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2. Timor Sacro 2.1 Genesi ed elementi principali del romanzo

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2. Timor Sacro

2.1 Genesi ed elementi principali del romanzo

La composizione di Timor Sacro, ha accompagnato l’intera esistenza di Stefano Pirandello; egli ne aveva iniziato la stesura durante i giorni della prigionia negli anni Venti, per poi lavorarvi continuamente e completarlo solo alla vigilia della sua scomparsa. Il romanzo è stato pubblicato nel 2011 presso la casa editrice Bompiani, per le cure di Sarah Zappulla Muscarà, ordinario di Letteratura Italiana nell’Università di Catania

Libro inedito dunque che ripercorre tutta una vita, in una combinazione di storia individuale, autobiografica, ma anche segnata dagli accadimenti e dalle leggi del tempo.

Timor sacro è un’opera emblematica già dal titolo (mantenuto inalterato dai curatori) che condensa al suo interno il significato stesso del libro: richiama infatti quel timore reverenziale che Stefano nutriva nei riguardi del padre Luigi e del quale si libererà solamente grazie all’arte. Tuttavia Stefano ha scelto deliberatamente di apparire postumo e di non godere così né delle soddisfazioni che possono venire da una pubblicazione, né del giudizio della critica, al fine di creare una distanza temporale dal padre e di attenuare il loro ineluttabile raffronto.

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Il romanzo è una dura battaglia tra mente e cuore, sofferto e vissuto, come il lento incedere della narrazione suggerisce; è un romanzo «di formazione» poiché mostra la sofferta presa di coscienza (che si palesa nel passaggio dallo pseudonimo Landi con cui comincia la carriera di scrittore al vero cognome, Pirandello) da parte di Stefano del proprio ruolo nella vita e nella letteratura. Tuttavia è anche un’opera fortemente autobiografica, nella quale compaiono (sebbene mascherati) i componenti della tormentata famiglia Pirandello (il padre Luigi, la madre Maria Antonietta Portulano, i fratelli Fausto e Lietta), gli amici più intimi di Luigi e di Stefano e varie personalità di quegli anni; è infatti possibile riconoscere tra le righe del libro letterati del calibro di Corrado Alvaro, Corrado Pavolini, Massimo Bontempelli, o politici come Ciano e Bottai, o scrittori come D’Annunzio, Malaparte, Alberto Savinio, Silvio D’Amico. Da Timor sacro emergono anche i risvolti inevitabili di un’epoca come la proclamazione dell’impero, la pena di morte, la figura del Boia, le leggi razziali, ma l’elemento predominante rimane il forte legame con il padre, un legame che è totale ma al tempo stesso tormentato, amoroso, eppure tirannico.

Un altro elemento portante è la metafora del viaggio necessaria all’autore per guardare diversamente dentro sé stesso, in quello che si può definire un nostos poiché si compie su una linea circolare in cui punto di partenza e punto di ritorno coincidono. Un viaggio che va raccontato con parole altre perché

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«Guai a raccontare una storia vera! Non si deve mai far coincidere la vita con il racconto della vita».29 E allora ecco fornito l’espediente, affidare il racconto della propria storia a due personaggi, Selikdàr Vrioni e Simone Gei, il primo un albanese fuggito da una patria e da una famiglia di cui non condivideva i valori, il secondo uno scrittore che sull’eroica vicenda dell’albanese è chiamato a scrivere un romanzo. Due personaggi che Stefano si è cucito addosso come un abito speciale, su misura; che sono stati nutriti da lui sulla base di un’identificazione personale ma che dovevano «pigliare tutt’un’altra anima»30

.

Come si legge da alcuni appunti annotati dallo stesso Stefano e che costituiscono una sorta di giudizio finale sul proprio romanzo:

«Ho somigliato a Selikdar in alcune congiunture ma non ho potuto, voluto essere come lui. Ho preso più che altro da Simone Gei quanto all’immagine che i casi e gli altri gli impegni hanno fatto di me».31

Ed ecco quindi che la fatica con cui Simone si accinge a scrivere il romanzo su Selikdar, i continui ripensamenti, le prime e le seconde stesure diventano l’emblema della fatica con cui Stefano, l’altro Pirandello, si affaccia alla vita e all’arte, schiacciato da una tragica e duplice consapevolezza, quella di essere agli occhi del mondo «bollato a priori» e senza possibilità di scampo

29 Cfr. Stefano Pirandello, Timor Sacro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Bompiani, Milano, 2011, p.14

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Ivi, p. 24 31

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come «un eterno figlio di Pirandello», ma che poi certo non può essere Pirandello.

Con il titolo del terzo capitolo «I due, a specchio», l’autore ha voluto creare un parallelismo speculare tra la figura di Simone e quella di Selikdàr, entrambi con un passato dal quale scappare, ma ha al contempo dato vita ad un cospicuo numero di coppie speculative che esulano in più di un’occasione dalle figure dei personaggi e sfociano nell’autobiografismo. È infatti possibile rintracciare delle evidenti analogie tra Simone Gei e Stefano Pirandello, ma anche tra quest’ultimo e Selikdàr e infine, tra Stefano e il padre Luigi.

La presenza di coppie “a specchio” è una delle caratteristiche più ricorrenti nell’opera.

Timor Sacro è definito un romanzo “pericoloso” dalla sua curatrice Sarah

Zappulla Muscarà, che adduce a riprova della sua affermazione già l’incipit costituito dai versi di uno “scherzo” di mordente ironia siglato dall’invettiva culminante nella damnatio memoriae di Zuane Mocenigo, patrizio veneziano reo di tradimento, dalla cui infamante delazione all’inquisitore fra’ Gabriele da Saluzzo scaturirono il processo, la condanna e il rogo che, con Giordano Bruno arse (il 17 febbraio 1600, a Campo dei Fiori) la libertà della speculazione filosofica in Italia.

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30 Noi gli unici dotati di FARE-FINTA-INSIEME! (Faire-semblant-ensemble)

Noi questi unici esseri dotati dell’alta facoltà-specialità di

(non per gioco: sul serio, union sacrée fino alla morte e ai massacri)

di FARE-FINTA-INSIEME ecco perché nell’Essere

che è tutto naturale –non fa finta- siamo, Noi soli, sovrannaturali. (il Macònio)

(… e maledetta nei secoli la memoria di Zuane Mocenigo) (id. id.)

Con la damnatio memoriae, ripresa anche all’interno del romanzo dalle parole del Macònio, e rivolta a destinatari inclini ad apprezzare quanto di serio si cela nella scrittura ludica, anticipando il tardivo pubblico pentimento di Roma per il nefando delitto, Stefano Pirandello urla con forza dissenso, rabbia e dolore.

Romanzo pericoloso dunque Timor sacro, erudito, alchemico, cui compete la dimensione dell’immaginario, ma pure della realtà, talora tragica, inesorabilmente violentata e compassionevolmente stravolta. È arduo dipanarne gli intricati fili, giacché nel libro la memoria non si apparenta unicamente all’idea di memoria come scrigno di ricordi. La memoria come registrazione di eventi che attraversano tutte le stazioni della vicenda umana e letteraria di Stefano si distingue nel romanzo dalla memoria come ricerca,

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come cardine narrativo, ma pure dalla memoria come opportunità , nel senso che la fedeltà alla memoria non è pedissequamente e banalmente riconducibile a quanto è avvenuto.32

Nel suo romanzo Stefano Pirandello ha bisogno di essere fedele alla memoria, di raccontare un «fatto vero», come titola il primo capitolo, ma non di essere vestale della memoria. L’arte, dichiara Luigi Pirandello, è uno specchio “per” la vita, non “della” vita. L’arte è creazione e non museo. E

Timor sacro, in virtù di disordini e fughe memoriali, racconta di uno

scrittore scontroso, enigmatico pervaso dall’ansia di un’irraggiungibile perfezione, ma scrittore del suo tempo.

Tra gli appunti di Stefano Pirandello, in una paginetta scritta a matita rossa e blu, è stata trovato una sorta di giudizio- sintesi finale del romanzo, scritto probabilmente per essere messo in quarta di copertina o in risvolto, in cui si legge:

«Simone ha paura dell’uomo. Il Macònio è confidente nell’uomo. Selikdàr è adatto alla vita.

Simone ha trovato nel Macònio la propria natura, è partito confidente e tende sempre a tornare confidente, ma c’è l’amore per Lora, i figli, l’arte…

Il Macònio non ha questi legami. Entrambi aperti al senso del divino.

Selikdàr lotta o s’arrende secondo che giovi, stringe o sceglie legami

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pagando di persona, usa la forza le protezioni le istituzioni la produzione, vigoroso e tendenzialmente onesto, bene erudito quanto a religione pratica. E io (che li assommo)?

Io ho assomigliato a Selikdàr in certe congiunture, cercando fortuna; ma in fondo non ho voluto –potuto- essere come lui;

e in segreto lasciandomi guidare dal Macònio, mio alter ego ideale a cui resta affidata la mia memoria, ho preso più che altro da Simone Gei quanto all’immagine che i casi e gli altri impegni hanno fatto di me».33

Questo passo è di rilevanza fondamentale perché fornisce al lettore una prima caratterizzazione dei personaggi principali che entra però da subito in relazione con il forte tasso di autobiografismo insito nel romanzo. Pirandello descrive i suoi personaggi ma allo stesso tempo scrive che essi lo rappresentano un po’ tutti, soprattutto lo scrittore Simone Gei. L’identità dell’autore è celata dietro il ripercorrere della sua vita per il tramite di obliqui e misteriosi rimandi autobiografici, attraverso quella del protagonista Simone Gei e dei suoi familiari, talora appena adombrati, sempre trasfigurati e sovrapposti, anche attraverso quella di Selikdàr Vrioni, anch’egli padre di tre figli, frastornato dalle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe.

Insieme ai componenti della famiglia Pirandello compaiono alcuni dei personaggi più autorevoli della prima metà del Novecento, alcuni citati in modo esplicito, altri mascherati sotto nomi fittizi, ora immediatamente

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trasparenti o velatamente camuffati, ora difficili da identificare, a causa di una mescolanza di tratti fisici di uno e comportamentali di un altro. Gli amici più intimi di Stefano (Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Ercolino Masselli, Corrado Pavolini), gli esponenti più in vista della politica italiana ed estera (Benito Mussolini, Italo Balbo, ministro dell’Aeronautica, ovvero Il Maresciallo dell’Aria, Galeazzo Ciano, Giuseppe Bottai, Adolf Hitler, Winston Churchill, Vladimir Lenin) e della cultura (Gabriele d’Annunzio, Mario Missiroli, nella figura del giornalista principe M., Curzio Malaparte, Alberto Savinio, Giovanni Gentile, Benedetto Croce, «un filosofo (croce di tanti poeti) che discetta di poesia e non poesia…»34, Telesio Interlandi, Mario Socrate). Ma pure i philosophes,

gli illuministi, gli enciclopedisti, vale a dire Denis Diderot, Paul Thiry barone d’Holbach, Jean-Jacques Rousseau, François-Marie Arouet detto Voltaire. E ancora Anatole France, premio Nobel per la letteratura nel 1921, l’eco della cui opera varia e copiosa si propaga nel romanzo pirandelliano attraverso le meditazioni sul destino dell’umanità, nella surreale e cruenta storia di Enea Filisti duca di Procida e del figlio Livio. Nel personaggio di Enea Filisti si potrebbe individuare il giurista Vittorio Scialoja, senatore del regno, che, rappresentante italiano presso la Società delle Nazioni, perorò la

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reintroduzione della pena di morte da parte del fascismo.35 Nell’episodio narrato dal romanzo, Enea dona a Livio un giocattolo «capolavoro di meccanica» e «affascinante»36 che riproduce Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta, noto come il Boia di Roma, celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio, «parato di rosso come il Diavolo e la maschera nera»37. La figura del Boia ricorre anche in un’altra opera di Stefano, la tragedia Sacrilegio Massimo, composta negli anni Cinquanta, invettiva aggressiva e disperata contro la guerra, la violenza e il razzismo, idealmente riconducibile all’eccidio delle Fosse Ardeatine, elevato però a simbolo di ogni massacro. L’episodio del Boia costituisce un excursus a sé stante all’interno del romanzo, privo di apparenti collegamenti con il resto delle vicende narrate.

Fra i tanti personaggi, un posto di primo piano spetta allo scrittore Luca Mastroleo, nel quale sembra possibile riconoscere Corrado Alvaro (nato a San Luca di Calabria, piccolo paese sul versante ionico dell’Aspromonte, nel 1895), coetaneo e sodale di Stefano, con cui firmò fra l’altro sceneggiature ricavate dall’opera pirandelliana.

Forte anche il sostrato filosofico del romanzo, con allusioni all’Apologia

di Socrate di Platone, alla Physica, al De coelo, alla Poetica di Aristotele, al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e al De motu di Galileo

35 Ibidem 36 Ivi, p. 79 37

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Galilei, alla Scienza nuova di Vico, agli Aforismi politici e alla Scienza

della legislazione di Filangieri, al Faust di Goethe, a La ricchezza delle nazioni di Adam Smith. all’Estetica, alla Fenomenologia dello spirito e ai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, e, infine, al Capitale e alla Miseria della Filosofia di Marx. Pirandello aveva avuto modo di

approfondire lo studio di questi pensatori durante gli anni della prigionia nei campi di concentramento di Mauthausen e Plan, e in Timor sacro, come nella maggior parte delle sue opere, non riesce a scindere la propria attività di romanziere da quella di studioso, disseminando il racconto di citazioni e riferimenti tanto colti quanto arditi.

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2.2 La trama

La trama di Timor sacro è complessa è intricata, a tratti confusionaria, tanto da far sembrare, in un primo momento, arduo venirne a capo. La narrazione è continuamente intervallata dalla presenza di analessi e prolessi che non facilitano la costruzione di un intreccio uniforme nella mente del lettore, come in un puzzle che arriva a comporsi totalmente solo leggendo l’ultima pagina del romanzo.

Il libro si apre con la presentazione del protagonista Simone Gei, scrittore «tardigrado nell’elaborazione», «corpulento e paziente», impegnato nella stesura di un romanzo, che lo accompagnerà per la maggior parte della sua vita, avente come personaggio principale l’albanese Selikdàr Vrioni. Dunque, anche Simone come Stefano Pirandello è impegnato a scrivere il romanzo di una vita.

Il racconto prende avvio con Simone già intento a scrivere la storia di Selikdàr, per poi procedere a ritroso mediante delle analessi e presentare al meglio Gei e la sua attività di scrittore. Simone aveva inizialmente pensato a diverse possibili stesure per garantire una certa fama alla sua opera: «l’avvio di getto, che rispecchiava i primi moti dell’immaginazione», «l’impiego di un fare più equilibrato, più disteso, più maturo», per poi propendere per una stesura ironica. Dopo questo primo accenno

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testuale, l’attenzione si sposta alla storia dell’altro personaggio focale, Selikdàr; l’albanese, viene presentato durante il ricevimento in casa di Bonaccorso Galidoni, il consigliere delegato della Dreda, alla quale Vrioni era stato invitato con l’intento di essere assoldato nello staff di Galidoni.

Il Commendator Vrioni viene qui presentato semplicemente come un albanese che ha fatto carriera dopo essere giunto in Italia, mentre solo in seguito la sua storia verrà ripercorsa in tutta la sua complessità e con dovizia di particolari.

Sempre nel primo capitolo vengono presentati altri due personaggi di rilievo, il Macònio, novantanovenne intellettuale consigliere di Simone Gei, e Jacopo, figlio quattordicenne di Simone, «malato inguaribile» e attento ascoltatore degli scritti paterni.

Il secondo capitolo si apre con un gruppo di scrittori amici di Simone che discutono degli avvenimenti politici a loro contemporanei. Si delinea così nettamente l’ambientazione storica del romanzo, che ha inizio con un

excursus relativo agli anni della dannunziana impresa di Fiume del 1919 e

prosegue con la contemporaneità dei protagonisti, ovvero quella degli anni del fascismo e degli altri regimi totalitari. Non a caso vengono citati nel libro Mussolini e la sua morte, avvenuta a piazza Loreto il 28 aprile 1945, il politico britannico Austen Chamberlain, Adolf Hitler, Winston Churchill,

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primo ministro del Regno Unito, e Telesio Interlandi, giornalista fondatore in quegli anni di testate quali «Il Tevere», «Il Quadrivio», o «La difesa della razza».

Proprio a seguito di questa disamina sulla situazione politica del tempo, l’autore inserisce le vicende di Enea Filisti, duca di Procida, di suo figlio Livio e di Mastro Titta, noto come il Boia di Roma, precisando che esse erano:

«Immaginazioni che s’erano raffigurate vive nella sua fantasia quando il regime, or erano già parecchi anni, aveva reintrodotto la pena di morte, lui allora le aveva prudentemente accantonate».38

L’idea del romanzo sull’albanese Selikdàr non viene direttamente a Simone, il quale passava sempre da un soggetto all’altro per poi abbandonarli e riporli nel «Copernico», il suo scrigno segreto nel quale raccoglieva le carte e gli scritti più compromettenti o semplicemente quelli che voleva conservare; gli viene fornita da un altro scrittore suo amico, ma allo stesso tempo suo critico e antagonista in quanto dotato di una fama maggiore, Duccio Ruffani di Vastogiardi. Quest’ultimo parla a Gei di un pezzo grosso della Dreda , un «albanese dal nome esotico», che aveva fatto una grande fortuna in Italia, la cui vita ne faceva un soggetto ideale per un racconto. Ruffani si diceva sicuro che quella di Selikdàr sarebbe stata una

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storia straordinaria per un romanzo che avrebbe portato Simone alla fama, anche se lui non era d’accordo poiché già impegnato a scrivere un libro nuovo:

«Un uomo così, tu non ne hai mai incontrati. E questa è materia tua! Non ti stupire. Tu finora hai avuto troppi ritegni. Ma devi deciderti, se vuoi quella reale affermazione che tutti ci aspettiamo da Simone Gei! Più spazio! Fuori dei soliti giretti! La vita di famiglia, via… La tua fantasia ha bisogno d’affrontare il grande soggetto: un bel soggetto avventuroso! Purché rientri nei tuoi temi, e questo, eè eaè, ci rientra perfettamente!»39

Ruffani propone quindi a Simone un incontro con Selikdàr in modo da fargli raccontare personalmente la sua storia, cosa che avrebbe reso più veritiero il libro, ma Gei non vuole incontrare l’albanese in quanto preferisce immaginarselo. Alla fine i due si accordano e Simone decide di incontrare non Selikdàr, ma Onorio Cabras, il capitano dell’esercito che lo aveva preso sotto la sua protezione in Albania e lo aveva aiutato a farsi strada in Italia; Cabras avrebbe fornito allo scrittore informazioni certe, curiosità e particolari sull’Albania in cui collocare il suo soggetto. Simone inizia da subito a fantasticare sul suo nuovo personaggio e ad aggiungere mentalmente dettagli alla sua storia, ma incontra sin da subito l’opposizione della moglie Lora, avversa alla stesura di questo libro da parte del marito. La donna riesce quasi a convincere Simone a rinunciare al soggetto, che però in quel caso verrebbe affidato ad un altro antagonista di Gei, Luca

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Mastroleo, al quale spetterebbe la fama in caso di successo dell’opera. Alla fine, grazie anche al consiglio del figlioletto Jacopo, Simone capisce che quel libro e il suo destino «sono impastati» e decide di iniziarne la stesura.

Nel terzo capitolo inizia lentamente a delinearsi la storia di Selikdàr Vrioni, rimasto orfano del padre quand’era ragazzino e costretto dalla madre a cercare vendetta per sé e per la propria famiglia. La donna aveva consegnato in mano al giovane il fucile ancora fumante che aveva ucciso il padre, facendogli promettere di riscattarne la morte. Tuttavia, anche la storia dell’albanese non viene raccontata dal principio, ma dal momento in cui decide di scappare dall’Albania e sottrarsi al compito che gli era stato assegnato, infrangendo così le ancestrali leggi vigenti nel suo Paese. Nel racconto di Simone, Selikdàr fugge dal paese natio a seguito di un sogno in cui gli era apparsa la madre che lo liberava dalla sua incombenza, in quanto egli aveva dato sufficiente prova di volerla realmente portare a compimento; il ragazzo si era destato dal sonno ed era stato pervaso da un grande senso di libertà che lo aveva persuaso ad abbandonare l’Albania e a decidere di tornarvi solo qualora fosse stato ricco, capace di sistemare la propria famiglia, di vendicare la memoria paterna e porre fine alle insensate faide familiari. Decide quindi di arruolarsi nell’esercito italiano, per sentirsi finalmente parte di un gruppo, che non era fattivamente il suo di

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appartenenza, ma che gli infondeva la forza necessaria per portare avanti il proprio progetto.

L’intento del capitolo dell’opera di Simone Gei in cui si narra l’origine della storia di Selikdàr è quello di mettere a confronto le «brutte azioni» di quest’ultimo con le sue. L’azione spregevole del suo personaggio era l’aver abbandonato la propria terra e la propria famiglia, fuggendo ai propri doveri, quella di Simone Gei era l’aver lasciato solo un compagno mutilato di guerra durante un soggiorno a Viareggio per incontrarsi e scambiare tenerezze con la sua futura moglie Lora in compagnia di altre sue amiche:

«Non sono stato un buon compagno, lo so. Avrei dovuto resistere accanto a lui, dico tenermi al largo da loro, signorine. Ma siccome terminata la licenza io dovrò tornare lassù, mentre lui sia pure a quel prezzo ne è fuori del tutto, ecco la mia scusante».40

Simone e Lora, «ragazza bruttina ma molto intelligente», si erano poi innamorati e fidanzati, ma la loro storia aveva avuto l’opposizione del padre di Simone, Ludovico Gei, il quale riteneva che il figlio dovesse ottenere prima di sposarsi un titolo di studio e trovare un lavoro stabile, poiché al momento «non era in grado di assumere impegni verso una donna, privo com’era di uno stato». Simone non condivideva le idee del padre e si diceva pronto alle nozze, sostenuto anche dal suocero, Emile Girard, favorevole a quell’unione; decide quindi di rompere i rapporti col proprio genitore:

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42 «Io ti amo, babbo, ma devo vivere. Ti prego».41

Successivamente si inserisce di nuovo nella narrazione l’aspetto meta-romanzesco poiché in un dialogo col Macònio, Simone annuncia di aver abbandonato anche la stesura ironica della sua opera per dedicarsi ad un nuovo filone «in tono favoloso». Vengono anche esposti i tentennamenti dell’autore circa la composizione del romanzo su Selikdàr e la sua volontà di non scrivere più quella storia, in quanto molto complicata e ingarbugliata; il saggio consigliere Macònio però lo inviterà a proseguire nella stesura e a prediligere il filone favoloso.

Il quarto capitolo introduce il lettore nel cuore della storia di Selikdàr; in verità questo racconto si presenta come un’analessi in quanto precedentemente era stato presentato già adulto e all’apice della suo successo in Italia.

Quella raccontata in questo capitolo è «l’altra storia di Vrioni, quella che ormai sembra quasi staccata da lui, rimasta laggiù nel suo paese d’origine». Egli aveva un fratello più grande Enver, al quale era molto legato, che una notte era stato ucciso da alcuni colpi di fucile; il padre dei ragazzi per vendicare la morte del figlio, aveva a sua volta ucciso il figlio di uno dei carnefici di Enver, dando così origine ad una lunga e sanguinosa faida familiare, che aveva in realtà motivi più antichi e futili, essendo legata al

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mancato adempimento della promessa di cedere quattro cartucce per disobbligarsi da un piccolo favore. Dopo essersi reso autore a sua volta di un omicidio, il padre di Selikdàr si era rifugiato con quest’ultimo all’interno di una torre che ciascuna famiglia albanese possedeva per usarla in occasioni di questo tipo. Inizialmente sembrava che la situazione si fosse placata in quanto ci fu un anno di tregua tra le due famiglie, ma, per concludere la faida era necessario che venissero uccisi un numero pari di componenti di ciascuna famiglia, quindi, per salvare il proprio figlio, il padre di Selikdàr lo aveva mandato nel monastero «dei tolleranti Begtascì», dove vigevano la tolleranza, la libertà e il rispetto per gli altri e dove si professava una particolare dottrina basata su una mescolanza tra la parola di Maometto e quella di Gesù. Il giovane Vrioni era stato ammesso nel monastero grazie all’intercessione dello zio materno Ghiorghis, che non gli aveva tuttavia concesso di iniziare direttamente il noviziato e lo aveva affidato come garzone ai servi che coltivavano l’orto.

La vita del monastero piacque molto a Selikdàr il quale, sebbene non ottenesse l’abito da religioso tanto ambito, conduceva un’esistenza distesa e rilassata, a contatto con la natura e in perfetta armonia con gli altri monaci, tanto da non rimpiangere assolutamente la tormentata vita familiare. Ma, proprio quando l’interesse del lettore nei confronti della storia di Selikdàr

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sta crescendo, Pirandello decide di interromperne la narrazione per inserire informazioni su Jacopo e sulle sue condizioni di salute.

Il quinto capitolo si presenta in apertura come una ripresa del secondo, vi si narra infatti nuovamente delle vicende del duca Enea Filisti e di suo figlio Livio. Simone cerca, con scarsi risultati, di far diventare i due personaggi parte del romanzo che stava preparando, ma alla fine il discorso si disperde in meditazioni sul destino dell’umanità. Proprio in questo contesto viene citato Anatole France, premio Nobel per la letteratura nel 1921, la cui copiosa opera aveva ispirato Stefano Pirandello nel delineare il cruento episodio dei Filisti e del Boia e nelle considerazioni circa il destino del’umanità.

Successivamente torna in scena Selikdàr al quale la madre, Elena Glinka, aveva inviato l’abito da cerimonia del defunto fratello Enver, che egli portava con orgoglio e grandissimo rispetto sebbene la misura non fosse esattamente la sua. L’esistenza all’interno del monastero procedeva serenamente, il giovane aveva stretto rapporti di amicizia con i monaci e con gli altri abitanti del luogo. Ben presto, egli divenne maestro di modestia, leggerezza e armonia e, a causa del fraintendimento di un suo discorso da parte di un vecchio frate, cominciò ad essere ritenuto saggio e pronto per affrontare il percorso di elevazione spirituale. Così, in poco

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tempo, zio Ghiorghis rivendicò i suoi diritti di protettore e lo accolse tra i novizi, seppur «rivestito a scopo di mortificazione d’una vecchia tonacella inverdita» e «esposto durante le ore di studio alle canzonature riserbate ai più asini».

Col passare del tempo Selikdàr si dimostrava sveglio, capace e in possesso d’una sufficiente istruzione, sebbene continuasse a suscitare diffidenza nello zio. La situazione cambiò quando un altro monaco, Alì Sèqet, pretese che gli venisse assegnato il ragazzo come accolito e servo, eliminando così l’autorità dello zio Ghiorghis su di lui. Alì Sèqet possedeva una grandissima conoscenza che spaziava in campi totalmente differenti, Selikdàr ne era profondamente affascinato e decise di imparare più nozioni possibili, in quanto dopo la morte del vecchio frate la sua conoscenza sarebbe andata perduta. Passavano gli anni e nella minuscola celletta del frate si formava la cultura e anche il carattere di Selikdàr, che ormai era «un ragazzone forte e alto, ben nutrito e calmo», aveva anche riallacciato i rapporti con lo zio che non poteva ignorarne le indiscusse doti. Vrioni viveva alla giornata, non si prefiggeva nulla in particolare e non aveva progetti specifici per il futuro, pensava solo ad affinare la sua cultura e ad accrescere la propria forza interiore. La quiete in cui viveva venne brutalmente interrotta la notte in cui la madre di Selikdàr fece irruzione nel monastero annunciandogli

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l’assassinio del padre, ucciso da un colpo dello stesso fucile che gli consegnava affinché egli potesse vendicare la morte del genitore:

«Selikdàr! Selikdàr Vrioni, padre della sciagura! Sei tu il padre ora! Padre nella sciagura, Selikdàr Vrioni! […]

-Prendi!- gli ingiunse. Gli tendeva l’arma. – Questo passa a te!-

-L’ho raccolto bagnato col suo sangue. Sappiamo chi è stato. E tu sai quello che ora devi fare tu. All’alba partiremo».42

Così Selikdàr lascia il convento e la pace che in esso aveva raggiunto per tornare alla vita reale, fatta di faide, sangue e vendette.

L’incursione della madre nel monastero viene raccontata nel sesto capitolo, nel quale la storia dell’albanese si intreccia nuovamente con quella di Simone e della gestazione del suo libro. L’autore si dimostra abbastanza soddisfatto della sua opera, ritenendola «una delle sue cose migliori», incontra tuttavia l’ostilità di Duccio Ruffani, il quale sosteneva che affinché un libro ottenesse l’agognato successo fosse necessario pubblicarlo con tempestività, il che non era chiaro a Simone il quale lavorava alla sua opera da più di un anno. Ruffani pretende di dare una prima lettura all’opera, e, dopo un iniziale riserbo sul suo giudizio, la scarta non ritenendola all’altezza della caratura del soggetto. Interviene a questo punto Lora, che aveva sempre nutrito una forte antipatia nei confronti di Ruffani, la quale

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finge di dare ragione all’ospite e inscena un finto litigio col marito, così da mortificare Ruffani e da convincerlo a ritrattare o quantomeno ad addolcire il suo parere: l’opera di Gei non era da cestinare, bensì da ritoccare e ridefinire.

La narrazione si sposta nuovamente su Selikdàr, ormai di ritorno a casa, perennemente in preda agli incubi, i cui sogni erano costantemente turbati dalla visita del padre, il quale, un po’ come la madre da sveglio, non faceva altro che incitarlo alla vendetta, poiché non si era mai sentito di qualcuno che aveva rinunciato. Al giovane viene anche in mente di chiedere aiuto allo zio Ghiorghis e agli altri monaci per essere dispensato dal suo (ingrato) compito, ma non ottiene comunque l’aiuto sperato, anche a causa della morte di Alì Sèqet che aveva passato gli ultimi giorni della sua vita a lacerare tutti i suoi libri e i suoi scritti. Selikdàr conviveva con una continua soggezione per la figura della madre che non perdeva occasione per ricordargli il suo compito, sebbene i suoi parenti le avessero proposto di prenderla sotto la loro protezione, vendicare suo marito e restituirle la sua libertà e dignità mediante l’adempimento della vendetta, Elena Glinka pretendeva che questa venisse compiuta personalmente dal proprio figlio.

Nello stesso capitolo si racconta della morte di Jacopo, avvenuta nell’agosto del ’39, un mese prima che la Germania scatenasse la seconda guerra

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mondiale. Prima di morire Jacopo aveva fatto promettere al padre che avrebbe portato a compimento il libro.

Così, come viene narrato nel settimo capitolo, dopo solo qualche mese dalla morte del figlio Simone aveva ripreso il soggetto di Selikdàr, il quale, al seguito del sogno descritto in precedenza, aveva abbandonato la terra natale e si era arruolato per raggiungere l’Italia. Qui aveva frequentato l’Accademia militare e in poco tempo era divenuto un bravo e stimato ufficiale, per lo più sotto la guida del primo capitano istruttore Onorio Cabras. Non avendo vizi, Selikdàr aveva messo da parte quasi tutti i suoi stipendi intatti che mandava alla madre nella speranza che, con l’accumulo di ricchezze e con il raggiungimento di una posizione agiata, la donna dimenticasse il desiderio di vendetta. In effetti in Albania i Vrioni erano diventati potenti e facoltosi, ma la madre sembrava non curarsi di questa ricchezza, continuando a richiamare il figlio in patria per adempiere al suo compito e mettere fine una volta per tutte con il sangue alla faida.

In Italia Selikdàr era stato istruito al gusto del bello e alla conoscenza della musica da un amico, il marchese Galati, la cui influenza aveva rafforzato in lui la convinzione che la vendetta fosse stata compiuta ugualmente, in quanto con la loro posizione i Vrioni avevano umiliato i

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potenti con cui erano in lotta e questo aveva una valenza molto maggiore rispetto ad un omicidio.

Sempre in questo periodo Selikdàr abbandona l’esercito per volgersi al ramo della grande industria convinto da alcuni borghesi suoi amici che sarebbe stato

«Libero davvero. E senza bisogno d’impicciarsi praticamente di nulla. Anche politicamente».43

L’unica nota dolente nel suo abbandono dell’esercito fu rappresentata dalla comunicazione della propria decisione a Cabras, che si dimostrò realmente rammaricato per la scelta del giovane, il quale, a sua volta, era profondamente legato al capitano poiché era stato lui a “salvarlo” dal suo mondo nativo «dimostrandogli lo sbaglio della soggezione a regole che lì gli vietavano la via di crescere». Nel frattempo Selikdàr aveva sposato Cesira Rossi, fanciulla d’estrazione modesta, avendo rifiutato (con generale disappunto) la corte delle rampolle delle famiglie borghesi; la scelta di Vrioni era caduta su Cesira in quanto si sentiva più affascinato dalle famiglie di ceto popolare che da quelle borghesi. Selikdàr si presentò un giorno in casa Rossi con l’ufficiale italiano Cabras affinché garantisse per lui; il capitano sapeva bene che l’aspirazione massima di Vrioni era quella

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di diventare un italiano a tutti gli effetti così decise di garantire per lui. Sposando Cecilia l’ambizioso Selikdàr «sentì d’aver sposato l’Italia».

L’ottavo capitolo del romanzo è ambientato dieci anni dopo la proposta di matrimonio ed è volto a rappresentare la resistenza del “timor sacro” nella vita di Selikdàr; sebbene egli sia padre di tre figli (Lalo, Puccinello e Mimmetta) e abbia un’invidiabile posizione sociale e lavorativa, permane ancora in lui la frustrazione per la mancata vendetta e per la riprovazione della madre nei suoi riguardi. Egli continuava a ricevere lettere da parte del fratello nelle quali veniva invitato ad adempiere ai suoi doveri e a recarsi con la famiglia in Albania, ma non potendo e volendo mostrare la sua rabbia davanti a sua moglie e ai suoi figli, si sentiva spesso come un estraneo in casa sua. Gli capitava infatti di farsi pervadere dal turbamento e trascorrere le sue giornate in un totale stato di straniamento dalla sua casa e dalla sua vita di tutti i giorni; emblematico a tal proposito fu il cosiddetto incidente della pendola; ogni domenica egli era solito ricaricare la pendola appesa alla parete, ma quella settimana in preda ai suoi pensieri l’aveva dimenticato, così come la settimana successiva aveva dimenticato il compleanno della moglie, la quale aveva teso, con la complicità dei figli, una “trappola” al marito, in modo che nessuno le facesse gli auguri o menzionasse la ricorrenza.

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A seguito di quest’ultima dimenticanza Cesira (che conosceva il passato del marito) decise di spronare Selikdàr mettendolo nella condizione di scegliere tra la sua vita passata e quella presente con lei e i bambini e gli propose, con l’appoggio di Cabras di scrivere una lettera alla madre mediante la quale avrebbe compiuto un «matricidio per lettera»; era chiaro che un omicidio doveva esserci, ma non si trattava di un omicidio in senso fisico, piuttosto di una liberazione in senso morale dalle ancestrali leggi che governavano la sua vita precedente e dal soffocante legame con la madre.

Selikdàr decide di seguire il consiglio della moglie e, dopo diverse prove e stesure con toni sempre diversi (che ricordano in qualche modo le diverse stesure del romanzo di Simone), scrive una lettera alla madre, nella quale le rinnovava il suo invito a recarsi in Italia, si impegnava ad aiutarla ancora finanziariamente, ma si affrancava da lei liberandosi dall’obbligo di una vendetta che non aveva mai condiviso e dal dovere di andare a trovare la madre con tutta la sua famiglia. Egli non desiderava creare alcuna promiscuità tra passato e presente e si riteneva totalmente soddisfatto della sua vita attuale.

Mentre Selikdàr era alle prese con un immaginario colloquio con la madre, anche Simone, sempre più convinto di voler portare a termine la sua fatica letteraria, immagina di poter parlare col padre, pensando di servirsi di

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un nuovo libro avente come protagonista sua sorella Gisa. Lora, che era stata totalmente sfavorevole alla stesura del romanzo su Selikdàr, era invece entusiasta di questa nuova idea letteraria che avrebbe permesso al marito di fare ordine nella sua vita:

«”Reintegrare con l’arte”, diceva Simone. E l’idea era come si è detto, che, aiutato da questo mezzo, poi dovesse essere il padre a capire, cioè lui a percorrere la distanza che li separava e a riparare al grande errore che era nato tra loro. Ma era Simone, e non il padre, che s’industriava a scrivere, a ricostruire una stagione passata, a mettere in campo ragioni. Presi nel sortilegio di ore incantate, nessuno dei due, né Simone né Lora, s’avvedeva che l’idea stessa del libro la diceva lunga su quella soggezione. Un invincibile timor sacro».44

Nel nono capitolo si racconta l’arruolamento presso il Corpo dei Volontari dei figli di Simone, ormai divenuti grandi. Simone racconta a Cabras (che esiste realmente e che conosce il vero Selikdàr) di non essersi opposto a questo loro desiderio poiché tutta la loro famiglia a partire dal bisnonno aveva sentito lo stesso richiamo e quindi lui non si era potuto opporre ad una vocazione che conosceva bene. Un’analessi racconta poi del primo incontro tra Gei e Cabras, al quale era stato chiesto da Ruffani di dare qualche informazione a Simone sulla vita di Selikdàr in modo che egli potesse trarne il suo soggetto; il capitano si era dimostrato in origine eccessivamente attento a rispettare la linea sulla quale lo aveva indirizzato

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Ruffani, ma quando Simone gli aveva chiesto di parlare sinceramente e sulla base della propria esperienza era nata una profonda sintonia tra i due.

Dopo questo excursus ritroviamo Simone, che non era più riuscito a proseguire il lavoro da quando i suoi figli erano partiti per la guerra; ne nasce un confronto con la sua esperienza in guerra e con la medesima sofferenza che anch’egli aveva offerto a suo padre, eppure il suo genitore riusciva ugualmente a lavorare davanti alla fotografia che teneva sul piano della scrivania, mentre lui era come paralizzato. In quel periodo aveva pensato molto a suo padre e aveva messo in relazione il suo rapporto con i figli e quello con il proprio genitore; Gei sentiva di concedere molta più libertà ai figli e di appoggiarli a prescindere dalle loro decisioni e scelte di vita, in fondo era stata proprio questa mancanza di libertà e scelta a 1incrinare il rapporto con suo padre. I suoi figli stavano crescendo liberi da lui, dalle sue idee personali e dalla sua concezione pessimista del mondo, erano ancora entusiasti e volevano delinearsi da soli il proprio percorso di vita.

Alla fine i due ragazzi avevano fatto ritorno a casa, il più piccolo leggermente zoppo da una gamba a causa di una ferita, così nel 1948 Simone aveva ripreso a scrivere il romanzo per portarlo a termine.

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Decide allora di introdurre nel romanzo la figura dell’Autore stesso in modo da creare un confronto con Selikdàr e «esibire allo scoperto, per di più coll’impudicizia di scrivere in prima persona, la sua propria vergogna»; immagina inoltre, che tutta la famiglia di Selikdàr venga sterminata (ben settantotto morti). Così con queste nuove migliorie Simone aveva dato vita all’ultima stesura del romanzo denominata «maxima».

Per un breve periodo di tempo Simone e Cabras avevano litigato in quanto lo scrittore pretendeva di descrivere Selikdar a modo proprio senza ascoltare le testimonianze e i consigli di Cabras che conosceva bene il soggetto. Cabras riteneva inoltre Selikdàr «la più grande delusione della sua vita», mentre Gei voleva presentare quella del suo romanzo come una storia positiva.

Improvvisamente Selikdàr diventa nuovamente il protagonista del racconto, poiché Cabras per fornire ulteriori indicazioni a Simone, lo porta alla Galleria di Villa Borghese, a Roma, dove l’albanese si era rifugiato durante la resistenza. Alla Galleria i due dovevano incontrare il Marchini, il custode. Selikdàr aveva lavorato in quel luogo con un nome falso, Gino Schiavetti, possedendo anche dei documenti contraffatti e la moglie e i figli andavano spesso a trovarlo di nascosto. Vrioni era affascinato dai quadri, una delle tante meraviglie che gli offriva l’Italia, «per lui l’Italia in queste

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cose è l’Italia! I nostri massimi valori, e lui è arrivato a impadronirsene». Il suo quadro preferito era Amor sacro e amor profano di Tiziano che andava spesso ad ammirare anche nel buio della notte alla luce di una piccola torcia. Si chiedeva spesso come avrebbe fatto ad abbandonare tutto quello e a tornare alla sua solita vita alla fine di quel periodo che avrebbe sempre considerato come un «sogno felice».

Quella visita riaccende in Simone la fantasia e la voglia di lavorare ma non al romanzo su Selikdàr, bensì al suo primo lavoro, quello di cui Pirandello parla all’inizio del romanzo; la visita al custode Marchini aveva permesso a Simone di «cogliere il personaggio nella sua luce finale, nella sua ultima verità», decide quindi di «lasciar perdere» una storia così complicata che lo aveva portato anche ad una dolorosa e difficile autoanalisi e di riprendere in mano il primo soggetto con l’esperienza di tanti anni di lavoro differente. Con questo nuovo progetto Simone Gei torna a bramare la fama e gli applausi del pubblico, desiderio che aveva messo da parte in tutti questi anni, risentendo una contentezza e una leggerezza che non sentiva da anni.

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2.3 I personaggi

Dopo aver letto il romanzo con molta attenzione le impressioni che esso suscita sono tante e difficilmente coordinabili tra loro a causa di problematiche diverse, molto complesse e delicate allo stesso tempo, che oltre a coinvolgere l’opera in sé stessa, portano a riflessioni profonde sulla famiglia Pirandello, su Luigi, e su Stefano. Lo stesso autore fa continuamente autocritica tanto che risulta difficile esprimere un giudizio personale, perché tutte le ipotetiche titubanze e gli appunti, l’autore se li è fatti da sé.

Viene da chiedersi, ad esempio, perché il protagonista dovesse essere propriamente un albanese, di quella terra che avrebbe dovuto far parte dell’effimero impero mussoliniano che costituisce l’ambientazione storica del romanzo, o se Simone Gei e la moglie Lora fossero in tutto e per tutto Stefano e la moglie o se non fossero frutto della fantasia e quindi personaggi che nulla hanno a che vedere con l’autore. Si potrà indubbiamente evincere che buona parte di Simone Gei è rintracciabile in Stefano Pirandello soprattutto avendo in mente la sua considerazione a proposito delle cose raccontate, secondo la quale «dal fatto accaduto si salta al romanzesco».

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I personaggi del romanzo sono molteplici e polifonici, interamente strutturati in funzione del racconto e dai caratteri non sempre ben definiti. Parecchi dei personaggi principali hanno poi caratteristiche in comune con l’autore Stefano Pirandello, che ha spezzato parti del proprio carattere e della propria biografia descrivendoli in maniera romanzesca. La storia si sviluppa sulla base di un costante intersecarsi di personaggi reali e personaggi esistenti solo nell’opera che si accinge a scrivere Simone Gei, tanto che talvolta si fatica a scindere i due tipi di personaggi, che possono anche essere presenti in entrambi i piani, come nel caso di Onorio Cabras, ufficiale dell’esercito italiano protagonista dell’opera scritta da Gei, ma allo stesso tempo amico del vero Selikdàr e dello stesso scrittore.

Il protagonista principale è Simone Gei, «scrittore corpulento e paziente, tardigrado nell’elaborazione» che, dopo numerosi anni di lavoro, non ha ancora finito il romanzo, «di cui certo nessuno aspettava più l’uscita», la storia sua e di Selikdàr Vrioni («due vite a specchio»). Simone è uno scrittore indeciso e travagliato, pieno di ripensamenti e decisioni repentine immediatamente ritrattate. Padre di tre figli come Stefano Pirandello, ha combattuto come lui durante la prima guerra mondiale, è stato prigioniero in un campo di concentramento e considera la scrittura come la sola attività possibile per la sua vita. Ha uno stretto rapporto con il padre, Ludovico Gei, professore universitario dotato di un carattere fermo e deciso e totalmente

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contrario al matrimonio di Simone con Lora, tanto da incrinare completamente i rapporti con il figlio. Simone ha un ottimo rapporto con tutti i suoi figli, si preoccupa per loro ma li lascia liberi di scegliere e di decidere per la propria vita (al contrario di quanto il padre aveva fatto con lui), ma ha una particolare affinità con Jacopo, il primogenito, assiduo e interessato lettore dei suoi scritti e suo consigliere e confidente.

Con alle spalle una modesta produzione letteraria, Simone si ostina a misurare il proprio talento sugli eventi di Selikdàr Vrioni, il cui percorso di crescita attraversa due vite parallele che «normalmente apparterrebbero a due distinte persone, lontanissime tra loro, inaccostabili». Attingendo alla sua biografia, però, Simone si scopre minacciato dalla stessa insopprimibile duplicità esistenziale, scisso com’è tra volere e dovere, tra sentimento e ragione.

Gei è uno scrittore tanto prolifico quanto indeciso, un intellettuale libero, che vive nell’Italia fascista, e confina gran parte dei suoi scritti nel «Copernico», lo scrigno segreto, in cui custodisce a doppia mandata le sue carte più compromettenti: racconti mai scritti, appunti sparpagliati, quasi cifrati, parole non dette o dimenticate. Fortemente emblematica la scelta di chiamarlo con il nome di Nicolò Copernico (al secolo Nikolaj Kopernik), l’astronomo, matematico, economista, medico polacco, vissuto nell’Europa

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del Cinquecento martoriata da guerre e lotte religiose, costretto per lunghi anni a occultare, per paura di cadere vittima di persecuzioni, la sua scoperta scientifica eliocentrica, pubblicata solo in limine vitae, nel 1543, nel De

revolutionibus orbium coelestium, dedicata al pontefice Paolo III, che

sovverte il sistema aristotelico-tolemaico. A questa teoria rivoluzionaria guarda Giordano Bruno, “messaggero della verità”, di cui in Timor sacro si citano gli “infiniti mondi”.45

Tornando ai personaggi, come non rintracciare anche in Jacopuccio, il «figliolo malato inguaribile» e prematuramente scomparso di Simone e Lora, un altro piccolo tassello che compone la figura dell’autore Stefano Pirandello? Primogenito e figlio prediletto di Simone, Jacopo trascorreva le sue giornate a casa in compagnia dei genitori, era sempre pronto ad ascoltare le nuove pagine composte dal padre, del quale era il primo critico e confidente, proprio come Stefano era il figlio prediletto di Luigi, ma anche il suo consigliere, segretario, uomo di fiducia, ragioniere, commercialista e, a volte, persino coautore.

Jacopo era l’unico dei tre figli ad interessarsi all’attività del genitore e non a caso in punto di morte, aveva manifestato il desiderio che il padre scrivesse il suo libro, quello che il ragazzino quattordicenne sentiva come il “loro” libro, frutto di dibattiti, ore di condivisione e progetti.

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Accanto al travagliato Simone Gei, Pirandello colloca il volubile Macònio, anch’egli alter ego ideale di Simone-Stefano, «un essere irreale», proiezione dell’inconscio, personificazione delle divagazioni e delle elucubrazioni della mente, del rifugio della memoria, nei castelli in aria, ma pure segno della vigile coscienza critica della disingannata visione del mondo, della consapevolezza dei falsi valori.46 Arguto e sagace, il novantanovenne Macònio, dalla «testarda e tranquilla fiducia nella ragione e parimenti aperto al senso del divino», richiama probabilmente un Beato Stefano Macònio che fu segretario di Santa Caterina; egli è il saggio confidente di Simone, suo principale interlocutore nelle questioni più propriamente compositive, soprattutto nella successione delle stesure utilizzate dallo scrittore e nello scioglimento dei diversi dubbi che lo pervadevano.

Selikdàr Vrioni è il protagonista del romanzo di Simone Gei, albanese frastornato dalle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe, costretto dalla madre a vivere con il peso di riscattare le morti del padre e del fratello, avvenute entrambe nel contesto di un’antica faida tra famiglie, conduce un’esistenza travagliata e buia.

Convinto da un sogno quasi premonitore Selikdàr si risolve a lasciare la sua terra e la sua famiglia per accarezzare il sogno di rifarsi una vita;

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dall’Albania, «un mondo dove vigono regole imperative», pesanti eredità non di rado soffocanti, rispondendo alle lusinghe della civiltà, giunge in Italia. Qui, la politica coloniale del fascismo ne rimescola il destino. Nella nuova patria, giunto dopo essersi unito all’esercito italiano che aveva occupato l’Albania, quel giovane barbaro esperto di balistica, spinto da alcuni imprenditori ad abbandonare la carriera militare per intraprendere quella privata, più redditizia, diverrà il vanto dell’industria pesante.

Nella casa del magnate Bonaccorso Galidoni, proprietario delle Acciaierie DREDA S.p.A., Selikdàr sarà insignito del titolo di Commendatore, onorificenza impensabile per un uomo di quelle radici. Educato al bello dal marchese Galati, figura di esponente colto della nobiltà che, intuitone le doti, introduce il giovane albanese nel mondo liberale finanziario e industriale.

Nonostante ciò Vrioni sarà sempre tormentato dal senso di colpa per il mancato adempimento del compito assegnatogli dalla madre. Stefano Pirandello descrive in Selikdàr il suo desiderio di abbandonare il contesto familiare “ingombrante” e cercare fortuna altrove, ricominciando autonomamente; ma, a differenza del suo personaggio egli non si decise mai a compiere questo passo, e sottolinea questo limite facendo vivere Selikdàr costantemente tormentato dal passato.

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A questi personaggi principali fanno da sfondo altri secondari, pur tuttavia fondamentali per delineare il quadro all’interno del quale si snoda il romanzo. Importante ad esempio è la figura di Lorenzina Girard, la moglie di Simone. Incontrata nella Viareggio del 1918, mentre la Grande Guerra precipita verso la conclusione, Lora partecipa attivamente al lavoro del marito, gli dispensa consigli e cerca di spronarlo a chiudere con il suo passato, «per patto, da fidanzata, se n’era acquistata la licenza tra filiale e fraterna», prendendosi anche cura delle relazioni e delle cose pratiche del marito. Con questo personaggio Stefano Pirandello intende richiamare, sotto le forme dell’invenzione letteraria, il suo amore con la pianista Olinda, detta Dodi, conosciuta in giovane età e, come già visto, sposata il 18 marzo 1922. A Lora Simone deve «quello che fa, se può farlo, cioè ha potuto essere se stesso, uno scrittore, avere una vita».47 A differenza della Lora di Simone, Olinda era povera, nient’affatto brutta, orfana di padre sin da bambina, con quattro sorelle e un fratello. Un’altra differenza è data dal fatto che Luigi Pirandello acconsentì alle nozze di Stefano e Olinda, accogliendo gli sposi per molto tempo nella sua casa romana di via Pietralata n° 23, al contrario del romanzesco professor Gei il quale rompe i suoi rapporti con il figlio proprio a causa del suo matrimonio con Lora.

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Altro personaggio di spicco è Onorio Cabras, il capitano che aveva scoperto il talento di Selikdàr e che si rivelerà in seguito prezioso anche per Simone Gei. In lui potrebbe identificarsi, seppure molto alla lontana, Gianni Massari, compagno di prigionia di Stefano, ritrovato poi a Casarsa, capitano di reggimento e come Cabras senza figli.

Il turbinoso gioco di rimandi presenti nel romanzo non investe solo il piano della letteratura, ma anche quello della storia, come ad esempio quando Simone narra commosso e orgoglioso a Lora di aver baciato il sangue di Garibaldi rappreso sul foro dello stivale donato al prozio materno, Rocco Ricci Gramitto, suo luogotenente, dal Generale che egli aveva soccorso ferito ad Aspromonte. Prima che dal fratello di Rocco, Vincenzo, fosse donato al Museo del Risorgimento di Roma, dov’è custodito tutt’ora, Luigi Pirandello, “schierati, i tre maschi e dietro le femmine, a ciascuno aveva consegnato la reliquia perché accostassero le labbra trepidanti al foro sul malleolo, contornato da quell’orlo rugginoso, rimasuglio reale del preziosissimo sangue! Che vertigini al contatto!”48

Un altro esempio di lievi modifiche di fatti realmente accaduti, si può riscontrare nell’attribuzione a Simone-Stefano di un episodio che, nella realtà, aveva per protagonisti il nonno Stefano, carabiniere garibaldino anch’egli ad Aspromonte, e Caterina Ricci Gramitto che, a soli tredici anni,

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insieme a tutta la famiglia, aveva partecipato al dramma del padre Giovanni, avvocato di Girgenti, uno dei massimi esponenti dei moti rivoluzionari del 1848, esiliato dai Borboni, spogliato di tutto, a Malta dov’era morto nel 1850.49

Per tanti aspetti poi tradito il Risorgimento, come con acrimonia attesta quel «lembo di carta con su scritto a stampatello PORCA ITAGLIA», trovato dal tenente Simone sul «suo covaccio».50 Corrosiva denuncia di un’Unità scaturita da esperienze disilluse, promesse disattese, ingiustizie brucianti, quella consegnataci dalla letteratura, e tuttavia il Risorgimento è fieramente rivendicato da Stefano quale momento fondativo della coscienza nazionale di un popolo sorretto dalla comune aspirazione alla libertà, quel valore assoluto che fa dell’Italia un modello di democrazia per Selikdàr.

49 A chiarire questo episodio è Andrea Camilleri nel suo Biografia del figlio cambiato, op. cit. pp. 29-30: «I Ricci Gramitto costituivano certamente la famiglia più antiborbonica del girgentano. Giovanni Ricci Gramitto era stato un valente avvocato, uno degli organizzatori dei moti del ’48 palermitano, separatista, ministro del Governo di Ruggiero Settimo. Quando il re di Napoli ripigliò il potere, Giovanni Ricci Gramitto fu escluso dall’amnistia e iscritto nelle liste di proscrizione con l’approvazione personale del sovrano. Dovette scapparsene a Malta, spogliato di tutto. Aveva quattro figli màscoli, Francesco, Rocco, Vincenzo, Innocenzo e tre figlie femmine, Rosalia, Caterina e Adriana. Caterina, futura madre di Luigi Pirandello, aveva allora tredici anni. […] A Bùrmula, Malta, Giovanni muore a quarantasei anni, consunto per la disperazione, e la lontananza dalla sua terra. Prima di spirare, raduna allato al suo letto moglie, figli, figlie e fa loro giurare che impiegheranno tutte le energie, la vita stessa, alla liberazione dai Borboni. […] Rocco e Vincenzo si intrupparono nelle bande di Rosolino Pilo e poi seguirono Garibaldi. Ad Aspromonte Rocco, che era luogotenente di Garibaldi, raccolse lo stivale insanguinato del suo Generale e se lo portò a Girgenti. Ne fece dono in seguito a Luigi Pirandello che a sua volta lo consegnò al Municipio di Roma».

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2.4 Tema della vendetta e della colpa

Il tema centrale della vendetta si intreccia nel romanzo indissolubilmente con quello della colpa; questo è osservabile soprattutto nella storia di Selikdàr Vrioni, costretto, come si è detto, sin dall’adolescenza a vivere con il peso di vendicare la morte del padre, e marginalmente sembra un elemento connaturale anche all’intera società albanese descritta nel romanzo.

Il modo in cui viene affrontato il tema della vendetta è uno dei tanti aspetti per cui Timor sacro può essere considerato un romanzo anomalo. A partire dalla tradizione classica la letteratura ci ha abituati ad un vasto panorama di eroi interamente dediti a riscattare la morte di un caro o un torto subito mediante la vendetta; nel romanzo pirandelliano Selikdàr fa esattamente il contrario: nato e cresciuto in Albania, una terra funestata dalle leggi della vendetta, decide di venire meno ai suoi obblighi per mettere fine alla faida familiare e ricostruire altrove la propria vita, condannandosi ad un senso di colpa che riuscirà a sconfiggere solo dopo molti anni.

La crescita di Selikdàr è scandita dal tarlo della vendetta, insito nella sua famiglia, costretta ad assoggettarsi alle arcaiche leggi della civiltà albanese. Infatti, sin dall’inizio nel romanzo si può rintracciare una precisa descrizione della regolamentazione delle faide in Albania: al sangue si

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risponde con il sangue, ed è necessario che il numero di morti sia sempre in numero pari, anche a costo di far proseguire la faida per tanti anni.

Suo malgrado, sin da bambino Selikdàr diventa parte integrante di questo sistema di faide, avendo assistito alla morte del fratello Enver, freddato con un colpo di fucile e prescelto in quanto primogenito della famiglia; la morte del fratello viene vendicata dal padre, costretto a rinchiudersi nella torre-fortezza, che «ogni famiglia possiede, da usare in queste occasioni»51, pronto a difendersi dagli attacchi della famiglia rivale alla quale il padre di Selikdàr ha ucciso un figlio, coinvolgendo in questa fuga il bambino innocente. Avendo entrambe le famiglie un numero di morti uguali la contesa sembra risolta, ma era necessario che essa avesse una fine e secondo le leggi della vendetta:

«Dei Vrioni, le femmine sono caterva, giacché sulle femmine la vendetta non può cadere; ma di maschi non è rimasto in piedi che un padre, Hamìt, e per dire due, dobbiamo contare questo bambino, Selikdàr: i bei fratelli, i grandi zii e cugini delle altre case Vrioni non vivono più. La rappresaglia sui maschi è lecita appena hanno tre anni. Abbiamo donne per chi ne vuole. Mentre la famiglia nemica ha in piedi ancora abbastanza di uomini e ragazzi. Così va la sorte!»52

Per preservare il giovane Selikdàr da una morte certa, il padre decide di portarlo in salvo nel monastero dei monaci Betgascì. Ma la vendetta aveva proseguito il suo corso, infatti qualche anno dopo la madre fa irruzione di

51 Ivi, p.143 52 Ivi, p. 147

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notte nel monastero annunciando a Selikdàr l’omicidio del padre e consegnandogli il fucile con il quale era stato compiuto l’efferato gesto, affinché lo utilizzasse per compiere la tanto agognata vendetta:

«L’ho raccolto bagnato col suo sangue. Sappiamo chi è stato. E tu sai quello che ora devi fare tu. All’alba partiremo».53

Da questo momento in poi la vendetta diviene una vera ossessione per Selikdàr, già preoccupato per la sua vita (in quanto probabile bersaglio della faida), vive degli anni vuoti e angoscianti finché un sogno non giunge a liberarlo. Nella dimensione onirica la madre si fa promotrice della sua partenza dall’Albania, ma, nella realtà la donna non avrebbe mai potuto chiedere al figlio di venire meno al suo dovere e fuggire poiché la fuga avrebbe coperto di disonore l’intera stirpe; tuttavia Selikdàr è consapevole di avere delle potenzialità e di poter migliorare la sua vita, votandola a qualcosa di più grande e importante di una morte certa o di una serie di omicidi.

Un giorno, vinto dalla stanchezza, Selikdàr si era addormentato e in sogno aveva visto la madre che chinandosi su di lui gli diceva:

«”Ma perché credi, perché vuoi credere, povero figlio, che il tuo dovere consista proprio nel portare a termine questo compito tremendo? Basta, caro, che tu abbia dato la prova, questo è sufficiente. La prova l’hai data: ora va’. Sei libero».54

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Ivi, p. 210 54

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A seguito di questo sogno Selikdàr si trasferisce in Italia e, come descritto in precedenza, cambia radicalmente la sua vita; tuttavia, il senso di colpa per non aver vendicato i suoi cari non lo abbandonerà, manifestandosi sotto forma di rimorso interiore e quasi materializzandosi nelle frequenti lettere che gli giungevano dall’Albania da parte della madre e del fratello.

Selikdàr riteneva che grazie al consolidamento della sua posizione economica e sociale in Italia, e all’invio a casa della maggior parte dei suoi risparmi (che avevano permesso ai Vrioni di raggiungere una posizione economica tale, da umiliare i potenti del loro territorio con cui erano sempre stati in lotta) avesse compiuto il suo dovere e che anzi questa forma di vendetta valesse più di qualsiasi spargimento di sangue. Di avviso totalmente differente era la madre che esigeva una visita del figlio, accompagnato dall’intera famiglia, in Albania per conoscerla e saldare i conti rimasti in sospeso.

Ed è a questo punto che il tema della vendetta incompiuta si intreccia con quello della colpa: Selikdàr lontano migliaia di chilometri da casa e ormai quasi del tutto estraneo al suo passato, sente costantemente bruciare il peso della colpa e del mancato adempimento ai suoi obblighi. Continuerà a portare questo fardello fino all’età della maturità e riuscirà a liberarsene solo grazie all’aiuto della moglie Gisa che gli proporrà un «matricidio per

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lettera», ossia la stesura di una lettera da indirizzare alla madre, grazie alla quale egli si sarebbe sottratto alla soggezione che la genitrice aveva sempre esercitato su di lui.

Sebbene il personaggio che incarna in maniera esemplare la tematica del rapporto tra vendetta e colpa è Selikdàr, essa è ravvisabile anche in Simone Gei. Non a caso egli decide di scrivere il proprio romanzo per mettere «a specchio» la sua colpa e quella di Selikdàr. Il torto che lo scrittore riteneva di aver commesso risaliva agli anni del primo dopo guerra e precisamente ai giorni in cui, in una breve villeggiatura a Viareggio, egli aveva preferito andare a passeggiare con delle signorine (tra le quali la futura moglie Lora), piuttosto che tenere compagnia al suo amico Mariano mutilo di guerra. Negli anni successivi Gei aveva cercato di giustificare il suo gesto pensando che, a licenza finita egli sarebbe dovuto tornare in guerra, sorte che, seppur a caro prezzo, non sarebbe toccata al suo amico.

Simone sentiva di essere in difetto anche nei confronti del padre con il quale aveva rotto ogni rapporto ai tempi del matrimonio con Lora e per questo alla fine del romanzo pirandelliano, ipotizza di abbandonare la stesura del libro su Selikdàr per dedicarsi ad un romanzo sulla storia della sua famiglia, in modo da risanare i rapporti col genitore.

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È interessante notare come alla fine del romanzo nessuno dei due protagonisti porti a compimento il progetto di espiazione della colpa: Selikdàr si allontanerà totalmente dalle proprie origini e dagli obblighi che ne derivavano, Simone Gei, abbandonerà la stesura della storia di Selikdàr, e il proposito di fare penitenza insieme al suo personaggio. Questo porta ad ipotizzare che Stefano Pirandello attribuisca una valenza positiva al senso di colpa: il rimorso di entrambi i personaggi si evolve in seguito a scelte volte ad affermare la propria individualità, contrarie alle aspettative sociali e familiari, in un percorso doloroso ma costruttivo perché inteso come prezzo da pagare in funzione di una crescita personale.

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