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A T ORRE O SCURA L

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Academic year: 2021

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L

A

T

ORRE

O

SCURA

Nelle terre occidentali, dove vivono pochi uomini ma la vecchia magia persiste ancora, sorge l’antica roccaforte di Pietra Spaccata, circondata da un’enorme cinta muraria ormai crollata e ricoperta di erbacce. Le piante e le acque delle terre selvagge si sono fatte strada oltre le mura e si sono nuovamente insediate tra i sentieri ripidi e deserti e sugli edifici cadenti. L’altopiano di Meneth Eskern sorge proprio al centro, molto più a occidente delle montagne, le Creste d’Ossa, sulla cui sommità svetta la Fortezza nera, alta quanto il cielo, con le mura lisce e le guglie di pietra. Tutto attorno alla torre oscura, come una corona adagiata sulla fronte dell’altopiano, corre un alto muro interno sorvegliato da sette torrette minori. Adesso sono tutte in rovina, e gli uomini che le hanno costruite se ne sono andati da tempo. I corvi gracchiano attorno ai tetti cadenti, e i gargoyles se ne stanno appostati tra l’edera come pidocchi nella barba dei mendicanti.

La più alta delle sette torrette è chiamata Picca Nera. Anche se sembra sparire all’ombra della Fortezza alle sue spalle, rimane comunque la torre più alta dei regni degli uomini. Dai bastioni appena macchiati di neve al terreno ai piedi dell’altopiano è davvero un gran bel volo…

E questa era una brutta notizia per Skarper, dato che era appena stato catapultato giù dal tetto.

«Aaaaaaaaah!» urlò, salendo su, su, su, fermandosi un momento, annaspando nell’aria per cercare un appiglio e cominciando la lunga caduta. «Aaaaaaaaaa…» Ma dopo qualche centinaio di metri o poco più si accorse che stava semplicemente andando avanti a urlare «…aaaaaaaaaaaaaa…» per forza d’abitudine. Quindi si zittì, e da quel momento gli unici suoni che udì furono il sibilo dell’aria fredda contro le orecchie e lo sporadico fruscio ovattato di una nuvola che gli sfrecciava accanto.

Non è tanto la caduta a preoccuparmi, pensò Skarper, mentre le pietre coperte

d’edera e le finestrucole della Picca Nera gli sfilavano davanti agli occhi. Il problema

è l’impatto col terreno…

Sotto di lui – adesso che si era abituato alla sensazione del vento che gli premeva contro le orecchie – riusciva a vedere le nuvole soffici e bianche che punteggiavano il cielo come tante pecore. Sotto di loro, i lugubri contrafforti di Meneth Eskern si dispiegavano come dita di una mano rocciosa e spalancata, con costruzioni diroccate disseminate in mezzo. Erbacce e arbusti avevano messo radici nei tetti marciti, e tra le pietre delle strade silenziose, laddove il terreno declinava verso le mura esterne, otto chilometri più avanti, gli alberi crescevano sempre più fitti, creando un bosco intricato. I vecchi bastioni e gli annessi facevano capolino tra quelle fronde come tante isole solitarie.

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Questo era il mondo di Skarper, e mentre guardava in basso, trovò interessante notare che la Mappa di tutta Pietra Spaccata di Stenoryon riportava dei dettagli sbagliati. Non che gli interessasse troppo, però, dato che quei dettagli stavano sfrecciando verso di lui a gran velocità, e prima di poter parlare con chicchessia delle proprie scoperte, si sarebbe ritrovato spiaccicato su di loro come marmellata di lampone spalmata con troppa irruenza.

Ed erano proprio le mappe e i libri e cose di questo genere ad aver messo Skarper in questa spiacevole situazione. Sentiva l’amaro in bocca al solo pensiero e scoccò una feroce occhiata a un corvo che gli passava accanto.

Skarper era un goblin, il corvo lo intuì subito vedendo i suoi occhi ambrati, le zampe artigliate, le lunghe orecchie svolazzanti e la coda che schioccava nell’aria come una frusta durante la caduta. C’erano goblin in tutte le sette torri di Pietra Spaccata. Erano nati dalle rocce delle montagne e nutrivano una furiosa brama per l’oro, l’argento e qualsiasi cosa luccicasse, per cui passavano la maggior parte del loro tempo a cercare i preziosi nelle antiche armerie e nei magazzini, o a rubarseli l’uno con l’altro e ai goblin delle altre torri.

C’era stato un tempo in cui tutti i goblin erano stati i servitori dello stesso potente stregone, Lord Lych, che aveva eretto Pietra Spaccata e aveva dominato il mondo intero dal suo Trono di Pietra, su nella Fortezza. Ma erano passati innumerevoli anni da quando l’esercito di Lord Lych era stato sconfitto dalle armate dei re degli uomini nella battaglia di Dor Koth, e da che ogni goblin vivente avesse memoria, ognuna delle sette torri aveva ospitato una diversa banda di goblin. Di tanto in tanto, le bande di due o tre torri diverse si univano a formare un’alleanza per riversarsi fuori da Pietra Spaccata e assalire i pescatori e i minatori dei piccoli villaggi di uomini lungo Costa Rosicchiata, ma erano creature sospettose e sleali, e le alleanze non duravano mai a lungo. Di nuovo al sicuro nelle loro torri, con le entrate bloccate da pietrisco e vecchia mobilia accatastata, non passava troppo tempo prima che iniziassero a litigare per il bottino.

La Picca Nera, la torre in cui viveva Skarper (o aveva vissuto, fino a quella mattina, quando era stato catapultato giù dal tetto), era governata da un grosso goblin molto pericoloso, Re Bitorzolo, e i goblin che vivevano lì erano chiamati i Ragazzi della Picca Nera. In tutta Pietra Spaccata non c’erano predoni più crudeli, taccagni più avidi o rapinatori più spietati. Vivevano per il combattimento e per il bottino. Per il combattimento, per il bottino e per il cibo. Per combattere, per il bottino, per mangiare e poi ancora combattere.

Tranne Skarper. Skarper era diverso.

Il Vecchio Breslaw se ne era accorto appena Skarper era venuto al mondo. Anche Breslaw era diverso. Aveva perso un occhio, un orecchio, una gamba e quasi tutta la coda durante un’incursione lungo Costa Rosicchiata, quarant’anni prima. Era

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soltanto la metà del goblin che era stato, e dato che non poteva più uscire a razziare insieme al resto della tribù, Re Bitorzolo l’aveva nominato maestro delle schiuse.

Una volta l’anno, la notte in cui le corna della luna nuova sembravano riposare sulla vetta della Fortezza, Breslaw scendeva nei profondi sotterranei di Picca Nera, apriva un pesante portone coperto di ragnatele e conduceva la sua scricchiolante carriola a rotelle giù per i ripidi cunicoli deserti che si diramavano sotto le radici di Pietra Spaccata e nell’oscurità sotto le montagne, laddove giaceva il lago di lava.

Lì, nei calderoni della terra, il magma agitato, rovente e argenteo, gorgogliava e ribolliva. Il lago sputava fuori piccoli grumi di lava che si solidificavano sulle pareti e sui pavimenti della grande caverna, creando una lucida patina nera. Una volta l’anno, il lago sputava fuori anche qualcos’altro: uova di pietra.

Usando una pala dal manico lungo e fasciandosi in pelli umide per non essere bruciato dal calore, il vecchio Breslaw zoppicava su e giù per le sponde incandescenti del lago, raccogliendo pazientemente le uova di pietra. A volte, attraverso i fumi che esalavano dal lago, riusciva a vedere i maestri delle schiuse delle altre torri che perlustravano le loro porzioni di sponda, ma non interferiva con il loro lavoro né provava a impedire che raccogliessero le loro uova di pietra. A ognuno

la sua sponda; questo era uno dei pochi frammenti della legge antica che tutti i

goblin di Pietra Spaccata continuavano a rispettare.

E non provava nemmeno a sbirciare su per i grandi fori che si aprivano sopra al lago e si credeva dovessero raggiungere direttamente la Fortezza. Quando Breslaw era un giovane goblin, l’idea di intrufolarsi all’interno della Fortezza l’aveva tenuto sveglio per molte notti, ma era ormai giunto ad accettare il fatto che non ci fosse modo di accedervi. I Giovani del Pazzo Manaccan, della torre Punta Ardesia, una volta avevano provato. Si erano inerpicati sul lago sopra ponteggi fatti con vecchio tavolame, ma i ponteggi si erano spezzati ed erano caduti nella lava prima che i goblin che vi si stavano arrampicando sopra si fossero anche solo avvicinati a quei grandi buchi neri.

Pertanto, Breslaw teneva gli occhi sulla sponda di basalto e raccoglieva le calde uova di pietra mano a mano che toccavano terra e quando erano tutte al sicuro nella sua carriola, le portava su per chilometri di cunicoli scoscesi, fino alla sua stanza nella torre Picca Nera, l’incubatrice. Lì, le teneva al caldo accanto al fuoco finché non cominciavano a tremare e a schiudersi…

I goblin che erano nati dalla stessa partita di uova di pietra di Skarper non si somigliavano affatto. Le creature nate dalla terra non si somigliano come i membri di una famiglia o della razza umana. Le taglie e le forme di Skarper e dei suoi fratelli erano state definite da qualche strano capriccio della terra stessa. C’era chi aveva le squame e chi la pelliccia; alcuni avevano grugni schiacciati come maiali, altri lunghi nasi a punta e orecchie ciondolanti. La maggior parte aveva zanne e artigli e neri occhietti lucenti che brillarono di malvagità non appena i piccoli goblin calciarono

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via i frammenti delle uova di pietra e videro i minuscoli martelli e i randelli d’allenamento che Breslaw aveva lasciato appoggiati alle pareti dell’incubatrice. Avevano strappato via dal muro le piccole armi e, emettendo strilli stridenti, avevano iniziato a colpirsi. Breslaw li aveva guardati annuendo soddisfatto. Altri feroci Ragazzi della Picca Nera, un vanto per la tribù di Re Bitorzolo.

Poi aveva notato Skarper. Era più piccolo degli altri marmocchi, con lunghe orecchie, un groviglio di capelli rossicci, un ciuffo fulvo all’estremità della coda e una strana luce negli occhi gialli. Breslaw vide il modo in cui si ritirava negli angoli della caverna, non visto, come se pensasse che non fosse poi questa grande idea lasciare che gli altri goblin roteassero quegli enormi pezzi di legno verso il suo piccolo cranio appena formato.

Breslaw aveva frugato tra i gusci delle uova e aveva raccolto i frammenti ancora caldi della pietra da cui era emerso Skarper. Non c’erano dubbi; spesse venature di lentargento ne percorrevano la superficie. Lentargento: il più strano tra i metalli, il più magico. Riluceva come vero argento ma poteva essere impastato come lo stucco, e se veniva accostato a certi tipi di fiamma bruciava con una strana vampata di fuoco. In tempi remoti, grandi stregoni come Lord Lych lo avevano usato per i loro incantesimi. Recentemente, invece, non sembrava avere nessuna utilità, tranne per il fatto che era raro, prezioso e luccicante, e i goblin amavano le cose rare, preziose e luccicanti. Breslaw aveva nascosto i frammenti dell’uovo di Skarper nelle tasche dell’abito prima che i neonati li notassero. In seguito avrebbe estratto il lentargento e l’avrebbe custodito insieme al resto in un posto segreto, in una delle fenditure nascoste nelle pareti dell’incubatrice.

Erano anni che non trovava un uovo di pietra venato da così tanto lentargento. Breslaw era nato da una pietra simile, molti anni prima, e adesso vedeva nel giovane Skarper un suo simile, un goblin più saggio e astuto degli altri. «Devo tenere d’occhio questo piccoletto» disse a se stesso.

Skarper aveva senza dubbio imparato a parlare molto più in fretta dei suoi fratelli, che Breslaw aveva chiamato Chiacchiera, Scoppia Budella, Malloppo, Strazio e Piolo. Era l’unico a prestare attenzione durante le lezioni di cultura goblinoide che Breslaw provava a impartirgli. E mentre, a ogni pasto, gli altri si azzuffavano per il cibo nella grande sala gremita chiamata il Trogolo, Skarper trovava sempre il modo di soffiargli di sotto al naso qualche bel pezzo di carne e formaggio muffito. Poi sgattaiolava lungo il labirinto di passaggi e di scale di legno traballanti di Picca Nera e raggiungeva qualche buia stanza in disuso dove poteva mangiare da solo, senza essere disturbato e osservato – tranne che da Breslaw, che gli teneva sempre l’occhietto lucente appuntato addosso.

Breslaw aveva notato gli astuti stratagemmi che il giovane Skarper adottava per rubare i piccoli gingilli scintillanti degli altri goblin e il modo in cui li nascondeva

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nei suoi anfratti segreti, dove poteva poi ritrovarli e contemplarli quando credeva che nessuno lo stesse guardando.

«Mi ricorda me stesso, quando ero giovane» ridacchiò il vecchio, scaltro maestro delle schiuse.

Un giorno, quando una tempesta stava imperversando sulle Creste d’Ossa e il resto della tribù era salita sui bastioni per dare fastidio ai corvi o per riversare sui Giovani del Pazzo Manaccan macigni e insulti, Breslaw aveva trovato il giovane Skarper che oziava nel Trogolo. Se ne stava seduto sullo scranno di Bitorzolo e sgranocchiava gli avanzi del pasto del re.

«Che stai facendo qui?» aveva domandato il maestro delle schiuse. «Dovresti essere fuori con gli altri! I macigni non si gettano da soli, lo sai!»

Skarper aveva fatto spallucce e si era ficcato in bocca un polposo ragno di grotta. «Là fuori la pioggia cade dall’alto, dal basso e di traverso» aveva risposto. «Grandina persino. Qua fa più caldo, si sta asciutti, e io posso avvicinarmi al fuoco e mangiare mentre quegli idioti sono impegnati.»

Breslaw si era raddrizzato in tutta la sua altezza (raggiungeva il metro e mezzo, quindi era alto per essere un goblin). Gli brillavano gli occhi. Nessun marmocchio si era rivolto in quel modo a un maestro delle schiuse da quando… beh, da quando lui si era rivolto in quel modo al suo maestro delle schiuse, il vecchio Sedere Asmatico, molti anni prima di quanto lui ricordasse con precisione.

Così, invece di sgridare il giovane impudente e di dargli una bella lezione con la mazza da insegnante, gli aveva detto: «Vieni con me, giovane Skarper» e l’aveva condotto lungo le tortuose scale tarlate di Picca Nera, giù fino a una stanza semi-dimenticata ai piedi della torre. Quando Breslaw aveva aperto il portone, spessi grovigli di ragnatela si erano strappati. «Guarda» aveva detto. «Le Pile di Nettasedere!»

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L

E

P

ILE DI

N

ETTASEDERE

I labirinti di Pietra Spaccata conducevano a innumerevoli stanze. Enormi costruzioni cadenti e abbandonate si addossavano proprio ai piedi della Fortezza, e i goblin esploratori che si avventuravano al di fuori della Picca Nera non dovevano fare troppa strada prima di scoprire una roccaforte o un deposito che non avevano mai visitato prima. Alcune di queste stanze erano piene di tesori per cui i goblin avrebbero combattuto, depredato e risalito scale fino a Re Bitorzolo, il quale avrebbe tenuto per sé i pezzi migliori del bottino e donato ai suoi favoriti il resto. Altre contenevano tendaggi e tappezzerie muffite (che potevano essere trasformate in vestiti), mobili vecchi e pesanti (che potevano essere usati per costruire delle armi), oppure armi (che potevano a loro volta essere usate per costruire altre armi), o pentole, padelle e calderoni da cui i Ragazzi della Picca Nera ricavavano delle armature. Altre stanze ancora ospitavano colonie di grassi ratti neri, molto saporiti, o ossa di uomini e di goblin e altre cose dei tempi passati, ottime da masticare o da usare come graziosi ornamenti (o armi). Altre volte, però, i goblin potevano imbattersi in stanze chiuse o in promettenti scrigni di ferro che, appena aperti, svelavano soltanto rotoli di sottile roba bianca e grinzosa, ricoperta di minuscoli segni neri e contorti, giudicati inutili. Ne avevano trovati molti persino dentro la stessa Picca Nera ed erano stati gettati tutti in un capiente magazzino. “Nettasedere”, era così che i goblin chiamavano quella roba, e a volte ne prendevano una manciata quando andavano alle latrine. Più usualmente, però, giacevano indisturbati, perché raramente i goblin si preoccupavano di pulirsi il sedere.

Breslaw aveva condotto il giovane Skarper proprio in quel magazzino. I nettasedere giacevano lì, in una grande pila in cui si nascondevano dei vermi bianchi. I candidi pipistrelli ciechi di Pietra Spaccata sonnecchiavano attorno alle stalattiti e lasciavano cadere i propri escrementi luminosi sulla pila sottostante, facendola rilucere di un malsano bagliore verdastro. Era alta dieci volte più di Skarper e puzzava tanto quanto Re Bitorzolo. Gli strati più bassi erano diventati poltiglia, ma in cima alla pila c’erano mucchi di libri, fogli, carte, lettere, documenti e disegni.

«Allora, cos’è tutta questa roba?» aveva domandato Skarper, non avendo mai sentito parlare di cose simili.

Breslaw aveva compreso immediatamente di aver fatto bene a portare lì il giovane, perché un «Allora, cos’è tutta questa roba?» tradiva molto più interesse per quelle vecchie scartoffie di quanto qualsiasi altro goblin gli avesse mai mostrato da quando era diventato maestro delle schiuse.

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Aveva preso un grande libro rivestito di pelle e con un artiglio aveva premurosamente grattato via dalla copertina la popò di pipistrello. Poi l’aveva aperto per mostrarlo a Skarper.

«Vedi tutti questi ghirigori neri? Sono ciò che i teneri chiamano lettiere» aveva detto. «Quando metti insieme tante lettiere ottieni una scarola. Ecco cosa sono: scarole. Perché somigliano un po’ a quelle foglioline di insalata, immagino, anche se sono nere invece che verdi e non puoi mangiarle. E quando ci sono tantissime scarole su tanti fogli diversi di nettasedere, si attaccano insieme e ci si mettono sopra, davanti e dietro, questi lembi di pelle per formare un licro. È questo il nome di questa roba: licri.»

Dopo aver dato a Skarper il licro, aveva estratto dalla pila un foglio ripiegato di nettasedere e lo aveva srotolato per mostrargli una serie di sottili scarabocchi tra cui erano scritte delle scarole. «Queste cosette qua sono chiamate mappe» aveva detto. «Tutte queste linee sono le riproduzioni delle cose, vedi? È come un disegno di tutta l’immensità di Pietra Spaccata. Quando i teneri vivevano qua, nel passato, usavano queste mappe per trovare la strada. Osserva» aveva indicato un punto al centro della mappa. «Questa è la vecchia Picca Nera.»

Skarper aveva esaminato le linee con attenzione. Breslaw aveva ragione. Aveva riconosciuto l’appuntito profilo della Picca Nera e le altre torri limitrofe, Capo Rosso e Punta Ardesia e Ciglio Austero, e poi Capo Ciarla, Picca Tetra e Ringhiante, con le mura interne che si stendevano tra loro a formare un anello frastagliato attorno alla grande Fortezza. Qualunque goblin sarebbe stato in grado di riconoscere gli affilati contorni che distinguevano quelle torri, se solo si fosse preso la briga di guardare, ma a eccezione di Breslaw e di Skarper nessuno l’aveva mai fatto, e a parte Skarper, nessuno avrebbe mai pensato di fare ciò che Skarper avrebbe fatto in seguito, ovvero osservare le arzigogolate scarole nere scritte sulla mappa e pensare: Le scarole accanto a Punta Ardesia e a Picca Nera

iniziano con quel grande segno panciuto, P. Ed eccolo di nuovo davanti a Picca Tetra e in mezzo alle scarole accanto a Capo Ciarla e Capo Rosso. Quel grosso segno panciuto, P, potrebbe significare “ppppp”. E forse anche gli altri segni rappresentano dei suoni diversi…

(«Vorrei non aver mai messo gli occhi su quella maledetta mappa!» si lamentò Skarper a seicento metri di quota, continuando a cadere rapidamente.)

Ma ci aveva messo gli occhi sopra, e tutto aveva avuto inizio da quello. Da quel momento, mentre gli altri goblin se ne andavano a scalare le torrette di Picca Nera o si allenavano al combattimento sugli stretti cornicioni o sui bastioni pericolanti, Skarper trovava sempre un modo per sgattaiolare via indisturbato e raggiungere la pila di nettasedere. Lì, alla luce degli escrementi luminosi dei pipistrelli che si spalmava sul naso per illuminare i propri studi, si immergeva nei misteri delle

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lettiere, delle scarole e dei licri. Prima che fossero trascorse troppe lune, aveva già imparato a leggere, usando i nomi sulla vecchia mappa per scoprire quali fossero i suoni di ogni lettiera. Aveva scoperto che, in realtà, le “lettiere” si chiamavano

lettere, che le “scarole” erano parole, e che il vero nome dei “licri” era libri.

Esisteva persino un libro chiamato Dizionario, in cui c’erano liste di parole e altre parole ancora che ne spiegavano il significato. Fu così che Skarper apprese il significato di parole che nessun goblin prima di lui aveva mai conosciuto, parole come gentilezza o gazebo.

C’erano anche altri libri; libri pieni di storie, anche se a volte le ultime pagine erano state smangiucchiate dai vermi bianchi, oppure, quando il finale c’era, Skarper non aveva modo di capire se dicesse o meno il vero. Per esempio, il tizio chiamato Principe Brewyon di Tyr Trewas era davvero stato portato in cielo da una fanciulla di vapore che si era innamorata di lui? Skarper non credeva che esistessero fanciulle di vapore innamorate, e non era nemmeno tanto sicuro dell’esistenza di questi “principi”, anche se ne aveva trovati parecchi nei libri. Il principe Brewyon saltava fuori in un sacco di storie diverse per combattere troll e giganti o per salvare cose chiamate “principesse”.

Gli escrementi di pipistrello piovevano su Skarper. I ragni delle caverne brulicavano attorno ai suoi piedi e dalla sala superiore giungevano i battibecchi dei goblin più grandi, intenti a litigare per il bottino della loro ultima scorreria. Un grido prolungato e un tonfo distante, da qualche parte all’esterno, annunciavano invece la caduta dai bastioni di uno dei giovani arrampicatori. Skarper non si accorgeva di niente. Le storie contenute nei vecchi libri lo portavano lontano da Picca Nera, molto oltre le mura di Pietra Spaccata, e lo conducevano in mondi pieni di misteri e di meraviglie. L’unico posto di cui quei vecchi libri non parlavano affatto era la stessa Pietra Spaccata. Non veniva quasi mai menzionata, tranne per qualche accenno qua e là alla Oscura Torre de Lord Lych che è

chiamata Pietra Spaccata, o a Pietra Spaccata, la Torre dei Lamenti. Quello che

era riuscito a scoprire a proposito di Pietra Spaccata lo doveva alla mappa, che adesso aveva scoperto essere chiamata Mappa di tutta Pietra Spaccata di

Stenoryon. Era stata tracciata molti anni prima, perché rappresentava gli edifici e

le strade ancora tutti interi, senza foreste o paludi all’interno delle mura esterne. Anche la torre di Capo Ciarla, ora ridotta a un moncone, era ancora in piedi. (Ai goblin non piace parlare della torre di Capo Ciarla). A Skarper tanto era bastato per comprendere la grandezza del luogo in cui viveva e per domandarsi come e perché fosse caduto in rovina.

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I GRAN LUNGA TROPPO FURBO

Apprezzando quei nuovi, strani frammenti di conoscenza che aveva rinvenuto nei vecchi libri, Skarper desiderava tanto condividerli con qualcuno. Se solo ci fosse stato qualcuno di simile a lui a Picca Nera, qualcuno con cui potesse parlare…

All’inizio ne aveva parlato con Breslaw, ma poco a poco aveva cominciato a capire che l’anziano maestro delle schiuse lo teneva d’occhio, per cui aveva iniziato a sorvegliarlo a sua volta. Scoprì ben presto i gusci d’uovo rubati, e una volta vide persino la pallina di lentargento, grande come un bulbo oculare, che Breslaw teneva nascosta nel muro dell’incubatrice. Un po’ di quella roba è uscita dal mio uovo di

pietra, aveva pensato. Dovrebbe essere mia di diritto. Era così arrabbiato che di tanto

in tanto pensava di rubare la pallina di lentargento per nasconderla nel proprio buco nel muro, o almeno lo pensò fino a quando non ricordò che Breslaw era nato dalla stessa schiusa di Re Bitorzolo (si vantava sempre del fatto che avrebbe potuto diventare re, se non fosse stato per le parti mancanti del suo corpo). I neonati che rubavano qualcosa a Breslaw finivano dritti dritti da Bitorzolo, e Bitorzolo faceva sempre in modo che le cose si mettessero male per loro. Non vorresti mai ritrovarti

catapultato giù dal tetto, per esempio, si era detto Skarper.

No, non si poteva derubare un vecchio goblin scaltro come Breslaw. Ma non ci si poteva nemmeno fidare di lui, e non gli si potevano certamente raccontare delle cose che lo avrebbero reso più astuto di quanto già fosse.

Invece, Skarper aveva fatto del suo meglio per rendere partecipi i suoi fratelli delle nuove scoperte.

«Gli uomini delle terre basse non nascono dalle pietre come noi goblin» aveva raccontato una sera, nel Trogolo. «Ecco perché li chiamiamo teneri. Crescono nelle pance di certe cose chiamate “signore”.»

I suoi fratelli l’avevano guardato, tanto sbalorditi che qualcuno di loro aveva persino smesso per un attimo di mangiare.

«Cosa?» chiese Chiacchiera.

«Acciughe!» rispose Scoppia Budella. (“Acciughe” era l’unica parola che Scoppia Budella conoscesse. Nessuno sapeva perché, o cosa pensasse che potesse significare. Era tanto grande e violento che nessuno gliel’aveva mai chiesto).

«Allora non c’è da meravigliarsi che i teneri siano deboli come i pipistrelli delle caverne!» disse Piolo.

«Cosa sono le “signore”?» fu la domanda di Strazio.

«Le signore sono quelle con i capelli lunghi» spiegò Chiacchiera. Era il più grande della schiusa e si era già unito a una scorreria presso le città degli uomini lungo Costa Rosicchiata. Amava fare sfoggio di ciò che sapeva riguardo i posti

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lontani. «Strillano e hanno voci più acute degli uomini normali. Odio quando urlano. Mi fanno male alle orecchie come… come…»

«Unghie su una lavagna?» aveva suggerito Skarper. Gli altri lo avevano guardato di nuovo con perplessità. «Cosa sono le “unghie”?» chiese Malloppo.

«Cos’è una “lavagna”?» chiese Piolo. «Cos’è “su”?» chiese Strazio.

«Acciughe!» urlò Scoppia Budella.

«Sta solo dicendo stupidaggini» intervenne Chiacchiera con leggerezza. «Ho visto queste “signore” e non sono più grandi dei normali teneri. Anzi, forse sono più piccole. Non ci sarebbe posto per un uomo intero nelle loro pance.»

«Gli uomini non nascono completamente formati» aveva detto stancamente Skarper. «Nascono piccoli e crescono, proprio come facciamo noi goblin quando usciamo dalle nostre uova di pietra.»

«E io sono cresciuto proprio bene!» concordò Chiacchiera, cogliendo l’occasione per portare la conversazione verso un argomento che non gli facesse sforzare tanto il cervello, e per provare la veridicità dell’affermazione contrasse i muscoli possenti, colpì Strazio e gli rubò la cena. Strazio si rialzò e cercò di spaccare la testa a Chiacchiera con un randello di legno, ma il fratello schivò il colpo e il randello colpì Malloppo. Malloppo morse Chiacchiera; Piolo punzecchiò Strazio con una forchetta e Scoppia Budella sfasciò un tavolo sopra la testa di Malloppo. Skarper aveva preso la propria ciotola di ragni stufati e si era lasciato la zuffa alle spalle, diretto alla pila di nettasedere, dove avrebbe potuto rimettersi a leggere. Avrebbe voluto potersi unire ai loro giochi innocenti, ma sembrava avere sempre meno punti in comune con i suoi fratelli di schiusa. Sapeva talmente tante cose più di loro…

Eppure, alla fine, tutta quella conoscenza lo aveva portato alla caduta, pensò mentre precipitava verso le rocce. Quando si sapevano tante cose, era difficile non provare a spiegarle agli altri, correggerli quando commettevano degli errori. Ma questa non era sempre una buona idea…

Sballottato dalle rigide correnti che ruggivano contro la montagna, Skarper ricordò la notte precedente e la grande adunata della tribù indetta da Re Bitorzolo nel Trogolo.

Tutti i goblin della torre si erano radunati nella sala, dai guerrieri più forti ai mocciosi appena nati. Il re, magnifico nella sua armatura, si era sistemato su un trono speciale presso il focolare. Re Bitorzolo era un goblin gigantesco, grande quasi quanto un umano, ed era per questo che era riuscito a diventare il sovrano. Il suo muso grinzoso era scavato dalle cicatrici riportate in innumerevoli razzie e battaglie, e portava una benda nera per coprire il naso mancante. Quando gridava,

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le zanne scintillavano: «Grandi notizie, ragazzi! Domani notte, noi ci uniremo ai Giovani del Pazzo Manaccan e ai Berretti Piccanti di Capo Rosso per attaccare in massa le torri del fronte orientale!»

Le torri del fronte orientale – Ciglio Austero, Picca Tetra e Ringhiante – ospitavano tribù di goblin impertinenti che di recente erano state sorprese a saccheggiare le vecchie armerie all’ombra della Picca Nera. Era ora che gli venisse data una bella lezione e le loro torri potevano anche essere colme di tesori. Una scorreria che le coinvolgesse tutte poteva ricondurli a casa carichi di bottini. I Ragazzi della Picca Nera avevano esultato e il rumore era riecheggiato tra le travi che sostenevano il soffitto della sala dei banchetti.

Il Vecchio Breslaw, in piedi accanto al re, aveva annuito solennemente. L’idea della razzia era sua, non c’erano dubbi – Bitorzolo e i suoi capitani erano grandi e forti e bravi a colpire, ma non avevano mai qualcosa di simile a un’idea; a Picca Nera, era Breslaw quello che pensava. Ciò nonostante, finché avesse ricevuto la sua parte di bottino, non avrebbe mai tolto il merito a Bitorzolo, che aveva continuato a sbraitare mentre lui aveva sollevato un ombrello stracciato per proteggersi dagli sputi regali che erano caduti come pioggia sul muso dei goblin in prima fila.

«Li attaccheremo dal lato orientale e li uccideremo tutti, e prenderemo il loro oro e l’argento e tutto il resto. E voi, ragazzi, sarete proprio l’avanguardia: il martello della Picca Nera! Dimostreremo alla gente del Pazzo Manaccan e ai Berretti Piccanti di Capo Rosso il motivo per cui i Ragazzi della Picca Nera sono i migliori… i migliori… i migliori pirati di terra di tutta Pietra Spaccata!»

Skarper, con la testa piena di fatti e parole, aveva sollevato una zampa proprio in quel momento. Re Bitorzolo aveva notato il movimento e si era interrotto. Preso dalla stizza, aveva dimenticato cosa stava per gridare e aveva fissato Skarper con i suoi occhi dorati. Aveva grugnito e si era chinato in avanti per esaminare quel piccolo esserino secco secco che non aveva mai notato prima, ma che aveva fatto ciò che nessun altro aveva mai osato fare: interromperlo. I bagliori del fuoco rilucevano intensamente sulle lastre della sua armatura e sulle punte delle zanne macchiate.

«Che c’è?» aveva chiesto.

«I pirati di terra non esistono, vostra maestà» aveva risposto Skarper, a disagio. Sentiva di aver commesso un errore ma non poteva tornare indietro.

Un bagliore era avvampato negli occhi del re goblin, come se qualcuno avesse alimentato un fuoco che vi si celava dietro. (In profondità, sotto le radici delle Creste d’Ossa, il lago di lava risplendeva più o meno allo stesso modo.) «Derubiamo la gente» aveva risposto. «Sfondiamo porte, bruciamo case e uccidiamo le persone per tornarcene a casa carichi di tesori. Cosa potremo mai essere se non pirati di terra?»

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«Il fatto è che i pirati, solitamente, agiscono in mare aperto» aveva spiegato Skarper. La sua voce si era fatta sottile sottile ma era ancora udibile nel silenzio carico di sgomento che era calato sulla caverna del Re. «Siamo banditi, vostra reale immensità. O briganti.»

«Briganti?» aveva domandato Bitorzolo.

«Sì, vostra magnificenza. Brigante: nome. Chi vive di rapine, di solito appartenente a una compagnia di ladri di ventura.»

All’udire la definizione di brigante presa dal Dizionario, il re aveva vacillato come se fosse stato colpito da un martello da guerra. Non aveva ben capito cosa fosse stato detto, ma quella definizione gli sembrava roba da teneri, e Bitorzolo non aveva tempo per i teneri. «Cosa hanno mai fatto di buono i teneri?» chiedeva spesso ai suoi goblin, prima di tuonare in risposta, in coro con loro: «Niente!» (Anche se, in realtà, c’era un’invenzione dei teneri da cui era segretamente impressionato. Ammirava le mutande dei teneri, così comode e morbide e calde. Ne aveva rubato un paio di graziosa flanella rosa, enormi, ornate di pizzi, e le indossava sempre per proteggere il proprio sedere dalle gelide correnti d’aria della Picca Nera e dalla scomoda durezza del trono reale. Le nascondeva per bene sotto l’armatura e sotto i calzoni di pelle di capra, è ovvio: non avrebbe mai permesso che i suoi goblin lo vedessero indossare un paio di mutandoni di pizzo rosa.)

E non si sarebbe neppure mai lasciato contraddire da un giovane esserino come Skarper. I goblin della Picca Nera si lasciavano comandare da Bitorzolo solo perché sapevano che dispensava orribili punizioni a chiunque osasse contestarlo. Aveva fissato Skarper per un momento, cercando di pensare a qualcosa di adeguatamente cattivo per punirlo.

Per fortuna non dovette sforzarsi troppo. I goblin della Picca Nera avevano collaudato un modo per occuparsi dei piccoli ribelli o impertinenti.

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S

VENTURATI

A

TTERRAGGI

La marmocchiopulta si trovava sul pinnacolo più alto della Picca Nera da tempi immemori. Era stata progettata per lanciare sassi e pentole di olio bollente contro gli eserciti nemici giunti ad assediare la città, ma a nessuno interessava più assediare Pietra Spaccata e quando i goblin delle altre torri attaccavano la Picca Nera, i ragazzi di Re Bitorzolo si limitavano a gettare pietre dalle finestre più alte. Adesso la marmocchiopulta veniva usata prevalentemente per divertimento e per i goblin non c’era niente di più divertente di catapultare in aria un marmocchio irriverente e assistere al suo sfracellarsi a terra molto, molto più in basso.

Era costruita con legname, pietra, ferro, ossa, vecchi manici di piccone, pelle di pony delle miniere e qualsiasi altra cosa potesse capitare tra le grinfie di un goblin e potesse essere trasportata sulle ripide scalinate di pietra della torre. Era coperta di neve e il lungo braccio era costellato di ghiaccioli, e Skarper aveva tremato per il freddo notturno mentre veniva legato e abbandonato nell’ampio cucchiaio.

Re Bitorzolo avrebbe desiderato lanciarlo non appena avessero raggiunto la marmocchiopulta, ma era ormai sceso il buio e gli altri goblin si erano lamentati del fatto che non sarebbero riusciti a vederlo cadere, e quella era la parte migliore dello spettacolo. «Potremmo dargli fuoco» aveva suggerito qualcuno, ma il vento del nord ululava attorno alla torre e faceva vorticare sottili fiocchi di neve, rendendo impossibile incendiare Skarper. Così lo avevano lasciato lì ed erano tornati nel Trogolo, decidendo di tornare l’indomani mattina.

E se domani ci fosse un gran nebbione? si era domandato mentre giaceva nel

cucchiaio, legato, rammaricato e mezzo assiderato. Aveva osservato l’enorme Fortezza che si profilava nella notte. Era quasi sempre celata dalle tenebre, ma a volte la tempesta si placava e il cielo si rischiarava per un attimo, mostrando le finestre nere e i bastioni deserti. La Fortezza di Pietra Spaccata, senza porte di accesso, era impenetrabile e piena di misteri. Non somigliava nemmeno alle torri e alle mura che gli erano state costruite intorno: era più antica e non sembrava essere stata eretta pietra dopo pietra, ma pareva intagliata in un unico costone di pietra nera e liscia. I goblin avevano provato ad entrarvi per depredarla, ma non c’era modo di farvi breccia: alla morte di Lord Lych, ogni porta e ogni finestra della Fortezza erano state sigillate con una poltiglia densa e scura chiamata Vetro di Lych, inattaccabile dagli strumenti dei mortali, che non riuscivano neppure a scalfirla. I tesori e le meraviglie della Fortezza erano state chiuse dentro per sempre.

Le leggende dei goblin dicevano che la Fortezza era ancora abitata da esseri viventi: servitori di Lord Lych in attesa del giorno del suo ritorno, ma Skarper non

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ci aveva mai creduto. Fino a quel momento, almeno… Aveva sbirciato di traverso, verso l’alto, immaginando di essere osservato da occhi freddi e tremendi, e per un momento, per un solo momento, gli era parso di vedere una luce, una luce impossibile dietro a una di quelle finestre vuote.

Poi la neve era tornata a turbinare e, con essa, i pensieri di Skarper tornarono alla nebbia. Se domani ci fosse la nebbia, non riuscirebbero a vedermi cadere.

Dovrebbero aspettare che si diradi… E a volte ci volevano giorni prima che la

nebbia si diradasse, lassù, attorno alla vetta della Picca Nera. Avrebbe potuto morire di fame nel cucchiaio della marmocchiopulta in attesa che il tempo migliorasse. Si era chiesto se morire di fame sarebbe stato meglio che ritrovarsi spiaccicato sulle rocce ai piedi della torre, ma non era riuscito a decidersi e si era abbandonato a un sonno inquieto, pieno di preoccupazioni.

Fu fortunato, o forse no. La mattina seguente il sole era sorto splendente e luminoso, e appena si era profilato sopra le torri orientali, un manipolo di goblin si era riversato fuori dalla Picca Nera per assistere allo spettacolo. Testa Marcia, il vice-comandante di Bitorzolo, aveva tagliato le corde con cui Skarper era legato, perché sarebbe stato più divertente vederlo precipitare mentre agitava braccia e gambe. Chiacchiera, Strazio, Piolo e Malloppo avevano scommesso su quanto tempo avrebbe impiegato a toccare terra e se avrebbe colpito qualcosa di interessante durante la caduta. «Acciughe!» aveva gridato Scoppia Budella, mentre Breslaw, il maestro delle schiuse, aveva scosso tristemente la testa.

Re Bitorzolo aveva sfoderato la spada. Era uno spadone massiccio e, anche se non era riccamente ornato come molte altre spade, sembrava pervaso da una specie di magia tetra: si diceva che la sua lama potesse fendere persino la pietra. Bitorzolo aveva sentito dire che i re e gli eroi dei regni degli uomini davano un nome alle loro spade, così aveva battezzato anche la propria e l’aveva chiamata “Signor Ti-Faccio-A-Pezzi”. L’aveva sollevata e la luce del sole ne aveva arrossato la lama.

«Questo» aveva urlato, «è per essere di gran lunga troppo furbo!»

Signor Ti-Faccio-A-Pezzi era calata di colpo, strappando la fune che tratteneva il cucchiaio della marmocchiopulta. Il braccio di legno era scattato in alto ed era andato a sbattere contro l’intelaiatura che lo racchiudeva. I ghiaccioli erano volati via in un allegro tintinnare e Skarper era volato via con loro, come tanti giovani goblin impertinenti prima di lui, sfrecciando su nel vuoto, sopra la torre.

«Aaaaaaaaaaaah...»

I goblin avevano esultato e si erano assiepati ai margini del tetto per guardarlo cadere.

Cadde giù, giù e ancora più giù, circondato dalla scorta di ghiaccioli che era schizzata in aria con lui. A volte cadeva col muso rivolto verso il cielo aperto,

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altre volte a faccia in giù. Era peggio cadere col muso in giù perché, con l’avvicinarsi del terreno, Skarper riusciva a vedere oltre le nuvole. Gli scheletri spappolati delle vittime della marmocchiopulta giacevano sparpagliati attorno al contrafforte come ciottoli ai piedi di una scogliera. Mentre cadeva, gli occhi gli si riempirono di lacrime che si sollevavano nella sua scia, simili a gocce di pioggia. Erano lacrime d’amarezza, perché stava rimpiangendo ogni istante passato con i libri e con le parole. Strazio e Chiacchiera e tutti gli altri avevano ragione: a cosa gli era mai servito studiare le storie di terre lontane e di re dimenticati da tempo? Erano pochi i goblin che si erano avventurati fino alle mura esterne di Pietra Spaccata: a cosa serviva conoscere le terre che si estendevano ben oltre? Molte delle cose che aveva letto erano probabilmente già cambiate, e non credeva fossero mai esistite persone come il Principe Brewyon, né luoghi come Coriandolo o Tyr Trewas. E per quanto riguardava le fanciulle di vapore innamorate, chi mai poteva bersi una stupidaggine simile?

Si udì un leggero rumore, come uno strappo, poi una folata più forte, e Skarper atterrò pesantemente su qualcosa che cedette sotto il suo peso, come la superficie di un acquitrino. Sono morto! pensò prima di rendersi conto che, se stava pensando, non poteva essere morto davvero. Aprì gli occhi che aveva chiuso durante l’impatto, non volendo vedere parti di sé sparpagliate per tutto il terreno.

Giaceva in una lanugine spessa, bianca e cotonosa alla fine di una specie di lungo cunicolo a forma di Skarper. Le pareti del cunicolo erano fatte della stessa lanugine candida e, in alto, oltre il profilo della sua sagoma a braccia e gambe spalancate, si intravedeva il cielo azzurro. Si accorse di essere precipitato su una nuvola che stazionava a bassa quota e di esservi sprofondato in mezzo.

Nell’attimo in cui pensava a tutto questo, sulla sommità del cunicolo apparve un viso che sbirciava in basso. Era un viso bianco come la nuvola, con tanti capelli fumosi. Quando vide Skarper, aggrottò la fronte e si incupì, assumendo una tonalità di grigio. «Cosa ci fai nella nostra nuvola?» domandò.

Skarper passò al vaglio della memoria tutti i libri che aveva letto, alla ricerca di una risposta adeguata, o almeno cortese.

Intanto, altre teste stavano facendo capolino in cima al buco. «Cos’è, sorella?» chiese una di loro.

«È un principe?» chiese un’altra, speranzosa. «Certo che no! È troppo piccolo.»

«Forse potrebbe essere un principe molto piccolo?» «E ad ogni modo, cosa ci fa quassù un principe?» «È solo un orribile goblin!»

«Prendetelo!» ordinò la prima fanciulla di vapore. Divenne scura come una nube temporalesca e contorte scintille di fulmine iniziarono a danzarle tra i capelli di fumo.

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«Se non vi spiace» invocò Skarper, speranzoso, «io sono d’accordo. Adagiatemi dove volete e non vi causerò più alcun problema.»

Le fanciulle di vapore lo guardarono con sospetto.

«È molto educato per essere un goblin» disse quella che aveva sperato fosse un principe.

Ma le altre si rabbuiarono fino a diventare nere e sputarono fulmini e saette. «Adagiarlo a terra? Ma che idea! Sorelle, dobbiamo scagliare questa creatura in cielo prima che sia il suo peso a trascinare noi a terra!»

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N

EI

B

OSCHI

«Prendetelo!»gridarono le fanciulle di vapore.

Ma Skarper non aspettò di essere preso. Aveva passato abbastanza tempo a scappare dagli altri goblin per sapere quando era giunto il momento di tagliare la corda. Cominciò a contorcersi e a dimenarsi sotto la fanciulla di vapore che lo assediava e scoprì che aveva la consistenza della neve fresca. Poteva calciarla via e farsi strada con le mani. Rigirandosi sulle mani e sulle ginocchia, iniziò a scavare come un cane, spalando via grandi manciate di vapore condensato che una volta gettate oltre la spalla risalivano fluttuando verso la sommità del cunicolo. A giudicare dalle grida e dai sibili che giungevano dall’alto, Skarper immaginò che le fanciulle di vapore non gradissero consentirgli di fare altri danni a casa loro e, quando guardò su, vide che molte di loro avevano cominciato a discendere il cunicolo per raggiungerlo, aggrappandosi alle pareti vaporose come scalatrici decise a conquistare il fondo di una parete innevata. Lo osservavano con espressioni adirate e occhi duri e splendenti come chicchi di grandine. Nelle mani eteree tenevano lame di ghiaccio.

Skarper piagnucolò e scavò più in fretta. Dopotutto avrebbe preferito schiantarsi contro le rocce, piuttosto che finire fatto a pezzi da quelle fanciulle inferocite. Scavò e scavò, artigliando grandi manciate di nuvola che gettava freneticamente oltre la spalla, facendosi strada in quel cunicolo sempre più profondo. E più scendeva, più la nube diventava scura. Le manciate che artigliava si fecero ben presto più umide e pesanti, impastate di grandine o intrise di pioggia come spugne grigie e fredde. Alla fine, attraverso una fenditura della nuvola, riuscì a intravedere la luce del giorno.

Una mano di nuvola si allungò verso di lui e gli afferrò il ciuffo di peli con cui terminava la sua coda. La presa era sorprendentemente forte, considerando che la mano che la esercitava era fatta di vapore, ma non era forte abbastanza per la gravità che, nello stesso momento in cui il fondo della nuvola terminò sotto di lui, attrasse Skarper verso il basso. Penzolò per un istante, urlando, «Lasciami andare! Lasciami andare!» ancora sospeso per la coda che la fanciulla di vapore tirava e tirava, allungandola e assottigliandola. Alla fine si strappò, e Skarper tornò a precipitare. Stavolta, però, atterrò nel fango con un tonfo sordo, pochi metri più in basso.

Alleggerita del peso del goblin, la nuvola schizzò verso l’alto, risucchiata dalla brezza che risaliva dalla base della Picca Nera. Alcune parti della nube si erano staccate dal corpo centrale e fluttuavano come vessilli stracciati e Skarper riuscì a vedere le fanciulle di vapore che si agitavano come marinai sul ponte di una nave nel tentativo di rimetterle a posto. Si domandò come aveva potuto non accorgersi di nuvole tanto interessanti prima di allora. Forse erano delle rarità e le loro abitanti rimanevano nascoste alla vista dei curiosi. Era un peccato che fossero così poco

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amichevoli, pensò mentre disperdeva via dalla coda ciò che rimaneva delle dita fumose della fanciulla di vapore. Gli sarebbe piaciuto chiedere loro com’era la vita su nel cielo.

Si alzò tremante e si guardò attorno. Si trovava in un piccolo acquitrino desolato a circa un chilometro dai piedi delle mura interne, alimentato da un corso di acqua fresca che era straripato dal proprio canale e si era esteso in un campo d’erbaccia, la piazza tra due enormi edifici ormai in rovina. Ai margini della palude si vedevano ancora i resti dell’antica pavimentazione, le enormi lastre di pietra crepate e coperte dagli alberi deformi che vi erano cresciuti in mezzo.

Sono fuori dalla Picca Nera! si rese conto d’improvviso. Oltre le mura interne!

Non avendo mai messo piede fuori dalla torre in cui era nato, gli enormi spazi che lo circondavano, più estesi e luminosi delle sale e dei corridoi a cui era abituato, lo spaventarono. Per tutta la vita aveva cercato la pace e la quiete lontano dagli altri goblin e adesso che aveva trovato il posto adatto, scoprì che sentiva la mancanza dei loro rumori, dei continui schiamazzi, degli alterchi, dei grugniti, dei peti e dei rutti. Per un attimo ebbe la tentazione di correre in direzione delle mura interne, di dare la scalata alla Picca Nera, di dire che era dispiaciuto e di chiedere a Re Bitorzolo che lo perdonasse. Ma i goblin non erano bravi a perdonare. Decise allora che avrebbe dovuto trovarsi una nuova tana. Guardò verso sud, verso gli antichi bastioni e le torrette che si ergevano in mezzo agli alberi, tra la Picca Nera e le mura esterne. Avrebbe potuto nascondersi in una di quelle strutture, no? Si sarebbe rintanato lì per un po’ e avrebbe pensato al da farsi. Forse potevano anche esserci dei tesori da scoprire, qualche vecchio gingillo dimenticato in quelle vecchie costruzioni. Avrebbe racimolato un bel tesoro nuovo tutto per sé. O forse potevano anche esserci altri goblin da quelle parti, qualche piccola tribù di reietti a cui non avrebbe dato noia l’arrivo di un nuovo elemento…

Così voltò le spalle a casa propria, si trascinò fuori dall’acquitrino e si mise in marcia verso sud, seguendo un’ampia strada lastricata e fermandosi di tanto in tanto a sgranocchiare un po’ di quei cardi selvatici rinsecchiti che crescevano ad altezza d’uomo tra le pietre.

All’inizio, il limitare della strada era segnato dalle macerie degli edifici caduti. I comignoli delle case diroccate svettavano come dita scheletriche tra le pozze che si erano formate laddove l’acqua aveva allagato i vecchi scantinati. Poi, quando iniziava a declinare, lontana dalla Picca Nera, la strada incontrava gli alberi. Skarper li vide farsi sempre più fitti, finché non sembrarono chiudersi sopra il passaggio, creando una sorta di tunnel vegetale. Si sentiva a disagio. Sapeva ben poco circa gli alberi e quegli affari rampicanti. Gli arbusti che germogliavano tra le crepe della Picca Nera erano buoni da mangiare, ma questi alberi enormi erano così grandi e

vecchi, e gli scricchiolii e i fruscii delle foglie avevano il suono dei sussurri segreti.

Skarper non poté fare a meno di notare la facilità con cui le loro radici avevano crepato e frantumato le imponenti lastre di pietra.

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Avanzò a passo sempre più lento e stava quasi per voltarsi quando udì un crepitio. Ci fu un lampo di luce, poi un paio di ontani poco distanti presero improvvisamente fuoco. Skarper urlò e guardò a destra e a sinistra, e poi in alto. La nuvola da cui era caduto si era ricomposta e stava fluttuando sopra la sua testa, nera come una lastra d’ardesia e gonfia di fulmini che le saettavano nella pancia. Sembrava un mostro peloso, brutto e infuriato, con le zampe elettriche.

Skarper scappò via correndo, mentre i fulmini ricadevano tutto attorno a lui, sfrigolando nel momento in cui colpivano l’acqua o dando vita a piccoli incendi quando incontravano l’erba secca tra le pozze. Oltre il rombare del tuono e gli scoppiettii elettrici dei fulmini si udiva anche un altro suono: le risate acute e sprezzanti delle fanciulle di vapore infuriate.

Zigzagò tra le ramificazioni del fuoco pallido, saltò oltre alcune colonne cadute che erano collassate sulla vecchia strada e sprintò in direzione dei margini del bosco. Gli alberi, in quel momento, gli apparvero molto più accoglienti che ostili. Grandi e spogli nella stagione invernale, avevano intrecciato i loro rami frangiati di licheni a formare una gabbia di oscurità verdeggiante. Non appena fosse riuscito a nascondersi lì sotto, le fanciulle di vapore non avrebbero più potuto vederlo, no di certo…

Zzzzzzzap! Un fulmine gli sfrecciò accanto all’orecchio, facendogli drizzare i

capelli.

Friiiitzzzz! Un secondo fulmine si schiantò in una pozzanghera, proprio di fronte

a lui, e si tramutò in vapore bollente.

Craaaaac! Una sfera di fuoco stregato volteggiò al suo fianco e mandò in mille

pezzi un macigno poco distante.

Skarper corse a scatti tra le esplosioni e si tuffò al riparo del bosco. Escoriato e ansimante, rimase sdraiato su un letto di muschio umido e spesso ai piedi di un albero caduto, mentre il cuore gli martellava furiosamente nelle orecchie, come tutti i tamburi da guerra di tutti i goblin di Pietra Spaccata.

Le fanciulle di vapore diressero la nuvola temporalesca sopra di lui e cercarono di scorgerlo attraverso il fitto intreccio dei rami degli alberi. «Ehi, goblin!» urlarono. «Vieni fuori, piccolo goblin!» Gli scagliarono contro qualche altro fulmine, giusto per divertimento, poi lasciarono che il vento risollevasse la loro nuvola e la portasse a oriente, verso le altre nubi che fluttuavano sopra le Creste d’Ossa.

Prima di scivolare fuori dal suo nascondiglio, Skarper attese che le loro voci si fossero affievolite del tutto. Controllò ogni centimetro di cielo alla ricerca di una qualsiasi nuvola in agguato, quindi si rimise in marcia tra gli alberi. Doveva cercare una nuova casa.

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H

ENWYN

Skarper si era aspettato che il troll lo oltrepassasse per andare dritto incontro al tenero, più grande, più morbido e più buono da mangiare. Invece, per sua grande sorpresa, la creatura gli afferrò una gamba, lo sollevò in alto di fronte alla faccia e lo fissò con quei suoi occhi neri e acquosi. Quando spalancò le fauci piene di denti acuminati per inghiottirlo, Skarper comprese che i troll erano davvero stupidi…

E il tenero doveva essere ancora più stupido. Partì alla carica e cercò di affondare la spada spuntata e arrugginita nel petto del troll, proprio sotto la testa del goblin ciondolante. Non aveva mai sentito dire che la pelle dei troll era dura come la pietra? La spada vi rimbalzò contro e cadde tintinnando sulle lastre di pietra, mentre il tenero gridava e si stringeva la mano dolorante sotto l’ascella. Il troll gli fece volare via il cappello e lo sollevò da terra, tenendolo stretto per i ricci dorati. Fu allora che Skarper riuscì a scalciare col piede libero e a ficcargli un tallone in un occhio. Il troll grugnì e indietreggiò. Sbilanciato dal peso della preda che provava a divincolarsi, inciampò contro il parapetto del ponte. Le vecchie pietre coperte d’edera cedettero e caddero tutti, umano, troll e goblin, giù nelle acque fredde che turbinavano sotto il ponte.

Il troll lasciò andare Skarper, ma la situazione non migliorò affatto: l’acqua non è l’elemento che i goblin preferiscono. Andò a fondo, tossendo e dimenandosi, finché una mano non lo riacciuffò, lo riportò a galla e quindi a riva. Il tenero lo lasciò lì e tornò a voltarsi verso il fiume, estraendo un pugnale dal fodero appeso alla cinta mentre gli spruzzi d’acqua si sollevavano attorno alla sagoma del troll che riemergeva, ruggendo, in cerca della propria preda.

«Da questa parte, razza di demonio!» urlò il tenero, agitando la piccola lama. «Ehi! Ssssst! Zitto! Non attirare la sua attenzione! La fuga è la nostra unica speranza!» sibilò Skarper. Acciuffò un’estremità del mantello bagnato del tenero e cercò disperatamente di strattonarlo indietro.

Troppo tardi. Le grida e lo scintillare della lama avevano attirato l’attenzione del troll, che girò la grossa testa e ruggì furiosamente in direzione del duo sulla sponda del fiume.

Per fortuna, il parapetto del ponte stava ancora cadendo a pezzi. Un’enorme lastra di pietra stava ancora traballando, per metà sospesa sul fiume e per metà trattenuta da un intrico di fusti d’edera. Il ruggito della creatura spezzò l’ultimo appiglio vegetale e la pietra cadde, precipitando sul cranio piatto del troll con uno spaventoso tonfo sordo. Il troll crollò in acqua e non si rialzò più; vennero a galla alcune bolle d’acqua, subito spazzate via dal turbinare del fiume. Le rapide bianche si tinsero di una tonalità rossastra, rugginosa.

«Vittoria!» strillò trionfante il tenero, pugnale sollevato in alto, avvicinandosi al punto del fiume in cui si era inabissato il troll. «Devo tagliargli la testa!»

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«Non con quel pugnale. Non ce la farai» gridò Skarper di rimando, continuando a trattenere e a tirare indietro l’estremità lacerata del mantello del tenero. «Non sai che il re di Coriandolo fa indossare armature di pelle di troll alla proprie guardie del corpo? Deflettono i colpi della maggior parte delle armi forgiate dagli uomini.»

Il tenero si voltò a guardarlo e i suoi grandi occhi azzurri brillarono, dubbiosi. «Sei stato a Coriandolo?»

«Ho letto qualcosa in un libro» rispose Skarper. «E in un altro libro c’era scritto che le ossa di troll sono dure come rocce montane» aggiunse, ricadendo all’indietro sull’argine quando il tenero si voltò per raggiungerlo.

«Pensi che abbia soltanto perso i sensi?» chiese, allontanandosi dall’acqua. «Non rimarrei nei dintorni per accertarmene» rispose Skarper.

«In effetti non sarebbe una mossa saggia» concordò il tenero, dimostrando per la prima volta un briciolo di buon senso. Risalirono insieme l’argine del fiume e raggiunsero la strada, correndo via finché non si furono lasciati alle spalle il fiume e il suo gorgogliare non giunse debole e distante, ovattato dagli alberi. Il tenero aveva recuperato le proprie cose e la spada, e quando si fermarono a riprendere fiato e a strizzare via l’acqua dagli abiti bagnati fradici, Skarper gli rivolse un’occhiata diffidente.

«Henwyn» disse il tenero. «Eh?»

«È il mio nome. Henwyn di Adherak.»

Gli porse la mano, ma Skarper non aveva idea di cosa avrebbe dovuto farci, così si limitò a guardare il tenero da capo a piedi. Non è molto diverso da un

moccioso, pensò. Forse è per questo che è così stupido…

«Devi essere un uomo di grande cultura» continuò Henwyn con fervore. «Per aver letto libri e cose simili. Spero che tu possa perdonarmi per aver provato a… Beh, ti ho scambiato per un troll, lo sai. Era abbastanza comprensibile. Sei sgusciato fuori dal ponte in quel modo, e poi hai un aspetto così strano. Non prendertela se te lo dico, eh. Da dove vengo io, a Adherak, la gente è più alta di te e, beh, è anche diversa. Quindi, appena ti ho visto, ho subito pensato che…»

Si interruppe e si inchinò di colpo, lasciando cadere la spada a terra. Il suo tintinnare innervosì Skarper, che balzò indietro.

«Consentimi di fare ammenda e di porre la mia spada al tuo servizio. Sarei lieto di accompagnarti in queste terre desolate. Pietra Spaccata brulica di razziatori brutali, goblin della peggior risma, orribili e maligni.»

«Davvero?» domandò Skarper, dedicando un’occhiata sghemba al compagno di viaggio. Quell’idiota non poteva non aver notato le orecchie da goblin, gli artigli da goblin e la coda da goblin che spuntava dal suo spesso giustacuore di pelle da goblin. «E come sono fatti questi goblin?» volle informarsi.

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«Oh, sono bestiacce grosse e corpulente» spiegò Henwyn. «Sono più alti e più grossi degli uomini. Indossano armature di ferro, hanno zanne rosse e luccicanti e tremendi occhi appuntiti.»

«Ne sei sicuro?»

«Potrei confondermi per quanto riguarda zanne e occhi, ma sì, ne sono abbastanza sicuro. Questo è quello che dicono tutte le storie e le canzoni. Si dice che infestino le torri attorno alla grande Fortezza, ma chi può dire fin dove potrebbero spingersi in cerca di tesori e di vittime? Ho come la sensazione di potermi trovare in prossimità di un goblin anche qui, su questa strada…»

«E allora cos’è che ti ha portato fin qui?» chiese Skarper, senza tradurre in parole un pensiero. Non hai idea di quanto sia prossimo…

«Oh, ma io sono un eroe!» replicò Henwyn a cuor leggero. Poi, presagendo che Skarper non gli credeva, aggiunse: «O almeno, voglio diventare un eroe. Come quelli delle vecchie favole. Sono un ragazzo di umili natali ma ho sempre saputo di essere destinato a grandi gesta. Mia madre è una discendente di Re Kennack, sai? Figlia di eroi. Così ho deciso di mettermi alla prova come eroe. Uccidere mostri, salvare principesse. Ma di questi tempi non c’è molta richiesta di eroi a Adherak. Ecco perché sono venuto a Pietra Spaccata. Non sono ancora incappato in chissà quali grandi imprese, per ora, a meno che tu non conti la storia del troll, e non è stata proprio un’impresa, quanto un incidente. Vorrei tanto aver potuto prendere la sua testa…»

Quando fece una pausa per lanciare un’occhiata pensierosa in direzione del fiume, Skarper disse, «Quindi hai deciso di metterti a vagare per le rovine in cerca di qualcosa di eroico da fare?»

«Oh no» replicò Henwyn. Si sedette al margine della strada, sul muschio, si tolse gli stivali, li girò per far scolare via l’acqua e li indossò di nuovo. «No, no. Sto andando al Cancello Occidentale.»

Skarper socchiuse gli occhi e richiamò alla memoria la mappa di Stenoryon. «E perché?»

«È lì che abita il gigante Fraddon» rispose Henwyn.

Non aveva senso. «Non so cosa sia un gigante fraddon» replicò. «Non so nemmeno cosa sia un fraddon di dimensioni normali.»

«No, il gigante si chiama Fraddon» spiegò Henwyn. «Si tratta di un gigante molto cattivo. C’è una canzone che parla di lui, ‘La Ballata della Principessa Eluned’. Parla del modo in cui rapì la Principessa Eluned da Lusuenn e la tenne prigioniera nell’antica fortezza di guardia del Cancello Occidentale, qua, in queste terre malvagie. È orecchiabile. Posso cantartela?» E, senza aspettare una risposta, cominciò a intonarla con una vocetta sottile e stonata:

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«Oh, era una mattina d’estate, un martedì, da quel che dice la gente, quando la principessa di Lusuenn salpò, sfruttando del mare la forte corrente…»

«Un’altra volta, magari» tagliò corto Skarper. Anche se non conosceva quella canzone in particolare, la pila di nettasedere era piena di libri che ne contenevano altre e alcune andavano avanti per pagine e pagine.

Henwyn si zittì. «D’accordo. Ad ogni modo, se riesco a salvare la Principessa Eluned e a uccidere il gigante, il re di Lusuenn mi darà una ricompensa: metà del regno e la mano di sua figlia.»

«La mano?» domandò Skarper (le usanze degli uomini gli erano sconosciute). «E tutto il resto, ovviamente. O almeno, è così che vanno le cose di solito. Lusuenn è un piccolo regno, ma sarebbe un buon inizio, e la canzone dice che la Principessa Eluned è una gran bellezza…»

Si interruppe di nuovo e si guardò attorno, perplesso, perché Skarper aveva iniziato a emettere strani suoni scricchiolanti e gracidanti che si rivelarono essere una risata.

«Tu?» gracchiò Skarper. «Tu vuoi sconfiggere un gigante? Con quel coltello da burro? Ah ah ah ah!»

«Non riesco a capire cosa ci sia di tanto divertente» sbuffò Henwyn. «Sono un eroe e questo è proprio il genere di cose che fanno gli eroi.»

Skarper scosse la testa. Non c’era niente di divertente. Era triste, semmai. I libri della pila di nettasedere parlavano dei giganti e una volta, dall’alto del tetto della Picca Nera, lui e Breslaw ne avevano visto uno che si aggirava tra le rovine, a nord. «Le vecchie creature stanno riemergendo dalle Creste d’Ossa e dalle Foreste Ingarbugliate» aveva detto Breslaw. «Le terre degli uomini non possono più ospitarle, quindi vengono a insediarsi a Pietra Spaccata. Ecco perché il goblin saggio se ne sta al sicuro entro le mura interne.» Il gigante era molto lontano e la nebbia si alzava dalle aree paludose a nord delle mura interne, quindi era difficile dire quanto fosse stato alto, ma lo era abbastanza da scoperchiare i tetti degli edifici come se fossero tanti piccoli scrigni. Ci vorrebbe un intero esercito di

teneri per sconfiggerlo, pensò Skarper.

«Sono arrivato dal Cancello Meridionale perché sembrava la via più facile. Se avessi costeggiato le mura, ci sarebbero stati tutti quegli acquitrini e quei burroni» disse Henwyn. «Avevo sperato di trovare un sentiero nel bosco fino al Cancello Occidentale. Tu ne hai trovato uno, amico mio?»

Skarper fece spallucce. La strada che aveva percorso si era biforcata in mille sentieri, ma non c’era modo di indovinare dove conducessero. «Dovrai seguire l’intuito» rispose bruscamente, indicando un punto a caso verso ovest, laddove sottili raggi di luce dorata filtravano tra gli alberi.

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Henwyn non sembrò prendersela. «Molto bene. Il percorso tra questi alberi infestati sembra difficile e pericoloso, ma è il fato a condurmi su questa strada. Vuoi seguirmi lungo questo sentiero, Maestro… ehm?»

«Skarper» rispose. «E no, sto andando verso sud...» Non sapeva dove l’avrebbe condotto il suo fato, ma sapeva che non ci sarebbero stati giganti. O aspiranti eroi. Alzò una zampa per salutare e si affrettò a raggiungere la strada, guardandosi indietro un paio di volte soltanto. La prima volta vide Henwyn in piedi che lo osservava. La seconda volta, la strada era deserta. Si fermò e gli parve di udire la flebile voce del giovane uomo che cantava tra gli alberi, dirigendosi verso ovest.

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I

L

F

ORMAGGIAIO DI

A

DHERAK

Fermiamoci un momento e diamo un’occhiata a Henwyn che, intrepido e fradicio, se ne va in cerca di avventure, facendo cic ciac ad ogni passo. Alto, magro, ricciolo: sembrerebbe davvero un eroe, se non fosse per la tunica fuori moda e il mantello umido e stracciato. «Sono un ragazzo di umili natali» era ciò che aveva ripetuto a tutti quelli che aveva incontrato sul proprio cammino da Adherak, «ma mia madre discende dalla stirpe reale di Re Kennack…» Peccato che non fosse del tutto vero: sua madre non discendeva da uno dei figli o delle figlie del grande reggente, ma da una mungitrice. Henwyn, figlio di Henmor, era l’ultimo di una lunga stirpe di mungitrici e di formaggiai e non era cresciuto in un castello o in un maniero, ma nel caseificio di suo padre, a Adherak.

Non che non fosse un buon caseificio. Anzi, era molto rinomato: il migliore di Adherak. I famosi formaggi di suo padre venivano presi per riempire le dispense del grande re di Coriandolo e i magazzini di tutti i re minori della Costa Rosicchiata. La casa di Henmor svettava alta e fiera tra le piccole abitazioni dai tetti di paglia di Adherak. Era costruita in pietra color crema e vantava due piani triangolari, e finestre e porte rotonde che la facevano somigliare a un enorme pezzo di formaggio. Una banderuola d’ottone a forma di mucca cigolava sul tetto, mossa dal vento che diffondeva nell’aria circostante un profumino delizioso, ricordando a tutta Adherak che Henmor produceva i formaggi più buoni di tutte le terre occidentali.

Probabilmente c’erano grandi uomini – giovani abili e assennati – che avrebbero dato qualsiasi cosa pur di poter lavorare come apprendisti del grande formaggiaio, nella speranza di poter ereditare il caseificio di Henmor. Sfortuna voleva che suo figlio non fosse uno di quegli uomini. A Henwyn il formaggio neppure piaceva e di sicuro non voleva fare il formaggiaio per tutta la vita.

Sentiva che il destino aveva in serbo per lui qualcosa di molto più interessante.

Da che avesse memoria, Adherak gli era sempre sembrato un posto troppo piccolo e ordinario. Gli piaceva girovagare ai margini del villaggio per guardare verso nord, oltre le colline dolci e sicure, dove riusciva a malapena a scorgere le brughiere e le alte montagne azzurrate. A volte, quando il cielo era molto terso, riusciva addirittura a intravedere la picca aguzza di Pietra Spaccata, simile all’asta di un pennone messa a sostegno del cielo. È là che dovrei essere, pensava. Non

qua, in queste terre basse, tra mercanti e commercianti. Lassù al nord, dove c’è ancora la magia, come nelle vecchie storie. Non sono nato per essere un formaggiaio! Sono nato per essere… un eroe!

Desiderava la magia e le avventure tanto da star male. A Adherak la magia non esisteva più e di avventure non c’era nemmeno da parlarne, quindi se le

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procurò nell’unico modo possibile: di seconda mano, attraverso le storie. Henwyn non era mai stato un grande lettore e fu una fortuna, dato che nel caseificio non c’erano libri. Ma Adherak era una città mercantile adagiata in una verde vallata, ricca e prospera, dove la strada che conduceva a Coriandolo attraversava l’impetuoso fiume Sethyn. Era da quella strada, da Coriandolo e dalla Costa Rosicchiata, che giungevano pesci e pelli di foca, spezie e sete, e tutti i prodotti del Mare di Mezzo e delle terre oltre lo stesso. Chiatte cariche di grano, legno e di prodotti delle terre basse discendevano il fiume fino ai moli di Adherak. E su e giù per la strada e per il fiume giungevano anche le storie: storie narrate e storie cantate. Di tanto in tanto, Adherak ospitava veri e propri spettacoli itineranti, e Henwyn, intento a correre qua e là per il villaggio per sbrigare le commissioni di suo padre, trovava sempre una scusa per fermarsi ad ascoltare.

«Quel ragazzo ha la testa tra le nuvole» aveva detto Henmor la prima volta che suo figlio passò tutto il pomeriggio a vedere una rappresentazione sul Principe Brewyon e le fanciulle di vapore, quando avrebbe invece dovuto andare a prendere un carico di mussolina al mercato galleggiante.

«È solo un ragazzo» aveva risposto la madre di Henwyn. «Crescerà e gli passerà.»

«È impazzito per quelle favolette!» aveva sbottato Henmor, il giorno in cui Henwyn era stato mandato a comprare erba cipollina per insaporire una particolare forma di formaggio per il matrimonio del Lord di Adherak. Il ragazzo era tornato senza le erbe e senza i soldi che avrebbe dovuto usare per acquistarle. Si era attardato presso il banco delle armi usate, dove i guerrieri all’ultima spiaggia andavano a impegnare il proprio equipaggiamento e a raccontare panzane incredibili. Uno di loro gli aveva venduto una vecchia spada arrugginita e gli aveva detto che un tempo era appartenuta a Re Kennack. «Si è riempito la testa di tutte quelle sciocchezze!» inveiva suo padre. «Eroi e mostri! Campagne e battaglie! Che razza di pensieri sono questi? Roba da giovani uomini? Quando avevo la sua età, io sognavo soltanto formaggi! Il mondo starebbe molto meglio senza battaglie e campagne campali, ma che succederebbe senza formaggio? Eh? Gli eroi e i mostri andavano benissimo in passato, ma i giovani d’oggi devono pensare al commercio più assennato.»

«È solo un ragazzo» insisteva la madre di Henwyn, anche se trovare scuse per giustificare il figlio cominciava a stancarla. «Tra poco compirà tredici anni. Metterà giudizio e si metterà a produrre formaggio, come suo padre e suo nonno prima di lui.»

Ma Henwyn festeggiò il tredicesimo compleanno, e il quattordicesimo, e il quindicesimo, e ancora preferiva le storie ai formaggi. Faceva del suo meglio per prestare attenzione agli insegnamenti di suo padre: come far coagulare il latte, come separare il caglio dal siero, i tempi di stagionatura dei diversi formaggi. A volte, mentre si concentrava e avvolgeva i formaggi nella mussolina e li sistemava

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