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CAPITOLO 1: LE ORIGINI DELLA TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI

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CAPITOLO 1: LE ORIGINI DELLA TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI

1.1. Il contributo pionieristico di Milton Friedman

1.2. Il padre fondatore: Robert Mundell

1.3. Un grado di ‘apertura’ diverso: Ronald McKinnon

1.4. Un approccio ‘diversificato’: Peter Kenen

Premessa

Affrontare la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) in un’ottica storica, significa soffermarsi su uno dei temi principali e più dibattuti che ha contraddistinto l’intera Unione Europea, e non solo. Una nazione che, assieme ad altri paesi decide di abolire la propria moneta per adottarne una comune, aumenta il proprio benessere? A questa domanda, i paesi dell’Eurozona hanno dato una risposta positiva. Altri, continuano a dibattere la questione. Ovviamente, la tematica si infittisce all’interrogativo se le nazioni che rinunciano alla sovranità monetaria conseguiranno o meno benefici. Fino a che punto dovrebbe arrestarsi il processo di integrazione monetaria? Solamente i paesi dell’Eurozona possono adottare una moneta unica o forse può esserci una moneta unica per il mondo intero? Per rispondere anche singolarmente ad uno di questi interrogativi è necessario affrontare analiticamente la tematica delle ‘aree valutarie ottimali’, ripercorrendo lo studio di quest’ultime in ordine sia cronologico che logico. Il presente capitolo ha proprio l’obiettivo di comprendere come – ma soprattutto quando – si è avvertita l’esigenza di sciogliere tutti questi interrogativi relativi all’adozione di una moneta unica. Stabilire un contesto – e un confine – entro ed oltre il quale poter fissare una libera circolazione di merci, capitali e uomini è l’input che ha dato vita al processo di ‘globalizzazione’ mondiale. Si comprende bene come la tematica delle aree valutarie ottimale è solo un tassello di tale processo, e lo studio del funzionamento di un’unione monetaria è tuttora in evoluzione: questo spiega anche il perché del suo fascino. In questo capitolo

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affronteremo le origini delle ‘aree valutarie ottimali’ studiandone l’apporto dei principali autori nella letteratura storico-economica. È importante attribuire una definizione di “area valutaria ottimale” fin da subito. Le aree valutarie ottimali sono gruppi di regioni con economie strettamente integrate fra loro attraverso lo scambio di prodotti e servizi e la mobilità dei fattori. Questo risultato – vedremo – deriva dall’osservazione che un’area a tassi di cambio fissi soddisfa meglio gli interessi di tutti i suoi membri se il volume degli scambi di beni e di fattori tra questi paesi è elevato. Quest’ultima tesi, nel corso del presente lavoro, sarà soggetta a numerosi interrogativi e limiti, specie sui benefici che un’economia può trarre da un sistema a cambi fissi. Quindi, un’area valutaria ottima consiste in un gruppo di paesi le cui valute sono legate l’una all’altra tramite un sistema di tassi di cambio irrevocabilmente fissi e che rispondono a una serie di condizioni che fanno di tali paesi un’area ottima. Le valute dei paesi membri potranno quindi fluttuare in parallelo rispetto alle valute dei paesi non membri. Ovviamente, le regioni di uno stesso paese, condividendo la stessa valuta rappresentano vere e proprie ‘aree valutarie ottimali’. L’esistenza di un’area valutaria ottima elimina ogni tipo di incertezza circa i tassi di cambio, e ciò stimola la specializzazione produttiva e il flusso del commercio e degli investimenti internazionali tra le regioni o i paesi che ne fanno parte. Il fatto che sia presente un’area valutaria ottimale presuppone, per i produttori, di considerare l’intera area come un unico mercato, e quindi vi è la possibilità di sfruttare le conseguenti economie di scala della produzione. Con tassi di cambio permanentemente fissi, un’area valutaria ottima avrà una maggiore stabilità dei prezzi che nel caso di tassi di cambio flessibili. Questa maggiore stabilità dei prezzi sarà dovuta al fatto che possibili shock che colpiscano differenti regioni o paesi all’interno dell’area tendono a compensarsi l’un l’altro e qualunque disturbo che dovesse permanere sarà tanto più piccolo quanto più si estende l’area. Queste sono solo alcune delle tante conclusioni che il tempo ha permesso di delineare su tale teoria. Cerchiamo di seguire un ordine cronologico su come siamo arrivati a tali tesi.

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1.1. Il contributo pionieristico di Milton Friedman

La nascita della teoria delle aree valutarie ottimali è da attribuire al lavoro del padre dell’economia monetarista della scuola di Chicago: Milton Friedman1. Friedman, con la sua celebre opera del 1953, “The case for flexible exchange rates”2, annuncia quelle condizioni che qualche anno più tardi Robert Mundell avrebbe reputato necessarie per l’armonioso funzionamento di un’area valutaria ottimale. La tesi monetarista di Friedman si basava su dei capisaldi fondamentali, tra i quali – come si può evincere dal titolo della sua opera – l’importanza che un sistema economico poggiasse su dei tassi di cambio flessibili. In un sistema con tassi di cambio perfettamente flessibili, qualsiasi disavanzo o avanzo della bilancia dei pagamenti di un paese viene automaticamente corretto attraverso dei meccanismi di apprezzamento della valuta di quel paese, senza che il governo debba intervenire o che la banca centrale debba accantonare riserve valutarie. Viceversa, sappiamo che imporre in un sistema la fissazione del tasso di cambio, comporta un eccesso di domanda o un eccesso di offerta di valuta estera, che può essere corretto solo ed esclusivamente grazie ad una variazione di altre variabili economiche che non sia il tasso di cambio. Friedman sosteneva come, in un mondo reale caratterizzato dalla vischiosità dei prezzi e dei salari, e considerando che le crisi della bilancia dei pagamenti derivano dal sistema di Bretton Woods, i tassi di cambio flessibili garantirebbero un sistema “armonioso” in cui le forze del mercato agirebbero mediante un meccanismo di auto-aggiustamento per raggiungere un equilibrio esterno. Vale la pena approfondire questo aspetto molto importante.

In un sistema economico con cambi flessibili, per andare a correggere una posizione di disequilibrio della bilancia dei pagamenti è sufficiente una variazione del tasso di cambio3. Ovviamente, il pareggio della bilancia dei pagamenti può essere conseguito anche in un sistema di cambi fissi se e solo se tutti i prezzi interni

1 Per un maggior approfondimento sul “monetarismo” e sulla “Scuola di Chicago” si veda Napoleoni, Claudio e Ranchetti, Fabio (1990), ‘Il pensiero economico del novecento’, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, pp. 279-306.

2 Friedman, Milton (1953), ‘The case for flexible exchange rates’ in Essays in positive economics, pp. 157-203, Chicago, University of Chicago Press.

3 Si veda Salvatore, Dominick (2008), Economia monetaria internazionale. Macroeconomia in economie

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sono perfettamente flessibili. La tesi che si vuole sostenere è che sia maggiormente efficiente – o meno costoso – far variare un unico prezzo (il tasso di cambio) anziché affidarsi a una variazione di tutti i prezzi interni per generare l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti. Ciò ha l’effetto di stabilizzare la speculazione, riducendo le fluttuazioni dei tassi di cambio. Al contrario, l’incapacità o la riluttanza dimostrata da un paese nell’aggiustare il tasso di cambio nel momento in cui si trovi al di fuori dell’equilibrio in un sistema con cambi fissi dà luogo a una speculazione destabilizzante che costringe alla fine il paese a subire un aggiustamento del tasso di cambio. Tutto questo provoca uno shock sull’economia: impone rilevanti costi di aggiustamento e va a interferire sull’ordinato flusso commerciale.

Un altro vantaggio è il fatto di come un sistema economico che adotti cambi flessibili, non debba preoccuparsi del proprio equilibrio esterno e possa liberamente utilizzare tutti gli strumenti di politica economica a proprio vantaggio per raggiungere tutti gli obiettivi interni: la piena occupazione con stabilità dei prezzi, la crescita e un’equa distribuzione dei redditi. Possiamo trovare un altro argomento a favore dei tassi di cambio flessibili: essi potenziano l’efficacia della politica monetaria, oltre a renderla disponibile per il raggiungimento degli obiettivi interni. Tale effetto porta a ridurre la pressione inflazionistica, andando a favorire le importazioni e scoraggiando le esportazioni. I tassi di cambio flessibili consentono a ciascun paese di perseguire autonomamente le politiche interne più adatte per raggiungere il livello desiderato tra inflazione e disoccupazione. Viceversa, con tassi di cambio fissi, diversi tassi di inflazione in diversi paesi danno luogo a vere e proprie pressioni sulla bilancia dei pagamenti (disavanzi elevati nei paesi con inflazione più elevata ed avanzi in quelli con una minore propensione all’inflazione) che impediscono o rendono costoso per ciascun paese raggiungere il livello ottimale tra inflazione e disoccupazione. Ancora, un altro aspetto da evidenziare positivamente nei tassi di cambio flessibili consiste nel fatto che essi impedirebbero ai governi di fissare il livello del tasso di cambio al di fuori del valore di equilibrio, con lo scopo di andare a incentivare un dato settore dell’economia a spese di altri settori oppure di conseguire obiettivi che potrebbero

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essere raggiunti con interventi meno costosi.4 Infine, un regime di cambi flessibili garantisce la possibilità di risparmiare il costo degli interventi pubblici sul mercato dei cambi, necessari per mantenere fisso il livello del cambio. Ecco che quanto abbiamo affermato prima non è tutto, ma va completato. In particolare Friedman sostiene come in un mondo caratterizzato dalla vischiosità dei prezzi e dei salari, sia preferibile un regime di cambi flessibili, poiché attraverso l’aggiustamento dei tassi di cambio è possibile realizzare contemporaneamente gli obiettivi di

equilibrio interno (piena occupazione, stabilità dei prezzi, ecc..) e di equilibrio esterno (pareggio della bilancia dei pagamenti con l’estero). Altre due sono le tesi

che Friedman sottolinea a gran ‘voce’ nella sua opera:

 Stabilire un sistema economico con tassi di cambio flessibili garantirebbe un certo grado di indipendenza della politica monetaria, in modo tale che ogni paese si possa proteggere da eventuali errori delle altre nazioni;  Tassi di cambio flessibili agevolerebbero la rimozione di controlli sul

movimento di beni e capitali tra paesi e favorirebbe il commercio multilaterale.

Numerosi autori appartenenti alle ‘nuove’ teorie delle aree valutarie ottimali -lo vedremo meglio in seguito- si chiedevano quali fossero le condizioni affinché non sia eccessivamente costoso rinunciare all’indipendenza monetaria e all’uso del cambio. Andando per ordine, Friedman parlando dell’area della sterlina, considera la possibilità di adottare un sistema di tassi di cambio fissi all’interno dell’area, e di lasciare fluttuare liberamente il tasso di cambio tra la sterlina e le altre valute del mondo. L’autore confronta questa situazione ipotetica con quella presente negli Stati Uniti, e trova una differenza sostanziale. Negli Stati Uniti è presente un’autorità che ha il potere di esercitare una politica monetaria e fiscale comune a

4 Si potrebbe riportare un esempio a riguardo. I paesi in via di sviluppo spesso tendono a mantenere un tasso di cambio eccessivamente basso allo scopo di incoraggiare le importazioni dei beni capitali fondamentali per lo sviluppo. Questo con l’obiettivo di scoraggiare le esportazioni di beni agricoli e/o tradizionali. Il governo allora impiega un sistema misto di controlli monetari e sugli scambi per andare ad eliminare l’eccesso di domanda di valuta estera dovuto al fatto di fissare un cambio al di sotto del valore di equilibrio. Ecco arrivati alla dimostrazione di come sarebbe più efficiente – e forse più efficace – lasciare che il tasso di cambio trovi il proprio livello di equilibrio e concedere un sussidio alla produzione industriale interna.

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tutti gli Stati, e, inoltre, nell’area del dollaro non esistono restrizioni al movimento di beni, capitali e persone da uno Stato dell’unione a un altro. Affinché il contesto ipotizzato da Friedman si possa verificare, servirebbe che, in un sistema economico di cambi fissi e minime restrizioni commerciali, si abbia un’unica politica monetaria e fiscale all’interno della zona, unita alla volontà di modificare la situazione esterna dell’area valutaria tramite dei cambiamenti nel livello dei prezzi e dei salari.

In una corrispondenza con Lionel Robbins del 1952, Friedman afferma con chiarezza che l’area “ideale” per una valuta comune sia quella in cui la politica monetaria e fiscale sia concentrata nelle mani di un’unica autorità, e in cui vi sia sufficiente mobilità di persone, beni e capitali. Da ciò si può benissimo evincere che Friedman abbia compreso che nell’imperfetto mondo reale, un sistema di cambi flessibili tra aree differenti faciliti gli aggiustamenti tra queste, ma anche che l’ampiezza delle aree valutarie dipenda dal grado di mobilità dei fattori e dal livello di integrazione fiscale all’interno delle stesse. Friedman ha gettato le fondamenta per il successivo sviluppo della teoria delle aree valutarie ottimali, fornendo utili spunti per il lavoro di Robert Mundell, che partì proprio da una critica al suo lavoro, cercando di dimostrare che gli obiettivi di bassa disoccupazione, stabilità dei prezzi ed equilibrio nella bilancia dei pagamenti siano tutti raggiungibili simultaneamente, a differenza di quanto affermato da Friedman.

1.2. Il padre fondatore: Robert Mundell

Agli inizi degli anni Sessanta del XX° secolo ebbe inizio con Robert Mundell la ‘teoria delle aree valutarie ottimali5, con il celeberrimo articolo nel 1961 “A theory

of optimum currency areas”6. Egli fu il primo economista ad introdurre il concetto

di ‘area valutaria ottimale’. L’attenzione, e lo scopo, di Mundell è posta nel cercare di capire quando uno stato debba avere una propria valuta nazionale e quale sia

5 Si veda Mongelli, Francesco P. (2002), “New” views on the optimum currency area theory: what is EMU telling us?’, European Central Bank, Working paper series, No. 138, p. 7.

6 Mundell, Robert (1961), ‘A theory of optimum currency areas’, Amercian economic review, vol. 51, pp. 657-65.

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l’area ‘ideale’ per una singola valuta, dove gli obiettivi di equilibrio7 interni (ridotta inflazione e piena occupazione) ed esterni (una posizione che sia sostenibili nella bilancia dei pagamenti) possano essere raggiunti più facilmente. Si capisce come gli sforzi dell’autore siano tesi nel dimostrare che le caratteristiche dell’economia di uno stato sono determinanti imprescindibili del suo sistema di tassi di cambio. Una precisazione è d’obbligo: nel momento in cui Mundell scrisse l’articolo, le domande a cui ha tentato di dare una risposta erano perlopiù accademiche, in quanto era difficile immaginare che uno stato potesse abbandonare la propria valuta a favore di una comune a diversi paesi. Analizzata la storia con le lenti dell’attualità possiamo affermare come l’Euro nel corso degli anni ha avuto un ruolo fondamentale in questo, e ci soffermeremo nel prossimo capitolo a riguardo. L’articolo scritto e pubblicato da Mundell risentì moltissimo del contesto in cui venne scritto: vigevano tassi fissi ma aggiustabili, imposti dagli accordi di Bretton Woods. La causa principale delle crisi da disequilibrio esterno nella bilancia dei pagamenti – che hanno caratterizzato il sistema economico internazionale dalla conclusione della seconda guerra mondiale – risiedeva proprio in quel sistema di tassi di cambio fissi caratterizzato dalla rigidità dei prezzi e dei salari escogitato a Bretton Woods. Mundell, con il suo lavoro, ha cercato di porre le lacune più evidenti di questo sistema a cambi fissi, focalizzandosi su un’alternativa: un sistema di valute nazionali unite tra loro tramite tassi di cambio flessibili. L’economista canadese seguì il pensiero tradizionale introdotto dal Premio Nobel Milton Friedman, riguardo i tassi di cambio flessibili: in presenza di un deficit nella bilancia dei pagamenti, un deprezzamento della valuta nazionale può agevolare l’incremento delle esportazioni; mentre nel caso si registrasse un

7 Corden sottolinea il concetto di “pro-equilibrium”: l’importanza di un’adeguata regolazione del tasso di cambio, come pilastro chiave della politica monetaria per alleviare possibili shock asimmetrici dell’economia. Il tasso di cambio è in un contesto di “pro-equilibrium” perché eventuali aggiustamenti del tasso di cambio possono portare ad un nuovo equilibrio, e quindi ad un nuovo meccanismo di aggiustamento della bilancia dei pagamenti.

Tale concetto si distingue da un contesto economico di “anti-equilibrium”, in cui i salari sono rigidi e non “reattivi” ai fondamentali economici. Si veda Corden, Max (2003), ‘Monetary integration: the intellectual pre-history, in Baimbridge, Mark e Whyman, Philip, Economic and monetary union. Theory, evidence and

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surplus nella bilancia commerciale, un apprezzamento del tasso di cambio potrebbe prevenire l’aumento dell’inflazione.

In sostanza, Mundell ha voluto provare come sotto alcune determinate condizioni, un sistema caratterizzato da valute separate e dell’aggiustamento dei tassi di cambio è inefficace o meno. Ecco perché l’autore si chiede se sia meglio lasciare fluttuare ogni valuta, oppure se sia preferibile creare alcune aree con tassi di cambio fissi all’interno e flessibili all’esterno: vale a dire delle Unioni Monetarie, all’interno delle quali sia possibile perseguire gli obiettivi di bassa inflazione, pieno impiego e una certa sostenibilità nella bilancia dei pagamenti. Ecco svelato l’obiettivo di Mundell: determinare le caratteristiche che un’area geografica debba possedere per raggiungere più facilmente questi tre obiettivi fondamentali, ed essere denominata come ‘Area valutaria ottimale’. Nella sua analisi, Mundell pone l’attenzione sulle differenze in termini di aggiustamenti tra aree con una moneta unica ed aree dove sono presenti diverse valute. Una sola valuta implicherebbe la presenza di un’unica banca centrale e, quindi, di un’offerta elastica di mezzi di pagamento a livello interregionale. Viceversa, in un’area con diverse valute, l’offerta di mezzi di pagamento è posta in secondo piano rispetto alla cooperazione tra le banche centrali, al costo di una perdita di riserve. Questo dimostra le grandi differenze a livello di aggiustamento interregionale e internazionale, anche se, con un sistema di cambi fissi.

Al fine di evidenziare al meglio queste differenze, Mundell illustra in tre situazioni le conseguenze che uno shock nella domanda di beni può avere in due regioni: A e B.8 L’autore si chiede cosa possa accadere se l’equilibrio iniziale venisse modificato da uno spostamento della domanda dai beni prodotti nella regione B alla regione A. Assumendo che le due regioni inizialmente siano in condizione di piena occupazione, bilancia dei pagamenti in equilibrio, che il livello dei prezzi e dei salari sia fisso e che la politica monetaria sia volta a prevenire l’inflazione.

8 Si veda anche a riguardo De Grauwe, Paul (2006), ‘Economia dell’unione monetaria’, Bologna, sesta edizione, Bologna, Il Mulino, pp. 14-18.

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In un primo caso, assumendo che ognuna delle due aree abbia una propria moneta nazionale, lo spostamento della domanda da B verso A provoca un incremento del tasso di disoccupazione in B ed un’alta pressione inflazionistica in A. Ci sarebbe da chiedersi se questi spostamenti della domanda sono di natura permanente o temporanea. Per il momento assumiamo che siano permanenti, per esempio causati da un cambiamento nelle preferenze di consumo. È indubbio che entrambe le regioni devono fronteggiare un problema di aggiustamento, ma se ci ragioniamo bene, l’onere dell’aggiustamento grava totalmente sulla regione B attraverso l’aumento della disoccupazione, in quanto la banca centrale di A restringerà il credito per mantenere fisso il livello dei prezzi. Ciò che viene richiesto alla regione B è una riduzione del reddito attraverso una diminuzione nel livello dei prezzi in modo da non aumentare la disoccupazione. Se questo non fosse possibile, l’unico modo che B avrebbe per riportare il sistema in equilibrio sarebbe quello di ridurre la propria produzione ed il tasso di occupazione. Ecco come, con questo esempio sulle due regioni, Mundell vuole dimostrare come una riduzione nel livello dei prezzi comporti una recessione per un’area in cui sono presenti valute diverse.

In un secondo caso9, Mundell prende in esame la situazione in cui le due regioni (A e B) siano all’interno dello stesso Stato, ed abbiano così la stessa identica moneta. Si supponga anche che lo Stato persegua una politica monetaria atta a mantenere la condizione di pieno impiego. Lo spostamento della domanda dai prodotti della regione B a quelli della regione A causa un aumento della disoccupazione nella prima regione ed una pressione inflazionistica nella seconda, con relativo surplus nella bilancia dei pagamenti di A. Per correggere questa situazione, la banca centrale deve attuare una politica monetaria espansiva andando ad incrementare l’offerta di moneta. Così facendo si risolve il problema della disoccupazione in B, ma si va ad aggravare la pressione inflazionistica in A. Mundell mostra anche come - nello stesso scenario, ma con diverse valute nazionali – la correzione del problema della disoccupazione nei paesi in deficit dipenda dalla volontà dei paesi in surplus di aumentare il proprio livello dei prezzi,

9 Si veda a riguardo Mundell, Robert (1961), ‘A theory of optimum currency areas’, American economic

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mentre se si ha una sola valuta, l’aumento dell’inflazione nell’area in surplus è subordinata alla volontà della banca centrale di permettere la disoccupazione nella regione in deficit. Mundell vuole spiegarci, con questo esempio, che il perseguimento di una politica monetaria con l’obiettivo della piena occupazione favorisce l’inflazione in un’economia multiregionale o in un’area monetaria con una valuta comune. Ecco che si arriva alla conclusione che, all’interno di un’Unione Monetaria con queste tipologie di aggiustamenti, non è possibile perseguire entrambi gli obiettivi di piena occupazione e stabilità dei prezzi. Secondo Mundell il problema non è rintracciabile nel tipo di Unione Monetaria, ma nell’area geografica che si sceglie per utilizzare una valuta comune, arrivando ad affermare che “l’area valutaria ottimale non è il mondo”.

È nel terzo ed ultimo caso che Mundell esprime il punto focale della sua teoria, ovvero che un’area valutaria si può considerare “ottimale” quando coincide con una regione economica, se e solo se fossero verificate alcune condizioni. La più importante delle quali è individuata nella mobilità dei lavoratori all’interno dell’area. Mundell per spiegare ciò, assume che al mondo esistano solamente due paesi: Stati Uniti e Canada, che a loro volta hanno due regioni in comune: l’Est e l’Ovest. La prima regione produce solamente automobili, mentre la seconda solo legname. Si ipotizzi inoltre che, il tasso di cambio tra il dollaro canadese e quello americano sia flessibile, e che un aumento di produttività ad Est causi un eccesso di domanda per il legname ed un eccesso di offerta per le automobili. Nello scenario descritto, lo shock provocherebbe l’aumento della disoccupazione ad Est (regione in deficit) ed un aumento della pressione inflazionistica ad Ovest (regione in surplus), con un conseguente flusso di riserve bancarie da Ovest ad Est per ristabilire l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti. Per risolvere il problema della disoccupazione ad Est, la banca dovrebbe espandere l’offerta di moneta, oppure ridurre la pressione inflazionistica ad Ovest. È del tutto evidente come la disoccupazione possa essere risolta in entrambi i paesi, ma solamente a discapito dell’inflazione; o viceversa. Ciò che Mundell ci vuole dire è che esiste una condizione necessaria, ma non sufficiente. Il sistema di cambi flessibili non risolve il problema della bilancia dei pagamenti tra le due regioni, anche se risolve quello

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tra i due paesi. Quindi, non è necessariamente preferibile ad una valuta comune o ad un sistema di cambi fissi. Questo discorso non si applicherebbe nel caso in cui, al posto dei dollari canadesi e americani si avessero i dollari di Est e Ovest. Ecco che il focus si sposta dal nazionale a livello regionale. Se le due valute regionali avessero un tasso di cambio flessibile, l’eccesso di domanda nell’Ovest non avrebbe alcun effetto sull’economia dell’Est, se non un apprezzamento nel tasso di cambio rispetto alla moneta dell’Est, lasciando così invariati i saldi delle bilance dei pagamenti. Mundell arriva alla conclusione dunque, che l’area valutaria ottimale è quella che coincide con una regione: ”the optimum currency area is the

region”.

Mundell propone tre fondamentali criteri per determinare se un’area sia o meno ottimale: il criterio fondamentale nell’analisi mundelliana è la mobilità dei fattori, ed in particolare del lavoro. Se quest’ultima componente fosse presente nell’economia, si ridurrebbe il bisogno di aggiustamenti nel tasso di cambio nominale, dal momento che i lavoratori si spostano dalla zona in deficit a quella in surplus, eliminando ogni elemento di disequilibrio. In secondo luogo Mundell focalizza l’attenzione sulla flessibilità dei prezzi e dei salari10 come antidoto agli shock asimmetrici dal lato della domanda. Infatti, se in un’economia aperta sono presenti la mobilità dei fattori o la flessibilità dei prezzi e dei salari, non c’è alcun bisogno di cambiamenti nel tasso di cambio. Se riprendiamo l’esempio fatto da Mundell in precedenza, nel caso in cui i fattori fossero flessibili in entrambi i paesi, l’incremento della domanda nell’Ovest farebbe aumentare i salari nella stessa regione, portando ad una diminuzione dell’offerta aggregata di beni e servizi e ad un aumento nel livello dei prezzi; mentre l’effetto opposto si verificherebbe ad Est. In questo modo, gli agenti economici di entrambi i paesi comprerebbero più beni dell’Est e meno dell’Ovest, riportando il sistema economico verso il naturale equilibrio. Infine, qualora in un’economia non siano presenti la mobilità dei fattori

10 Si veda a riguardo la chiarissima trattazione circa la ‘flessibilità dei salari’ in Carlberg, Michael (2001), ‘An economic analysis of monetary union’, Berlin-New York, Springer, pp. 75-84.

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e la flessibilità di prezzi e salari, un ulteriore criterio potrebbe essere l’incidenza che uno shock asimmetrico potrebbe avere sul sistema economico.

Nel suo articolo, Mundell individua due caratteri microeconomici a supporto delle aree valutarie abbastanza estese. In primo luogo, all’aumentare del numero di valute in un sistema di cambi flessibili, tende a diminuire l’efficienza della moneta come mezzo di pagamento e unità di conto. Infatti, più è elevato il numero delle valute e più sono alti i costi di transazione e di informazione relativi alla moneta. Inoltre, un numero elevato di piccole valute creerebbe delle difficoltà nel mercato dei cambi, aprendo le porte agli speculatori e rendendo più difficile l’attuazione delle politiche monetarie. In secondo luogo, Mundell sostiene che un sistema di cambi flessibili dipenda dalla “money illusion”, ovvero il fatto che coloro che detengono moneta sono disposti a vedere cambiare il proprio reddito in seguito a cambiamenti nel tasso di cambio nominale della valuta, ma non necessariamente in seguito ad aggiustamenti nel livello dei prezzi e dei salari nominali. Tuttavia, il premio Nobel del 1999, nota che al crescere del livello di apertura di un’economia, la “money illusion” tende ad attenuarsi a causa dell’incremento del rapporto tra importazioni e consumi.

Mundell arriva alla conclusione del suo articolo affermando che la questione riguardante un sistema di cambi flessibili deve essere scomposta in due domande principali:

1) Un sistema economico a cambi flessibili può funzionare efficientemente nell’economia mondiale moderna?

2) Come, il mondo, dovrebbe essere diviso in aree valutarie?

Nel rispondere alla prima domanda, Mundell afferma che, perché un sistema di cambi flessibili sia efficiente, ci sia bisogno di una serie di condizioni fondamentali, tra le quali:

 Un sistema di tassi di cambio internazionale che sia stabile, e che le variazioni dello stesso debbano essere necessarie per eliminare una situazione di disequilibrio, non siano così forti da causare violenti

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cambiamenti nelle società che hanno una tendenza ad esportare o ad importare;

 Il rischio correlato ai tassi di cambio flessibili possa essere coperto mediante operazioni a termine;

 Le banche centrali si astengano dalla speculazione monopolistica;

 Sforzo sostanziale nel mantenimento della disciplina in campo di politiche monetarie a causa della sfavorevole condizione creata da una continua svalutazione;

 Di una continua protezione dei creditori e dei debitori in modo da mantenere un aumento nei flussi di capitali nel lungo periodo;

 I salari e i profitti non siano legati ad un indice dei prezzi in cui i beni e servizi importati abbiano un perso rilevante.

Per quanto riguarda il secondo interrogativo, Mundell risponde che un sistema di cambi flessibili può funzionare soltanto se si considerano aree valutarie regionali11. Infatti, spiega l’economista canadese, se il mondo potesse essere diviso in regioni, all’interno delle quali ci sia mobilità dei fattori, e tra le diverse regioni ci sia immobilità dei fattori, allora ognuna di queste dovrebbe avere una propria moneta con un tasso di cambio flessibile rispetto a tutte le altre valute. Se, al contrario, all’interno di uno stato, non ci fosse una sufficiente mobilità dei fattori, non ci si può attendere che un tasso di cambio flessibile svolga una funzione stabilizzatrice, portando così il tasso di disoccupazione ed il livello dei prezzi ad oscillare da regione a regione. Ecco che, se ci dovesse essere immobilità dei fattori all’interno dello stato, o mobilità dei fattori oltre i confini nazionali, un sistema di cambi flessibili sarebbe inefficiente. Quindi, a questo punto, la soluzione sarebbe adottare un sistema di cambi fissi oppure creare una valuta unica, in modo da realizzare un’area valutaria più estesa.

Oltre ad affermare ciò riguardo la mobilità dei fattori produttivi, Mundell subisce l’importante influenza di James Meade – premio Nobel nel 1977 per l’apporto

11 Si veda a riguardo Carlberg, Michael (2001), ‘An economic analysis of monetary union’, Berlin-New York, Springer, pp. 147-200.

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essenziale in materia di commercio internazionale e di movimenti internazionali dei capitali – e Tibor Scitovsky, i cui studi derivano dal nascente dibattito sull’Unione monetaria ed economica europea. I due economisti esprimono posizioni contrastanti sull’argomento, infatti se Meade ritiene che, nell’Europa occidentale, non ci siano le condizioni per una moneta unica e che, a causa della mancanza di mobilità del lavoro, i tassi di cambio flessibili possano essere più efficaci per l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e per la stabilità interna, Scitovsky è favorevole all’unione monetaria in quanto produrrebbe una maggiore mobilità del capitale, a patto che vengano effettuati passi avanti imprescindibili per rendere mobile il fattore lavoro e per facilitare politiche occupazionali sovranazionali. Entrambi gli economisti sottolineano, dunque, che l’ingrediente essenziale di una moneta unica sia un alto livello di mobilità dei fattori, assumendo premesse diverse: Meade non pensa che esista la sufficiente mobilità dei fattori, mentre Scitovsky vede la creazione di un’area valutaria come un modo per stimolare la mobilità dei capitali. In conclusione, Mundell, anche grazie a queste due ottiche, suggerisce come stabilire se l’Europa occidentale sia o meno un’unione monetaria, non sia un problema teorico, bensì empirico.

Nel dicembre 199712, Mundell tenne un discorso presso l’università di Tel Aviv in cui tracciò i lineamenti storici della sua teoria riguardo le aree valutarie ottimali. In questa sede, l’economista canadese delineò come è avvenuto il famigerato “cambiamento di prospettiva” sulla propria ottica iniziale. Mundell nutrì forti dubbi circa il fatto che i tassi di cambio flessibili fossero un meccanismo di auto aggiustamento, tanto che pronunciò le testuali parole: “ […] It was not that I had

forgotten the Mundell-Fleming model, but that I had gone beyond it”13.

Il lavoro di Mundell è considerato una parte dell’apparato teorico del modello di Mundell-Fleming, teso a focalizzarsi sugli aspetti esterni delle politiche economiche. Quindi, possiamo considerare i primi contributi sulle teorie delle aree

12 Mundell, Robert A. (1997), ‘Optimum currency areas’. Speech delivered at the Tel-Aviv University, 5 december. Available from http://www.columbia.edu/~ram15/eOCATAviv4.html.

13 Si veda Masini, Fabio (2014), ‘A history of the theories on optimum currency areas’, The european journal of history of economic thought, 21:6, pp. 1015-38, DOI: 10.1080/09672567.2014.966130, Available from: http://dx.doi.org/10.1080/09672567.2014.966130, pag. 1023.

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valutarie ottimali come “approcci keynesiani”. Secondo McKinnon, Mundell ha richiamato aspetti della teoria monetarista e keynesiana per diverse ragioni. I keynesiani potrebbero trovare argomenti in favore dei tassi di cambio flessibili come soluzione per stabilizzare l’economia da politiche contro cicliche. I monetaristi, hanno fatto leva sull’indipendenza monetaria al fine di assicurare un migliore livello di prezzi interni.

Mundell ritorna, nel 197314, sulla teoria delle aree valutarie ottimali in un’ottica “diversa” dalla sua opera iniziale degli anni Sessanta. Nel paper pubblicato nel 1973, l’autore sottolinea il fatto che i costi di una moneta comune in termini di perdita di sovranità monetaria vengono compensati dai guadagni in termini di maggiore efficienza di assicurazione di portafoglio dovuto alla diversificazione dello stesso, e alla condivisione delle riserve. Questa ‘nuova ottica’ ha trovato le conferme in un’opera successiva15. Secondo De Grauwe, dietro al cambiamento di prospettiva di Mundell sulla propria teoria iniziale, vi è un avvicinamento dell’autore canadese alle tesi monetariste. Ed è proprio questo che, secondo McKinnon16, causa la linea divisoria tra il “Mundell I°” e “Mundell II°”

In sintesi, Mundell non ha mai dimenticato il modello di Mundell-Fleming, ma semplicemente è andato oltre! Sebbene Mundell non spieghi come sia andato oltre alle conclusioni di tale modello, la nostra impressione è che durante gli anni Sessanta del XX° secolo sia stato fortemente influenzato dall’ottica monetarista. E non è un caso, aggiungiamo noi, che il contributo pionieristico in tema di aree valutarie ottimali, provenga da Milton Friedman.

14 Si veda Mundell, Robert (1973), ‘Uncommon arguments for common currencies’, in Johnson, Harry e Swodoba, Alexander ‘The economics of common currencies: proceedings of the Madrid conference on

optimum currency areas’, pp. 143-72.

15 Il riferimento è Mundell, Robert (1973), ‘A plan for a european currency’, in Johnson, Harry e Swodoba, Alexander (cit), pp. 143-72.

16 McKinnon, Ronald (2004), ‘Optimum currency areas and key currencies: Mundell I versus Mundell II’,

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1.3. Un grado di apertura ‘diverso’: Ronald McKinnon

Abbiamo visto come Robert Mundell abbia posto l’accento su quali siano le condizioni per un’area valutaria ottimale, definendola come una regione dotata di mobilità di capitale e di lavoro che permetta di semplificare gli aggiustamenti dovuti a shock asimmetrici nell’economia.

Il secondo economista ad occuparsi della teoria delle aree valutarie ottimali, dando un importante contributo all’evoluzione della stessa, è stato Ronald McKinnon nella sua celebre opera17. McKinnon definisce “ottima” quell’area valutaria che, attraverso la politica fiscale e monetaria e tassi di cambio flessibili, voglia raggiungere il pieno impiego, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e la stabilità dei prezzi, l’autore vuole sottolineare l’importanza degli equilibri interno ed esterno, enfatizzando la necessità di stabilità dei prezzi interni e focalizzandosi sulla forte influenza del ‘grado di apertura’18, definito come il rapporto tra beni commerciabili e non commerciabili, distinguendo in sostanza, tra beni che possono entrare sui mercati esteri e prodotti non esportabili19. I beni commerciabili comprendono:

 I beni esportabili, ovvero prodotti internamente e, solo parzialmente esportati;

 I beni importabili, che vengono sia prodotti internamente che importati. L’eccesso dei beni esportabili dipende solo ed esclusivamente dal consumo domestico e dovrebbe essere poco quando ci si specializza esclusivamente su alcuni beni, mentre il surplus dei beni importabili deriva dalla natura specializzata delle importazioni. Se assumiamo che il prodotto di un’economia sia suddiviso in beni commerciabili e non, bisogna andare a valutare l’effetto di uno shock sui prezzi relativi di tali beni rispetto al livello dei prezzi dell’economia generale,

17 McKinnon, Ronald (1963), ‘Optimum currency areas’, American economic review, vol. 53, pp. 717-25. 18 “The ratio of tradable to non-tradable goods” è un’espressione che si può riferire sia alla produzione che al consumo: nel mercato in equilibrio, il valore totale dei beni commerciabili prodotti sarà uguale al valore dei beni commerciabili consumati.

19 Baimbridge, Mark e Whyman, Philip, Economic and monetary union. Theory, evidence and practice, Cheltenham-Northampton, Edward Elgar, pp. 17-43 e pp. 21-23.

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partendo dalla considerazione di una piccola economia, in cui il rapporto sia elevato. Ishiyama20, sottolinea come McKinnon consideri un livello dei prezzi mondiale stabile, altrimenti la sua tesi perderebbe di valore in quanto l’instabilità esterna si diffonderebbe direttamente sull’economia nazionale, mediante i cambi fissi. Per illustrare le conseguenze di uno shock, che produce come effetto un deprezzamento del tasso di cambio nominale, McKinnon ipotizza due scenari. Vengono presi in esame due aree valutarie distinte: una di piccole dimensioni in cui bisogna decidere che regimi di tassi di cambio adottare e l’altra costituita dal resto del mondo. L’ipotesi di un paese di piccole dimensioni implica il fatto che i prezzi dei beni commerciabili in termini di valute estere non siano influenzati dalle variazioni del tasso di cambio domestico.

Nel primo scenario, una grossa fetta del consumo domestico è rappresentato dai

beni commerciabili (esportabili e importabili) in un sistema di cambi flessibili, ed

i prezzi dei beni non commerciabili sono mantenuti costanti in termini di valuta domestica. In questo modo un’oscillazione del tasso di cambio domestico porterebbe ad una forte variabilità nell’indice dei prezzi, facendo perdere alla moneta le funzioni di unità di conto e riserva di valore, dal momento che quest’ultimo comprende sia i beni commerciabili che quelli non commerciabili. Con un deprezzamento della valuta domestica ed un conseguente aumento dei prezzi relativi ai beni commerciabili, le autorità sono costrette ad attuare una politica monetaria e fiscale restrittiva per ridurre la domanda, e far abbassare il prezzo dei beni non commerciabili. Maggiore il grado di apertura dell’economia in esame, maggiore sarebbe l’intervento richiesto da parte delle autorità.

Nel secondo scenario, McKinnon ipotizza una situazione opposta, dove il consumo domestico è rappresentato in gran parte da beni non commerciabili. Si tratta dunque di un’economia relativamente chiusa, in cui una variazione dei tassi di cambio, che influenza solamente i prezzi dei beni commerciabili, non avrebbe un

20 Ishiyama, Yoshidide (1975), ‘The theory of optimum currency areas: a survey’, International Monetary

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grande effetto sull’indice dei prezzi domestici, rendendo solamente più competitivi i beni commerciabili prodotti internamente.

Ecco che McKinnon arriva alla conclusione di come, più un’economia è aperta, maggiori saranno gli incentivi ad adottare un sistema di tassi di cambio fissi. Al contrario, se si ha un’economia chiusa, è più efficiente un sistema di cambi flessibili. Infatti, se si avesse un maggiore grado di apertura dell’economia, sarebbe ‘maggiormente’ probabile che i prezzi esteri dei beni commerciabili venissero trasmessi all’interno della regione in esame. Questo effetto causerebbe una riduzione della ‘money illusion’, ed i prezzi e i salari sarebbero così fortemente influenzati dalle variazioni nel tasso di cambio. Pertanto, per una piccola economia aperta sarebbe più vantaggioso unirsi ad un’area valutaria comune, abbandonando il tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento per risolvere i problemi nella bilancia dei pagamenti, ed adottando strumenti alternativi, come ad esempio le politiche fiscali. Quindi, McKinnon è favorevole ai cambi fissi in quanto riducono, in maniera rilevante, le probabilità di ‘money illusion’ (molto bassa nelle economie molto aperte).

Secondo McKinnon, infatti, più ci spostiamo dalle economie chiuse verso quelle aperte, più i tassi di cambio flessibili non riescono a controllare il bilancio esterno e danneggiano la stabilità interna dei prezzi. In questo senso, il timore di attacchi speculativi renderebbe ottimale la scelta di tassi completamente fissi, oppure di legami con valute comuni del mondo esterno. Come abbiamo avuto modo di sostenere, McKinnon sostiene e sviluppa la teoria mundelliana, credendo anch’egli che due regioni, in presenza di mobilità dei fattori, dovrebbero formare un’area valutaria comune. McKinnon distingue due differenti tipi di mobilità dei fattori: quella di tipo geografico tra regioni (che è la stessa di cui parla Mundell) e quella tra industrie. McKinnon considera il caso di immobilità dei fattori tra regioni, ognuna con proprie industrie specializzate, in cui è difficile distinguere immobilità geografica e interindustriale. Se si dovesse verificare uno shock negativo della domanda nella regione B, i beni prodotti in quella regione vedrebbero un calo nella propria domanda. Se, invece, nella regione B potessero essere sviluppati i beni

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tipicamente prodotti nella regione A, per i quali la domanda sarebbe invece in aumento, non ci sarebbe alcuna necessità di un movimento di fattori tra regioni. Tuttavia, se la regione B non fosse in grado di produrre beni simili a quelli della regione A, l’argomento di Mundell per la mobilità dei fattori tra regioni come meccanismo di aggiustamento per prevenire un calo di reddito nella regione B è ancora valido. Ecco spiegato, e dimostrato, come il punto di partenza di McKinnon è proprio il lavoro di Mundell.

Tre sono i filoni del pensiero di Ronald McKinnon, e possiamo sintetizzarli in tre chiare conclusioni fondamentali:

1) Le economie relativamente aperte dovrebbero adottare un sistema di tassi di cambio fissi;

2) Le economie aventi un elevato volume commerciale internazionale tra di loro dovrebbero unirsi in un’area valutaria comune, che sarebbe così più chiusa verso l’esterno e fornirebbe una protezione più efficiente dal rischio associato alle oscillazioni nei tassi di cambio;

3) Le aree geografiche estese sono caratterizzate – generalmente – da un’economia chiusa, in modo che le dimensioni di un’area possano essere una determinante del regime di tassi di cambio da adottare.

1.4. Un approccio ‘diversificato’: Peter Kenen

Peter Kenen è considerato, insieme a Mundell e McKinnon, uno dei padri della teoria delle aree valutarie ottimali. Nella sua opera del 196921, vengono introdotti ulteriori importanti criteri innovativi, utili a definire un’area valutaria ‘ottimale’. Egli, credendo che la perfetta mobilità dei fattori teorizzata da Mundell esista solo in pochi casi nel mondo reale, ha ideato un nuovo criterio per determinare se un’economia debba adottare un regime di tassi di cambio fissi o flessibili: la diversificazione dei prodotti. Le economie altamente diversificate risultano essere

21 Kenen, Peter (1969), ‘The theory of optimum currency areas: an eclectic view’, in Monetary problems

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i candidati migliori per la costituzione di un’area valutaria, in quanto la diversificazione permette di isolarsi dagli effetti di shock specifici di un settore o di un’industria, prevenendo la necessità di cambiare frequentemente i termini di scambio, mediante i tassi di cambio. Ad esempio, se un paese producesse ed esportasse un solo bene, e si verificasse uno shock negativo della domanda che influenza le esportazioni, i ricavi derivanti dalle esportazioni crollerebbero22. Se il paese adottasse un regime di cambi flessibili, questo effetto potrebbe essere attenuato dal momento che un calo nella domanda di beni esportabili ridurrebbe anche la domanda di moneta domestica, e di conseguenza indurrebbe un deprezzamento del tasso di cambio. Il deprezzamento della valuta nazionale stimolerebbe le esportazioni, dal momento che i beni domestici sarebbero ora meno costosi per gli acquirenti esteri, in quanto per ogni unità di valuta estera sarebbe possibile acquistare una maggiore quantità di valuta domestica. Qualora invece l’economia abbia un sistema di cambi fissi, questo meccanismo non potrebbe essere sfruttato, e l’aggiustamento passerebbe da una riduzione di prezzi e salari oppure da un aumento della disoccupazione.

Si comprende bene come, per Kenen, un’economia ben diversificata possieda anche un settore delle esportazioni diversificato. Infatti, ogni industria può essere colpita da un qualche tipo di shock. Se questi shock non fossero correlati, uno shock positivo in un settore e uno negativo in un altro si eliminerebbero a vicenda, senza alcun effetto per le esportazioni totali, rendendo l’economia più stabile. Ovviamente, alla base di ciò, ci dovrebbe essere un’alta mobilità dei fattori a livello interindustriale. Le economie diversificate sono spesso economie di grandi dimensioni che sono più autosufficienti rispetto alle piccole economie, e dunque hanno un settore relativo alle esportazioni di minori dimensioni. Dal momento che le esportazioni sono ridotte, le variazioni nei tassi di cambio hanno un effetto solo su una minima parte dell’economia e dunque producono un effetto totale proporzionalmente minore rispetto a quello che si avrebbe in una piccola

22 Oggi basti pensare a come i derivati finanziari, pur con molti danni causati alla finanza globale, siano riusciti a coprire perdite relative a rischi finanziari (dovuti ad esempio da oscillazioni negative sui tassi di cambio).

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economia. Quindi, si potrebbe dire che le economie piccole e meno diversificate devono essere più aperte per poter importare i beni di cui hanno necessità ed esportare beni per acquisire ricchezza con cui pagare le importazioni. Visto in questa ottica, il criterio della diversificazione introdotto da Kenen si avvicina molto al criterio del grado di apertura di McKinnon.

Kenen evidenzia anche un altro punto di vista. Secondo Kenen, il livello di integrazione fiscale tra due paesi dovrebbe costituire un criterio per giudicare se un paese può essere ‘integrato’ all’interno dell’Unione monetaria. Infatti, maggiore è il livello di integrazione fiscale, maggiore è la possibilità per l’area valutaria di smorzare gli effetti di uno shock asimmetrico che potrebbe colpirla, attraverso trasferimenti fiscali dalle zone con un basso tasso di disoccupazione a quelle dove la disoccupazione è più elevata. Inoltre Kenen afferma che, in presenza di mobilità dei fattori, due paesi con strutture produttive simili tra loro, sono candidati ideali per formare un’area valutaria comune, dal momento che uno shock in un particolare settore colpirebbe i due paesi in modo simmetrico. Quest’ultimo argomento rafforza ulteriormente la teoria di Mundell secondo cui due paesi soggetti a shock asimmetrici dovrebbero lasciare liberamente fluttuare i propri tassi di cambio.

In sintesi, il messaggio che Kenen ci ha lasciato, è particolarmente importante: sintetizziamolo. Un paese coinvolto in numerose attività ha una maggiore quantità di prodotti da esportare, e può quindi difendersi con più facilità da possibili shock che colpiscano solo determinati settori o imprese, spesso causati da variazioni della spesa o della produzione. In questo modo, la diversificazione del prodotto permette di ridurre la possibilità di subire shock asimmetrici e alleviare i loro effetti negativi, rendendo i tassi fissi più appropriati per le economie ben diversificate. Di conseguenza, cambiamenti positivi delle esportazioni di taluni beni potranno essere compensati con variazioni negative di altri.

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Secondo Presley e Dennis23, questo sistema ‘compensativo’ è più efficiente ed efficace quanto più i prodotti esportabili siano diversificati: un paese che produce una vasta gamma di prodotti, subisce una minore diminuzione della produzione totale, se, nei mercati esteri, la domanda di quei beni decresce. Un’economia con un basso livello di diversificazione avrebbe bisogno di tassi flessibili per ammortizzare gli shock esterni, mentre una abbastanza diversificata trarrebbe vantaggio dalla formazione di un’area valutaria. Queste idee sono state oggetto di riflessioni da parte dei due autori già precedentemente citati della teoria: Mundell ritiene che, riprendendo la definizione di Kenen, l’economia mondiale sia non solo più diversificata ma anche quella maggiormente assicurata contro gli eventuali rischi di fluttuazioni. McKinnon, giunge, invece, alla conclusione che una grande economia diversificata, che effettui pochi scambi con l’estero debba avere cambi fissi, al contrario, prevedendo per le piccole economie prive di tale caratteristica l’adozione dei cambi flessibili. A questi due studiosi, si aggiunge Melitz che, nel 1995, sottolinea come la tesi di Kenen presupponga che un paese, senza struttura diversificata, beneficerebbe solo di tassi di cambio flessibili. È con questi capisaldi teorici che, Peter Kenen, conclude il percorso letterario originario della teoria delle aree valutarie ottimali.

23 Presley, John e Dennis, Geoffrey (1976), ‘Currency areas. Theory and practice’, Journal of economic

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