ripa Alba, dove frequentemente si verifica la caduta di massi e frammenti di roccia da scarpate molto ripide e senza copertura vegetale che, probabilmente, rappresentano le corone di distaccamento di grandi frane delle quali oggi non è più possibile distinguere i contorni.

Risalendo la parte più a monte del corso del Muscel, dove esso incide i depositi del flysch, è frequente la presenza di massi caduti in prossimità o nel letto stesso del fiume dai versanti sovrastanti, sottoposti ad un intenso scalzamento al piede. La figura 27

(12)

mostra un esempio di questa situazione in prossimità dell’abitato di Muscel, sul lato destro dell’omonimo fiume.

Figura 27: Frana di ribaltamento

5.3: Frane di colamento

L’area compresa tra le valli Saramura e Balosino Mare è la più franosa di tutto il bacino del Muscel poiché è completamente sviluppata in depositi marnoso-argillosi ed è sottoposta ad un intenso scalzamento al piede ad opera dei due torrenti ad attività stagionale, dei loro affluenti, e del Muscel stesso. Le frane più comuni in queste condizioni sono i colamenti che qui ritroviamo in due tipologie: colamenti di terra e colate di fango (mud-flow).

(13)

5.3.1: Colamenti di terra.

I colamenti di terra osservati nella valle sono di dimensioni variabili ma arrivano ad interessare ampie porzioni di versante nei quali sono evidenti anche ondulazioni, rigonfiamenti, depressioni a conca, scarpate e altre forme legate ai processi modellatori prevalenti che sono appunto rappresentati dai colamenti.

La singola frana si presenta, in genere, come un corpo in movimento caotico verso valle, senza una superficie di scorrimento ben identificabile. A causa dell’azione delle acque, che provocano una intensa plasticizzazione delle masse argillose, infatti, queste fluidificano e cominciano a muoversi verso il basso con velocità non molto elevate, (qualche metro al giorno) e variabili anche all’interno della massa stessa.

Un tipico esempio di colamento è rappresentato dalla frana che si origina in prossimità della cima della collina Muraturile, al contatto tra le brecce saline e i depositi marnoso-argillosi (Figura 28). Nell’area di origine del colamento è abbastanza evidente la presenza di una scarpata di circa 3 m, mentre, in altri casi, il passaggio tra la zona stabile e quella di frana è poco definito, ma comunque intuibile, per la presenza di depressioni discontinue, trasversali al versante, che segnano questa linea di transizione. I primi 100-150 m del corpo di frana sono caratterizzati dalla presenza di fessure trasversali da distensione mentre, a quota inferiore, il movimento procede come se fosse inalveato per altri 500 m. In questa porzione inferiore sono presenti fessure da trazione, longitudinali e parallele ai fianchi dell’area di frana. Procedendo verso valle, il movimento riceve alimentazione da monte e lateralmente da altri piccoli colamenti che vi affluiscono. Nella porzione inferiore il cumulo di frana tende ad espandersi sul versante e si distribuisce a ventaglio sulla porzione di raccordo tra il piede del versante e la zona sottostante, dove l’acclività progressivamente si riduce. Il colamento interessa

(14)

marginalmente un paio di case isolate e disabitate probabilmente anche perché continuamente sottoposte alle conseguenze delle periodiche riattivazioni del movimento. Altre frane di questo tipo, ma di più grandi dimensioni, si trovano sulle sponde del Balosino Mare, in particolare su quella destra poiché l’altra è costituita da arenarie e quindi è soprattutto interessata da fenomeni di erosione. Questi colamenti si originano ad altitudini di 600 - 700 m, generalmente non presentano nicchie di distacco e scendono lungo i versanti spesso sovrapponendosi le une alle altre.

(15)

5.3.2: Colate di fango ( mud-flow)

I mud-flow sono una categoria particolare di movimenti di massa che coinvolge per la maggior parte materiale fine sovrassaturo d’acqua che scorre lungo il versante come un fiume. I mud-flow si sviluppano quando una grande quantità d’acqua si accumula nel suolo in un arco di tempo molto breve, in seguito a piogge particolarmente abbondanti o ad un rapido scioglimento delle nevi (Canuti, Casagli, 1992). Questi processi, che qui sono stati considerati una tipologia di frana, vengono spesso classificati dagli autori come fenomeni che si collocano a metà tra il ruscellamento incanalato e le frane vere e proprie, questo a causa del grande contenuto d’acqua presente nella massa in movimento: esso può infatti essere pari al 60%.

Nell’area di studio i mud-flow si sviluppano su versanti disboscati con pendenze pari a 15°-20°, costituiti prevalentemente da alternanze di marne e argille. Le velocità di movimento registrate rientrano in un intervallo molto ampio che va da 3-4 m a 40-50 m al mese a seconda delle condizioni climatiche, ma in casi di intense piogge la velocità può raggiungere anche valori di 100-120 m\h (Bălteanu, 1971).

Un mud-flow di notevoli dimensioni si trova nell’area di Muraturile su un versante esposto a nord costituito, nell’area dove si origina il movimento, da una litologia marnoso argillosa molto ricca di brecce saline le quali favoriscono la fluidificazione del materiale. Nell’area sommitale non si distingue una scarpata vera e propria ma sono comunque facilmente definibili i limiti dell’area di distacco. Il movimento si estende longitudalmente per circa 500 m ed ha una larghezza variabile tra 50 e 100 m (Figura 29).

(16)

Figura 29: Mudflow nell’area di Muraturile.

5.3.3: Combinazione tra mud-flow e colamenti di terra

La combinazione tra i processi di mudflow e colamento, chiamate in letteratura rumena “alunecari de vale”, cioè frana di valle, o “vai de alunecare”, cioè valle di frana, occupano effettivamente intere vallecole che si sono sviluppate proprio grazie ad essi. Secondo molti autori, infatti, la prima fase del loro sviluppo è rappresentata dall’approfondimento della rete idrografica operato dalle acque ruscellanti, accompagnato da crolli e smottamenti di piccole dimensioni. In un secondo momento questo processo di erosione, prevalentemente verticale, si alterna a fenomeni di mudflow che tendono ad allargare la valle esercitando un’intensa erosione laterale, così pian piano il versante si trasforma e assume la conformazione di una valle. Un esempio interessante di questo fenomeno è situato nel versante nord della collina Viei, ai piedi della quale si sviluppa l’abitato di Cring. Questa frana si estende longitudinalmente per

(17)

1050 m ed ha una larghezza compresa tra 30 e 140 m. Il suo corpo attualmente è caratterizzato da almeno tre rami con attività di mudflow posti ad un’altitudine di circa 350-400 m, al di sotto di queste quote, più o meno in corrispondenza del passaggio da una litologia marnoso-argillosa ad una prevalentemente arenacea, i rami convergono a formare un unico corpo definibile come colamento ( Figura 30). Lungo lo stesso versante si trovano altre frane, di dimensione inferiori ma con struttura analoga alla precedente.

Figura 30: Ingrandimento dello stralcio della carta geomorfologica 1:10.000 raffigurante la frana descritta (Collina Viei)

Depositi marno-argillosi Mud-flow

(18)

Dagli studi svolti da alcuni ricercatori locali risulta che la frana sopra descritta inizialmente non si presentava come un unico corpo ma come un insieme di colate convergenti verso valle. Le registrazioni fatte durante il monitoraggio ci segnalano che l’evoluzione di queste forme è legata ai periodi di grande piovosità frequenti tra il 1969 e 1975, ad esempio nel 1973 è stata osservata l’unione dei settori attivi e nel 1975 l’insorgenza di alcuni mudflow nell’area sommitale (Balteanu, 1983). Dalle stesse ricerche risulta inoltre che i mudflow che interessano le parti terminali del corpo franoso sono posteriori al colamento sottostante, e ciò potrebbe significare che la valle sta andando incontro ad una fase di espansione. La maggior parte dei colamenti osservati sono complessivamente piuttosto stabili ma sono stati considerati attivi almeno nella porzione inferiore poiché, come si è visto, sono soggetti a riattivazioni, spesso causate da eventi pluviometrici importanti. La figura mostra una casa costruita nell’abitato di Cring in un’area particolarmente franosa (Figura 31).

(19)

5.4: Frane di scivolamento rotazionale

Gran parte delle frane di scivolamento rotazionale osservate sul territorio sono molto antiche e tra le cause principali che hanno contribuito alla formazione di questi cospicui fenomeni ci sono sicuramente i sollevamenti neotettonici e le scosse sismiche frequenti nell’area (Dinu, 1999). Le frane di tipo traslativo rotazionale sono caratterizzate da una superficie di rottura ben delineata e di forma arcuata, con la concavità rivolta verso l’alto, sulla quale scorre la massa in movimento. Le scarpate principali di queste antiche frane non sono facilmente distinguibili poiché, data l’età, sono ormai completamente stabili e quindi spesso totalmente ricoperte dalla vegetazioni, comunque, le scarpate che è stato possibile cartografare, sono per la maggior parte ubicate nelle parti alte dei versanti, spesso ai limiti del bacino idrografico. I corpi di frana che si sono distaccate da esse hanno percorso anche l’intero versante andando a ricoprire i terrazzi sottostanti o raggiungendo direttamente la riva del Muscel. La parte inferiore dei cumuli di frana tende spesso ad allargarsi sovrapponendosi alla porzione sottostante del versante, ciò produce ulteriori alterazioni che sovente portano all’innesco di nuovi movimenti ma generalmente di tipo superficiale.

Esempi di frane di scivolamento rotazionale sono molti diffusi nell’area di studio, se ne trovano all’altezza dell’abitato di Cring, e un po’ più a monte dove sorge il centro di Muscel. Il cumulo di frana su cui sorge l’abitato di Muscel è dato dall’unione di diversi corpi distaccatisi da quote diverse, comprese tra 450 e 550 m, e convergenti sul fondovalle dove formano un deposito che si estende in maniera continua per quasi un km lungo la riva del Muscel. Un’altra grande frana dello stesso tipo, probabilmente composta da corpi diversi evolutisi in differenti periodi, si trova in corrispondenza della Valle Braduletu, sul lato destro del Muscel (Figura 32).

(20)

Figura 32: Ingrandimento dello stralcio della carta 1:10.000 geomorfologica raffigurante la frana della valle Braduletu

Flysch: arenarie con intercalazioni di argille (Arenarie di Kliwa). Arenarie con intercalazioni di argille e marne.

Orlo di scarpata di frana di scivolamento rotazionale Corpo di frana di scivolamento rotazionale

(21)

5.5: Movimenti lenti superficiali

Vaste aree della Valle del Muscel sono interessate da movimenti lenti superficiali del suolo, in particolare si osservano processi di soliflusso, creep e deformazioni plastiche superficiali. Questi fenomeni sono spesso mal distinguibili l’uno dall’altro e trovano definizioni anche molto difformi a seconda dei vari autori. Molto spesso, inoltre, essi mostrano una convergenza morfologica degli effetti su vegetazione e manufatti (inclinazione di alberi e pali, irregolarità del terreno) che rendono ancora più difficile il loro riconoscimento (Castiglioni, 1979).

5.5.1: Creep

Il creep consiste in un lento movimento dei singoli elementi detritici del suolo lungo il versante, per effetto, non solo della gravità, ma di tutti quei fattori che producono spostamenti della coltre superficiale, quali contrazioni e dilatazioni termiche, formazione e scioglimento di ghiaccio, alternanza di periodi umidi e secchi, azione di animali escavatori o da pascolo. La maggior parte di questi spostamenti, per effetto della gravità, si traduce in una discesa lungo il pendio e la somma di queste discese produce uno scorrimento complessivo del suolo che può raggiungere una velocità di alcuni millimetri all’anno. Al contrario delle frane, che rappresentano il brusco spostamento di una parte limitata di versante, il creep interessa i depositi superficiali senza un limite preciso tra il materiale in movimento e quello fermo.

Nell’area di studio è evidente una fascia di territorio, posta in corrispondenza del versante sud di Cima Fundaturile, al contatto tra il flysch e la molassa, modellata prevalentemente da creep superficiale, cioè da movimenti poco profondi, con attività stagionale, legati ai cambiamenti di volume causati da variazioni di temperatura, contenuto d’acqua e cicli di gelo-disgelo. Lo spessore della copertura interessata da

(22)

questi movimenti corrisponde alla fascia di terreno che risente delle variazioni climatiche, per cui i movimenti, che diminuiscono costantemente con la profondità, si esauriscono generalmente entro il primo metro dalla superficie. Il fenomeno è reso evidente in quest’area dalla presenza di alberi ricurvi alla base e scarpatine e decorticazioni del mantello vegetale (Figura 33).

Figura 33: Versante affetto da creep nell’area di Fundaturile.

5.5.2: Soliflusso

Il soliflusso è uno scorrimento verso valle della coltre detritica di un pendio per effetto della saturazione in acqua, di origine piovana o conseguente allo scioglimento delle nevi, con velocità che vanno da qualche millimetro a qualche metro all’anno. Il soliflusso si distingue dalle colate per la sua lentezza e perché il terreno in movimento mantiene la sua consistenza, pur manifestando la presenza di lobi e increspature del terreno. Nell’area in esame il soliflusso ha una grande importanza nel modellamento dei

(23)

versanti costituiti da marne e argille, poiché questi materiali tendono facilmente ad imbibirsi d’acqua e a diventare plastici o quasi fluidi. In particolare questo fenomeno interessa un’ampia area a est dell’abitato di Fundaturile e il versante settentrionale della collina Viei. In quest’ultimo caso si è verificata un’ulteriore evoluzione del processo che, probabilmente in seguito ad eventi estremi, si è approfondito ed espanso fino a provocare la mobilitazione di ampie porzioni di versante che si sono tradotte in vere e proprie frane di colamento.

5.5.3: Deformazioni plastiche superficiali

Le deformazioni plastiche sono un tipo di movimento molto diffuso in un’area come quella in esame, dominata da argille, marne ed arenarie. Questo processo è a metà strada tra il soliflusso ed un vero colamento, poichè ha un’origine ed un’evoluzione simile ad essi, ma interessa uno spessore di copertura intermedio, pari a circa 4-5 m. Nell’area di studio ampie porzioni di versante sono interessate da questo tipo di movimento e in particolare la zona compresa tra i torrenti Saramura e Balosino Mare che, come già detto, è uno dei settori maggiormente colpiti da movimenti franosi per le sue caratteristiche litologiche, l’intenso ruscellamento e lo scalzamento al piede. La porzione inferiore di questi versanti è inoltre sfruttata come pascolo e tutti questi fattori insieme favoriscono la deformazione del suolo, resa evidente dalla presenza nel terreno di ondulazioni e rigonfiamenti soggetti a aumentare o diminuire di volume a seconda del grado di imbibizione del terreno.

(24)

5.6: Sviluppo del manto vegetale su un terreno interessato da movimenti di massa.

I movimenti franosi comportano, in misura più o meno ampia, l’alterazione, e spesso la completa distruzione, della copertura vegetale e anche dopo la stabilizzazione della massa in movimento occorre molto tempo prima che si ristabilisca l’equilibrio del versante, poiché esso è stato profondamente turbato. In generale, nei primi stadi di ricolonizzazione del suolo, la copertura vegetale presenta una struttura a mosaico, poi, se non si verificano ulteriori riprese del movimento, la composizione floristica dell’area diventa progressivamente più omogenea. Al contrario, se si hanno delle riattivazioni, l’evoluzione del manto vegetale diventa discontinua, poiché si formano nuove aree con vegetazione non omogenea. Le uniche specie in grado di colonizzare ambienti con condizioni edafiche così avverse sono le cosiddette specie pioniere, caratterizzate, oltre che dalla particolare resistenza alle condizioni sfavorevoli, anche da un’alta capacità di dispersione. Con il tempo, queste piante vengono sostituite da specie più specificatamente adatte al tipo di terreno e si arriva così pian piano all’uniformazione del manto vegetale dell’area interessata dal movimento di massa con il resto del versante. Oltre che da fattori naturali, il ripristino della vegetazione dipende anche dalle attività umane. Infatti il Corpo Forestale dello Stato spesso interviene piantando specie che contribuiscono alla stabilizzazione dei versanti e impedendo ai pastori l’utilizzo dell’area dato che il calpestio del bestiame impedisce lo sviluppo del manto vegetale.

Analizziamo di seguito le specie principali che si susseguono nel rinverdimento di aree interessate da frane e mud-flow (Muica, 1987).

La prima fase di sviluppo della vegetazione su un corpo di frana è caratterizzata dalla comparsa di specie pioniere quali Cynodon dactylon, Tussilago farfara, Cirsium

(25)

A queste erbe se ne aggiungono negli anni successivi molte altre e la vegetazione si fa sempre più somigliante a quella delle aree circostanti, in particolare le specie più diffuse sono: Lolium perenne, Botriochloa ischaemum, Trifolium pratense, Trifolium repens,

Trifolium fragiferum, Lotus corniculatus, Onobrychis viciifolia, Dorycnium herbaceum, Pimpinella saxifraga, Medicago lupulina, Plantago lanceolata, Acrimonia eupateria, Origanum vulgare, Prunella laciniata, Calamintha acinos, Potentilla reptans, Picris hieracioides.( Muica, Balteanu, 1995)

La ricolonizzazione in aree dove si sono sviluppati mud-flow è più difficile della precedente poiché questo tipo di movimento comporta la totale rimozione della copertura vegetale e ciò si verifica nuovamente ad ogni riattivazione; per questo motivo, in casi del genere, interviene il corpo forestale dello stato piantando specie quali

Elaegnus angustifolia, Hippophae rhamnoides e varie specie del genere Pinus, che

contribuiscono ad una prima stabilizzazione dei versanti e favoriscono il rimboschimento naturale operato da specie spontanee, quali Melitotus officinalis,

Daucus carota, Ononis spinosa, Artemisia absinthium, Erysium diffusum, Inula hirta, Picris hieracioides.

In particolare, nella parte concava del mud-flow, dove c’è un ristagno d’acqua quasi continuo si trova in abbondanza la Tussilago farfara, una composita che predilige terreni umidi, accompagnata da Crepis paludosa, Agrostis stolonifera, Agropyron

repens. In alcuni avvallamenti dove ristagna l’acqua, crescono addirittura le canne

(Phragmites australis). Nelle parti convesse, invece, il minor grado di umidità favorisce lo sviluppo di Botriochloa ischaemum, Origanum vulgare, Dorychium herbaceum,

Hipericum perforatum. Infine, soprattutto nella zona di accumulo del materiale, si

ritrovano frequentemente varie specie di arbusti e alberelli tipo Rosa canina, Cornus

(26)

CAPITOLO 6: Le forme fluviali e di dilavamento dei versanti.

6.1: I terrazzi

I terrazzi fluviali sono definiti come ripiani posti al di sopra del letto attuale dei corsi d’acqua che rappresentano antichi letti fluviali, abbandonati in seguito ad una fase erosiva, che ha provocato l’approfondimento dell’alveo. I terrazzi sono delimitati da una scarpata. La loro origine può essere dovuta a processi diversi quali il clima ed i movimenti tettonici per cui comunemente si parla di:

Terrazzi climatici se si sono formati in seguito a variazioni climatiche che hanno condizionato l’attività dei corsi d’acqua producendo l’alternanza di periodi durante i quali è avvenuto la deposizione dei sedimenti con altri durante i quali si è verificata l’incisione dei depositi e quindi la formazione dei terrazzi.

Terrazzi eustatici, sono un tipo particolare di terrazzi climatici originatisi in seguito alle oscillazioni del livello del mare in conseguenza delle variazioni climatiche quaternarie. L’alternarsi di regressioni glaciali e trasgressioni interglaciali, che hanno provocato rispettivamente episodi di erosione e di alluvionamento, ha portato alla formazione di terrazzi alluvionali durante le fasi anaglaciali e alla loro incisione durante le fasi cataglaciali.

Terrazzi tettonici sono determinati da movimenti orogenetici, isostatici o di altro tipo che hanno causato il sollevamento o l’abbassamento di una regione provocando così anche episodi di erosione e sedimentazione lungo i corsi d’acqua o i litorali.

I terrazzi della Valle del Muscel appartengono a quest’ultima categoria, rappresentano infatti una delle conseguenze dei movimenti neotettonici che hanno interessato quest’area: a partire dal Villafranchiano, infatti, si registra un

(27)

approfondimento della rete idrografica che si è sviluppato in tre fasi principali che hanno avuto luogo rispettivamente nel Pleistocene inferiore, medio e superiore. Queste fasi principali furono a loro volta caratterizzate da momenti di relativa stabilità e altri di innalzamento più vigoroso con variazioni del livello di base anche a livello regionale (Dinu, Cioacă, 1998). Nella Valle del Muscel sono riconoscibili tre ordini di terrazzi posti rispettivamente a 290 m s.l.m., 310 m s.l.m. e 350 m s.l.m.( Badea, 1977). Il nucleo principale dell’abitato di Paterlagele si sviluppa sulla superficie del terrazzo più recente e quindi di ordine superiore. Esso è riconoscibile solo sul fondovalle, in prossimità della confluenza tra il Muscel ed il Buzău. Il terrazzo di ordine immediatamente inferiore si trova a 310 m s.l.m. ed è separato dal primo tramite una scarpata. Su di esso sorgono ampi frutteti e la parte alta dell’abitato di Paterlagele. Questi due ordini di terrazzi sono costituiti da materiali sabbiosi con ampie lenti di limi argillosi che spesso vengono estratti ed utilizzati dagli abitanti della zona per il rivestimento delle case (Figura 34).

(28)

Risalendo la valle si trova un terzo ordine di terrazzi a 350 m s.l.m. rappresentato da tre lembi posti tra l’abitato di Muscel e quello di Fundaturile, sul lato sinistro del fiume principale, alla confluenza di questo con i torrenti a carattere stagionale. I limiti dei terrazzi, in particolare di quelli posti più a valle, sono ben definiti mentre quello localizzato più a monte è uno stretto lembo di terra fortemente modificato dell’azione dell’uomo che su di esso ha costruito diverse abitazioni e la strada principale del paese oltre a sfruttare questa superficie piana per l’agricoltura. Il numero dei terrazzi cartografati è esiguo rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare vista l’intensità dell’attività neotettonica. La spiegazione di ciò potrebbe stare nel fatto che, pur esistendo altri terrazzi essi non sono distinguibili a causa di deformazioni dovute ai movimenti tettonici stessi o perché sono stati ricoperti dalle frane che si sono staccate dai limiti del bacino idrografico ed hanno raggiunto il fondovalle o ancora perché le superfici dei terrazzi sono state incise dai solchi di ruscellamento che hanno col tempo trasformato la morfologia iniziale. Lo stralcio di carta geomorfologica riportato in figura 35 mostra due lembi di terrazzi molto vicini che possono essere interpretati come i resti di un’unica superficie successivamente incisa dal torrente. I terrazzi posti a 350 m s.l.m. sono costituiti prevalentemente da ghiaie e sabbie.

(29)

Figura 35: Ingrandimento dello stralcio della carta geomorfologica 1:10.000 raffigurante due terrazzi di 3° ordine.

Depositi marno-argillosi

Superficie di terrazzo 350 m s. l. m. ( da sabbie a ghiaie): Corso d’acqua a regime permanente

Corso d’acqua a regime stagionale

6.2: Alluvioni attuali

Le fasce più o meno estese poste ai lati dei corsi d’acqua, costituite da depositi fluviali, rappresentano le alluvioni attuali, cioè le aree soggette alla deposizione dei sedimenti durante i periodi di piena. Questo tipo di deposito è costituito essenzialmente da limi e sabbie. Nella Valle del Muscel si trovano depositi di questo tipo lungo il corso d’acqua principale solo dove esso scorre nei depositi miocenici, infatti, nel settore nord-ovest, caratterizzato da una maggior acclività e formazioni flyschoidi, il fiume ha un carattere erosivo e tende ad incidere i depositi oligocenici.

(30)

6.3: Conoidi di deiezione

Fiumi e torrenti uscendo dalle valli montane depositano alluvioni grossolane che diventano via via più fini a mano a mano che ci si allontana dalle montagne. Alcune conoidi di deiezione sono riconoscibili all’estremità occidentale del terrazzo posto a 310 m s.l.m. al contatto tra questo ed il versante della collina Viei. I coni di deiezione hanno la caratteristica forma convessa e si aprono a ventaglio quando i corsi d’acqua sboccano su un superficie pianeggiante sia essa un’ampia pianura o, come nel caso in esame, la superficie di un terrazzo. I conoidi evidenziati sono costituiti dai detriti grossolani abbandonati dai torrenti in corrispondenza di questo cambio di pendenza: attualmente non sono più attivi.

6.4: Forme dovute al dilavamento dei versanti.

Nei Curvatura dei Subcarpazi l’acqua corrente ha generalmente un ruolo morfogenetico importante, poiché la sua azione erosiva è largamente favorita dalla litologia, costituita prevalentemente da rocce friabili, dalla grande energia di rilievo e dal diffuso disboscamento. In particolare, è stata calcolata in queste montagne una perdita di suolo, dovuta all’erosione, oscillante tra 12.5 e 24.4 t/ha/anno, con i massimi valori registrati proprio nei Subcarpazi di Buzău ( Dinu, 1997 ).

L’azione erosiva dell’acqua si manifesta attraverso il movimento di sedimenti per effetto dello scorrimento superficiale delle acque ( erosione laminare o sheet erosion) ma anche attraverso la formazione e lo sviluppo, lungo i versanti, di piccoli solchi, effimeri o relativamente stabili ( erosione laminare o rill erosion ). Quando l’erosione assume dimensioni maggiori, le incisioni diventano permanenti e costituiscono elementi evidenti del reticolo di drenaggio (ruscellamento concentrato o gully erosion ).

(31)

Andando ad analizzare la distribuzione dei solchi di ruscellamento nell’area in esame, è evidente la loro maggiore concentrazione nelle aree costituite da arenarie rispetto a quelle con formazioni prevalentemente marno-argillose. Questa particolare distribuzione è evidente anche nella carta geomorfologica allegata dove si può osservare come i solchi di ruscellamento siano concentrati nel settore nord-est della valle, quella costituita da una litologia arenacea. Esperimenti svolti nell’area della Curvatura dei Subcarpazi hanno dimostrato che la concentrazione di forme torrenziali è di 20 volte maggiore nelle arenarie che nelle argille e che i solchi sviluppatisi in queste ultime hanno lunghezze medie di 150 m mentre quelli che si formano nelle arenarie raggiungono anche valori di 500 m ( Balteanu, 1983).

Nelle litologie marnoso-argillose del territorio studiato il terreno assorbe grandi quantità di acqua, per cui questo tipo di erosione si associa sistematicamente ai movimenti di massa ( Figura 36).

(32)

Al contrario, le arenarie hanno una minore tendenza all’imbibimento, per cui le acque che non si infiltrano nel terreno vi scorrono superficialmente erodendolo. Inoltre, data la considerevole inclinazione dei versanti posti nel settore nord-ovest della valle ( 20°-45°), i rivoli tendono ad approfondirsi sempre di più dando luogo ai solchi di ruscellamento concentrato che, una volta innescati, si approfondiscono, si allungano e si ramificano con un progressivo arretramento delle testate delle incisioni. Interi versanti nella Valle del Muscel, costituiti da rocce arenacee, appaiono così erosi da un insieme di vallecole scavate da fossi (Figura 37).

(33)

Il versante di Fundaturile ne rappresenta un chiaro esempio poichè qui la densità e le dimensioni delle incisioni sono tra le maggiori della valle: è stato infatti calcolato che la densità delle formazioni in approfondimento su questo versante superano i 17 Km/Km2 ( Bălteanu, 1974). L’area di Fundaturile , insieme al versante sinistro del Balosino Mare sono tra le zone più profondamente colpite da questo tipo di erosione, probabilmente anche perché, essendo prossime ai centri abitati, hanno subito più delle altre l’azione modificatrice dell’uomo che, ad esempio, su di essi ha operato un vasto disboscamento. Al contrario, le aree più lontane dai centri abitati sono generalmente boscose per cui, a parità di altre condizioni, in esse il problema dell’erosione del suolo è meno grave. Un ecosistema forestale maturo, infatti, è poco sensibile all’erosione in quanto la copertura vegetale svolge un’azione protettiva nei confronti del suolo, regolando i fenomeni di infiltrazione e percolazione: ciò comporta un abbattimento diretto dei volumi d’acqua disponibili per il ruscellamento.

6.4.1: Sviluppo del manto vegetale su un terreno interessato erosione torrenziale.

La ricolonizzazione delle specie vegetali in aree interessate da intensa erosione ad opera delle acque è molto difficile poiché il terreno è periodicamente sottoposto ad una forte azione distruttiva che non permette alla vegetazione di svilupparsi poiché le piante pioniere, che iniziano il ripristino del manto vegetale, quali Podospermum canum,

Cynodon dactylon, Taraxacum settorinum, vengono continuamente divelte durante le

piogge torrenziali. Anche i solchi scavati dalle acque ruscellanti sono continuamente sottoposti ad erosione, ma nonostante ciò le sponde sono generalmente ricoperte, anche se non in maniera uniforme, da arbusti e alberelli: le specie più tipiche sono

(34)

rappresentate da Hippophae rhamnoides, Crataegus monogyna, Ulmus minor, Rhamnus

(35)

CAPITOLO 7: Le forme pseudovulcaniche

7.1: I vulcani di fango

I vulcani di fango ( rum.volcani noroioşi) furono descritti per la prima volta, in Romania, nel 1867 da un ricercatore francese che stava operando delle prospezioni petrolifere nell’area di Berca, posta 30 km a nord ovest di Buzǎu ed a pochi Km dall’area di studio. In seguito a questa prima osservazione furono svolti molti studi riguardo a questi particolari fenomeni, definiti come pseudovulcanici in quanto geneticamente non hanno niente in comune con i vulcani veri e propri. I vulcani di fango sono presenti in molte parti del mondo generalmente in aree sismiche associate a sistemi di pieghe cenozoiche, quali ad esempio in Italia, Iran, Malaysia, Messico, Colombia. Questo fenomeno è abbastanza diffuso anche in Romania, soprattutto lungo le linee di faglia attiva della Curvatura dei Carpazi, poiché queste favoriscono la risalita dei gas, e in particolare nelle aree situate in corrispondenza di anticlinali, dove si accumulano facilmente gas e petrolio.

L’origine di queste strutture è dovuta appunto alla risalita di gas sotto pressione che, ad una certa profondità nel terreno incontrano la falda acquifera ed i sedimenti argilloso-marnoso spesso ricchi di depositi salini, caratteristici delle aree interessate da questi fenomeni. L’acqua ed i sedimenti vengono mobilitati e mescolati dalla pressione del gas e spinti verso l’alto sottoforma di fango, cosicché in superficie si ha la formazione di strutture in tutto simili a quelle vulcaniche ma costituite da fango (Burlacu, 1989) . I più grandi vulcani di questo tipo della Romania si trovano nell’area di Berca e sono concentrati su un altopiano caratterizzato dalla presenza di coni alti fino a 5-6 m interamente costituiti da fango grigio, a tratti reso bianco dalla presenza di croste saline. Il fango scorre lungo le pareti del vulcano come la lava da un vulcano vero (Figura 38).

(36)

Figura 38: Vulcano di fango a Berca

I crateri di questi pseudovulcani sono pieni di acqua salata, resa scura e densa dai sedimenti, nella quale affiorano in continuazione bolle di gas che, disfacendosi in superficie, producono un gorgoglio simile a quello dell’acqua che bolle, nonostante essa si trovi a temperatura ambiente ( Figura 39). Il caratteristico rumore ha fatto si che gli abitanti del luogo chiamassero queste strutture Fierbǎtori cioè bollitori.

(37)

Figura 39: Cratere di un vulcano di fango a Berca.

Il paesaggio intorno è desolato, quasi lunare, poiché nessuna pianta riesce ad attecchire su questo terreno fatta eccezione per la Nitraria schoberi, un arbusto alofita che crea qua e là qualche macchia di verde. La Nitraria schoberi è una pianta tipica dell’Asia centrale e in Romania cresce solo nell’area di Berca che rappresenta il suo limite estremo di diffusione verso ovest (Sîn-Petrus, 1989).

(38)

Anche nella valle del Muscel sono presenti alcuni vulcanelli di fango, pur se molto meno sviluppati e suggestivi di quelli precedentemente descritti. Attualmente ne sono riconoscibili almeno cinque, ordinati lungo una linea che corre più o meno parallela ad un tratto intermedio del torrente Balosinu Mare. (Figura 41). La distribuzione di queste forme è ordinata lungo una linea con andamento nord-est/sud-ovest. Questa direzione corrisponde all’orientazione principale della struttura e alla direzione preferenziale di propagazione delle onde sismiche, è probabile quindi, che i vulcani di fango evidenzino la presenza di una faglia attiva.

Figura 41: Ingrandimento dello stralcio della carta feomorfologica 1:10.000 con evidenziati i vulcani di fango e la faglia presunta

Arenarie con intercalazioni di argille e marne. Depositi marno-argillosi

Vulcanetto di fango

Faglia presunta

Il primo vulcano di fango che si incontra risalendo la valle, ha la forma di un laghetto con diametro di circa 40 m, il secondo ed il terzo, posti più a sud-ovest, hanno la stessa forma ma diametro inferiore pari rispettivamente a circa 15 e 2 m. La presenza di queste

(39)

particolari strutture si nota facilmente attraversando i prati perché sono ricoperte da una vegetazione più verde. Ad un’analisi più accurata si può anche notare che le specie sviluppatesi entro questo perimetro sono quasi esclusivamente graminacee idrofile. La consistenza del terreno è inoltre molto particolare infatti l’alternanza del fango e delle spesse coltri di vegetazione che vi si sviluppano grazie alla grande quantità di acqua, alla probabile assenza di sale ed alla scarsa attività dei vulcanetti, dà luogo ad una specie di tappeto elastico. L’evidenza di queste forme è resa ancora maggiore dopo la falciatura dei campi poiché queste aree non vengono utilizzate. (Figura 42)

Figura 42: Vulcanetto di fango a forma di lago Valle del Muscel.

Gli altri due vulcani di fango si trovano a breve distanza ed allineati ai primi tre sempre in direzione sud-ovest, ma hanno una forma a cupoletta che ricorda un po’ di più le forme a cono di Berca. Al momento del rilevamento non è stata notata alcuna emissione di fango ma il terreno circostante risulta essere più umido e con una consistenza più elastica, simile a quella descritta precedentemente, rispetto alle aree vicine. Nei dintorni del vulcanetto fotografato (Figura 43), che è il maggiore dei due, si possono osservare dei piccoli rigonfiamenti nel terreno interpretabili come fenomeni simili in formazione

(40)

ma non ancora attivatisi, con la vegetazione che li ricopre analoga a quella delle aree circostanti.

Figura 43: Vulcanetto a forma di cono. Valle del Muscel

Dalla letteratura risulta la comparsa e la riattivazione di alcuni vulcanetti nell’area in esame in seguito al terremoto del 1977, ma non viene indicato il numero delle forme esistenti né si fa cenno alla loro struttura e dimensione (Balteanu, 1983). È comunque probabile che in seguito al terremoto del 1990, ( M= 6.7 ), si siano manifestate altre riattivazioni o la comparsa di nuove forme. Se consideriamo la forma come carattere discriminatorio si potrebbe pensare che il vulcanetto a forma di cono sia il più antico in quanto somigliante a quelli di Berca, inoltre la formazione del cono può essere facilmente associabile all’accumulo di fango intorno alla frattura. Al contrario, i vulcanetti a forma di lago possono essere considerati più giovani poiché, a causa della loro breve attività, non sono ancora riusciti a costruirsi un cono. La differenza di forma potrebbe anche essere posta in relazione con la morfologia del terreno, che da piano,

(41)

dove troviamo le forme circolari, si fa via via più inclinato risalendo il versante, dove troviamo i coni. Un’altra spiegazione, forse la più plausibile, potrebbe derivare da una diversa fluidità del fango che raggiunge la superficie, per cui se il fango è più denso costruisce un cono intorno al cratere, in caso contrario non si accumula.

(42)

CAPITOLO 8: Le forme carsiche

8.1: I depositi salini

Alcuni minerali come il salgemma ed il gesso sono solubili in acqua per cui le rocce da essi costituite possono essere sede di processi di soluzione. Le acque di circolazione superficiale e sotterranea infatti asportano facilmente questi minerali producendo forme di erosione quali cavità e solchi e, contemporaneamente, depositano le sostanze in soluzione sottoforma di incrostazioni.

Il processo morfologico dominante operato dalle acque a carico del salgemma è sicuramente la soluzione, basti infatti pensare che la solubilità di questo sale è circa 1000 volte superiore a quella dei calcari. Di conseguenza anche la velocità dell’erosione chimica, e quindi di abbassamento medio della superficie topografica, è sino a circa 1000 volte superiore nel salgemma rispetto ai calcari. Quindi, se l’abbassamento medio di una superficie nei calcari in ambiente alpino può variare fra circa 4 e 8 cm in 1000 anni, a parità di condizioni, nei gessi l’abbassamento dovrebbe essere di 40-80 cm e nel salgemma di parecchie decine di metri. Questa condizione spiega la rarità degli affioramenti di salgemma nelle zone umide dove le rocce evaporitiche in generale, e il salgemma in particolare, vengono disciolte non appena raggiungono il terreno poichè i processi geologici che le portano a giorno sono infinitamente lenti se paragonati a quelli di soluzione (Sauro, 2003).

In Romania vi sono affioramenti salini di notevoli dimensioni: in particolare i più importanti depositi di sale del Paese si trovano in Vrancea e nella valle della Prahova (Figura 44).

(43)

Figura 44: Affioramento di sale presso Slanic (Valle della Prahova)

Nell’area di studio non si hanno depositi affioranti di rocce evaporitiche ma nella zona di Muraturile si trova una litologia costituita essenzialmente da brecce saline. Data l’alta solubilità del sale esso va incontro ad una rapida mobilitazione da parte delle acque percolanti per cui sulla superficie del terreno si ritrovano forme carsiche, in particolare doline.

8.2: Le doline

Le doline sono depressioni con uno o più punti di assorbimento idrico sul fondo. Esse possono presentarsi con un'ampia gamma di dimensioni, in alcuni casi vengono infatti incluse nelle macroforme ma generalmente, come nell’area di studio, rientrano nelle mesoforme. Le doline possono avere forme geometriche più o meno regolari come quelle in figura 45 o essere completamente asimmetriche. In particolare queste ultime sono generalmente allungate secondo la pendenza della superficie e mostrano una

(44)

differenza significativa tra la massima e la minima profondità: in questo modo la forma della conca risulta asimmetrica con un versante più esteso sul lato a monte e un versante più stretto e generalmente più ripido sul lato a valle. Queste strutture preludono alle valli cieche, cioè valli nelle quali il corso d’acqua è presente solo per un tratto poi si perde completamente nella cavità carsica. Esistono anche forme complesse di doline derivanti dalla fusione di più forme semplici, dove si riconoscono più punti depressi sul fondo.

Figura 45: Doline a forma di piatto, ciotola e imbuto.

Le doline riconosciute nell’area di Muraturile sono di dimensioni ridotte con diametri di pochi metri e profondità di pochi decimetri. La loro struttura è inoltre particolare in quanto sono la conseguenza di un processo carsico che avviene in profondità. Infatti questa morfologia è “riprodotta” sul materiale detritico di copertura ma deriva dalla dissoluzione del sale che avviene in profondità.

(45)

CAPITOLO 9: Superfici di spianamento di origine complessa

In molte catene montuose di genesi recente come le Alpi, gli Appennini, i Carpazi ed i Subcarpazi, è possibile osservare delle superfici subpianeggianti, o comunque con scarsa energia di rilievo, che attualmente non appaiono collegate ai processi morfogenetici in atto ma piuttosto come vestigia di un’antica morfologia relitta. Queste forme sono definite appunto come superfici relitte o paleosuperfici e furono descritte per la prima volta in Appennino all’inizio del secolo scorso da alcuni studiosi, seguaci delle teorie di Davis sul ciclo d’erosione, che iniziarono a diffondersi proprio in quel periodo. È assai probabile che all’interpretazioni di queste morfostrutture come residui di una morfologia non in equilibrio con l’attuale abbia contribuito direttamente Davis durante un viaggio di studio attraverso l’Appennino centrale che egli effettuò con altri ricercatori durante l’estate del 1908. Molti altri studi (Bartolini, 1986) volti a chiarire l’origine di queste enigmatiche superfici furono svolti nei decenni a seguire dai ricercatori di molti paesi e non tutti sono d’accordo nel definire le paleosuperfici come i resti di antiche superfici di erosione. In particolare, Richt (1938) mette in evidenza il fatto che qualsiasi tipo di culminazione, crinali inclusi, è il risultato di un’erosione che interessa, a maggior ragione, anche la stessa culminazione per cui, è assai improbabile che essa possa costituire il residuo di un’antica superficie di erosione. A tutt’oggi non esiste una teoria che spieghi a pieno la genesi di queste superfici.

Nella valle del Muscel sono presenti alcune aree poco estese che, se analizzate a piccola scala, possono essere descritte come crinali suborizzontali ma che nei dettagli presentano un rilievo tale da giustificare il loro inserimento nella categoria delle superfici di spianamento di origine complessa, in quanto rispondono ai criteri descritti da Bernini come necessari per il riconoscimento delle paleosuperfici (Bernini, 1977):

(46)

Un evidente contrasto tra la topografia dolcemente ondulata della paleosuperficie e quella con più elevata energia del rilievo circostante.

Un diverso grado d’ intensità e frequenza dei processi erosivi che risulta basso sulle paleosuperfici ed elevato attorno ad esse.

Contorni chiaramente individuabili, in genere dati da evidenti rotture di pendenza.

I lembi di superfici di origine complessa riconoscibili nell’area di studio sono di piccole dimensioni, e distribuiti nelle diverse litologie ad altitudini differenti, ne deriva che è difficile stabilire correlazioni tra di esse. Generalmente nel settore sud-orientale della valle esse si trovano ad altitudini comprese tra 400 e 500 m mentre nel settore nord-ovest si mantengono intorno ai 550-650 m di quota, come mostrato dallo stralcio della carta geomorfologica riportato in figura 46.

(47)

Figura 46: Ingrandimento dello stralcio della carta geomorfologica 1:10.000 con evidenziate alcune superfici suborizzontali di origine complessa.

Flysch: arenarie con intercalazioni di argille (Arenarie di Kliwa).

Superficie di genesi complessa

È probabile che queste superfici siano correlabili su più ampia scala anche se è allo stesso modo possibile che siano i resti di morfologie evolutesi in tempi diversi e con modalità e agenti morfogenetici diversi e siano state sottoposte a sollevamenti neotettonici disomogenei, per cui superfici di età diverse potrebbero trovarsi alle stesse quote e viceversa.

Le paleosuperfici di maggiori dimensioni si trovano nel settore sud-est della valle, esse hanno una forma allungata, possono supera il chilometro di lunghezza ma generalmente

(48)

hanno una larghezza inferiore a cento metri. Le superfici presenti in quest’area sono anche quelle più facilmente riconoscibili per il contrasto che si crea tra queste aree subpianeggianti, delimitate da scarpate, ed il resto dei versanti fortemente interessati dai movimenti di massa. Un esempio è riportato in figura 47.

(49)

CAPITOLO 10: Analisi quantitativa del bacino idrografico del Muscel.

Il bacino del fiume Muscel ha un’estensione di circa 19.70 Km2 ed una forma d’insieme allungata in direzione NO-SE. Il collettore principale si origina presso Cima Paterlagele e dopo un percorso di circa 10 Km sfocia nel Buzău. Al fine di individuare le tendenze evolutive del bacino fluviale e di determinare i processi di trasformazione che in esso hanno luogo, si esaminerà la struttura del reticolo idrografico studiando prima di tutto la sua gerarchizzazione. La carta del reticolo idrografico gerarchizzato ed i dati relativi al numero ed alla lunghezza dei segmenti fluviali sono stati tratti da un lavoro di Viorel Chendes ( Chendes, 1998).

10.1: L’ordine gerarchico

L’ordine gerarchico costituisce una proprietà lineare di un sistema fluviale. Il reticolo può essere suddiviso in singole aste fluviali secondo un ordine gerarchico: ogni ramo senza affluenti, cioè alimentato solo dal ruscellamento diffuso o da sorgenti, costituisce un elemento di primo ordine. Dalla confluenza di due segmenti di primo ordine si origina un’asta fluviale di secondo ordine, dalla confluenza di due segmenti di secondo ordine se ne ottiene uno di terzo ordine e così via (Horton, 1945). Secondo questo sistema di classificazione, elaborato da Horton e successivamente modificato da Strahler, nel bacino in esame si distinguono 271 segmenti di primo ordine, corrispondenti a corsi d’acqua brevi, attivi solo durante le piogge torrenziali, molto frequenti in quest’area nella stagione estiva. Anche i segmenti di secondo (54) e terzo ordine (9) sono generalmente a carattere stagionale e il Muscel stesso, che risulta essere un segmento di quarto ordine, durante l’estate trasporta scarse quantità di acqua.

(50)
(51)

10.2: Rapporto di biforcazione

Uno dei parametri fondamentali presi in esame per descrivere la struttura del reticolo fluviale è il rapporto di biforcazione inteso come il rapporto tra il numero dei segmenti fluviali di un dato ordine (Nu) e il numero dei segmenti dell’ordine immediatamente

successivo (Nu+1) ( Horton, 1945).

Rb = Nu/ Nu+1

Il rapporto di biforcazione di un bacino fluviale è la media degli Rb relativi alle coppie

di numeri di segmenti di ordine u e u+1: nel caso in esame esso è pari a 6.67. Il valore ottenuto è un po’ superiore ai valori che si ottengono comunemente, oscillanti tra 3 e 5 (Avena e Lupia Palmieri, 1969, Lupia Palmieri, 1998): questo dato indica che il drenaggio è notevolmente disorganizzato infatti scarti notevoli nelle frequenze di segmenti di ordini successivi, insieme a un elevato numero di segmenti degli ordini superiori contrapposto ad uno esiguo in quelli inferiori, come nel caso in esame, sono caratteristici di bacini fortemente dissecati e con modesta organizzazione gerarchica. Tale disorganizzazione potrebbe essere imputata ad un controllo tettonico (Avena et al., 1967).Bisogna però tener presente che il sistema di calcolo del rapporto di biforcazione tiene conto di tutti i segmenti fluviali piuttosto che della reale influenza dei segmenti di un dato ordine in quelli dell’ordine immediatamente superiore, per cui, considerando i limiti di rappresentatività che caratterizzano questo parametro si è ritenuto necessario calcolare anche il rapporto di biforcazione diretto secondo quanto suggerito da Avena et al. (1969).

(52)

10.3: Rapporto di biforcazione diretto

Questo secondo parametro è definito come il rapporto tra il numero di segmenti fluviali di un dato ordine che fluiscono in segmenti dell’ordine immediatamente superiore (Ndu)

ed il numero di questi ultimi (Nu+1).

Rbd= Ndu/Nu+1

Il risultato ottenuto calcolando il rapporto di biforcazione diretto, che è pari a 5.30, conferma la scarsa gerarchizzazione del reticolo idrografico. In realtà anche il rapporto di biforcazione diretto non costituisce da solo una grandezza completamente rappresentativa del grado di gerarchizzazione, infatti, bacini aventi lo stesso rapporto di biforcazione possono essere organizzati diversamente per la presenza di influenze gerarchicamente anomale date da quelle situazioni in cui i segmenti di ordine u non confluiscono in segmenti di ordine u+1.

10.4: Indice di biforcazione

Per mettere a confronto tutti i segmenti presenti nel reticolo con quelli collegati in regolare successione gerarchica e per mettere in risalto l’incidenza delle influenze anomale può essere utile ricavare l’indice di biforcazione derivandolo dalla differenza dei due parametri precedenti (Avena et al., 1969).

(53)

L’indice di biforcazione non sempre si rivela utile: nel caso in esame esso è pari a 1.37, valore che corrisponderebbe ad un bacino con una condizione di gerarchizzazione normale. Ciò è dovuto al fatto che il rapporto di biforcazione e di biforcazione diretta sono entrambi elevati per cui la loro differenza è necessariamente un valore basso. Nel caso in esame quindi sono i primi due parametri analizzati a fornirci l’esatta condizione di gerarchizzazione del bacino.

u N Rb Nd Rbd R 1 271 - 198 - - 2 54 5.02 29 3.67 1.20 3 9 6.00 9 3.22 3.00 4 1 9.00 1 9.00 3.70 Rb=6,67 Rbd=5.30 R=1.37

Tabella 10: Numero dei segmenti per ogni ordine, rapporto di biforcazione, rapporto di biforcazione diretto, indice di biforcazione relativi al bacino del Muscel.

10.5: Indice e densità di anomalia gerarchica

Poiché la variazione del grado di gerarchizzazione è strettamente legata non solo alla frequenza delle influenze anomale presenti nel reticolo, ma anche alla loro distribuzione nei diversi ordini, si è ritenuto opportuno di approfondire l’indagine mediante il calcolo dell’anomalia gerarchica. Questo parametro (G1) rappresenta il numero minimo di

(54)

sistema nel quale tutti i segmenti di primo ordine confluiscono in segmenti di secondo ordine, tutti quelli di secondo in segmenti di terzo e così via, nell’ipotesi che il drenaggio tenda a raggiungere la condizione di conservatività. Il calcolo per l’area esaminata è stato eseguito applicando la formula

r i s i s i r r i a N f G 2 , 1 2 * ,

∑ ∑

− = =+ =

Dove s è l’ordine del bacino preso in esame, N*i,r il numero di segmenti anomali di

ordine i che influiscono in segmenti di ordine r, essendo fi,r = 2 (r-2)-2 (i-1) ed i< r-2.

Il valore così ottenuto è stato poi messo in rapporto con il numero di segmenti di primo ordine presenti e con la relativa area di competenza ottenendo rispettivamente l’indice di anomalia gerarchica (∆a =Ga/N1) e la densità di anomalia gerarchica (ga = Ga /A)

Ordine segm. Influenti

Ord.seg. recettori Freq.Inf. anomale Fattori moltiplic. Prodotti parziali Ng Ga ∆a ga 4 40 25 4 2 160 50 210 3 33 - 1 - 33 - 33 243 0.89 12.34 1 2 1 2 1 2

Tabella 11: Numero( Ga ), indice e densità (∆a) di anomalia gerarchica relativi al bacino del Muscel.

Dai dati riportati nella tabella 8 si può innanzitutto osservare come le influenze anomale siano frequenti sia relativamente al primo che al secondo ordine, dai calcoli fatti inoltre

Figura

Figura 26: Contadino di ritorno dai campi.
Figura 28: Frana di colamento in prossimità della cima della collina Muraturile.
Figura 29: Mudflow nell’area di Muraturile.
Figura 30:  Ingrandimento dello stralcio della carta geomorfologica 1:10.000 raffigurante la frana  descritta (Collina Viei)
+7

Riferimenti

Documenti correlati

Quando gli elementi sono in serie l’impedenza totale è la somma delle singole impedenze, quando sono in parallelo l’inverso dell’impedenza totale è la

• onde trasversali : moto oscillatorio delle particelle normale alla direzione di propagazione dell’onda.. • onde longitudinali: moto oscillatorio delle particelle

onda di percussione in un solido (idem in

Ripetendo la stessa misura per il vetrino 1, con elettrolita meno viscoso, si ottengono i grafici di Figura 6-18 (il primo grafico era già stato visto precedentemente), in cui si

Caratteri, unità statistiche e collettivo Classificazione dei caratteri statistici Suddivisione in classi di un carattere quantitativo.. I diversi tipi

•Le trasformazioni fatte dall’uomo. Chi è lo scienziato

• L’ analisi cinematica degli spostamenti ha consentito di ipotizzare la formazione di una superficie di rottura profonda lungo la quale si è avuto il movimento che, a sua volta,

• Il monitoraggio delle grandezze idrauliche e dei dati meteo effettuato nel campo prove del monte Faito ha consentito l’analisi della circolazione idrica in una coltre